Cass. pen., V, ud. dep. 09.01.2023, n. 242
MASSIMA
Per il delitto di atti persecutori, trattandosi di reato abituale, è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza. L’essenza dell’incriminazione si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo. È dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è, per l’appunto, alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica, il fatto che detto evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui espressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612 bis c.p..
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato per quanto si dirà, e la ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale distrettuale di Bari.
- Nel caso in esame, per il denunciato delitto di atti persecutori, il Pubblico Ministero ha esercitato l’azione penale in data 4 luglio 2019; successivamente, e già prima dell’entrata in vigore della novella di cui alla L. n. 69 del 2019, l’Organo dell’Accusa ha esercitato autonoma azione penale anche nel diverso procedimento, iscritto nei confronti del medesimo ricorrente, sempre per il delitto di atti persecutori, nel cui ambito sono confluiti episodi verificatisi successivamente alla precedente richiesta di rinvio a giudizio.
- Va dato atto che, nella giurisprudenza di legittimità, non si registra uniformità di vedute in tema di reato di atti persecutori con formulazione a “contestazione aperta”.
Secondo un primo orientamento, nel caso di reato abituale, è necessario che tutti gli atti cronologicamente succedutisi siano stati oggetto di contestazione e di accertamento giudiziale a differenza che nel reato permanente in cui – nell’ipotesi in cui manchi la individuazione di un termine finale di consumazione della condotta – quest’ultimo non può che coincidere con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale. Poiché, quindi, al reato abituale non si estende il principio, proprio di quello permanente – secondo il quale, nell’ipotesi di contestazione aperta, il giudizio di penale responsabilità dell’imputato può estendersi senza necessità di modifica della contestazione originaria agli sviluppi della fattispecie emersi dall’istruttoria dibattimentale (Sez. 2, n. 20798 del 20/04/2016, Rv. 267085, che ha precisato come nel caso di contestazione di un reato permanente nella forma cosiddetta “chiusa”, con precisa indicazione della data di cessazione della condotta illecita (ad es. con la formula “accertato fino al…”) il giudice può tener conto dell’eventuale protrarsi della consumazione soltanto se ciò sia oggetto di un’ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516 c.p.p.; qualora, invece, il reato permanente sia stato contestato in forma c.d. “aperta” – essendosi il P.M. limitato ad indicare solo la data di inizio della consumazione, ovvero quella dell’accertamento – il giudice può valutare, senza necessità di contestazioni suppletive, anche la condotta criminosa eventualmente posta in essere fino alla data della sentenza di primo grado) – le condotte persecutorie diverse e ulteriori rispetto a quelle descritte nella originaria imputazione devono essere oggetto di specifica contestazione, sia quando servono a perfezionare o a integrare l’originaria imputazione sia – e a maggior ragione – quando costituiscono una serie autonoma, unificabile alla precedente con il vincolo della continuazione (Sez. 5 n. 45376 del 02/10/2019 Rv. 277255; conf. Rv. 270241, nonché rv. 201149).
- Secondo altro orientamento, anche nel delitto di atti persecutori – che è reato abituale e di evento, ed è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice, nonché dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, il quale deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento (in tal senso, tra le più recenti massimate, Sez. 5, n. 7899 del 14/01/2019, P, Rv. 27538101) – trattandosi di reato che si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, il termine finale di consumazione coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado, che cristallizza l’accertamento processuale, cosicché nell’ipotesi di c.d. contestazione aperta, è possibile estendere il giudizio di penale responsabilità dell’imputato, anche a fatti non espressamente indicati nel capo di imputazione, e, tuttavia, accertati nel corso del giudizio, sino alla sentenza di primo grado (Sez. 5, n. 22210 del 03/04/2017 Rv. 270241).
Ciò in quanto, in ragione della complessiva unitarietà del fatto in rapporto all’evento descritto dalla norma incriminatrice, non può affermarsi che il riferimento ad ulteriori episodi operato dalla persona offesa nel corso del dibattimento determini una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, tale da generare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. (Sez. 5 n. 15651 del 10/02/2020 Rv. 279154).
Ne consegue che le condotte ulteriori rispetto a quelle descritte nell’imputazione non devono formare oggetto di specifica contestazione, perché si inseriscono nella sequenza criminosa integrativa dell’abitualità del reato contestato. In tale ottica, si è osservato come, ai fini della rituale contestazione del delitto di atti persecutori, non si richieda che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e le conseguenze per la persona offesa (ex multis, Sez. 5, n. 28623 del 27/04/2017, C e altri, Rv. 27087501; Sez. 5, n. 35588 del 03/04/2017, P e P.C., Rv. 27120601; Sez. 5, n. 7544 del 25/10/2012, C., Rv. 255016).
- Invero, trattandosi di reato abituale, è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza e, in tal senso, l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo. È dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è, per l’appunto, alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica, il fatto che detto evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui espressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’ 612 bis c.p..
- E, sul piano della condotta, in considerazione del carattere necessitato di una sua reiterazione nel tempo, il delitto di atti persecutori deve essere ricondotto nell’ambito dei reati abituali così detti impropri, atteso che la fattispecie in esame si caratterizza per la presenza di una serie di condotte singolarmente idonee ad integrare reati perseguibili in via autonoma. Diversamente dal reato permanente, però, nel quale la condotta offensiva si presenta unitaria e senza cesure temporali, nel reato abituale la condotta è caratterizzata da una pluralità di atti che, nel loro complesso, realizzano l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. In altri termini, mentre il reato permanente presuppone un’unica azione compiuta in violazione di legge che prosegue nel tempo e che assume autonoma valenza antigiuridica fin dal primo atto della sua esecuzione (Sez. 6, n. 3032 del 16/12/1986, Nenna, Rv. 175315), nel reato abituale rilevano singole condotte, da sole non idonee ad integrare quel determinato reato, che finiscono per perdere la loro individualità nell’ipotesi del reato di atti persecutori, rilevano le condotte di minaccia o di molestia – ed assumere una diversa configurazione giuridica, proprio a causa della loro reiterazione (Sez. 5, n. 3042 del 09/10/2019, M, Rv. 278149; conf a Sez. 5 n. 6742 del 13/12/2018 (dep. 2019) Rv. 275490; nonché a Sez. 5 n. 17000 del 11/12/2019 (dep. /2020) Rv. 27908).
Alla luce di tali osservazioni, siffatto orientamento, ribadito anche da pronunce successive (Sez. 5 n. 17350 del 20/01/2020, Rv. 279401, Sez. 5 n. 12055 del 19/01/2021, Rv. 281021), non ritiene condivisibile la tesi interpretativa secondo cui le condotte persecutorie diverse e ulteriori rispetto a quelle descritte nell’imputazione devono formare oggetto di specifica contestazione (così come affermato dalla citata Sez. 5, n. 45376 del 02/10/2019, S, Rv. 277255), se la persona offesa durante il dibattimento riferisca episodi ulteriori rispetto a quelli oggetto della denunzia – querela, verificatisi anche in epoca successiva alla data di presentazione della stessa, (Sez. 5 n. 15651 del 10/02/2020 Rv. 279154). Questo perché quegli ulteriori episodi si inseriscono nella sequenza criminosa integrativa dell’abitualità del reato contestato e di essi il giudice può certamente tener conto ai fini dell’affermazione di responsabilità, senza violare il principio di correlazione tra accusa e sentenza, giacché l’imputato ha la possibilità di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (arg. da Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
- Ciò posto, ritiene il Collegio che possa prescindersi, nel caso in scrutinio, dalla necessità di formulare una opzione ermeneutica per l’uno o l’altro orientamento, poiché nessuno dei due nega che, sia nel reato permanente che in quello abituale, la ulteriore prosecuzione della condotta – nell’ipotesi di contestazione c.d. aperta – debba essere oggetto di accertamento giudiziale, non essendo sufficiente – ai fini della estensione del limite temporale della condotta la mera evocazione, nel giudizio, di ulteriori atti successivi a quelli cristallizzati nell’imputazione, salvo poi a distinguersi nel senso di ritenere necessaria o meno la contestazione integrativa.
- Proprio in tema di reato permanente, invero, si afferma costantemente, in caso di contestazione aperta, la necessità dell’accertamento giudiziale della effettiva protrazione della condotta, essendosi chiarito che la regola per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado, ha valore esclusivamente ‘processualè, e non sostanziale, nel senso che non ricade sull’imputato l’onere di dimostrare, a fronte di una presunzione contraria, la cessazione dell’illecito prima della data della condanna di primo grado.
- Ne consegue che, qualora dall’epoca di cessazione della permanenza debba farsi derivare un qualsiasi effetto giuridico, non è sufficiente il riferimento alla data della sentenza di primo grado, ma occorre verificare se il giudice di merito abbia, o meno, ritenuto, esplicitamente o implicitamente, provata la permanenza della condotta illecita oltre il momento dell’accertamento ed, eventualmente, se tale permanenza risulti effettivamente accertata fino alla sentenza.
- Spetta, infatti, all’accusa l’onere di fornire la prova a carico dell’imputato in ordine all’eventuale protrarsi della condotta criminosa fino all’ultimo limite processuale, costituito dalla sentenza di primo grado. Cosicché, in presenza di un reato permanente, nel quale la contestazione sia stata effettuata nella forma cosiddetta “aperta” o a ” consumazione in atto”, senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la regola di “natura processuale” per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all’accusa l’onere di fornire la prova a carico dell’imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all’indicato ultimo limite processuale (Sez. 1, n. 46583 del 17/11/2005, Rv. 232966 – 01 Sez. 1, n. 37335 del 26/09/2007, Rv. 237506; conf. Sez. 1, n. 39221 del 26/02/2014 Rv. 260511, nonché, da ultimo, sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016, Rv. 267080, in cui, in motivazione, la S.C. ha precisato che il principio deve trovare rigorosa applicazione, soprattutto nelle ipotesi, quale quella di specie, in cui una successione di leggi abbia determinato effetti modificativi “in pejus” del trattamento sanzionatorio).
- In applicazione di tale principio, si afferma che, qualora in sede esecutiva, debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data di cessazione della condotta, è necessario che il giudice verifichi, alla luce della motivazione della sentenza di condanna (nella specie per associazione mafiosa), le date cui devono essere riferite in concreto ed entro le quali devono ritenersi concluse le condotte di partecipazione attribuite al condannato (Sez. 1, n. 20158 del 22/03/2017, Rv. 270118) conf. Sez. 1, n. 21928 del 17/03/2022, Rv. 283121; Sez. 1, n. 45295 del 24/10/2013, Rv. 257725 in una fattispecie in cui la Corte ha annullato l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva revocato l’indulto di cui alla n. 241 del 2006a seguito di una condanna, per un reato associativo contestato come commesso “dal 2002”, pronunciata in primo grado successivamente all’entrata in vigore dell’indulto medesimo, omettendo qualsivoglia accertamento finalizzato a verificare il momento in cui era cessata la permanenza del reato). In tal senso anche Sez. 6, n. 42543 del 15/09/2016 Rv. 268442 in tema di reato omissivo permanente, che ha affermato che la consumazione, in caso di contestazione cd. aperta, cessa con l’integrale adempimento dell’obbligo ovvero con la data di deliberazione della sentenza di primo grado, a condizione che dal giudizio emerga espressamente che l’omissione si è protratta anche dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio.
A maggior ragione non potrebbe prescindersi da tale accertamento, ai fini della affermazione di responsabilità anche per ulteriori condotte che dovessero venire in rilievo, laddove vengano in rilievo reati abituali, per cui pure occorre la dimostrazione, nel giudizio – e a prescindere dalla contestazione formale, e quindi, dalla integrazione dell’imputazione ex art. 516 cod. proc. pen – che quegli atti ulteriori si inseriscano nella sequenza causale che ha determinato uno degli eventi contestati, e tanto anche in ragione della loro mancanza di autonomia, connessa alla già ricordata connotazione strutturale del delitto abituale, quale è lo ‘stalking’, in cui rilevano singole condotte che perdono la loro individualità per confluire in una diversa configurazione giuridica in ragione della loro reiterazione fino alla realizzazione di uno degli eventi alternativamente declinati dalla fattispecie legale.
- Ora, tornando al peculiare caso in scrutinio, osserva il Collegio che il dato fattuale, costituito dalla presentazione di una nuova querela per altri fatti, che sono stati oggetto di autonoma imputazione in altro procedimento, realizza il superamento del dato meramente processuale, costituito dalla fictio juris che porta a collocare la cessazione della condotta abituale all’epoca della sentenza di primo grado; l’autonoma iniziativa processuale dell’organo dell’Accusa, che ha esercitato una diversa azione penale, ha, invero, fatto confluire le condotte successivamente denunciate dalla persona offesa in altro procedimento, con la conseguenza che esse non possono essere più ricondotte nello spettro dell’abitualità del reato di atti persecutori di cui al presente procedimento, dovendosi, piuttosto, ritenere chiusa l’imputazione alla data dell’esercizio dell’azione penale.
- Il Tribunale distrettuale ha mostrato di non fare corretta applicazione di tali principi, avendo optato – sulla base di una interpretazione meramente formale – per la rigida applicazione di un istituto che, invece, come si è visto, ha una natura processuale e si regge su una fictio che non resiste, nel caso in esame, alla prova dei fatti, i quali dimostrano, empiricamente, come il fatto contestato nel presente giudizio debba considerarsi cristallizzato, per opzione dello stesso Inquirente, alla data dell’esercizio dell’azione penale, che chiude a quel momento l’imputazione, con tutte le conseguenze che ne derivano ai fini della individuazione della legge ratione temporis applicabile, secondo le regole che presidiano la successione delle leggi penali, e dei correlati termini cautelar’.
- Il Tribunale distrettuale, nel rinnovato giudizio rescissorio, attenendosi ai principi richiamati, dovrà chiarire se si siano verificate condotte persecutorie ulteriori rispetto a quelle ab initio denunciate e confluite nell’editto accusatorio posto alla base dell’azione penale, e diverse anche da quelle confluite nell’imputazione già elevata nell’altro procedimento.
- L’esito del presente scrutinio, come premesso, è l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Bari che, nel nuovo giudizio, si atterrà ai principi richiamati, chiarendo se successivamente all’esercizio dell’azione penale si siano verificati atti persecutori non presi in considerazione in nessuno dei due giudizi già in corso.