<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Cassazione, SSUU, sentenza 8 maggio 2019 n.12193</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con riguardo ai due procedimenti di riconoscimento del provvedimento giurisdizionale straniero, da un lato, e di rettificazione degli atti di stato civile (previsto dall'art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000), dall’altro, - le cui differenze strutturali sono state già evidenziate dalla dottrina in riferimento al procedimento di delibazione disciplinato dagli artt. 796 e ss. cod. proc. civ. ed a quello di rettificazione previsto dal r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, poi sostituiti da quelli in esame, e ribadite anche in relazione a questi ultimi, soprattutto con riguardo al tipo di giurisdizione (contenziosa o volontaria) di cui ciascuno di essi costituisce espressione ed ai limiti entro i quali le relative decisioni sono destinate a spiegare efficacia di giudicato - giova sottolineare la diversa funzione dei due rimedi, il primo dei quali è volto a risolvere contestazioni in ordine all'efficacia di provvedimenti giurisdizionali stranieri o a consentirne l'esecuzione nel nostro ordinamento, laddove il secondo mira ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dai registri dello stato civile, a causa di un vizio comunque originatosi nel procedimento di formazione dei relativi atti (cfr. Cass., Sez. I, 2/10/ 2009, n. 21094; 27/03/1996, n. 2776; 30/10/1990, n. 10519). La più ampia portata del procedimento di delibazione, riguardante sentenze e provvedimenti di qualsiasi genere e finalizzato alla produzione di effetti non limitati alla trascrizione nei registri dello stato civile, aveva indotto, in passato, parte della dottrina ad affermarne la prevalenza su quello di rettificazione, e ciò in coerenza con il sistema previsto dal codice di rito, che subordinava in via generale alla pronuncia di delibazione la possibilità di far valere nel nostro ordinamento i provvedimenti stranieri; tale opinione, che ha trovato seguito anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 218 del 1995, non può essere ritenuta più condivisibile, alla luce del radicale mutamento di prospettiva da quest'ultima determinato: in quanto imperniato sul principio del riconoscimento automatico (art. 64), applicabile anche ai provvedimenti in materia di stato e capacità delle persone (art. 65) ed a quelli di volontaria giurisdizione (art. 66), il regime da essa introdotto rende infatti superfluo, almeno in prima battuta, il ricorso al procedimento previsto dall'art. 67, consentendo di procedere direttamente alla trascrizione nei registri dello stato civile, e rimettendo quindi all'ufficiale di stato civile la verifica dei requisiti prescritti dalla legge; soltanto nel caso in cui tale verifica abbia esito negativo, ovvero nel caso in cui l'efficacia del provvedimento straniero debba essere fatta valere anche ad altri fini, si rende necessaria la procedura di riconoscimento, la cui applicabilità non può ritenersi esclusa dalla possibilità di proporre opposizione ai sensi dell'art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000, configurandosi quest'ultima come un rimedio concorrente, ma avente una portata più limitata rispetto a quella del procedimento di cui all'art. 67 della legge n. 218 del 1995: la funzione della rettificazione resta infatti strettamente collegata con quella pubblicitaria propria dei registri dello stato civile e con la natura meramente dichiarativa delle annotazioni ivi riportate, aventi l'efficacia probatoria privilegiata prevista dall'art. 451 cod. civ., ma non costitutive dello </em>status<em> cui i fatti da esse risultanti si riferiscono; esula pertanto dal relativo ambito applicativo l'ipotesi in cui, come nella specie, il predetto stato emerga dal provvedimento straniero, la cui trascrivibilità nei registri dello stato civile venga contestata non già per un vizio di carattere formale, ma per l'insussistenza dei requisiti di carattere sostanziale cui gli artt. 64-66 della legge n. 218 del 1995 subordinano l'ingresso nel nostro ordinamento: tale contestazione, investendo la stessa possibilità di ottenere il riconoscimento dello </em>status<em> accertato o costituito dal provvedimento straniero, dà luogo ad una controversia di stato, per la cui risoluzione, com'è noto, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente escluso l'applicabilità del procedimento di rettificazione, in virtù dell'osservazione che tale questione deve essere necessariamente risolta nel contraddittorio delle parti, in un giudizio contenzioso avente ad oggetto per l'appunto lo </em>status<em> (cfr. Cass., Sez. I, 21/12/1998, n. 12746; 27/03/1996, n. 2776; 26/01/1993, n. 951). Se ciò è vero, peraltro, deve riconoscersi per un verso che la richiesta di trascrizione, non proponibile nelle forme previste dall'art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000, può ben essere avanzata contestualmente alla domanda di riconoscimento, rispetto alla quale non riveste carattere meramente accessorio e consequenziale, per altro verso che la proposizione di tale domanda esige l'instaurazione del contraddittorio nei confronti dell'organo il cui rifiuto di trascrivere il provvedimento straniero ha dato origine alla controversia, non potendosi negare a quest'ultimo la qualifica di «</em>interessato<em>», nel senso previsto dall'art. 67 della legge n. 218 del 1995, non spettante esclusivamente ai soggetti che hanno assunto la veste di parti nel giudizio in cui il provvedimento è stato pronunciato, ma anche a quelli direttamente coinvolti nella relativa attuazione (cfr. Cass., Sez. I, 8/01/2013, n. 220). L'ordine di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile non è infatti configurabile come una mera conseguenza della pronunzia di riconoscimento, la cui funzione non si esaurisce nell'attribuzione degli effetti specificamente previsti dall'art. 451 cod. civ., ma investe l'efficacia del provvedimento straniero in tutti i relativi aspetti; esso si inserisce nel </em>petitum<em> della domanda come oggetto dotato di una propria autonomia concettuale e giuridica, essendo volto a rimuovere l'ostacolo frapposto dall'organo competente, al quale, come destinatario del provvedimento richiesto dall'istante, va pertanto riconosciuta la posizione di legittimo contraddittore nel relativo procedimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nell'esercizio delle funzioni di ufficiale dello stato civile, il Sindaco agisce, ai sensi dell'art. 1 del D.P.R. n. 396 del 2000, in qualità di ufficiale del governo, e quindi non già come organo di vertice e legale rappresentante dell'Amministrazione comunale, bensì come organo periferico della Amministrazione statale, dalla quale dipende ed alla quale sono pertanto imputabili gli atti da lui compiuti nella predetta veste, nonché la responsabilità per i danni dagli stessi cagionati (cfr. Cass., Sez. I, 25/03/2009, n. 7210; Cass., Sez. III, 6/08/2004, n. 15199; 14/02/2000, n. 1599). Com'è noto, la competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, già spettante al Ministero della giustizia, ai sensi dell'art. 13 del r.d. n. 1238 del 1939, è stata in seguito trasferita al Ministero dell'interno, al quale l'art. 9 del D.P.R. n. 396 del 2000 attribuisce il potere di impartire istruzioni agli ufficiali dello stato civile, nonché la vigilanza sui relativi uffici, da esercitarsi attraverso il Prefetto: pur non essendo certo che questi poteri costituiscano espressione di un rapporto di gerarchia in senso proprio, tale da consentire al Ministero di annullare gli atti compiuti dagli ufficiali di stato civile (cfr. le contrastanti pronunce del Giudice amministrativo: Cons. Stato, Sez. III, 1/12/2016, n. 5047; 4/11/2015, n. 5043; 26/10/2015, nn. 4897 e 4899), è pacifico che le predette istruzioni rivestono carattere vincolante per questi ultimi, ai quali è espressamente imposto l'obbligo di uniformarvisi, e ciò al fine di assicurare il regolare svolgimento del servizio e l'unità d'indirizzo nell'interpretazione di disposizioni dalla cui applicazione discendono effetti determinanti per la tutela dei diritti sia personali che patrimoniali. La circostanza che la corretta ed uniforme applicazione delle predette disposizioni risponda ad un'esigenza obiettiva dell'ordinamento, nel cui perseguimento l'Amministrazione non agisce in qualità di parte, non consente quindi di escludere la configurabilità di un autonomo interesse, concreto ed attuale, tale da legittimare l'intervento del Ministero nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero e la correlata richiesta di trascrizione, indipendentemente dalla proposizione, contestuale o paventata, di una domanda di risarcimento dei danni cagionati dal rifiuto dell'ufficiale di stato civile.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In quanto collegato alla funzione amministrativa specificamente esercitata dal Ministero (dell’Interno), il relativo interesse non coincide con quello che legittima la partecipazione al giudizio del Pubblico Ministero, riconducibile invece alla natura del rapporto controverso ed all'indisponibilità delle situazioni giuridiche fatte valere, da cui deriva l'esigenza di garantire che, pur nel rispetto del principio dispositivo, gli strumenti processuali apprestati per la tutela delle predette situazioni operino in funzione della puntuale applicazione della legge. Correttamente, nella specie, l'ordinanza impugnata ha confermato la legittimazione del Pubblico Ministero ad intervenire nel pertinente giudizio, avuto riguardo alla natura della questione sollevata dagl'istanti, che, in quanto avente ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento straniero attributivo di uno </em>status<em>, è qualificabile, come controversia di stato, con la conseguente applicabilità dell'art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., che attribuisce all'organo in questione la qualità di parte necessaria nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, prescrivendone l'intervento a pena di nullità rilevabile d'ufficio. Il riferimento alla predetta disposizione implica tuttavia l'esclusione del potere di impugnare la decisione emessa dalla Corte d'appello, non essendo la controversia annoverabile né tra quelle per le quali la legge riconosce al Pubblico Ministero il potere di azione né tra quelle matrimoniali, e non trovando pertanto applicazione né il primo comma dell'art. 72 cod. proc. civ., che in riferimento alla prima categoria di controversie attribuisce al predetto organo, in caso d'intervento, gli stessi poteri che competono alle parti, né il terzo ed il quarto comma del medesimo articolo, che in riferimento al secondo gruppo di controversie attribuiscono al Pubblico Ministero il potere d'impugnazione. Non può condividersi, in proposito, la tesi sostenuta dal Procuratore generale, secondo cui la legittimazione all'impugnazione del Pubblico Ministero, apparentemente esclusa dalle norme citate, potrebbe essere ricavata dall'art. 95, secondo comma, del D.P.R. n. 396 del 2000, che, riconoscendo al Procuratore della Repubblica la facoltà di promuovere in ogni tempo il procedimento di rettificazione, contemplerebbe proprio quel potere di azione dalla cui titolarità il primo comma dell'art. 72 cod. proc. civ. fa dipendere il potere d'impugnazione, ovvero dagli artt. 64-66 della legge n. 218 del 1995, che, subordinando il riconoscimento dell'efficacia dei provvedimenti stranieri alla condizione che gli stessi non risultino contrari all'ordine pubblico, lascerebbero spazio all'iniziativa del Pubblico Ministero, cui l'art. 73 del r.d. n. 12 del 1941 attribuisce l'azione diretta per far osservare le leggi di ordine pubblico. L'esclusione della possibilità di avvalersi del procedimento di cui all'art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000 per la risoluzione di controversie di stato, e la conseguente necessità di promuovere la procedura di cui all’art. 67 della legge n. 218 del 1995 per ottenere la dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, anche ai fini della trascrizione nei registri dello stato civile, impediscono infatti di estendere il potere di iniziativa riconosciuto al Pubblico Ministero ai fini della rettificazione oltre l'ambito in riferimento al quale è specificamente previsto, ostandovi la natura stessa della controversia, intrinsecamente disomogenea rispetto a quelle che possono dar luogo al procedimento di rettificazione, ed il chiaro dettato dell'art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., che in riferimento alle controversie di stato si limita ad attribuire al Pubblico Ministero un potere d'intervento. E' proprio la predetta disomogeneità a spiegare l'asimmetria del sistema segnalata dal Procuratore generale, e consistente nell'attribuzione al Pubblico Ministero di un potere d'iniziativa (e quindi d'impugnazione) limitato a controversie che, pur coinvolgendo l'interesse pubblico alla corretta applicazione della legge in una materia delicata come quella riguardante la formazione e la registrazione degli atti di stato civile, rivestono una portata più circoscritta rispetto a quelle riguardanti direttamente lo stato delle persone. In realtà, il potere di azione previsto dall'art. 95, secondo comma, del D.P.R. n. 396 del 2000 costituisce un retaggio del sistema previgente, in cui gli uffici dello stato civile facevano capo al Ministero della giustizia e l'art. 182 del r.d. n. 1238 del 1939 attribuiva al Pubblico Ministero, posto alle dipendenze del Ministro, la vigilanza sul regolare svolgimento del servizio e sulla tenuta dei relativi registri; il relativo mantenimento da parte della nuova disciplina appare coerente con la natura non contenziosa del procedimento di rettificazione, la cui instaurazione costituirebbe altrimenti appannaggio esclusivo degl'interessati, ma non risulta sufficiente a giustificarne l'estensione ad un procedimento contenzioso qual è quello di riconoscimento, che ha come controparte, secondo la formula adottata dall'art. 67 della legge n. 218 del 1995, «</em>chiunque vi abbia interesse<em>», ivi compresi, come si è detto, l'ufficiale di stato civile ed il Ministero dell'interno. Il richiamo all'art. 73 dell'ord. giud. non tiene invece conto dell'anteriorità di tale disposizione rispetto alla disciplina introdotta dal codice civile (art. 2907) e dal codice di procedura civile (art. 69), che concordemente limitano l'iniziativa del Pubblico Ministero in materia civile ai soli casi stabiliti dalla legge, in tal modo delineando un sistema ispirato a canoni di rigida tipizzazione, nell'ambito del quale risulta assente qualsiasi riferimento all'osservanza delle «</em>leggi d'ordine pubblico<em>»; tale sistema trova il proprio completamento negli artt. 70-72 del codice di rito, che distinguono puntualmente le ipotesi in cui al predetto organo spetta il potere di azione da quelle in cui è titolare di un mero potere d'intervento, includendo nella seconda categoria le controversie di stato, e limitando espressamente alle prime la legittimazione all'impugnazione. L'assoggettamento della fattispecie a disposizioni di ordine pubblico costituirebbe d'altronde un criterio di applicazione tutt'altro che agevole ai fini dell'individuazione del potere di azione del Pubblico Ministero, avuto riguardo alle difficoltà che s'incontrano nella definizione della stessa nozione di «</em>ordine pubblico<em>», e nella conseguente delimitazione di tale categoria di disposizioni, il riferimento alla quale risulterebbe foriero di non poche incertezze, in un settore in cui appare invece primaria l'esigenza di garantire la corretta ed uniforme applicazione della legge; significativa, in proposito, è la circostanza che, proprio in tema di controversie di stato, la giurisprudenza di legittimità abbia più volte escluso la possibilità d'individuare nel carattere imperativo della disciplina applicabile il fondamento di un interesse tale da legittimare l'esercizio dell'azione da parte del Pubblico Ministero, affermando che l'iniziativa spetta ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all'essere o al non essere dello </em>status<em>, del rapporto o dell'atto dedotto in giudizio, e concludendo quindi che, in mancanza di una deroga esplicita, trova applicazione la regola generale prevista dall'art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. I, 16/03/1994, n. 2515; 18/10/1989, n. 4201). Quanto infine alla possibilità, prospettata in via alternativa dal Procuratore generale, di desumere il potere d'impugnazione del Pubblico Ministero dalla mera partecipazione alla precedente fase processuale, configurabile come intervento adesivo volontario, e quindi idonea a giustificare la proposizione dell'impugnazione indipendentemente dal ricorso all'art. 72 cod. proc. civ., è appena il caso di evidenziare la portata esaustiva della disciplina dettata da tale disposizione, che, nel limitare il potere d'impugnazione del Pubblico Ministero che abbia spiegato intervento nel giudizio alle cause che avrebbe potuto proporre, ovverosia alle ipotesi di cui all'art. 70, primo comma, n. 1, ed alle cause matrimoniali, escluse quelle di separazione dei coniugi, non introduce, relativamente alle altre ipotesi, alcuna distinzione tra quelle in cui l'intervento ha carattere obbligatorio, essendo prescritto a pena di nullità rilevabile d'ufficio, e quelle in cui l'intervento ha carattere facoltativo, in quanto fondato su una valutazione del pubblico interesse rimessa allo stesso Pubblico Ministero.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em> Concludendo sul punto, i</em><em>l rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile (nel caso di specie) di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero ed un cittadino italiano, se non determinato da vizi formali, dà luogo ad una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall'art. 67 della legge n. 218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell'interno, legittimato a spiegare intervento nel giudizio, in qualità di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, nonché ad impugnare la relativa decisione. Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero ed un cittadino italiano, il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, ai sensi dello art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., ma è privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell'osservanza delle leggi di ordine pubblico.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va escluso che attraverso il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento emesso dal Giudice canadese, ed in particolare mediante l'affermazione della conformità all'ordine pubblico dell'accertamento di un rapporto di filiazione non fondato su un legame biologico, l'ordinanza odiernamente impugnata sia incorsa nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore; a tale fattispecie la Corte ha infatti attribuito un rilievo eminentemente teorico, ritenendola configurabile soltanto qualora il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un'attività di produzione normativa estranea alla relativa competenza; essa non è invece ravvisabile nel caso in esame, avendo la Corte d'appello giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralità di indici normativi, collegati tra loro ed interpretati alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte EDU, dai quali ha tratto la convinzione che il modello di genitorialità cui s'ispira il nostro ordinamento nell'attuale momento storico non possa più considerarsi fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ma debba tener conto di nuove fattispecie contrassegnate dalla costituzione di un legame familiare con quest'ultimo, in conseguenza della consapevole assunzione da parte del primo della responsabilità di allevarlo ed accudirlo, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico. In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione risulta immune dal vizio lamentato, la cui individuazione presupporrebbe d'altronde la possibilità di distinguere, nell'ambito del predetto iter, l'attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice da quella interpretativa a lui normalmente affidata: operazione, questa, piuttosto disagevole, in quanto, come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l'interpretazione non svolge una funzione meramente euristica, ma si sostanzia nell'enunciazione della </em>regula juris<em> applicabile al caso concreto, con profili innegabilmente creativi. E' proprio alla luce di tale considerazione che va ribadita la portata eminentemente astratta e teorica dell'eccesso di potere giurisdizionale, certamente non configurabile quando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la predetta regola attraverso la ricostruzione della </em>voluntas legis<em>, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un </em>error in iudicando<em> (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nell'escludere la contrarietà all'ordine pubblico del provvedimento con cui il Giudice canadese ha riconosciuto a X ed Y Mo., già dichiarati figli di Z Mo., il medesimo </em>status<em> nei confronti di Ro., con il quale i minori non hanno alcun legame biologico, l'ordinanza impugnata ha richiamato una recente pronuncia di legittimità, che identifica la predetta nozione – ovvero l’ordine pubblico - con il «</em>complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria<em>» (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599). Premesso che, a differenza di quanto previsto dalla legge canadese, che ammette il ricorso alla maternità surrogata, purché a titolo gratuito, la disciplina della procreazione medicalmente assistita vigente nel nostro ordinamento non lo consente, la Corte di merito ha ritenuto che il divieto posto dalla legge n. 40 del 2004 non precluda il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra i minori generati attraverso la suddetta pratica ed il genitore “</em>intenzionale<em>”, trattandosi di disposizioni che non costituiscono espressione di principi vincolanti per il legislatore ordinario, ma dell'ampio margine di apprezzamento di cui quest'ultimo gode nella regolamentazione di una materia in ordine alla quale non vi è consenso a livello Europeo, per i delicati interrogativi di ordine etico che la stessa suscita. Precisato inoltre che il nostro ordinamento non prevede un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ha conferito rilievo da un lato all'interesse superiore dei minori, identificato nel diritto a conservare lo status di figli loro riconosciuto dall'atto validamente formato all'estero, dall'altro alla consapevole decisione di accudirli ed allevarli, nell'ambito del progetto familiare avviato con l'altro genitore.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il richiamo ai principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento interno nell'attuale momento storico, quale parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini del riconoscimento, costituisce espressione dell'orientamento da tempo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, che, abbandonando la precedente concezione difensiva dell'ordine pubblico quale limite all'ingresso nel nostro ordinamento di norme ed atti provenienti da altri sistemi e ritenuti contrastanti con i valori sottesi alla vigente normativa interna, ha attribuito alla predetta nozione una diversa funzione, eminentemente promozionale, che circoscrive l'ambito del giudizio di compatibilità ai valori tutelati dalle norme fondamentali, ponendo in risalto il collegamento degli stessi con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, dei quali mira a favorire la diffusione, congiuntamente all'armonizzazione tra gli ordinamenti. In passato, la giurisprudenza di legittimità si era infatti uniformata ad una nozione di ordine pubblico fortemente orientata alla salvaguardia dell'identità e della coerenza interna dell'ordinamento, nonché alla difesa delle concezioni morali e politiche che ne costituivano il fondamento, definendolo come il complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico e dei principi inderogabili immanenti ai più importanti istituti giuridici (cfr. Cass., Sez. I, 12/03/1984, n. 1680; 14/04/1980, n. 2414; 5/12/1969, n. 3881): pur distinguendo concettualmente tra ordine pubblico internazionale, riferibile ai soli rapporti caratterizzati da profili transnazionali e preclusivo del richiamo alla legge straniera applicabile in base ai criteri stabiliti dalle norme di diritto internazionale privato, ed ordine pubblico interno, attinente invece alla libera esplicazione dell'autonomia privata nei rapporti tra soggetti appartenenti al medesimo ordinamento (cfr. Cass., Sez. lav., 25/05/1985, n. 3209; Cass., Sez. I, 3/05/1984, n. 2682; Cass., Sez. II, 19/02/1970, n. 389), il predetto indirizzo faceva sostanzialmente coincidere le due nozioni, ravvisando nella prima null'altro che un aspetto della seconda, fino ad affermare esplicitamente che essa non doveva essere intesa in senso astratto ed universale, ma andava riferita all'ordinamento giuridico nazionale ed ai relativi più elevati interessi, dei quali era volta ad assicurare il rispetto (cfr. Cass., Sez. I, 9/01/1976, n. 44; 14/04/1972, n. 1266; 24/04/1962, n. 818). Tale orientamento, estendendo il parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini della delibazione ai principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano, finiva tuttavia per lasciare ben poco spazio all'efficacia dei provvedimenti stranieri, la cui attuazione nel territorio dello Stato risultava in definitiva subordinata alla condizione che la disciplina dagli stessi applicata non differisse, almeno nelle linee essenziali, da quella dettata dall'ordinamento interno. L'apertura di quest'ultimo al diritto sovranazionale ed il recepimento dei principi introdotti dalle convenzioni internazionali cui il nostro Paese ha prestato adesione, oltre ad influire sull'interpretazione della normativa interna, ha peraltro determinato una modificazione del concetto di ordine pubblico internazionale, caratterizzato, nelle formulazioni più recenti, da un sempre più marcato riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale ed alla tutela dei diritti fondamentali, al quale fa inevitabilmente riscontro un affievolimento dell'attenzione verso quei profili della disciplina interna che, pur previsti da norme imperative, non rispondono ai predetti canoni. Emblematica di tale evoluzione è l'affermazione di ordine generale secondo cui i principi di ordine pubblico vanno individuati in quelli fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all'esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell'uomo, o che informano l'intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell'intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. lav., 26/05/2008, n. 13547; 23/02/2006, n. 4040; 26/11/2004, n. 22332). Significativa è anche la precisazione, conforme alle critiche mosse al precedente orientamento, che l'ordine pubblico internazionale non è identificabile con quello interno, perché altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all'applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, con la conseguenza che resterebbe cancellata la diversità tra sistemi giuridici e diverrebbero sostanzialmente inutili le stesse regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass., Sez. lav., 4/05/2007, n. 10215). La conclusione che se ne trae è che non vi è coincidenza tra le norme inderogabili dell'ordinamento italiano ed i principi di ordine pubblico rilevanti come limitazione all'applicazione di leggi straniere, dal momento che questi ultimi non vanno enucleati soltanto dal quadro normativo interno, ma devono essere ricavati da esigenze (comuni ai diversi ordinamenti statali) di garanzia e tutela dei diritti fondamentali, o da valori fondanti dell'intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. III, 22/08/2013, n. 19405; Cass., Sez. lav., 19/ 07/2007, n. 16017). In tale mutato contesto s'inserisce anche il precedente richiamato dalla ordinanza impugnata, avente ad oggetto il riconoscimento dell'atto straniero di nascita di un minore generato da due donne, una delle quali aveva fornito l'ovulo necessario al concepimento mediante procreazione medicalmente assistita, mentre l'altra lo aveva partorito: tale pronuncia, nel ribadire la nozione di ordine pubblico dianzi riportata, si pone in rapporto di continuità con il nuovo orientamento, affermando a chiare lettere che «</em>il legame, pur sempre necessario con l'ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche, laddove compatibili con essa, dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo<em>»; essa precisa che «</em>un contrasto con l'ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituito (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario<em>», e conclude pertanto che «</em>il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l'ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico<em>» (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599, cit). Nella medesima ottica, una successiva pronuncia, riguardante la rettifica dell'atto di nascita di un minore generato da due donne mediante il ricorso alla fecondazione assistita, ha affermato che la contrarietà dell'atto estero all'ordine pubblico internazionale dev'essere valutata alla stregua non solo dei principi della nostra Costituzione, ma anche, tra l'altro, di quelli consacrati nella Dichiarazione ONU dei Diritti dell'Uomo, nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, nei Trattati Fondativi e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché, con particolare riferimento alla posizione del minore e al suo interesse, tenendo conto della Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, della Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo e della Convenzione Europea di Strasburgo sui diritti processuali del minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878). Il risalto in tal modo conferito ai principi consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ai quali viene attribuita una portata complementare a quella dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, non trova smentita nella recente sentenza emessa dalla Corte a Sezioni Unite e richiamata nell'ordinanza di rimessione (cfr. Cass., Sez. Un., 5/07/2017, n. 16601), la quale, nell'escludere la sussistenza di un'incompatibilità ontologica tra l'istituto dei danni punitivi e l'ordinamento italiano, non ha affatto inteso rimettere in discussione il predetto orientamento, ma si è limitata a richiamare l'attenzione sui principi fondanti del nostro ordinamento, con i quali il giudice investito della domanda di riconoscimento è pur sempre tenuto a confrontarsi. A fronte degli effetti sovente innovativi della mediazione esercitata dalle carte sovranazionali ai fini dell'ingresso di istituti provenienti da altri ordinamenti, essa ha ribadito l'essenzialità del controllo sui principi essenziali della </em>lex fori<em> in materie presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della repubblica, affermando che «</em>Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancor vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro "<em>fiato corto</em>", ma reso più complesso dall'intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca<em>». Ha quindi chiarito che la sentenza straniera applicativa di un istituto non regolato dall'ordinamento nazionale, quand'anche non ostacolata dalla disciplina Europea, deve misurarsi «</em>con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell'apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l'ordinamento costituzionale<em>»; nel contempo, ha precisato che la valutazione di compatibilità con l'ordine pubblico non può essere limitata alla ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri ed istituti italiani, ma deve estendersi alla verifica dell'eventuale contrasto tra l'istituto di cui si chiede il riconoscimento e l'intreccio di valori e norme rilevanti ai fini della delibazione. Viene in tal modo evidenziato un profilo importante della valutazione di compatibilità, rimasto forse in ombra nelle enunciazioni di principio delle precedenti decisioni, ma dalle stesse tenuto ben presente nell'esame delle fattispecie concrete, ovverosia la rilevanza della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione, e la conseguente necessità di tener conto, nell'individuazione dei principi di ordine pubblico, del modo in cui i predetti valori si sono concretamente incarnati nella disciplina dei singoli istituti. Significativo, in proposito, risulta l'ampio </em>excursus<em> dedicato dalla prima delle sentenze richiamate alle norme di legge ordinaria che conferiscono rilievo all'interesse superiore del minore ed a quelle che disciplinano l'acquisto dello status di figlio e la procreazione medicalmente assistita. Così come va sottolineata l'attenzione costantemente prestata, in tema di riconoscimento dell'efficacia dei provvedimenti stranieri, all'opera di sintesi e ricomposizione attraverso la quale la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità sono pervenute all'estrapolazione dei principi fondamentali, sulla base non solo dei solenni enunciati della Costituzione e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali, ma anche dell'interpretazione della legge ordinaria, che dà forma a quel diritto vivente dalla cui valutazione non può prescindersi nella ricostruzione dell'ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico. Caratteristica essenziale della nozione di ordine pubblico è infatti la relatività e mutevolezza nel tempo del relativo contenuto, soggetto a modificazioni in dipendenza dell'evoluzione dei rapporti politici, economici e sociali, e quindi inevitabilmente destinato ad essere influenzato dalla disciplina ordinaria degl'istituti giuridici e dalla relativa interpretazione, che di quella evoluzione costituiscono espressione, e che contribuiscono a loro volta a tenere vivi e ad arricchire di significati i principi fondamentali dell'ordinamento. Il segnalato processo di armonizzazione tra gli ordinamenti, di cui costituisce espressione il riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale, non esige d'altronde la realizzazione di un'assoluta uniformità nella disciplina delle singole materie, spettando alla discrezionalità del legislatore l'individuazione degli strumenti più opportuni per dare attuazione a quei valori, compatibilmente con i principi ispiratori del diritto interno, senza che ciò consenta di declassare automaticamente a mera normativa di dettaglio le disposizioni a tal fine adottate. In tal senso depongono anche gli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, i quali, nel disciplinare l'ingresso nel nostro ordinamento di atti e provvedimenti formati all'estero, non prevedono affatto il recepimento degl'istituti ivi applicati, così come sono disciplinati dagli ordinamenti di provenienza, ma si limitano a consentire la produzione dei relativi effetti, nella misura in cui gli stessi risultino compatibili con la delineata nozione di ordine pubblico.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Conclusivamente sul punto, in tema di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l'ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, dev'essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L'ordinanza impugnata si è limitata a far proprie le enunciazioni di principio della sentenza n. 19599 del 2016, ritenendole suscettibili di automatica trasposizione alla fattispecie da essa esaminata, senza tener conto delle profonde differenze intercorrenti tra la stessa e quella presa in considerazione dal precedente di legittimità, ed omettendo conseguentemente di valutare il diverso modo di atteggiarsi dei principi richiamati, alla stregua della disciplina ordinaria specificamente applicabile; la domanda proposta nel presente giudizio ha infatti ad oggetto il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento emesso all'estero, che ha attribuito ai minori lo </em>status<em> di figli di uno dei due istanti, con il quale essi non hanno alcun rapporto biologico, essendo stati generati mediante gameti forniti dall'altro, già dichiarato loro genitore con un precedente provvedimento regolarmente trascritto in Italia, con la cooperazione di due donne, una delle quali ha donato gli ovociti, mentre l'altra, in virtù di un accordo validamente stipulato ai sensi della legge straniera, ha portato avanti la gravidanza, rinunciando preventivamente a qualsiasi diritto nei confronti dei minori. Il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza richiamata aveva invece ad oggetto la trascrizione nei registri dello stato civile italiano di un atto di nascita formato all'estero e riguardante un minore generato da due donne, a ciascuna delle quali egli risultava legato da un rapporto biologico, in quanto una di esse lo aveva partorito, mentre l'altra aveva fornito gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita. Le due fattispecie hanno in comune il fatto che il concepimento e la nascita del minore hanno avuto luogo in attuazione di un progetto genitoriale maturato nell'ambito di una coppia omosessuale, con l'apporto genetico di uno solo dei partner, differenziandosi invece per il numero di terzi estranei (due, anziché uno) che hanno cooperato al predetto scopo, e soprattutto per il contributo fornito da uno di essi, che risulta però determinante ai fini della individuazione della disciplina applicabile. Come rilevato dalla Corte, la tecnica fecondativa esaminata dalla precedente sentenza è assimilabile per un verso alla fecondazione eterologa, alla quale è accomunata dalla necessità dell'apporto genetico di un terzo donatore del gamete per la realizzazione del progetto genitoriale proprio di una coppia che, essendo dello stesso sesso, si trovi in una situazione analoga a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile, per altro verso alla fecondazione omologa, con la quale condivide il contributo genetico fornito da un partner all'altro nell'ambito della stessa coppia. La fattispecie non è pertanto riconducibile alla surrogazione di maternità, in quanto priva della caratteristica essenziale di tale figura, costituita dal fatto che una donna presta il proprio corpo (ed eventualmente gli ovuli necessari al concepimento) al solo fine di aiutare un'altra persona o una coppia sterile a realizzare il proprio desiderio di avere un figlio, assumendo l'obbligo di provvedere alla gestazione ed al parto per conto della stessa, ed impegnandosi a consegnarle il nascituro. E' per tale motivo che la predetta sentenza ha potuto agevolmente escludere l'applicabilità dell'art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, che vieta «</em>la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità<em>», comminando una sanzione penale per «</em>chiunque, in qualsiasi forma<em>», la «</em>realizza, organizza o pubblicizza<em>»; nel contempo, essa ha evidenziato la minore portata del divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, imposto dall'art. 5 alle coppie dello stesso sesso, osservando che, ai sensi del comma secondo dell'art. 12, lo stesso è presidiato esclusivamente da una sanzione amministrativa; ed ha dato atto della diversità della fattispecie anche dalla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per il fatto che l'ovulo è fornito dal partner della gestante, ritenendo quindi non pertinente il richiamo all'art. 9, comma terzo, della medesima legge, che, in caso di violazione del divieto di cui all'art. 4, comma terzo, preclude al donatore di gameti l'acquisizione di qualsiasi relazione giuridica parentale con il nato e la possibilità di far valere nei confronti dello stesso alcun diritto o assumere alcun obbligo. La fattispecie che costituisce oggetto del presente giudizio è invece annoverabile a pieno titolo tra le ipotesi di maternità surrogata, caratterizzandosi proprio per l'accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale, che ha provveduto alla gestazione ed al parto, rinunciando tuttavia ad ogni diritto nei confronti dei nati: essa non è pertanto assimilabile in alcun modo a quella esaminata dal precedente citato, e neppure a quella che ha costituito oggetto della successiva sentenza n. 14878 del 2017, riguardante la rettifica dell'atto di nascita di un minore, formato all'estero e già trascritto in Italia, a seguito della modifica apportata dall'ufficiale di stato civile straniero, che aveva indicato il nato come figlio non solo della donna che lo aveva partorito, ma anche di un'altra donna, con essa coniugata, con cui il minore non aveva alcun legame biologico; nell'escludere la contrarietà della rettifica all'ordine pubblico, quest'ultima sentenza ha infatti equiparato la fattispecie alla fecondazione eterologa, ricordando da un lato che il divieto del ricorso a tale pratica è venuto parzialmente meno per effetto della sentenza n. 162 del 2014, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004, e richiamando dall'altro i principi enunciati dalla sentenza n. 19599 del 2016. Tale ragionamento non è tuttavia suscettibile di estensione al caso in esame, il cui unico punto di contatto con la fecondazione eterologa è rappresentato dall'estraneità alla coppia di uno dei soggetti che hanno fornito i gameti necessari per il concepimento, dal momento che la gestazione ed il parto non hanno avuto luogo nell'ambito della coppia, ma con la cooperazione di un quarto soggetto. In quanto manifestatosi nelle forme tipiche della surrogazione di maternità, l'intervento di quest'ultimo rende la vicenda assimilabile a quella presa in considerazione da una più risalente sentenza con cui la Corte, nel pronunciare in ordine allo stato di adottabilità di un minore nato all'estero mediante il ricorso alla predetta pratica, ha ritenuto contrastante con l'ordine pubblico il riconoscimento dell'efficacia dell'atto di nascita formato all'estero, in cui erano indicati come genitori due coniugi italiani, i quali si erano avvalsi della maternità surrogata senza fornire alcun apporto biologico (cfr. Cass., Sez. I, 11/11/2014, n. 24001). Nel ribadire che l'ordine pubblico internazionale è «</em>il limite che l'ordinamento nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna<em>», e dunque «</em>non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili<em>», tale sentenza ha ritenuto pacifica l'applicabilità del divieto della surrogazione di maternità risultante dall'art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, osservando che tale disposizione è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, posta di regola a presidio di beni fondamentali; ha precisato che «</em>vengono qui in rilievo la dignità umana - costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l'ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato<em>»; ed ha escluso che tale divieto si ponga in contrasto con l'interesse superiore del minore, tutelato dall'art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, ritenendolo espressione di una scelta non irragionevole, compiuta dal legislatore nell'esercizio della relativa discrezionalità, e volta a far si «</em>che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando<em> [...] </em>all'istituto dell'adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico<em>». Rispetto alla fattispecie presa in considerazione dalla predetta sentenza, quella esaminata dall'ordinanza impugnata si distingue soltanto per il fatto che la surrogazione di maternità non si è realizzata mediante gameti interamente forniti da soggetti estranei alla coppia, ma con il contributo genetico di uno dei componenti della stessa; nella specie, tuttavia, l'assenza di un legame genetico tra i minori e l'altro partner è stata ritenuta inidonea ad impedire il riconoscimento del rapporto genitoriale accertato con il provvedimento del Giudice canadese, in virtù dell'affermazione che il modello di genitorialità cui s'ispira il nostro ordinamento non è fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato. Per giungere a tale conclusione, la Corte di merito ha escluso innanzitutto la possibilità di considerare l'art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 come una norma di ordine pubblico, negando che la disciplina della procreazione medicalmente assistita costituisca espressione di principi fondamentali e costituzionalmente obbligati, non modificabili ad opera del legislatore ordinario, e ravvisandovi piuttosto «</em>il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia<em>»; ha conseguentemente ritenuto che la predetta disciplina non possa prevalere sull'interesse superiore dei minori, identificato in quello alla conservazione dello </em>status filiationis<em> legittimamente acquisito allo estero, che risulterebbe pregiudicato dall'impossibilità di far valere i relativi diritti nei confronti del genitore intenzionale, nonché dalla mancata assunzione dei corrispondenti obblighi da parte di quest'ultimo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella parte in cui esclude che il divieto della surrogazione di maternità costituisca un principio di ordine pubblico, il ragionamento seguito dalla Corte territoriale si pone in evidente contrasto con l'orientamento precedentemente riportato della giurisprudenza di legittimità, che assegna a tale disposizione una funzione essenziale di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, trascurando altresì le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale, che vi ravvisa il risultato di un bilanciamento d'interessi attuato dallo stesso legislatore. Com'è noto, infatti, la Corte costituzionale ha da tempo riconosciuto nella legge n. 40 del 2004 una legge «</em>costituzionalmente necessaria<em>», osservando che essa rappresenta la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa (cfr. Corte cost., sent. n. 45 del 2005; v. anche sent. n. 151 del 2009); pur escludendo che detta legge abbia un contenuto costituzionalmente vincolato, ha affermato che le questioni da essa affrontate toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l'individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore (cfr. Corte cost., sent. n. 347 del 1998). Premesso che «</em>la determinazione di avere o meno un figlio, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali<em>», e precisato che «</em>il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dall'ordinamento giuridico, come dimostra la regolamentazione dell'istituto dell'adozione<em>», la Corte da un lato ha riconosciuto che «</em>il dato della provenienza genetica non costituisce un requisito imprescindibile della famiglia<em>», dall'altro ha tenuto però a chiarire che «</em>la libertà e la volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti<em>» (cfr. Corte cost., sent. n. 162 del 2014). Tra questi limiti va indubbiamente annoverato il divieto della surrogazione di maternità, al quale dev'essere riconosciuta una rilevanza del tutto particolare, tenuto conto della speciale considerazione di cui la predetta pratica costituisce oggetto nell'ambito della legge n. 40: quest'ultima, infatti, nel consentire il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ivi comprese (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014) quelle di tipo eterologo, nei casi di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, nonché (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 2015) nel caso di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma primo, lett. b), della legge 22 maggio 1978, n. 194, distingue nettamente tra le predette tecniche e la surrogazione di maternità, subordinando l'utilizzazione delle prime al concorso di determinate condizioni e vietando in ogni caso il ricorso alla seconda, nonché prevedendo sanzioni di diversa gravità (rispettivamente amministrative e penali) per la violazione delle relative disposizioni. Tale diversità di regime giuridico è stata evidenziata anche dal Giudice delle leggi, che nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, della legge in esame, nella parte in cui vietava il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche nel caso in cui fosse stata diagnosticata una patologia tale da causare sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, ha tenuto a precisare che tale pronuncia non investiva in alcun modo il divieto posto dall'art. 12, comma 6 (cfr. sent. n. 162 del 2014). Il senso di detto limite è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost. ed all'art. 8 della CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all'interesse dello stesso, ha posto nuovamente in risalto il ruolo svolto dal divieto di cui all'art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 ai fini della regolamentazione degl'interessi coinvolti nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Premesso che, nonostante l'accentuato </em>favor<em> dimostrato dall'ordinamento per la conformità dello </em>status<em> di figlio alla realtà della procreazione, l'accertamento della verità biologica e genetica dell'individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento con gli altri interessi coinvolti, in particolare con l'interesse del minore alla conservazione dello </em>status filiationis<em>, e dato atto che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest'ultimo interesse, dichiarando inammissibile il disconoscimento di paternità, la Corte ha rilevato che, a fianco dei casi in cui il bilanciamento è demandato al giudice, «</em>vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa<em>», mentre «</em>in altri il legislatore impone, allo opposto, l'imprescindibile presa d'atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata<em>», confermando inoltre che in quest'ultimo caso l'interesse alla verità riveste natura anche pubblica, in quanto correlato ad una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, e per tale motivo è vietata dalla legge (cfr. Corte cost, sent. n. 272 del 2017). Non può pertanto condividersi il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nella parte in cui, pur riconoscendo nella disposizione di cui all'art. 12, sesto 6, della legge n. 40 del 2004 il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia, ha preteso di sostituire la propria valutazione a quella compiuta in via generale dal legislatore, attribuendo la prevalenza all'interesse dei minori alla conservazione dello </em>status filiationis<em>, nonostante la pacifica insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale. Non risulta pertinente, in proposito, il richiamo all'affermazione, contenuta nella citata sentenza n. 19599 del 2016, secondo cui le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004, imputabili agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia, non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale, che dev'essere tutelato, alla conservazione dello </em>status filiationis<em> legittimamente acquisito all'estero: tale interesse, come si è visto, è destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell'ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l'anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il </em>favor veritatis<em>, che giustifica la prevalenza dell'identità genetica e biologica. Tale prevalenza, d'altronde, non si traduce necessariamente nella cancellazione dell'interesse del minore, la cui tutela, come precisato dalla Corte costituzionale, impone di prescindere dalla rigida alternativa vero o falso, tenendo conto di variabili più complesse, tra le quali assume particolare rilievo, nella specie, la presenza di strumenti legali idonei a consentire la costituzione di un legame giuridico con il genitore intenzionale, che, pur diverso da quello previsto dall'art. 8 della legge n. 40 del 2004, garantisca al minore una adeguata tutela (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017); in proposito, va richiamato soprattutto l'orientamento della Corte di Cassazione in tema di adozione in casi particolari, che, proprio facendo leva sull'interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, individua nell'art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983 una clausola di chiusura del sistema, volta a consentire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa, all'unica condizione della «</em>constatata impossibilità di affidamento preadottivo<em>», da intendersi non già come impossibilità di fatto, derivante da una situazione di abbandono del minore, bensì come impossibilità di diritto di procedere all'affidamento preadottivo (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962). Tali conclusioni non si pongono affatto in contrasto con i principi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell'infanzia, cui lo Stato italiano ha prestato adesione, ratificandole e rendendole esecutive nell'ordinamento interno, né con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza formatasi al riguardo, e richiamata nell'ordinanza impugnata. E' pur vero, infatti, che le predette fonti assicurano la più ampia tutela al minore, riconoscendo allo stesso il diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il relativo benessere, impegnando gli Stati a preservarne l'identità ed a rispettarne le relazioni familiari, ed individuando, quale criterio preminente da adottare in tutte le decisioni che lo riguardino, il relativo interesse superiore, nonché promuovendo la concessione delle garanzie procedurali necessarie ad agevolare l'esercizio dei propri diritti (cfr. in particolare gli artt. 3, 8 e 9 della Convenzione di New York cit.; gli artt. 1 e 6 della Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 20 marzo 2003, n. 77; gli artt. 8, 9, 10, 22, 23, 28 e 33 della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all'Aja il 19 ottobre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101; l'art. 24 della Carta di Nizza). Ciò non significa tuttavia che la tutela del predetto interesse non possa costituire oggetto di contemperamento con quella di altri valori considerati essenziali ed irrinunciabili dall'ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull'individuazione delle modalità più opportune da adottare per la relativa realizzazione, soprattutto in materie sensibili come quella in esame, che interrogano profondamente la coscienza individuale e collettiva, ponendo questioni delicate e complesse, suscettibili di soluzioni differenziate. D'altronde, proprio in tema di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale, la Corte EDU ha da tempo affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento sia ai fini della decisione di autorizzare o meno la predetta pratica che con riguardo alla determinazione degli effetti da ricollegarvi sul piano giuridico, dando atto che è in gioco un aspetto essenziale dell'identità degli individui, ma rilevando che in ordine a tali questioni non vi è consenso a livello internazionale, e ritenendo comunque legittime le finalità di tutela del minore e della gestante, perseguite attraverso l'imposizione del divieto in questione. Pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, essa ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un'esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie, ravvisando soltanto una violazione del diritto al rispetto della vita privata, in relazione alla lesione dell'identità personale eventualmente derivante dalla coincidenza di uno dei genitori d'intenzione con il genitore biologico del minore (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). Le predette violazioni non sono pertanto configurabili nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d'intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l'inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l'accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo </em>status finiliationis<em>, pacificamente riconosciuto nei confronti dell'altro genitore. Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 24001 del 2014, e riproposto dinanzi ad essa, la Corte EDU ha d'altronde escluso entrambe le violazioni, negando per un verso la configurabilità di una vita familiare, in considerazione dell'assenza di qualsiasi legame genetico o biologico tra il minore ed entrambi i genitori e della breve durata della relazione con gli stessi, e ritenendo per altro verso legittima l'ingerenza nella vita privata, concretizzatasi nell'interruzione dei rapporti con i genitori e nella dichiarazione dello stato di adottabilità, alla luce dell'illegalità della condotta tenuta dai genitori, che avevano condotto il minore in Italia senza rispettare la disciplina dell'adozione, e della conseguente precarietà della relazione in tal modo instauratasi (cfr. Corte EDU, sent. 24/01/2017, Paradiso e Campanelli c. Italia). Anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l'individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fermo restando l'obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo </em>status filiationis<em>: esigenza, questa, che nell'ordinamento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell'adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Conclusivamente sul punto, il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall'art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dall'art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983.</em></p>