Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 03 ottobre 2022 n. 8436
QUESTIONI RIMESSE
Il Consiglio di Stato sottopone all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
a) “se e a quali condizioni la condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.”;
b) “in particolare, se configuri l’omissione di pronuncia di cui sopra il caso in cui il giudice non si sia pronunciato sull’istanza di rinvio in conseguenza di un fraintendimento in cui è incorso in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello”.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1. S.A.L.T. – Società autostrada Ligure Toscana p.a. propone ricorso per revocazione ex art. 106, comma 1, cod. proc. amm. della sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 19 aprile 2021, n. 3134.
La sentenza del Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. I, 15 gennaio 2021, n. 620.
1.1. In primo grado S.A.L.T. s.p.a. domandava l’annullamento del provvedimento del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 19 dicembre 2019 che l’escludeva dalla procedura di gara per l’affidamento in concessione “delle attività di gestione delle tratte autostradali A21 Torino – Alessandria – Piacenza, A5 Torino – Ivrea – Quincinetto, la Bratella di collegamento A4/A5 Ivrea – Santhià, la diramazione Torino – Pinerolo e il Sistema autostradale Tangenziale Torinese (SATT) nonché, limitatamente agli interventi di messa in sicurezza dell’infrastruttura esistente, la progettazione, la costruzione e la gestione degli stessi”.
1.2. L’esclusione era motivata dalla carenza del requisito di capacità tecnica di cui al par. III.1.3.2. del bando di gara; il Ministero accertava, infatti, che S.A.L.T. s.p.a., mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese, era priva del requisito di attestazione SOA per le attività di progettazione e costruzione, di cui all’art. 79, comma 7, d.P.R. n. 207 del 2010 per le categorie e classifiche previste dal bando, del quale erano in possesso le sole mandanti, Itenera s.p.a., Euroimpianti s.p.a. e Sinelec s.p.a..
1.3. Il giudice di primo grado respingeva il ricorso per il chiaro dettato del bando di gara che, nel caso di partecipazione in forma di raggruppamento temporaneo di imprese, imponeva a tutte le imprese raggruppate il possesso dei requisiti di capacità tecnico – professionale indicati, tra i quali, in particolare, l’attestazione SOA per categoria e classifica corrispondente ai lavori da eseguire; S.A.L.T. s.p.a. aveva ammesso di non essere in possesso di idonea attestazione SOA, pur dichiarando di competere come “concessionario, esecutore e progettista”.
La circostanza, poi, che ella stessa si fosse qualificata come unica mandataria del raggruppamento impediva di accogliere la tesi secondo la quale il raggruppamento si era presentato in gara come misto, con conseguente distinzione della sua posizione da quella degli esecutori, i quali, nel loro insieme, formavano un sub-raggruppamento con mandataria Itinera s.p.a. rispetto al quale unicamente doveva accertarsi il possesso dei requisiti di qualificazione per l’esecuzione dei lavori così come previsto dal bando di gara.
1.4. Questa Sezione, con la sentenza di cui è chiesta la revocazione, ha giudicato infondati i motivi dell’appello di S.A.L.T. s.p.a. con la seguente motivazione:
– il bando di gara, nella parte in cui prevedeva che in caso di partecipazione in forma di raggruppamento temporaneo di impresa i requisiti di capacità tecnico – professionale fossero posseduti dalla mandataria in misura maggioritaria, non era in contrasto con l’art. 95, comma 4, d.P.R. n. 2017 del 2010, il quale, peraltro, non tratta del possesso dei requisiti di qualificazione per l’esecuzione dei lavori pubblici, ma si occupa del possesso dei (soli) requisiti economico – finanziari e tecnico – professionali; la disciplina sui requisiti per l’esecuzione dei lavori pubblici, in relazione ai raggruppamenti temporanei di impresa, è contenuta, invece, negli articoli 48 e 84 del codice dei contratti pubblici;
– era inammissibile l’operazione interpretativa sollecitata dall’appellante di considerare le sole imprese mandanti per valutare il possesso dei requisiti per l’esecuzione dei lavori (considerato, peraltro, che S.A.L.T. si era presentata in gara come futura mandataria del raggruppamento concorrente e dichiarato di partecipare anche per l’esecuzione dei lavori), poiché ciò porterebbe alla sostanziale disapplicazione delle norme in materia di qualificazione (i citati articoli 48 e 84 del codice dei contratti pubblici) e della norma che impone alla mandataria il possesso dei requisiti in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna delle mandanti (art. 83, comma 8, cod. contratti pubblici e art. 92, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010);
– la scelta di presentarsi come raggruppamento temporaneo, d’altronde, non era stata imposta dal bando di gara, che, invece, si era limitato a specificare i requisiti di qualificazione dei quali si richiedeva il possesso nel caso in cui gli operatori economici avessero optato per tale forma di partecipazione alla gara.
