Corte Costituzionale, sentenza 20 ottobre 2022 n. 215
Va dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-ter, della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), sollevate, in riferimento agli artt. 36 e 97, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice onorario di pace di Catanzaro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Considerato che il Giudice onorario di pace di Catanzaro solleva, in riferimento agli artt. 36 e 97 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-ter, della legge n. 374 del 1991, istitutiva del giudice di pace, applicabile ratione temporis, nella parte in cui stabilisce che il compenso spettante a questa categoria di magistrati onorari non può superare la somma di euro 72.000 lordi annui;
che, nel giudizio principale, un altro giudice onorario di pace, il quale esercita le funzioni nella sede di Reggio Calabria, ha convenuto in giudizio l’amministrazione della giustizia, chiedendone la condanna al pagamento di una somma pari alla decurtazione dell’indennità spettante per il mese di dicembre 2016, operata d’ufficio in misura tale da ricondurre il complessivo importo annuo al di sotto del limite di 72.000 euro lordi;
che, a tal fine, dagli emolumenti maturati per il mese di dicembre 2016 sarebbero state escluse le indennità spettanti per venti sentenze «depositate nell’ultima decade», che resterebbero definitivamente prive di compenso, dal momento che il tenore testuale della disposizione censurata non ne consentirebbe neppure il “recupero” nel successivo anno 2017;
che la disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale risulta abrogata dall’art. 33, comma 2, del d.lgs. n. 116 del 2017 a decorrere dal 1° gennaio 2022, termine così fissato, in luogo di quello originario stabilito al 15 agosto 2021, in forza della modifica apportata dall’art. 17-ter, comma 1, lettera d), del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, recante «Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia», convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2021, n. 113;
che tale disposizione, dunque, come correttamente evidenziato dal rimettente, trova ancora applicazione nell’ambito del giudizio a quo, avente ad oggetto la pretesa al pagamento di somme maturate nel mese di dicembre dell’anno 2016, ciò che è sufficiente ai fini della rilevanza delle questioni sollevate;
che il rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, esclusa la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, muove dal presupposto che, per effetto della disposizione censurata, l’attività svolta da un giudice di pace oltre la soglia di euro 72.000 è destinata a rimanere «priva di indennità (rectius priva di retribuzione)»;
che in ciò risiederebbe, appunto, il contrasto con l’art. 36 Cost., in considerazione della natura sostanzialmente retributiva dell’indennità destinata a compensare anche l’attività «extra-soglia» del giudice di pace, dal rimettente considerato come «lavoratore»;
che, infatti, per il giudice a quo, «emettere sentenze in nome del popolo italiano» costituirebbe «un lavoro in senso tecnico», sicché la disposizione censurata violerebbe il diritto a percepire una retribuzione «proporzionale alla quantità del lavoro svolto»;
che sarebbe violato, altresì, l’art. 97 Cost., e, in particolare, il principio del buon andamento dell’amministrazione presidiato dal secondo comma (in tal senso dovendosi precisare il riferimento al parametro evocato), leso da una previsione normativa che imporrebbe «di procrastinare il deposito delle sentenze extra-soglia al successivo mese di gennaio», in tal modo richiedendo «al giudice condotte dilatorie, sol perché si è raggiunto il limite massimo di spesa per l’anno in corso»;
che le questioni sollevate dal Giudice onorario di pace di Catanzaro devono essere dichiarate manifestamente inammissibili;
che, quanto alla censura mossa in riferimento all’art. 36 Cost., essa si fonda sulla ritenuta natura retributiva del compenso spettante al giudice onorario di pace, dal rimettente qualificato come «lavoratore» unicamente in forza dell’attività di «emettere sentenze in nome del popolo italiano», che costituirebbe «un lavoro in senso tecnico»;
che in tal modo, tuttavia, il giudice a quo non fornisce alcuna reale motivazione sulle ragioni per le quali il compenso spettante ai giudici onorari di pace deve essere considerato come avente carattere retributivo;
che, infatti, il rimettente si astiene da qualsiasi confronto con le norme applicabili ratione temporis e, in particolare, con quelle dettate dalle altre disposizioni del medesimo art. 11 della legge n. 374 del 1991, secondo cui «[l]’ufficio del giudice di pace è onorario» (comma 1) e i compensi spettanti per l’attività svolta costituiscono non emolumenti di natura retributiva, bensì «indennità» (così, espressamente, i commi 2, 3, 3-bis, 3-ter, 4, 4-bis e 4-ter) corrisposte per l’esercizio di funzioni, appunto, onorarie (sul carattere onorario delle funzioni, ancora da ultimo, sentenze n. 41 del 2021 e n. 267 del 2020);
che il rimettente, del resto, neppure si è premurato di argomentare le proprie censure alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (con particolare riferimento alla sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX, alla quale questa Corte ha fatto cenno nella citata sentenza n. 267 del 2020), secondo cui, per il diritto europeo, «un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore” […], circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»;
che, in disparte, in questa sede, ogni valutazione sugli effetti nell’ordinamento interno di una tale statuizione, è sufficiente osservare come il giudice a quo non abbia in alcun modo adempiuto all’onere di verificare la sussistenza di quelle necessarie condizioni alle quali la stessa giurisprudenza europea vincola il riconoscimento, caso per caso, di un rapporto di lavoro subordinato alla luce del diritto europeo (nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia), del resto dal rimettente neppure invocato per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
che, di conseguenza, per il modo in cui la questione è stata impostata dal rimettente, continua a essere fondata la presunzione di non conferenza dell’evocazione del principio enunciato nell’art. 36 Cost., come da risalente giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 70 del 1971), con conseguente manifesta inammissibilità della questione sollevata in riferimento ad esso;
che analoga sorte va riservata alla censura fondata sul prospettato contrasto con l’art. 97, secondo comma, Cost., dal momento che, nella giurisprudenza costituzionale, è costante l’affermazione che il principio di buon andamento, «pur essendo riferibile agli organi dell’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre tale principio è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale» (sentenza n. 14 del 2019; nello stesso senso sentenze n. 80 del 2020, n. 90 del 2019, n. 91 del 2018 e n. 44 del 2016), funzione che viene in rilievo nella questione sollevata dal giudice a quo.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, quest’ultimo nel testo vigente ratione temporis.