Corte Costituzionale, sentenza 27 luglio 2023 n. 172
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con ordinanza del 23 maggio 2022 (reg. ord. n. 121 del 2022), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., censurandolo nella parte in cui non prevede, tra le cause di incompatibilità, quella del giudice che ha emesso la pronuncia di merito a decidere l’incidente di esecuzione «che contesti la correttezza delle decisioni in tale sede assunte».
Nel corso delle indagini sull’ipotesi di contravvenzione di omessa denuncia del trasferimento di armi già regolarmente detenute e di esplosione di colpi di arma da fuoco in luogo abitato, l’indagato accedeva all’oblazione, conseguendo così l’estinzione del reato. Il giudice pronunciava, quindi, decreto di archiviazione del procedimento penale, disponendo, tuttavia, contestualmente la confisca delle armi oggetto del trasferimento non denunciato. Ciò, in adesione al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’art. 6 della legge n. 152 del 1975 prevede la confisca obbligatoria per tutti i reati concernenti le armi, anche nel caso in cui questi si estinguano per oblazione.
Avverso il decreto, l’interessato proponeva incidente di esecuzione. Da un lato, contestava che la confisca fosse obbligatoria nel caso della mera omessa denuncia del trasferimento di armi, e, dall’altro, rilevava la pendenza di una questione di legittimità costituzionale tesa a censurare proprio l’automatismo della confisca anche nell’ipotesi di intervenuta oblazione. A decidere sull’incidente di esecuzione veniva chiamato lo stesso giudice-persona fisica che aveva adottato il decreto, il quale – rilevato di essere a fronte di un’istanza «sostanzialmente impugnatoria» – formulava richiesta di astensione per «gravi ragioni di convenienza». Richiesta, però, respinta dal capo dell’ufficio.
Il giudice dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen. e solleva le presenti questioni.
Ad avviso del rimettente, mentre è comprensibile che non sussista alcuna incompatibilità quando si tratti soltanto di garantire che l’esecuzione sia conforme al giudicato o quando vengano dedotte circostanze nuove, in precedenza non valutate, non potrebbe dirsi altrettanto quando l’incidente di esecuzione sia volto a contestare il merito della decisione assunta in sede di cognizione. In tal caso, emergerebbe l’esigenza di evitare che la nuova pronuncia sia o possa apparire condizionata dalla «“forza della prevenzione”», derivante dalle valutazioni precedentemente svolte dallo stesso giudice in ordine alla medesima res iudicanda: valutazioni consistite, nel caso di specie, nella motivata adesione all’orientamento giurisprudenziale che ritiene applicabile la confisca delle armi anche in caso di estinzione del reato per oblazione.
L’omissione censurata determinerebbe, così, la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., per l’«ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione e dell’esecuzione»: ove, infatti, un’identica pronuncia – ossia la dichiarazione di estinzione del reato per oblazione con confisca delle armi – fosse stata adottata dal giudice di primo grado, essa sarebbe stata impugnabile, con conseguente operatività dell’incompatibilità “verticale” prevista dall’art. 34, comma 1, cod. proc. pen. Sarebbe, inoltre, violato l’art. 111, secondo comma, Cost., per contrasto con il principio di imparzialità e terzietà del giudice.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per l’incompleta individuazione delle norme oggetto di censura. Secondo la difesa statale, infatti, i vulnera costituzionali denunciati deriverebbero non solo e non tanto dall’art. 34 cod. proc. pen. – unica norma censurata, che individua i casi di incompatibilità del giudice – quanto dall’art. 665, comma 1, cod. proc. pen., in base al quale «competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha deliberato». In tale prospettiva, anche nell’ipotesi dell’accoglimento delle doglianze, rimarrebbe in vigore la regola generale sulla competenza del giudice dell’esecuzione fissata nel citato art. 665, con la conseguenza che lo stesso intervento di questa Corte potrebbe non risultare decisivo per il raggiungimento dello scopo cui mira l’ordinanza di rimessione.
L’eccezione non merita accoglimento, per la dirimente considerazione secondo la quale il «giudice» cui fa riferimento l’art. 665, comma 1, cod. proc. pen. è l’ufficio giudiziario, non già la persona fisica.
La disposizione in parola permette – ma non impone – che il giudice dell’esecuzione si identifichi nel giudice-persona fisica che ha deliberato in sede di cognizione. La giurisprudenza di legittimità ha, in effetti, più volte ritenuto che il magistrato che ha pronunciato il provvedimento non sia incompatibile a svolgere la fase dell’esecuzione, «financo nei casi in cui nella fase esecutiva debbasi riesaminare il merito dei fatti» (ex plurimis, Cass. n. 18522 del 2017). Tale identificazione, però, non costituisce un imperativo; né potrebbe essere altrimenti, stante anche la possibilità che quel giudice-persona fisica sia stato trasferito ad altro ufficio o non appartenga più all’ordine giudiziario. Ove fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34 cod. proc. pen. nel senso auspicato dal rimettente, la perdurante presenza nel sistema dell’art. 665, comma 1, cod. proc. pen. non sarebbe, dunque, d’ostacolo alla necessaria diversità del giudice-persona fisica nel caso considerato.
3.– All’esame delle questioni va premesso che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare due principi.
In primo luogo, essa ha chiarito che con il decreto di archiviazione è possibile – e anzi doveroso – disporre la confisca di beni, quando questa sia obbligatoria, basandosi sul rilievo che la confisca obbligatoriamente prevista dall’art. 240, secondo comma, cod. pen. o da disposizioni speciali può essere disposta anche quando il procedimento si concluda con una pronuncia di proscioglimento, con le uniche eccezioni dell’assoluzione nel merito e dell’appartenenza dell’arma a persona estranea al reato. Tale possibilità viene allora riconosciuta anche ove il procedimento non pervenga alla fase del giudizio, ma termini col decreto di archiviazione (su contravvenzioni concernenti le armi, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 8-25 febbraio 2022, n. 6919 e 28 settembre-26 novembre 2021, n. 43699). Sarebbe, d’altro canto, illogico che, per potersi disporre la confisca, il pubblico ministero debba esercitare l’azione penale pure quando già risulti l’inutilità del dibattimento.
In secondo luogo, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che il decreto di archiviazione con cui sia stata disposta la confisca non è impugnabile (neppure con ricorso per cassazione), ma è soggetto esclusivamente al rimedio dell’incidente di esecuzione davanti al giudice che lo ha emesso (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 8 febbraio-11 maggio 2022, n. 18535 e 15 novembre 2019-13 gennaio 2020, n. 842). L’incidente di esecuzione è, infatti, in linea generale, lo schema procedimentale utilizzato per risolvere questioni che insorgono nella fase di esecuzione di un provvedimento giurisdizionale, tra cui quelle relative alla confisca, ai sensi dell’art. 676 cod. proc. pen.
4.– È necessario, altresì, rammentare che la disciplina sull’incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento trova la sua ratio nella salvaguardia dei valori della terzietà e imparzialità del giudice, mirando a escludere che questi possa pronunciarsi condizionato dalla “forza della prevenzione”, cioè dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001). L’imparzialità del giudice richiede, infatti, che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto “terzo”, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi (sentenza n. 155 del 1996).
4.1.– L’art. 34 cod. proc. pen. prevede due distinte ipotesi di incompatibilità del giudice derivante da atti compiuti nel procedimento, in veste di organo giudicante.
Il comma 1 contempla la cosiddetta incompatibilità “verticale”, determinata dall’articolazione dei diversi gradi di giudizio. Essa salvaguarda la stessa effettività del sistema delle impugnazioni, le quali rinvengono la loro ratio di garanzia nell’alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla. Testualmente, la disposizione limita, peraltro, l’incompatibilità “verticale” – sia essa di tipo “ascendente” (gradi successivi) o “discendente” (giudizio di rinvio dopo l’annullamento) – al giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare «sentenza».
Il successivo comma 2 disciplina, invece, la cosiddetta incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede. Tale disposizione è costruita secondo la tecnica della casistica tassativa: «[n]on può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere». Essa è stata colpita, nel corso del tempo, da numerose declaratorie di illegittimità costituzionale di tipo additivo, che hanno esteso le ipotesi di operatività dell’istituto.
4.2.– Anche di recente – nelle sentenze n. 91 del 2023, n. 64 e n. 16 del 2022 – questa Corte ha ribadito che, per ritenersi sussistente l’incompatibilità endoprocessuale del giudice, devono concorrere le seguenti condizioni. Occorre, cioè, che: a) le preesistenti valutazioni cadano sulla medesima res iudicanda; b) il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione (e non abbia avuto semplice conoscenza) di atti anteriormente compiuti, strumentale all’assunzione di una decisione; c) quest’ultima abbia natura non “formale”, ma “di contenuto”, ovvero comporti valutazioni sul merito dell’ipotesi di accusa; d) la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.
A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza costituzionale è costante, a partire almeno dal 1996, nel ritenere «del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva –, resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999)» (sentenze n. 64 del 2022 e, nello stesso senso, n. 91 del 2023). In questi casi, «il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito […]» (sentenza n. 177 del 1996).
5.– Orbene, non ostante il giudice a quo non lo specifichi, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione si desume che oggetto delle censure è la disciplina dell’art. 34, comma 1, cod. proc. pen. Le doglianze sono difatti basate sull’asserita natura «sostanzialmente impugnatoria» dell’incidente di esecuzione nel caso di specie.
Ciò posto, le questioni non sono fondate.
5.1.– Va in proposito ricordato che questa Corte, con due pronunce, ha esteso il regime dell’incompatibilità “verticale” all’ipotesi dell’annullamento con rinvio, da parte della Corte di cassazione, di taluni provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione nella forma dell’ordinanza: si tratta, in specie, di quelli relativi all’applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale di reati e del reato continuato (sentenza n. 183 del 2013) e alla rideterminazione della pena a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio (sentenza n. 7 del 2022, diffusamente richiamata dal rimettente).
Questa Corte, in ambo i casi, ha rilevato che, sebbene nell’ambito di un procedimento di esecuzione, il giudice è chiamato a una valutazione che travalica la stretta esecuzione del provvedimento e attinge, in via eccezionale, il livello della cognizione; è per tale ragione che il giudice dell’esecuzione che ha pronunciato l’ordinanza annullata con rinvio non dovrà decidere un’altra volta sulla medesima res iudicanda. Il giudice dell’esecuzione si trovava, infatti, investito di «frammenti di cognizione» inseriti nella fase esecutiva, essendo chiamato ad effettuare, con effetti di modifica del giudicato, accertamenti attinenti al merito delle imputazioni e che implicavano una valutazione del materiale probatorio. Di là dalla forma assunta dalla decisione – quella appunto dell’ordinanza – ove la stessa fosse stata annullata con rinvio dalla Corte di legittimità, emergeva quindi l’esigenza di rendere il giudice del rinvio immune dalla “forza della prevenzione”, allo stesso modo che se analoga decisione fosse stata presa con sentenza dal giudice della cognizione.
5.2.– Le questioni ora all’esame riguardano un caso significativamente diverso.
Il provvedimento al quale il giudice a quo intenderebbe annettere efficacia “pregiudicante” è qui rappresentato da un decreto di archiviazione, provvedimento privo del carattere della definitività e inidoneo alla formazione del giudicato. Si tratta, in specie, di un decreto di archiviazione emesso de plano, con cui il giudice per le indagini preliminari ha disposto la confisca di beni senza alcun vaglio sul merito dell’accusa, ma sulla base del mero riscontro della natura obbligatoria della confisca in rapporto ai reati per i quali era stato avviato il procedimento penale.
Come affermato dalla Corte di cassazione, in casi come questo l’incidente di esecuzione ha essenzialmente lo scopo di garantire che possa instaurarsi il contraddittorio tra le parti, offrendo una sede processuale adeguata, «a fronte della “fluidità” e della provvisorietà che caratterizzano i provvedimenti di archiviazione, per contestare la possibilità di disporre la confisca obbligatoria» (così, Cass., n. 18535 del 2022).
Sulle materie indicate dall’art. 676 cod. proc. pen., tra cui la confisca, il giudice dell’esecuzione procede secondo lo schema previsto dall’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.: provvede, cioè, con ordinanza emessa de plano – «senza formalità» – contro cui il pubblico ministero e l’interessato possono proporre opposizione davanti allo stesso giudice, che si svolge nelle forme della camera di consiglio “partecipata” prevista dall’art. 666 cod. proc. pen.
La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente escluso che il giudice che ha adottato il provvedimento de plano sia incompatibile a pronunciarsi sull’opposizione, e ciò in quanto l’opposizione non ha natura di mezzo di impugnazione, ma consiste in un’istanza volta ad ottenere una decisione nel contraddittorio tra le parti (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 febbraio-19 giugno 2017, n. 30638; Cass., n. 18522 del 2017; Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 17 marzo-5 maggio 2016, n. 18872).
Di là da ogni considerazione “nominalistica”, va ravvisato come il caso in esame sia strutturalmente identico: il giudice a quo ha disposto la confisca con provvedimento de plano – sia pure in veste di giudice della cognizione, anziché dell’esecuzione – e l’incidente di esecuzione ha lo scopo di provocare una decisione preceduta dal confronto in contraddittorio.
Non coglie, perciò, nel segno, la prospettazione del giudice rimettente, che denuncia la valenza impugnatoria dell’opposizione al decreto d’archiviazione che ha disposto la confisca delle armi. Non s’intravvede, dunque, la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., poiché non possono effettuarsi assimilazioni con il normale operare dell’incompatibilità nell’articolazione fra i gradi del processo.
Si tratta, piuttosto, di una sequenza procedimentale in cui è ammesso il contraddittorio differito ed eventuale, a istanza di parte: sequenza che questa Corte ha specificamente riconosciuto compatibile con i principi del giusto processo (in tal senso, di recente, sentenza n. 74 del 2022). Il rispetto del principio del contraddittorio, d’altro canto, «non impone che esso si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e neppure sempre e necessariamente nella fase iniziale dello stesso, onde non sono in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. i modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito: “i quali, cioè, in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza, adottino lo schema della decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum” (tra le molte, sentenza n. 115 del 2001 e ordinanze n. 291 del 2005, n. 352, n. 172 e n. 8 del 2003)» (ordinanza n. 255 del 2009; più recentemente, sentenza n. 91 del 2023).
5.3.– Tra l’altro, nell’ambito dell’incidente d’esecuzione potrà essere svolta quella verifica, non espletata in sede di archiviazione, circa la responsabilità dell’indagato per il fatto illecito che, secondo quanto affermato dalla sentenza n. 5 del 2023, sopravvenuta alla proposizione delle odierne questioni, si rende necessaria per disporre la confisca obbligatoria delle armi anche quando il reato sia estinto per oblazione. Questa Corte ha, infatti, ritenuto non incompatibile con la Costituzione l’applicabilità della confisca nelle ipotesi in cui la contravvenzione in materia di armi sia estinta per oblazione, precisando, tuttavia, che tale applicazione non è automatica. La citata sentenza n. 5 del 2023 ha affermato che il giudice, investito nella fase dibattimentale di una richiesta di oblazione ai sensi dell’art. 162-bis cod. pen., deve accertare, «nel contraddittorio tra le parti, la sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’applicazione: e dunque l’effettiva commissione del fatto di reato da parte dell’imputato, in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, tenendo conto delle eventuali allegazioni difensive dell’imputato stesso. Di tutto ciò dovrà essere dato conto nella motivazione della sentenza di cui all’art. 141, comma 4, norme att. cod. proc. pen.».
6.– Alla luce di tali considerazioni, le questioni sono non fondate.