2. La ricorrente domanda la revocazione della sentenza per il motivo di cui all’art. 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. (cui rinvia l’art. 106, comma 1, cod. proc. amm.).
2.1. Secondo la ricorrente il giudice d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla compatibilità delle prescrizioni nazionali con il diritto dell’Unione europea.
Sostiene, infatti, di aver richiesto al giudice, con il quarto motivo di appello, di vagliare la conformità del bando di gara (par. III.1.3.2.) e delle conferenti norme nazionali (che sono state individuate a suo fondamento) rispetto alle norme e ai principi dell’ordinamento dell’Unione europea, formulando, altresì, espressa richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ex art. 267 T.F.U.E.
Precisamente, dice di aver rilevato contrasto con i principi di obiettività e proporzionalità recati dagli articoli 38, 26 e 3 della Direttiva sui contratti pubblici e con gli articoli 49 e 56 T.F.U.E: avendo la concessione ad oggetto attività di costruzione e gestione, con prevalenza della seconda sulla prima, la richiesta dei requisiti propri dell’ “esecutore” in capo a tutte le imprese raggruppate, avrebbe avuto l’irragionevole effetto di limitare la partecipazione alla procedura di gara ai soli soggetti costruttori – a coloro, cioè, che non erogano i servizi principali oggetto del contratto – impedendo la ripartizione dei compiti all’interno del raggruppamento tra coloro che eseguono i lavori, e quelli che redigono i progetti, gestiscono le opere e il finanziamento delle prestazioni.
Ritiene la ricorrente che la Sezione abbia equivocato la questione prospettata e si sia pronunciata su questione completamente diversa, vale a dire sulla ammissibilità di forme giuridiche alternative al raggruppamento di imprese ai fini della partecipazione alla procedura di gara; contestazione che non era stata sollevata con i motivi di appello, avendo ella ben chiaro che il bando consentiva la presentazione dell’offerta sia a candidati singoli che riuniti in raggruppamento.
In definitiva, la Sezione avrebbe sostituito una questione con un’altra: si sarebbe pronunciata sulle forme di partecipazione alla procedura ammesse dal bando, quando oggetto di contestazione era la natura stringente e ingiustificatamente restrittiva dei requisiti di partecipazione richiesti; avrebbe dovuto, invece, accertare la coerenza delle prescrizioni normative e di gara con l’oggetto della concessione, che era, in prevalenza, la gestione di autostrade, come pure soffermarsi sulla proporzionalità dei requisiti di partecipazione richiesti e sulla loro intrinseca ragionevolezza alla luce della limitazione della partecipazione ai soli soggetti costruttori e del conseguente svuotamento del concetto stesso di raggruppamento di imprese, così come fissato dal diritto europeo e nazionale al fine di consentire l’associazione in gara di operatori con profili e qualità diverse, nell’ottica del rafforzamento della concorrenza e allo scopo di assicurare il miglior risultato al committente pubblico.
2.2. Continuando nella sua prospettazione, la ricorrente sostiene che il vizio di omessa pronuncia dovrebbe ricadere anche sulla richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. alla Corte di Giustizia dell’Unione europea; richiama, sul punto, il precedente del Consiglio di Stato, sez. IV, 26 aprile 2018, n. 2532 in cui si è ritenuto configuri errore revocatorio il travisamento del contenuto della richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE.
La Sezione, a suo dire, avrebbe omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale proprio in conseguenza del travisamento della questione di conformità del diritto interno al diritto unionale; d’altra parte, aggiunge, se il giudice di appello avesse inteso l’istanza pregiudiziale nel suo esatto contenuto, avrebbe potuto anche decidere la causa senza necessità di rinvio alla Corte, ma, allora, di tale conclusione si sarebbe dovuto trovare ragione nella motivazione della sentenza, in cui manca, invece, un iter logico alternativo che giustifichi il diniego di rimessione alla Corte e ciò non può che essere dipeso dal mancato esame della questione materialmente posta, per “palese mancata percezione o errata lettura materiale dell’atto processuale”.
2.3. Si sono costituiti in giudizio il Ministero delle infrastrutture e delle mobilità sostenibili (già Ministero delle infrastrutture e dei trasporti) e il Consorzio stabile S.I.S. s.c.p.a. che hanno concluso per l’inammissibilità del ricorso per revocazione e, comunque, per la sua infondatezza.
Il Ministero sostiene che i motivi di ricorso siano inammissibili per tre ragioni:
a) poiché, secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’omesso rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ex art. 267 T.F.U.E. non è un errore di fatto, idoneo alla revocazione della sentenza, ma, piuttosto, un errore di diritto che non può essere fatto valere con ricorso per revocazione ex art. 106, cod. proc. amm. (è citata a supporto di tale orientamento la sentenza di questa Sezione, 28 gennaio 2021, n. 838);
b) in quanto, il giudice di appello, sia pure in maniera stringata, avrebbe “sostanzialmente” escluso la violazione della normativa comunitaria in relazione al principio di massima partecipazione e di proporzionalità dei requisiti di partecipazione, per la facoltà concessa ai concorrenti dal bando di gara di scegliere la forma giuridica per la partecipazione con il solo limite, per il caso avessero optato per il raggruppamento di imprese, del possesso dei requisiti richiesti da parte di tutte le imprese raggruppate;
c) in considerazione dell’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia (sin dalla pronuncia CILFIT del 6 ottobre 1982, causa C-283/81 e, più recentemente ribadito, nella causa Consorzio Italian Managment e Catania Multiservizi s.p.a. c. Rete ferroviaria Italia s.p.a., del 6 ottobre 2021, causa C-561/19) secondo cui la questione pregiudiziale non deve essere sollevata in ogni caso in cui il giudice nazionale, sia pur di ultima istanza, ritenga che “l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi”; tale poteva dirsi il convincimento maturato dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata come riscontrabile dalla stessa motivazione della sentenza.
2.4. Identicamente il Consorzio SIS dice inammissibile il ricorso poiché le censure proposte non attengono ad una reale mancata o erronea percezione di circostanze di fatto, ma all’interpretazione che di esse ne è stata data; sul quarto motivo di appello, aggiunge poi la resistente, il Consiglio di Stato si è espressamente pronunciato rigettandolo per aver ritenuto il bando di gara pienamente conferme all’ordito normativo che regola i requisiti di qualificazione richiesti al concessionario che partecipa alla procedura di gara in forma di raggruppamento temporaneo di imprese.
2.5. La causa chiamata per la decisione all’udienza pubblica del 17 febbraio 2022 è stata rinviata all’udienza del 7 luglio 2022 per consentire la corretta composizione del collegio.
All’udienza del 7 luglio 2022, acquisite le ulteriori memorie difensive delle parti e le repliche che ne sono seguite, la causa è stata assunta in decisione.
3. Seguendo l’ordine logico delle questioni, occorre preliminarmente accertare se il Consiglio di Stato abbia omesso l’esame di un motivo di appello ovvero – per esser più aderenti alla prospettazione della ricorrente – se abbia travisato la questione dell’incompatibilità del diritto interno con le disposizioni euro-unitarie che ella aveva formulato nel motivo di appello.
3.1. Tale verifica va necessariamente scissa in due momenti; in primo luogo, si deve raffrontare il motivo di appello che la parte assume esser rimasto privo di risposta ovvero la questione che ritiene sia stata mal intesa con le statuizioni contenute in sentenza e, ravvisato uno scostamento effettivo dell’una dall’altra, dire se il giudice d’appello sia così incorso in errore di fatto revocatorio ovvero in errore di diritto, che preclude l’ammissibilità del rimedio proposto.
3.1.1. Il primo dato è, dunque, costituito dal motivo di appello; per espressa indicazione del ricorrente è rimasta inevasa la questione posta nel quarto motivo di appello.
Si tratta di motivo proposto in via subordinata per il caso in cui il Consiglio di Stato avesse “ riten[uto] la disciplina del Bando, come interpretata dal TAR non in contrasto con la normativa nazionale vigente in tema di gare di concessione; (b) riten[uto] altresì il medesimo Bando non suscettibile di essere interpretato in modo da consentire la partecipazione alla Gara dell’ATI Salt, quale raggruppamento misto di imprese di costruzioni e di gestori di autostrade”; se ciò fosse accaduto, concludeva la parte appellante, il Consiglio di Stato “dovrebbe necessariamente porsi – quale giudice di ultima istanza – il tema della conformità del par. III.1.3.2 del Bando alla normativa comunitaria”.
Di seguito, erano esposte le ragioni del dubbio di conformità al diritto unionale, così riassumibili:
a) la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea si era più volte espressa nel senso della illegittimità di disposizioni (normative o recate da bandi di gara) suscettibili di determinare, per oggetto o per effetto, una restrizione delle condizioni di partecipazione (in particolare nelle sentenze in materia di subappalto);
b) allo stesso modo, la stessa Corte aveva in più occasioni ribadito che deve essere generalmente consentito ad un operatore economico la possibilità di far valere per un determinato appalto le capacità di altri soggetti, indipendentemente dalla natura dei suoi legami con questi ultimi, quante volte sia in grado di dimostrare all’ente aggiudicatore che disporrà dei mezzi necessari all’esecuzione dell’appalto;
c) una previsione nazionale (contemplata dalle norme o dal bando) o anche una interpretazione di tale previsione, come quella fatta propria dalla sentenza di primo grado, contrastava con le disposizioni della direttiva 2014/23/UE nella parte in cui:
– consentono la massima flessibilità nella formulazione delle offerte raggruppate permettendo ad un operatore economico “di far affidamento sulle capacità di altri soggetti”;
– dispongono che nel definire i requisiti di partecipazione, gli stessi vengano stabiliti in coerenza con l’oggetto del contratto e in conformità ai principi fondamentali di non discriminazione e proporzionalità;
d) la concessione di lavori pubblici è un contratto nel quale sono richieste prestazioni sia di costruzione che di gestione, le cui gare sono aperte alla partecipazione di costruttori, gestori di servizi e di finanziatori; è, dunque, sproporzionata e irragionevole una previsione di bando che consenta la partecipazione sia di costruttori che di gestori, ma non di costruttori e di gestori associati nel medesimo raggruppamento, poiché se l’offerente deve essere in possesso dei requisiti di gestione come di esecuzione, fornisce maggiori garanzie alla realizzazione dell’interesse pubblico;
e) ciò dovrebbe valere in special modo per il contratto oggetto del giudizio, attinente alla gestione di un’autostrada da molti anni in esercizio, con un impegno ad eseguire lavori di mantenimento in sicurezza delle tratte autostradali, per cui richiedere i requisiti del “costruttore” a ciascuno dei singoli partecipanti al raggruppamento concorrente produceva l’irragionevole effetto di consentire la partecipazione ai soli soggetti costruttori (i quali, cioè, non erogano i servizi oggetto principale del contratto).
Nelle conclusioni del motivo, S.A.L.T. chiedeva di sollevare questione pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. “circa la compatibilità del Bando e delle norme nazionali che renderebbero legittima questa prescrizione con i principi di obbiettività e di proporzionalità recati dalla Direttiva del 26/02/2014, n. 23, nonché con gli articoli 49 e 56 TFUE che impongono una disciplina delle gare di concessione idonea a ampliare – e non a restringere – il confronto competitivo fra i diversi operatori economici interessati al contratto messo a gara, ovvero, direttamente, di disapplicare le predette disposizioni di legge e del Bando, annullando il conseguente provvedimento di esclusione”.
Alla luce del contenuto del motivo di appello così come riportato, non par dubbio che S.A.L.T. s.p.a. abbia richiesto al giudice d’appello, per il caso di ritenuta conformità del bando di gara alla disciplina normativa in materia, di vagliare se quest’ultima fosse a sua volta conforme ai principi e alle disposizioni del diritto dell’Unione europea, con particolare riguardo al principio di massima partecipazione alle procedure di gara; in caso ritenesse il dubbio non superabile in via interpretativa, di sollevare, poi, questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
3.1.2. Occorre ora soffermarsi sulla sentenza impugnata.
Preliminarmente, va riconosciuta l’esistenza di un errore nella identificazione numerica dei motivi di appello come riportata nella parte in diritto.
L’errore trova invero agevole spiegazione in quanto subito si dirà.
Al par. 3 della sentenza è svolta la sintesi dei motivi di appello numerati dall’ uno al tre; al numero tre si legge: “3) in ulteriore subordine: ingiustizia della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittima la clausola di cui al par. III.1.3.2 del bando di gara, per violazione della normativa comunitaria, perché imporrebbe di presentarsi in gara sotto determinate forme, in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che ritiene incompatibili con il diritto eurounitario quelle disposizioni suscettibili di determinare, per oggetto o per effetto, una restrizione delle condizioni di partecipazione, con particolare riferimento a previsioni che comportino una limitazione della possibilità di avvalersi di forme e strumenti di partecipazione in forma associata”.
Nessun dubbio che la Sezione abbia inteso riferirsi al quarto motivo di appello di S.A.L.T., il cui contenuto è stato precedentemente riportato.
Così come non possono aversi dubbi sul fatto che, al par. 6.4., si sia inteso dare risposta proprio a detto motivo di appello, affrontando la questione della limitazione della partecipazione conseguente alla disciplina del bando – ritenuto, immediatamente prima, conforme alle disposizioni del codice dei contratti pubblici (e del d.P.R. n. 201 del 2011).
Il terzo motivo di appello – che sarebbe il quarto nella numerazione dell’appellante, ma diviene il terzo in ragione sintesi effettuata in precedenza nella sentenza – è respinto perchè la scelta di partecipare alla procedura di gara in forma di raggruppamento temporaneo di imprese non era imposta dal bando di gara, che solo specificava i requisiti di qualificazione necessari per il caso in cui l’operatore avesse optato per la forma del raggruppamento temporaneo.
3.1.3. Consegue una prima conclusione: non v’è omissione di pronuncia sul motivo di appello perché la Sezione ha espressamente pronunciato rigettandolo.
Dal raffronto tra il contenuto del motivo di appello e la motivazione della sentenza emerge, però, in maniera altrettanto evidente che non v’è corrispondenza logica tra la questione posta dall’appellante e il decisum della sentenza.
Richiesto di pronunciarsi sulla conformità delle norme nazionali, cui s’era attenuta la stazione appaltante nell’elaborazione del bando di gara, ai principi e alle disposizioni del diritto unionale (e in caso di dubbio, rinviare alla Corte di Giustizia dell’Unione europea) nella parte in cui impongono alla mandataria di un r.t.i. il possesso dei requisiti di qualificazione richiesti dal bando per l’esecuzione di lavori anche in caso di riparto tra le imprese raggruppate delle prestazioni oggetto del contratto con assegnazione alle sole mandanti dell’esecuzione dei lavori, il giudice ha risposto che all’operatore economico – s’intende: privo del requisito di qualificazione richiesto per i lavori – era consentito partecipare in forma diversa dal raggruppamento temporaneo, e solo se, come nel caso di specie, avesse optato per questa scelta, avrebbe dovuto possedere i requisiti di qualificazione richiesti per l’esecuzione dei lavori.
La risposta non soddisfa la domanda, perché nel caso di specie la scelta era stata compiuta nel senso della partecipazione in forma raggruppata; il giudice avrebbe dovuto confrontarsi con tale situazione ed accertare se i requisiti richiesti per il caso di partecipazione in forma raggruppata fossero ragionevoli e proporzionati ovvero si configurassero come una indebita restrizione rispetto alla regola fondamentale che impone nella determinazione dei requisiti di partecipazione di favorire la massima partecipazione degli operatori economici in qualsivoglia forma giuridica ritengano di voler assumere le prestazioni in affidamento.
Quel che l’appellante domandava, insomma, era se l’obbligo di assunzione in capo alla mandataria di una percentuale maggioritaria dei lavori da eseguire – qualora, come in effetti avvenuto, il giudice fosse giunto a siffatta interpretazione delle disposizioni in materia – fosse conforme ai principi di diritto unionale.
La risposta del giudice è stata nel senso che l’appellante avrebbe potuto partecipare alla procedura di gara in altra forma; ma di questo non si dubitava, contestata, invece, era la limitazione imposta nella assunzione delle prestazioni in caso di raggruppamento temporaneo. Era per risolvere questo dubbio, d’altronde, che l’appellante aveva richiesto di sollevare la questione pregiudiziale europea.
3.2. Giunti a questo punto, occorre domandarsi se l’errore nel quale è incorso il giudice d’appello possa essere qualificato come errore di fatto ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., cui rinvia l’art. 106, comma 1, cod. proc. amm., o se, invece, sia un errore di diritto, che esclude, come noto, l’ammissibilità del rimedio revocatorio.
3.2.1. L’errore di fatto cui consegua omessa pronuncia su domanda, motivo di ricorso o eccezione è ragione di revocazione della sentenza del Consiglio di Stato per errore di fatto ai sensi dell’art. 395, comma 1, Cod. proc. civ., cui rinvia l’art. 106 Cod. proc. amm., alle condizioni fissate dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 22 gennaio 1997, n. 3, cui la giurisprudenza successiva si è costantemente.
Il ragionamento dell’Adunanza plenaria è articolato nei seguenti passaggi: • non v’è dubbio che l’omessa pronuncia del giudice costituisce violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (e, dunque, un errore di diritto per violazione di norma processuale, art. 112 c.p.c.); • ciò, però, non significa che questa violazione non possa aver causa in un errore di fatto revocatorio; • può, infatti, accadere che il giudice, pur rendendosi conto del suo dovere di pronunciare, poi, però, in concreto, non l’abbia fatto; • è necessario – ed è questo il passaggio decisivo di tutto il ragionamento dell’Adunanza plenaria – che ciò emerga dalla sentenza e la motivazione è lo strumento principale mediante il quale può emergere l’errore di fatto nel quale sia incorso il giudice per non aver pronunciato su di un motivo che gli era stato proposto.
Si è, dunque, affermato (nella sentenza di questa Sezione, 31 luglio 2019, n. 5444) che: l’errore di fatto – quand’anche esiti nell’omissione di pronuncia – dovrà così possedere le note caratteristiche dell’errore di fatto c.d. revocatorio ovvero: a) consistere nell’erronea percezione del contenuto materiale degli atti del processo (ovvero in una svista, in un errore di lettura, nell’ “abbaglio dei sensi”) per il quale il giudice abbia fondato il suo convincimento su di un falso presupposto di fatto (solo per limitarsi alle ultime pronunce cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 553; sez.VI, 4 gennaio 2019, n. 102; sez. V, 8 giugno 2018, n. 3478; sez. VI, 17 maggio 2018, n. 2997; sez. V, 3 aprile 2018, n. 2037; sez. V, 2 marzo 2018, n. 1297; sez. V, 7 febbraio 2018, n. 813); b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere decisivo, vale a dire trovarsi in un rapporto di stretta consequenzialità con la pronuncia adottata dal giudice (ovvero, più chiaramente, più opportunamente, la soluzione con la quale il giudice ha chiuso la controversia), di modo che si possa dire che se l’errore non sia fosse verificato l’esito sarebbe stato diverso (in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 2 novembre 2018, n. 6223 III, 24 ottobre 2018, n. 6061; IV, 14 giugno 2018, n. 3671; V, 3 aprile 2018).
3.3. Ciò precisato, valgono le seguenti considerazioni.
3.3.1. L’errore di cui ci si occupa è indubbiamente intervenuto nel compimento dell’operazione intellettuale propria e preliminare del giudicare: l’individuazione prima, e l’interpretazione poi, della questione giuridica da risolvere è un’attività della mente, se la si sbaglia e, in conseguenza di ciò, la risposta di giustizia risulta inconciliabile con la domanda posta v’è un fraintendimento che non è dei sensi, ma del giudizio.
Per tradizione, tale errore si qualificherebbe come errore di diritto.
3.3.2. Più recentemente, però, con riguardo proprio ad un caso in cui il ricorrente per revocazione lamentava il fraintendimento della questione di compatibilità euro-unitaria posta con i motivi di appello, in conseguenza del quale il giudice d’appello aveva omesso di pronunciarsi sull’istanza con cui era stato sollecitato a sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quarta Sezione di questo Consiglio di Stato, con la sentenza 26 aprile 2018, n. 2530, ha precisato che all’omessa pronuncia su domande o eccezioni di parte va equiparata “l’omessa pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea, suscettibili di divenire oggetto (come nel caso all’esame) di una formale istanza di rimessione ad un plesso giurisdizionale (la Corte di Giustizia) diverso da quello adito, e competente in via esclusiva, per effetto delle limitazioni di sovranità cui hanno consentito gli Stati membri, ad interpretare esattamente e con uniformità di applicazione il diritto europeo. La conclusione, del resto, trova conforto in via interpretativa nell’identica ratio iuris sottesa alla nozione di domanda, altro non essendo – l’istanza di rimessione – che una domanda rivolta al giudice interno di rimettere la valutazione di una questione all’unico organo giurisdizionale deputato secondo il Trattato istitutivo a fornire l’esatta e uniforme interpretazione del diritto europeo. La rimessione, peraltro, per le Corti di ultima istanza (tale era il Consiglio di Stato nel caso de quo) rappresenta anche un preciso obbligo giuridico.”.
La vicenda è sovrapponibile a quella che qui occupa: anche in quell’occasione l’omessa pronuncia su questione pregiudiziale di rilevanza europea, e in ragione di ciò la mancata proposizione della questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ex art. 267 TFUE, era conseguenza del fraintendimento da parte del giudice della contestazione formulata nei motivi di appello.
Nell’accogliere il motivo di revocazione la quarta Sezione, peraltro, ha ritenuto di mantenersi nel tracciato dell’Adunanza plenaria n. 3 del 1997 poiché ha precisato che siffatto errore è pur sempre di carattere senso – percettivo derivando da una lettura sbagliata (da intendersi: per errore sensoriale) del contenuto materiale dell’atto, per la quale si sostituisce una questione (quella effettivamente posta con l’istanza di rimessione) con un’altra (del tutto diversa) e ha aggiunto che l’errore deve essere caduto su un punto non controverso tra le parti, essere decisivo e di immediata rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.
Tale sarebbe, invero, anche l’errore lamentato dalla ricorrente nel presente giudizio.
3.3.3. Il nuovo orientamento è contrastato.
La quinta Sezione, con la sentenza del 28 gennaio 2021, n. 838, dopo aver ricordato l’orientamento tradizionale per il quale “l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, senza coinvolgere la successiva attività di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento”, ha poi aggiunto che il rimedio revocatorio non è in alcun modo esperibile nei casi in cui il giudice – anche quello di ultima istanza, che ne è obbligato – “abbia omesso di formulare, anche a negativo od omesso riscontro alla istanza di parte, questione interpretativa e di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte europea, ai sensi dell’art. 234 del Trattato”.
La ragione risiederebbe in questo: che l’interpretazione delle norme applicabili al caso deciso – attività nell’ambito della quale si colloca la valutazione di conformità delle stesse al diritto unionale – è pur sempre esercizio di un potere officioso del giudice, il quale non è vincolato in ciò, se non nei limiti del thema decidendum nei giudizi impugnatori affidato ai motivi di gravame, alla prospettazione delle parti, in base al principio jura novit curia.
Da ciò derivano a parere della Sezione le seguenti conseguenze: l’istanza di rinvio pregiudiziale costituisce una “mera sollecitazione al rilievo officioso” poiché non può essere considerata una domanda (o una eccezione) in senso tecnico; non è possibile prospettare, per definizione, una omessa pronuncia sulla questione interpretativa poiché non è possibile in relazione ad essa anche solo astrattamente prefigurare un errore senso percettivo del giudice che – per una svista – non l’abbia considerata; l’esatta interpretazione della normativa di fonte eurocomune, per quanto riservata alla Corte di Giustizia, è in ogni caso mediata dal vaglio di rilevanza proprio perché si tratta di una questione di diritto e non di fatto.
Infine, la esplicita contestazione della sentenza della quarta Sezione, n. 2532 del 2018, perché non esiste una pretesa tutelabile ex se a conoscere il punto di vista della Corte di Giustizia sulla vicenda e tanto meno la possibilità di affidare tale pretesa ad una “istanza precisa”, articolata e formalizzata, tale che il suo omesso vaglio possa prefigurare una fattispecie revocatoria.
Dichiara di aderire al predetto orientamento anche la sentenza della sesta Sezione, 15 febbraio 2022, n. 1088.
3.4. In definitiva, sembrano emergere due situazioni suscettibili di dar luogo ad omessa pronuncia su istanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea finalizzata alla risoluzione di questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E..
Esse sono: il caso in cui la questione della possibilità incompatibilità della normativa intera con il diritto unionale sia stata sollevata nei motivi di appello, e per questo formulata istanza di rimessione alla Corte di Giustizia, ma il giudice non ne abbia fatto in alcun modo parola nella sentenza, e quella in cui, a fronte del medesimo contenuto dell’atto di parte, il giudice d’appello abbia frainteso la questione posta e in ragione di tale fraintendimento abbia omesso di pronunciarsi sull’istanza di rimessione.
Per la sentenza della sezione Quinta da ultimo riportata in entrambi i casi sarebbe da escludere l’errore di fatto suscettibile di condurre alla revocazione della sentenza.
3.5. La questione è rimessa all’Adunanza plenaria al fine di risolvere il contrasto insorto tra le Sezioni.
3.5.1. La Sezione ritiene opportuno completare il ragionamento richiamando due recenti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Si tratta della sentenza (Grande Sezione) del 21 dicembre 2021, pronunciata nella causa C-497/20 Soc. Randstad Italia in seguito a rinvio pregiudiziale operato dalla Corte di Cassazione e della sentenza (Nona Sezione) del 7 luglio 2022, pronunciata nella causa C-261/21 F. Hoffmann – La Roche Ltd in conseguenza di rinvio operato dal Consiglio di Stato.
La Corte di Giustizia era chiamata a pronunciarsi in entrambi i casi sulla compatibilità del sistema processuale interno con il diritto unionale in punto di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti conferiti da disposizioni che attuano il diritto dell’Unione europea.
In estrema sintesi, nel primo caso, era chiesto alla Corte se fosse compatibile con il diritto unionale (e, segnatamente, con l’art. 1, par. 1 e 3 della direttiva 89/665 letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) l’art. 111, comma 8, Cost., per come interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza 6 del 2018, nella parte in cui impedisce ad un organo giurisdizionale supremo dello Stato membro di annullare una sentenza che sia pronunciata in violazione del diritto dell’Unione dal supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato membro; nel secondo caso, invece, con la terza questione pregiudiziale sollevata, era chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla compatibilità degli articoli 106 cod. proc. amm. e 395 cod. proc. civ. nella misura in cui non consentono di usare il rimedio revocatorio per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenza della C.G.U.E. e in particolare con i principi che questa abbia affermato a seguito di precedente rinvio pregiudiziale.
3.5.2. Per dar risposta alle questioni pregiudiziali sollevate nelle due sentenze la Corte svolge sostanzialmente il medesimo ragionamento che può essere così esposto in sintesi:
– fatta salva l’esistenza di norme dell’Unione europea in materia, per il principio dell’autonomia procedurale spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto unionale il rispetto del loro diritto ad una giurisdizione effettiva (par. 58);
– se l’ordinamento interno assicura un rimedio giurisdizionale che sia equivalente a quello con il quale è garantita la tutela di situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non renda in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività) va escluso ogni contrasto delle disposizioni del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea;
– resta fermo che i singoli che siano stati eventualmente lesi dalla violazione del loro diritto a un ricorso effettivo a causa di una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che si ponga in contrasto con il diritto dell’Unione europea possono far valere la responsabilità dello Stato membro se la violazione ha carattere sufficientemente qualificato e in caso di esistenza di nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito dal soggetto leso.
Il ragionamento esposto fa dire alla Corte in entrambi i casi insussistente il contrasto del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea.
3.5.3. V’è un punto, però, sul quale occorre riflettere: le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea portano a ritenere che ogni vicenda giudiziaria che si sia definitivamente conclusa, in virtù dell’esaurimento dei rimedi interni con un assetto di interessi contrastante con il diritto dell’Unione europea è suscettibile di innescare un correlato e complementare giudizio nel quale discutere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea al fine di accertare se sussistano le condizioni per la condanna al risarcimento del danno a beneficio del cittadino che in ragione di tale violazione abbia subito pregiudizio ai propri diritti.
3.5.4. Sorge, però, un dubbio di ragionevolezza, poiché da una parte è preclusa la possibilità di emendare il vizio consistente nella violazione del diritto dell’Unione europea attraverso un rimedio di sicura efficacia e rapidità quale il rimedio revocatorio (da esperirsi in unico grado dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza) e, dall’altra, è ammessa l’introduzione di un giudizio risarcitorio, che per l’articolazione nei gradi ordinari è destinato in ogni caso a svilupparsi in un arco temporale più lungo con l’esito incerto dovuto all’accertamento delle condizioni per accedere al risarcimento.
L’intima coerenza dell’ordinamento – ciò che lo rende razionale – è in tensione ove lo stesso errore non è considerato a tal punto ingiusto da portare alla revoca, ma le sue conseguenze ingiuste meritevoli di essere rimediate in via risarcitoria.
3.5.5. A parere della Sezione la soluzione delle questioni poste all’Adunanza plenaria dovrebbe essere vagliata anche alla luce delle precedenti considerazioni.
4. In conclusione, sono sottoposte all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:
a) se e a quali condizioni la condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.;
b) in particolare, se configuri l’omissione di pronuncia di cui sopra il caso in cui il giudice non si sia pronunciato sull’istanza di rinvio in conseguenza di un fraintendimento in cui è incorso in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello.