Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 17 febbraio 2022, n. 5741
PRINCIPIO DI DIRITTO
La Suprema Corte chiarisce che il sopravvenuto giudicato penale di assoluzione non comporta automaticamente la revocazione (o revoca) della confisca di prevenzione.
Benché, infatti, il giudice della prevenzione non possa ignorare la decisione del giudice penale che ha già esaminato quegli stessi fatti sulla base dei quali è chiesta la misura di prevenzione, la decisione penale interferisce (ex post) sull’esito del giudizio di prevenzione soltanto qualora risulti pienamente accertata, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti-reato alla luce dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca.
Pertanto, negli altri casi, i fatti ritenuti insufficienti per una condanna penale ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità, tenuto conto dell’autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello penale, poiché nel primo – a differenza del secondo – l’oggetto di accertamento è il fatto della disponibilità del bene inciso in capo al proposto, che si presume iuris tantum nell’ambito dei rapporti familiari.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
Il ricorso è infondato.
Va premesso che l’odierna ricorrente – terza avente causa a titolo di liberalità dalla madre A.F., coniuge del proposto, originaria acquirente del bene inciso dalla misura ablativa ed assolta dalle imputazioni sub LL), MM) e NN) nel procedimento penale definito con sentenza della Corte d’appello di Napoli citata – deduce contrasto tra il giudicato liberatorio ed il decreto irrevocabile di confisca per essere stata la medesima A.F. assolta dal reato di cui all’art. 12- quinquies della legge n. 356 del 1992, prospettando l’identità del fatto accertato nei diversi procedimenti, ed invocando l’applicazione dei principi espressi da Sez. 1, n. 36301 del 03/06/2015, Di Somma, Rv. 264568.
Al fine della soluzione della questione controversa è, pertanto, necessario preliminarmente delimitare il fatto, di cui si assume l’identità, e verificarne l’inferenza logica nei diversi procedimenti, definiti, in tempi diversi, con epiloghi decisori di segno opposto.
Sul punto, va rilevato come – incontestata la pericolosità qualificata del proposto, G.A., e la perimetrazione temporale della stessa rispetto all’epoca dell’originario acquisto della coniuge A.F. – a quest’ultima non era (non poteva ratione temporis) essere contestato, nel procedimento penale, il reato di cui all’art. 12-quinquies della legge n. 356 del 1992, bensì condotte di intermediazione nell’illecita accumulazione di ricchezza, prodotta dal proposto, irrevocabilmente condannato – anche nel processo penale indicato – per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per connessi reati-fine,
L’assoluzione della A.F. dalle imputazioni sub LL), MM) e NN) è stata fondata sulla mancata dimostrazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, della indisponibilità di fonti autonome e lecite, proporzionate all’acquisto dell’unità immobiliare sita in [omissis]; e da tale deficit dimostrativo si è ritratta – nelle conformi sentenze di assoluzione – la mancanza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 12-quinquies della legge n. 356 del 1992, invece ascritto all’odierna ricorrente, nella qualità di avente causa per donazione del medesimo bene immobile.
Dalle decisioni emesse in sede penale risulta, dunque, la mancata dimostrazione dell’intermediazione della A.F. nel reimpiego delle illecite risorse percepite dal proposto, e non già la prova, in positivo, della liceità dell’acquisto per essere stato finanziato attraverso proventi, lecitamente percepiti in proprio dalla medesima acquirente A.F., nel 1982, con autonome fonti di reddito.
Nel giudizio di prevenzione, invece, oggetto di accertamento è il – diverso – fatto della disponibilità del bene inciso in capo al proposto; disponibilità che, come noto, si presume nell’ambito dei rapporti familiari e, a fortiori, in presenza di intestazioni formali derivanti da negozi traslativi non onerosi, che non consentono al beneficiario la dimostrazione di un acquisto effettivo, sostenuto da risorse proprie, atto a superare la presunzione di disponibilità mediata.
Ed invero, prosegue la Corte, «in materia di misure di prevenzione patrimoniali, il sequestro e la confisca possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi ritenere la sussistenza di una presunzione di “disponibilità” di tali beni da parte del prevenuto – senza necessità di specifici accertamenti – in assenza di elementi contrari (Sez. 5, n. 8922 del 26/10/2015, dep. 2016, Poli, Rv. 266142) e, ancora, «in tema di sequestro e confisca di prevenzione, il rapporto esistente tra il proposto e il coniuge, i figli e gli altri conviventi costituisce, pur al di fuori dei casi delle specifiche presunzioni di cui all’art. 2-ter, comma 13, legge n. 575 del 1965 (ora art. 26, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011), circostanza di fatto significativa della fittizietà della intestazione di beni dei quali il proposto non può dimostrare la lecita provenienza, quando il terzo familiare convivente, che risulta finalmente titolare dei cespiti, è sprovvisto di effettiva capacità economica» (Sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, Cristofaro, Rv. 271222).
Il che vale a definire il fatto oggetto del procedimento di prevenzione – assistito da presunzioni vincibili solo mediante adempimento dell’onere di contraria dimostrazione, incombente sul terzo che opponga diritti propri – in termini di disponibilità del bene in capo al proposto.
Così delineato il fatto, oggetto di accertamento nei diversi procedimenti penale e di prevenzione, va ulteriormente rilevato come, nel caso in esame ed in presenza di un acquisto a titolo di liberalità della terza A.A., il positivo onere di dimostrazione della liceità dell’acquisto deve, necessariamente, retroagire all’originaria acquisizione del cespite in capo alla donante A.F., sì da vincere la presunzione di disponibilità ab origine del medesimo bene da parte del proposto, G.A.; e siffatto onere non è stato – come risulta dai conformi provvedimenti emessi in sede di prevenzione – adempiuto, non avendo la medesima A. F. documentato la percezione di adeguati redditi, atti a sostenere, nell’anno 1983, il pagamento del prezzo della compravendita immobiliare ed a superare la predetta presunzione.
Secondo la Corte, si tratta, allora, di verificare l’impatto sulla statuizione di confisca irrevocabile del giudicato assolutorio successivamente consolidatosi sulle imputazioni rispettivamente ascritte alla terza ricorrente e alla dante causa A.F.
Una valutazione, questa, da condursi entro le rime obbligate del rimedio azionato, atteso che la revoca “ex tunc“, a norma dell’art. 7, comma secondo, I. 27 dicembre 1956, n. 1423, del provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, I. 31 maggio 1975, n. 575, resta un’impugnazione straordinaria, incompatibile con il mero riesame degli stessi elementi fattuali che hanno portato a disporre la confisca, anche dopo l’introduzione dell’art. 28 del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che prevede casi e modalità tassativi di revocazione della misura (Sez. 2, n. 4312 del 13/01/2012, Penna, Rv. 251811), ed alla luce del concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili elaborato in riferimento all’art. 630, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., che deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, e non già alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni; ne consegue che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere, a pena di inammissibilità, tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve esser prosciolto e, pertanto, non possono consistere nel mero rilievo di un contrasto di principio tra due sentenze che abbiano a fondamento gli stessi fatti (ex multis Sez. 1, n. 8419 del 14/10/2016, dep. 2017, Mortola, Rv. 269757).
Delineata, nei termini predetti, la diversa declinazione del fatto, scrutinato nei diversi procedimenti, s’appalesa infondata la deduzione della terza ricorrente, laddove prospetta l’ontologica inconciliabilità dei fatti accertati nei diversi provvedimenti irrevocabili.
Fermo restando che l’impugnazione del terzo, anche in relazione ai rimedi straordinari, non può che prospettare l’effettiva proprietà del bene (e, quindi, il superamento della presunzione di disponibilità del medesimo in capo al proposto), essendo egli del tutto estraneo ed indifferente alle questioni giuridiche che riguardano il solo proposto (Sez. 5, n. 333 del 20/11/2020, dep. 2021, Icardi, Rv. 280249), e che nel caso all’odierno vaglio il tema investe – stante le peculiarità del titolo di acquisto di A.A. – retrospettivamente l’acquisto della donante A.F., va rilevato come quest’ultima non sia stata, nel processo penale, assolta dal reato di riciclaggio per aver dimostrato la liceità dell’acquisto, ma per non essere stata provato l’impiego delle illecite risorse del coniuge proposto.
Trova, allora, applicazione il consolidato orientamento di legittimità, secondo cui, in tema di confisca di prevenzione, il sopravvenuto giudicato penale di assoluzione non integra automaticamente la causa di revocazione di cui all’art. 28, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n.159, con la conseguenza che la misura può essere revocata solo ed esclusivamente se il processo penale abbia accertato, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca (Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, SIMPLY SOC. COOP., Rv. 277225; N. 13638 del 2019 Rv. 275244, N. 15650 del 2019 Rv. 275778), ovvero che il terzo abbia acquistato a titolo lecito autonomo il bene.
Siffatto principio, enunciato in relazione alla revocazione ma del tutto estensibile alle ipotesi di revoca, ex art. 7, comma secondo, I. 27 dicembre 1956, n. 1423, del provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, I. 31 maggio 1975, n. 575, stante l’eadem ratio dei rimedi impugnatori, fondati sulla trasposizione, in subjecta materia, delle regole della revisione del giudicato di condanna, non trascura di considerare la permeabilità del giudicato penale nelle statuizioni rese in sede di prevenzione, ma ne specifica l’impatto in relazione al tema oggetto dell’odierno ricorso.
Nella sentenza citata si è, difatti, osservato come le ipotesi di interferenza probatoria che la prassi può evidenziare siano, essenzialmente, di due tipi:
1) materiale probatorio prodotto nell’ambito del giudizio di prevenzione, derivante da processi penali già conclusisi;
2) materiale probatorio acquisito dal Pubblico Ministero a seguito di indagini:
2.1) ma non sottoposto al vaglio del giudice penale;
2.2) sottoposto al vaglio di un giudizio penale in corso.
E si è rilevato come, nella prima ipotesi, «se pure è vero che il processo di prevenzione è indipendente da quello penale, è, però, del tutto intuitivo che il giudice della prevenzione non può ignorare la decisione del giudice penale che ha già esaminato quegli stessi fatti sulla base dei quali è chiesta la misura di prevenzione».
Se il processo penale si sia concluso con la condanna dell’imputato, è pacifico che quei fatti-reati possano essere posti a fondamento anche di un giudizio di pericolosità sociale, sempre che ne sussistano le condizioni, e, nel caso di confisca, sussista anche la correlazione temporale fra l’attività delittuosa e l’incremento che si intende neutralizzare: «l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare» (Corte Cost. n. 24 del 2019).
In caso di proscioglimento dell’imputato, invece, se il processo si è concluso con l’assoluzione piena (nel merito) dell’imputato, e la misura di prevenzione viene richiesta sulla base di quello stesso materiale probatorio, la giurisprudenza di questa Corte, fin da epoca risalente, ha statuito che «benché non sussista rapporto di pregiudizialità tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, tuttavia, ove nel corso di quest’ultimo intervenga, nei confronti del prevenuto, una sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso, il giudice della prevenzione deve tenerne conto, per l’effetto del giudicato penale in tutti gli altri giudizi, sempre che il fatto sia identico e che non sussistano altri elementi, diversi da quelli valutati dal giudice penale, sui quali fondare un autonomo giudizio di pericolosità sociale» (ex plurimis: Sez. 1, n. 43826/2018, Rv 273976);
Se, invece, il processo si è concluso con il proscioglimento dell’imputato per motivi diversi dall’assoluzione nel merito, ove i fatti-reato siano accertati (ad es. mancanza o remissione di querela per reati di truffa o di appropriazione indebita; intervenuta prescrizione, amnistia), non vi è dubbio che il giudice della prevenzione possa utilizzare quegli stessi fatti, dare ad essi una qualificazione (incidentale) giuridica sussumendoli nell’ambito di fattispecie penalmente rilevanti e pronunciare, quindi, un giudizio di pericolosità.
A tale ultima ipotesi è stata ricondotta l’assoluzione pronunciata ex art. 530, comma 2 cod. proc. pen., oppure perché la prova (ad es. intercettazioni) sia stata ritenuta inutilizzabile, proprio perché quei fatti – ove accertati nella loro oggettività – ritenuti non sufficienti (nel merito o per preclusioni processuali) per una condanna penale ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità (n. 31549 del 2019, Rv. 277225, cit.).
Il giudizio di prevenzione può, tuttavia, essere promosso anche ove, a carico del proposto, non sia mai stato proposto un giudizio penale (ad es. perché la notitia criminis, è stata archiviata; perché l’indagato è deceduto; perché le prove raccolte non furono ritenute sufficienti a sostenere un’accusa penale; perché l’azione penale era già paralizzata, al momento della conoscenza della notitia criminis, da una causa di estinzione o di improcedibilità) e, in tali casi, il giudice della prevenzione, dopo avere ritenuto – sia pure incidentalmente – la valenza penale di quelle condotte (e, quindi, dopo averle sussunte entro precise fattispecie penali), deve valutare – senza i limiti stringenti della prova penale – se quelle condotte siano sintomatiche della pericolosità sociale del proposto e, quindi, se sussistano congiuntamente tutti i requisiti previsti dall’art. 1/1 lett. b) d. lgs. cit., dandone conto nella motivazione (in terminis Sez. 1, 31209/2015, Rv 264320).
E la stessa situazione, mutatis mutandis, si verifica nel caso in cui sia contemporaneamente pendente il giudizio penale: in tale ipotesi, stante l’autonomia dei due giudizi, il giudice della prevenzione, può autonomamente stabilire se quei fatti abbiano una rilevanza penale e, quindi, decidere sulla pericolosità del proposto (in terminis, Sez. 1, n. 6636/2016, Rv 266364).
Siffatto assetto – parallelo ed autonomo al giudizio penale – ha trovato preciso riscontro nell’art. 28 d.lgs. 6 settembre 2011, n.159.
La suddetta norma ha previsto la revocazione della confisca “solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura” in una delle seguenti tre ipotesi:
- a) in caso di scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento;
- b) quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca;
- c) quando la decisione sulla confisca sia stata motivata, unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato.
Un confronto con il parallelo istituto della revisione penale di cui all’art. 630 cod. proc. pen., evidenzia come le uniche ipotesi coincidenti fra i due istituti siano quelle (marginali) della scoperta di nuove prove (art. 28 lett. a; art 630 lett. c) e delle falsità che abbiano condizionato il giudizio (art. 28 lett. c; art. 630 lett. d).
Diversa è, invece, l’ipotesi del contrasto di giudicati. Nella revisione, l’evenienza del contrasto di giudicati è prevista e disciplinata nelle lett. a) e b); l’art. 28 d. lgs. cit., invece, stabilisce che la confisca possa essere revocata solo «quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca».
Ne discende che la sentenza penale (quand’anche di assoluzione) non comporta automaticamente la revocazione della confisca, e che la medesima misura ablativa può essere revocata solo ed esclusivamente se i fatti accertati con sentenza penale definitiva escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione.
La legge, invero, pone l’accento non sull’esito (assolutorio) ex se del giudizio penale, ma sull’accertamento di fatti che escludano “in modo assoluto” (non, quindi, in modo “dubitativo”) i presupposti della confisca.
Il che è come dire che il giudicato penale interferisce – ex post – sull’esito del giudizio di prevenzione solo e solamente se risulti pienamente accertata, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti-reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca.
All’esito di siffatta lettura è stato, quindi, reputato che resta esclusa dall’area di operatività della revocazione quella “zona grigia” costituita da quei fatti che, benché inidonei alla condanna in sede penale, tuttavia, continuano ad avere una valenza positiva ai fini del giudizio di prevenzione e, pertanto, non sono sufficienti ad un provvedimento di revocazione della confisca.
Si è, pertanto, ribadito che, in materia di misure di prevenzione, il sopravvenuto giudicato penale di assoluzione non integra automaticamente la causa di revocazione di cui all’art. 28, comma 1, lett. b), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, attesa l’autonomia del giudizio di prevenzione da quello penale, con la conseguenza che la misura di prevenzione può essere revocata solo ed esclusivamente se il processo penale abbia accertato, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti-reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca. Siffatti principi, affermati in relazione all’istituto della revocazione di cui all’art. 28 d.lgs. 6 settembre 2011, n.159, trovano applicazione anche in relazione alla revoca ex art. 7, comma secondo, I. 27 dicembre 1956, n. 1423, del provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, I. 31 maggio 1975, n. 575.
Come noto, infatti, il decreto legislativo citato ha, sul punto, normativizzato il rimedio riparatorio, già riconosciuto dalla giurisprudenza e conformato alla revisione della sentenza di condanna in attuazione del disposto di cui all’art. 24 Cost., non espressamente previsto nel sistema delineato dalla previgente I. 27 dicembre 1956, n. 1423, applicabile ratione temporis ai fatti commessi nella sua vigenza.
Deve essere, pertanto, qui affermato come in materia di misure di prevenzione, il sopravvenuto giudicato penale di assoluzione non integra automaticamente la causa di revoca di cui all’art. art. 7, comma secondo, I. 27 dicembre 1956, n. 1423, del provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, I. 31 maggio 1975, n. 575, attesa l’autonomia del giudizio di prevenzione da quello penale, con la conseguenza che la misura di prevenzione può essere revocata solo ed esclusivamente se il processo penale abbia accertato, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti-reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca».
Il diverso piano su cui si sviluppa il rapporto tra giudizio di cognizione e procedimento di prevenzione rende ragione della diversa declinazione dell’interferenza della statuizione liberatoria nelle ipotesi di confisca ex art. 240-bis cod. pen. (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Aieta, Rv. 281463).
Il principio enunciato, calato nel caso all’odierno vaglio di questa Corte, rende inconferente il richiamo al precedente reiteratamente evocato dalla difesa. Sez. 1, n. 36301 del 03/06/2015, Di Somma, Rv. 264568 ha, effettivamente, affermato come, in materia di misure di prevenzione patrimoniali, non può essere disposta la confisca nell’ipotesi di sentenza irrevocabile di assoluzione, perché il fatto non sussiste, dal reato di cui all’art. 12 quinquies, D.L. n. 306 del 1992 (conv. in I. n. 356 del 1992), trattandosi di una pronuncia che esclude la fittizietà dell’intestazione e sancisce la sostanziale disponibilità del bene in capo al titolare apparente.
La disamina della sentenza richiamata, tuttavia, non contraddice – ed anzi conferma – le superiori valutazioni.
Nell’affermare che non può essere disposta la confisca di prevenzione, quando, in sede di giudizio di cognizione, sia stata accertata, con pronuncia irrevocabile, l’insussistenza degli elementi costitutivi del delitto previsto dall’art. 12- quinquies I. n. 356 del 1992, la Prima sezione ha valorizzato argomenti di tipo logico-sistematico, correlati alla struttura del delitto previsto dall’art. 12-quinquies I. n. 356 del 1992 (la condotta, concretantesi nella creazione di una situazione di apparenza formale della titolarità di un bene, difforme dalla realtà sostanziale, e nel mantenimento consapevole e volontario di tale situazione connota l’elemento soggettivo (dolo specifico), individuato dalla disposizione in esame nella coscienza e volontà di eludere le disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali ovvero di agevolare la commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego), reputando come «l’accertamento definitivo in ordine ai suddetti elementi costitutivi del reato intervenuto in sede di cognizione con decisione irrevocabile comprende, all’evidenza, aspetti più ampi, completi ed assorbenti rispetto a quelli rilevanti nel procedimento di prevenzione nel cui ambito devono essere tenuti distinti due profili:
- a) l’accertamento del fatto materiale (intestazione fittizia del bene), coincidente con quello posto a base della misura di prevenzione patrimoniale;
- b) l’ambito di operatività della presunzione di fittizietà che stabilisce un’inversione ex lege dell’onere della prova circa una titolarità effettiva e non fittizia (al prossimo congiunto del proposto) dei beni assoggettati o assoggettabili al sequestro di prevenzione in materia di intestazioni o trasferimenti (a qualsiasi titolo) di beni a prossimi congiunti (cfr. ex plurimis Sez. 6, n. 49878 del 6/12/2013)».
Ed ha concluso, con specifico riferimento al caso disaminato e senza che da alcuna parte della motivazione risulti un’affermazione generalizzata del principio, che «L’intervenuta esclusione con ampia formula (nel caso in esame perché il fatto non sussiste) della condotta di fittizia intestazione in sede di giudizio di cognizione definito con sentenza irrevocabile comprende, invero, il medesimo fatto materiale posto a fondamento anche della misura di prevenzione patrimoniale e, avendo carattere logicamente preliminare ed assorbente, preclude, con riferimento alla clausola processuale di presunzione, qualsiasi ulteriore onere di allegazione probatoria della parte.
In presenza di una sentenza irrevocabile di assoluzione dal reato di cui all’art. 12-quinqies I. n. 356 del 1992 che esclude la fittizietà dell’intestazione e sancisce la sostanziale disponibilità del bene in capo al titolare apparente sarebbe contrario a criteri di coerenza e di razionalità gravare, in sede di prevenzione, il formale intestatario di un ulteriore onere probatorio in ordine a circostanze già acclarate dal giudicato penale.
Ove si richiedesse tale probatio diabolica, si finirebbe, da un lato, per svilire il significato dell’accertamento penale, svolto nel contraddittorio fra le parti e con pienezza di garanzie difensive per tutte le parti, si verrebbe a creare una sorta di impropria e non consentita sovraordinazione del procedimento di prevenzione rispetto a quello di cognizione, si determinerebbe una presunzione di fittizietà dell’intestazione del bene di fatto insuperabile, in palese contrasto con la previsione normativa».
Il costrutto motivazionale riportato […] trova una sua plausibile spiegazione nella positiva esclusione della fittizietà dell’intestazione, e non già nel difetto di prova della medesima.
A tanto aggiungasi come, nel caso in esame, l’assoluzione di A. A. dal reato di intestazione fittizia sia stata l’inevitabile conseguenza della frammentarietà della contestazione, elevata solo a suo carico, e, essenzialmente, del fallimento della prova d’accusa dell’impiego di risorse illecite e non già della positiva dimostrazione – rimasta inevasa anche in sede di prevenzione – dell’acquisto originario con lecita provvista finanziaria e, pertanto, della riconducibilità – effettiva, esclusiva e trasmessa mediante l’atto di liberalità – del bene inciso a familiari conviventi del proposto.
Nella delineata prospettiva, va peraltro osservato come lo spazio di illiceità delineato dall’art. 12 -quinquies I. n. 356 del 1992 in relazione a manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, si connota per il fine perseguito dall’agente, individuato alternativamente nell’elusione delle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali, ovvero nell’agevolazione nella commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego.
Sotto tale profilo, la disposizione in esame consente di perseguire penalmente anche i fatti di “auto” ricettazione, riciclaggio, reimpiego, che non sarebbero altrimenti punibili per la clausola di riserva presente negli artt. 648-bis e 648-ter, che ne esclude l’applicabilità agli autori dei reati presupposti (Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino, Rv. 251193).
Ne consegue che la stessa formulazione della contestazione, elevata esclusivamente a carico di A.A. nel procedimento penale quale intestataria finale del bene immobile, oltre ad essere – come osservato nella sentenza di assoluzione – dipendente dalle imputazioni ascritte ai familiari coimputati, non risolve ex se il tema presupposto della riferibilità del bene al proposto, indagato nel procedimento di prevenzione già iniziato e, pertanto, anche temporalmente indipendente dalle successive contestazioni in sede penale.
Così ricostruiti i termini dell’accertamento reso in sede penale, non colgono nel segno le censure difensive che, nell’assumere l’idem factum, ne propongono una comparazione in astratto, che trascura in toto di disaminare il concreto atteggiarsi della specifica vicenda, il costrutto motivazionale delle conformi sentenze liberatorie ed il diverso tema della prova esplorato in sede penale ed in sede di prevenzione, dove è incontestato che la A.F. – peraltro rimasta estranea al procedimento di revoca – non abbia comprovato lecite disponibilità finanziarie, personali e familiari, congrue per l’acquisto del bene, successivamente donato all’odierna ricorrente.
Insussistente si rivela, pertanto, la dedotta violazione della legge processuale, non vedendosi in ipotesi di accertamento, nel merito, in sede penale dell’assoluta estraneità del proposto ai fatti-reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca, né della liceità dell’acquisto della A.F.
Il ricorso è, peraltro, sul punto generico, assumendo un’equiparazione delle formule liberatorie declinate dall’art. 530 cod. proc. pen. che non si confronta con l’autonomia del procedimento di prevenzione che si assume in contrasto, e non specificando, altresì, in alcun segmento dell’argomentazione la natura degli addebiti analiticamente ascritti, nel procedimento penale, a G.A. e ad A.F., né l’epilogo decisorio complessivo della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Napoli nei confronti dei predetti.
Nella delineata prospettiva, generica s’appalesa anche la valorizzazione della formula liberatoria adottata nelle sentenze di merito, nella misura in cui si postula la portata completamente liberatoria del giudicato assolutorio.
Se è vero che la giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814; Sez. Un., n. 37954 del 25/05/2011, Orlando) ha affermato che, per quanto concerne la formula assolutoria da utilizzare, la regola di giudizio contenuta nell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen. impone l’adozione della formula “perché il fatto non sussiste” sia nel caso che sia stata raggiunta la prova positiva della insussistenza del fatto, sia anche nel caso di mancanza, o di insufficienza o di contraddittorietà della relativa prova, dal momento che la diversa entità della prova non può riverberarsi sulla formula assolutoria da utilizzare, nondimeno il costrutto argomentativo posto a fondamento della pronuncia di assoluzione non è privo di conseguenze nello scrutinio del peculiari rapporti tra esito del procedimento penale e statuizioni di prevenzione, ut supra segnalati.
In alcun punto del ricorso, inoltre, la ricorrente specifica le ragioni poste a sostegno della confisca, sì da correlarle alle statuizioni rese in sede penale di cui assume l’ontologica incompatibilità.
La confisca di prevenzione ex art. 2-ter, comma 3, I. n. 575 del 1965 e successive modifiche è (era), invero, disposta quando il soggetto, indiziato dei reati indicati nell’art. 1 della medesima legge, non possa giustificare la legittima provenienza di beni di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità, a qualsiasi titolo, in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego; e la ricorrente non specifica a quale delle due ipotesi, alternativamente declinate, la misura ablatoria si riferisca, precludendo anche sotto tale profilo a questa Corte di delibare la decisività della questione posta con l’odierno ricorso.
Nel resto, di aspecificità si connotano le censure rivolte all’iter giustificativo rappresentato nel decreto impugnato, tanto nella parte in cui evidenziano l’identità della piattaforma dimostrativa disponibile nei diversi procedimenti, invece asseritamente ignorata nel decreto impugnato, senza trarne le conseguenti implicazioni in punto di distribuzione dell’onere della prova; che nel tratto in cui si contestano le conclusioni raggiunte in sede di prevenzione riguardo l’accertata sproporzione, ancora contestate mediante il ricorso alla motivazione resa in sede penale conformata, all’evidenza, sul diverso standard dimostrativo del ragionevole dubbio; aspecificità che si rivela vieppiù laddove la ricorrente non contesta il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sulla A.F. in sede di prevenzione, prospettandone una sorta di compensazione con l’analoga soccombenza del pubblico ministero nel processo penale, in tal modo rimarcando, ancora una volta, il diverso ambito delle regulae juris di riferimento.
L’evidenziata asimmetria tra il fatto delibato in sede di prevenzione e l’oggetto dell’accertamento penale esclude, infine, ogni portata demolitoria delle censure rivolte al riferimento, contenuto nel decreto impugnato, ai principi espressi da Sez. 1, n. 27147 del 11/03/2016, Costa, Rv. 267057, richiamata al fine di sottolineare, ad abundantiam, il limite della preclusione derivante dal ne bis in idem, che postula l’identità del fatto, nel caso in esame reputata, invece, insussistente.
Il ricorso è, pertanto, infondato. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen.