Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 03 aprile 2025 n. 8818
PRINCIPIO DI DIRITTO
Rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile l’azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 promossa dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7 bis del medesimo art. 53.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo la ricorrente insiste sulla eccezione di «difetto assoluto di giurisdizione. Erroneità della pronuncia di reiezione preliminare di inammissibilità della domanda attorea per la tardiva riassunzione della causa a fronte della declaratoria di difetto di giurisdizione del Giudice ordinario (violazione e/o falsa applicazione di legge: art. 17, comma 2, c.g.c.; violazione e/o falsa applicazione art. 50 c.p.c.».
Con il secondo motivo denuncia «in via di logico subordine, difetto di giurisdizione della Corte dei Conti. Sconfinamento della giurisdizione amministrativa della Corte di Conti a sfavore del Giudice Ordinario del Lavoro (violazione/falsa applicazione dell’art. 53 comma 7 bis d.lgs. 165/2001).
1.1.- I due motivi vanno opportunamente trattati insieme perché connessi.
1.2.- Deve intanto essere escluso un rapporto di translatio iudicii tra il giudizio incardinato nel 2016 dinanzi al Tribunale ordinario di Torino e quello successivamente avviato dalla Procura regionale piemontese della Corte dei conti nel 2019.
1.3.- A parte che dall’inutile decorso del termine per la riassunzione di un giudizio deriva l’estinzione di quel processo, il che non comporta l’inammissibilità di una nuova domanda per un nuovo giudizio, impedendosi al più la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della prima domanda -ex art. 59, commi 2 e 4, l. n. 69 del 2009 (cfr. Sez. U, 3 novembre 2017, n. 26155)-, nel caso di specie il giudizio de quo è stato avviato in via del tutto autonoma dalla Procura regionale della Corte dei conti, che è soggetto distinto dal Comune di Torino -attore (in riconvenzionale) della domanda risarcitoria per la quale il giudice del lavoro del Tribunale piemontese ritenne di dichiarare il proprio difetto di giurisdizione-, e mediante uno specifico iter procedimentale, con una fase istruttoria al cui termine, il 15 luglio 2019, fu notificato dal Procuratore regionale della Corte di conti alla ex dipendente pubblica un invito a dedurre, ai sensi dell’art. 67 del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174 (codice della giustizia contabile).
All’esito di tale procedimento, l’11 novembre 2019 fu notificato l’atto di citazione in giudizio, ai sensi dell’art. 86 della medesima disciplina, con la contestazione della responsabilità per danno erariale, ai sensi dell’art. 53, commi 7 e 7 bis, del d.lgs. n. 165 del 2001.
1.4.- Ne deriva dunque che, a seguito della declaratoria di difetto di giurisdizione pronunciata dal giudice ordinario sulla richiesta risarcitoria promossa dal Comune di Torino, l’ente territoriale non ha inteso riassumere la causa secondo la disciplina prevista dall’art. 17 del d.lgs. 174 del 2016 (vigente ratione temporis).
Ciò, tuttavia non poteva di certo spogliare del potere di contestazione delle responsabilità contabili la Procura della Corte dei conti, che infatti si è attivata autonomamente nei tempi e con le modalità appena illustrati.
1.5.- Priva di pregio si rivela la pretesa sovrapponibilità delle due azioni, quella intrapresa dal Comune di Torino, e poi di fatto abbandonata dal Comune, e quella assunta dalla Procura della Corte dei conti, che implica questioni relazionate a profili di danno erariale, petitum sostanziale ontologicamente differente rispetto a quello sotteso all’azione risarcitoria avviata inizialmente dall’ente territoriale, quale datore di lavoro della dipendente che aveva esercitato attività extraistituzionali non autorizzate o non autorizzabili.
1.6.- In merito infatti, consolidata giurisprudenza riconosce i differenti interessi che possono sottendere azioni meramente risarcitorie o riparatorie del danno subìto dall’ente pubblico datoriale del dipendente, che abbia tenuto una condotta illegittima, o illegale, la cui finalità è dunque il pieno ristoro conseguibile dalla singola amministrazione, e l’azione intrapresa dal procuratore contabile dinanzi alla Corte di conti per danni erariali, il cui accertamento sull’inosservanza dei doveri inerenti al rapporto di servizio è indirizzato a tutelare l’interesse generale al buon andamento della P.A. ed al corretto impiego delle risorse pubbliche, dunque con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria (ex multis, cfr. Sez. U, 18 dicembre 2014, n. 26659; 15 febbraio 2022, n. 4871; 26 giugno 2024, n. 17634; vedi inoltre 14 luglio 2015, n. 14632; 20 dicembre 2018, n. 32929; 5 settembre 2024, n. 23833).
1.7.- In tema, cioè sulla identità delle azioni e sulla stessa astratta ammissibilità della translatio, la giurisprudenza ha evidenziato gli elementi contrari, o quanto meno peculiari, del procedimento avviato dalla Procura contabile rispetto ad una azione risarcitoria iniziata da altra P.A., quali l’ufficiosità e doverosità dell’azione emergente solo dinanzi al giudice contabile, la non identità di persone, e in particolare l’attore (che nel giudizio contabile è la Procura di quella giurisdizione), la non perfetta identità di causa petendi e la struttura limitata e specifica del petitum dell’azione contabile rispetto a quella ordinaria, la diversità di rito e di poteri in capo all’attore pubblico, la sostanziale impraticabilità del breve termine di riassunzione, per il caso della declinatoria verso il giudice contabile -come nel caso di specie-, attesa la complessità degli incombenti cui è tenuto il procuratore regionale prima di dare inizio all’azione di responsabilità erariale (cfr. Sez. U, 9 agosto 2018, n. 20687).
Si tratta cioè di specificità, che non consentono di trattare la translatio tra G.O. e Corte dei conti così come quella tra G.O. e G.A., proprio per la peculiarità delle incombenze della Procura contabile, previste e disciplinate dagli artt. 54 e segg. del d.l.gs. 174 del 2016 (apertura del procedimento istruttorio, attività istruttorie, con acquisizioni di documenti, eventuali audizioni personali di soggetti informati ed ogni altra attività di accertamento, invito a fornire deduzioni).
La conferma si riscontra proprio nella peculiarità della disciplina della translatio, regolata complessivamente dall’art. 17 del medesimo decreto legislativo, ma con peculiari previsioni nei commi 8 bis ed 8 ter in tema di danno erariale.
2.- Neppure fondata è la denuncia dello sconfinamento della giurisdizione del giudice contabile a sfavore del giudice ordinario del lavoro, su cui si sofferma la difesa della ricorrente con il secondo motivo.
2.1.- In disparte la circostanza che tale difetto di giurisdizione del giudice contabile non risulta eccepito dinanzi alla Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, pronunciatasi con sentenza n. 89 del 2020, né risulta tra gli specifici motivi dedotti dinanzi alla Sezione giurisdizionale centrale d’Appello, la cui sentenza n. 344 del 2023 è ora oggetto di censura dinanzi a questo Collegio (dinanzi al giudice d’appello la ricorrente si è lamentata della inammissibilità/improcedibilità del giudizio contabile per tardiva riassunzione del procedimento originariamente incardinato dinanzi al tribunale di Torino dall’ente territoriale), e in disparte la circostanza, narrata nel medesimo ricorso, che nel giudizio ordinario fu la medesima ricorrente a sollevare questione di giurisdizione del giudice ordinario, in favore di quello contabile, in ogni caso il motivo è destituito di fondamento.
2.2.- Sulla questione si è infatti consolidato un orientamento della Corte di legittimità, secondo cui l’azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, promossa dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7 bis del medesimo art. 53, norma che non ha portata innovativa; si verte, infatti, in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, attraverso la quale si è inteso tutelare la compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico (a partire da Sez. U, 22 dicembre 2015, n. 25769; cfr. 26 giugno 2019, n. 17124, che ricostruisce l’evoluzione interpretativa in tema).
2.2.1.- Questa giurisprudenza ha avvertito come un primo orientamento, avviato con la pronuncia a Sez. U. n. 19072 del 2016 e consolidatosi con successivi provvedimenti (Sez. U, 10 gennaio 2017, n. 8688; 19 gennaio 2018 n. 1415; 9 marzo 2018, n. 5789; 28 maggio 2018, n. 13239; 3 agosto 2018, n. 20533) aveva ritenuto che la domanda, con cui la Pubblica Amministrazione faceva valere nei confronti del proprio dipendente il diritto al versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di incarichi non autorizzati, appartenesse alla giurisdizione del giudice ordinario.
L’obbligo imposto dall’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 doveva inquadrarsi tra le sanzioni, la cui natura era ancor più evidente per il carattere disincentivante desumibile dalla coincidenza dell’entità del versamento con quella delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente.
Dunque, tale obbligo prescindeva dai presupposti della responsabilità per danno (evento; nesso di causalità; elemento psicologico)”, sostenendosi, peraltro, che “la previsione d’una fattispecie determinativa di danno risulterebbe dissonante con la quantificazione del risarcimento in misura invariabilmente coincidente (nulla di più, nulla di meno) con gli emolumenti indebitamente percepiti dal pubblico dipendente”.
2.2.2.- D’altronde, ha anche avvertito che un procedimento per danno erariale fosse incompatibile con una previsione normativa (il comma 7 dell’art. 53 cit.), che di fatto ne consentiva il promovimento anche da parte di soggetti diversi dalla Procura della Corte dei conti, come per l’ipotesi di azione spiegata dalla P.A. nei confronti dell’ente erogatore dei corrispettivi, soggetto spesso non pubblico ed estraneo al rapporto con la pubblica amministrazione.
2.2.3.- Si è tuttavia evidenziato che il primo orientamento giurisprudenziale si era formato in riferimento a fattispecie nelle quali era stata la P.A. ad agire per il recupero dei compensi erogati al dipendente pubblico per incarichi espletati in assenza di autorizzazione e per fatti antecedenti alla introduzione del comma 7 bis dell’art. 53, secondo il quale «L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti».
2.2.4.- Diversamente da quelle fattispecie, quando l’azione nei confronti del dipendente infedele fosse stata promossa dal Procuratore contabile (Sez. U, 2 novembre 2011, n. 22688; 22 dicembre 2015, n. 25769), si è riscontrato che l’azione nei confronti di soggetto legato da un rapporto d’impiego o di servizio con la P.A. trovi giustificazione nella violazione “del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare all’Amministrazione i compensi per essi ricevuti”, trattandosi di “prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, in quanto preordinate a garantirne il proficuo svolgimento attraverso il previo controllo dell’Amministrazione sulla possibilità, per il dipendente, d’impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d’istituto”.
D’altronde la regola di fonte legale, cioè il predetto comma 7 bis cit, introdotto dalla legge n. 190 del 2012, non riveste carattere innovativo, esplicitando invece un orientamento giurisprudenziale già delineatosi in precedenza (cfr. sul punto anche Sez U, 22 dicembre 2015, n. 25769).
2.2.5.- Ne discende la valorizzazione dell’orientamento, secondo il quale rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile l’azione ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 promossa dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del comma 7 bis del medesimo art. 53.
Con il comma 7 bis dell’art. 53, in altri termini, in ipotesi di responsabilità erariale, il legislatore ha inteso tipizzare una condotta, riconoscendo valenza sanzionatoria alla predeterminazione -legale- del danno, che infatti viene quantificato in misura corrispondente ai compensi percepiti dal dipendente.
Non si tratta dunque, come per le azioni proposte dalla singola amministrazione a fini riparatori o compensativi del danno, di una mera richiesta risarcitoria, ma, proprio e nella misura in cui a muoversi è la Procura contabile, di una tipica azione da danno erariale, in ragione di una valutazione critica negativa in ordine alla incidenza dell’espletamento dell’incarico extraistituzionale non autorizzato sugli interessi della P.A. (che entrano pertanto in conflitto con gli opposti interessi del dipendente infedele) e sulla proficuità del lavoro principale cui il dipendente è tenuto, in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico.
2.2.6.- Sempre secondo questa chiave interpretativa, l’azione di responsabilità erariale in esame non va ad interferire con la vicenda giudiziaria che potrebbe attingere il soggetto tenuto a retribuire il dipendente pubblico privo di autorizzazione, azione che ovviamente non potrebbe essere promossa dalla procura contabile e che si pone in indefettibile alternatività rispetto a quella, ex art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, riguardante il dipendente, avente per presupposto l’effettiva percezione del compenso, con ciò stesso impedendo una duplicazione di titoli.
2.2.7.- Peraltro, osservando la posizione della P.A. di appartenenza del dipendente che ha percepito il compenso in difetto di autorizzazione, si è condivisibilmente affermato che, «se tale Amministrazione non si attivi, anche in via giudiziale, facendo valere l’inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, per ottenerne il riversamento nel proprio bilancio e abbia, invece, a tal fine agito il Procuratore contabile, in ragione della responsabilità erariale di cui alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7 bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, non potrà più la medesima Amministrazione promuovere azione per ottenere detto riversamento, con conseguente sterilizzazione della possibilità di un conflitto di giudicati. Infatti, è da escludere, stante il divieto del bis in idem, una duplicità di azioni attivate contestualmente che – seppure recanti la propria specificità – tendono a conseguire, dinanzi al giudice munito di giurisdizione per ciascuna di esse, lo stesso identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un’unica fonte (quella legale) e cioè i compensi percepiti dal dipendente pubblico in difetto di autorizzazione allo svolgimento dell’incarico che li ha determinati, i quali una volta soltanto possono essere oggetto di recupero al fine di essere destinati al bilancio dell’amministrazione di appartenenza di quel dipendente» (Sez. U, 17124 del 2019, cit.).
2.2.8.- Questo orientamento ha trovato conferma nei successivi arresti della Corte di legittimità, direttamente, o anche indirettamente, quando oggetto della controversia è stata l’azione promossa dall’ente pubblico datoriale e non la Corte dei conti (Sez. U, 14 gennaio 2020, n. 415; 8 luglio 2020, n. 14237; 13 ottobre 2021, n. 27890; 8 febbraio 2023, n. 3872; cfr anche Cass., 5 agosto 2022, n. 24377).
2.2.9.- In definitiva, la sentenza impugnata -e tutta l’attività istruttoria esercitata dalla procura contabile- ha correttamente proceduto nel solco della giurisdizione del giudice contabile in tema di danno erariale, e le critiche mosse dalla difesa della ricorrente non colgono nel segno.
3.- Inammissibile è infine il terzo motivo, con il quale la ricorrente ha chiesto «la disapplicazione diretta della sanzione amministrativa per violazione del principio di proporzionalità della sanzione (violazione art. 49 par. 3 CEDU) ed eccessiva ingerenza con il diritto fondamentale alla proprietà di cui all’art. 1 protocollo 1 CEDU».
3.1.- A parte che non risulta chiaro in quale prospettiva la critica si indirizzi ad una questione di giurisdizione, come correttamente ha sottolineato la Procura Generale nella sua memoria, in ogni caso, se con la doglianza si è inteso denunciare la sproporzione della sanzione inflitta, in violazione del diritto unionale, il motivo resta inammissibile perché la critica è mossa per una questione che non viola i limiti interni della giurisdizione del giudice contabile.
3.2.- Anche qualora la critica volesse collocarsi nell’alveo dell’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso dinanzi al giudice di legittimità, ma che nel caso di specie non viene in evidenza, esso deve riferirsi alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, che vanno individuate, secondo consolidato insegnamento delle Sezioni Unite e della Corte Costituzionale, nell’ipotesi in cui un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero quando la neghi, sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento), ed, ancora, nelle ipotesi in cui sia riscontrabile il difetto relativo di giurisdizione, ossia quando il giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negando la cognizione sull’erroneo presupposto dell’appartenenza della giurisdizione ad altro giudice.
L’alveo del controllo sul rispetto della giurisdizione non può invece estendersi ai casi di sentenze in cui si è verificato un error in iudicando, o un error iuris in procedendo, ma non una violazione dei limiti esterni della giurisdizione (ex multis, cfr. Sez. U, n. 25 marzo 2019, n. 8311; Sez. U, 4 dicembre 2020, n. 27770; Sez. U, 21 settembre 2020, n. 19675; Sez. U, 4 giugno 2021, n. 15573; Sez. U, 5 maggio 2022, n. 14301; Sez. U, 10 gennaio 2023, n. 5862).
3.2.2.- Con specifico riferimento all’eccesso di potere giurisdizionale della Corte dei conti, per l’ipotesi di invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, si è affermato che esso sia configurabile solo qualora il giudice speciale applichi una norma da lui stesso creata, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, non già in relazione all’attività di interpretazione – sia pure estensiva o analogica – di una disposizione di legge, posto che eventuali errori ermeneutici, anche se comportanti uno stravolgimento radicale del senso della norma, non investono la sussistenza o i limiti esterni del potere giurisdizionale, ma soltanto la legittimità del suo esercizio (Sez. U, 9 luglio 2024, n. 18722; 26 dicembre 2024, n. 34499).
3.2.3.- Il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che decide la controversia nell’alveo di essa ma applica malamente le regole di giudizio ed erroneamente nega la tutela richiesta, rientra nel perimetro di un errore interno.
Quand’anche tale errore porti a negare tutela alla situazione giuridica fatta valere, statuendo in facto ed in iure o anche solo con pronuncia di rito, la fattispecie esula dal controllo sul corretto esercizio della giurisdizione, affidato al giudice di legittimità. Infatti, il limite di controllo da parte delle sezioni unite trova spazio nel perimetro in precedenza illustrato, perché, pur negandosi tutela in concreto ma nell’ambito della propria giurisdizione, manca qualunque violazione delle regole ad essa relative (Sez. U, 11 settembre 2019, n. 22711).
3.2.4.- La critica della ricorrente, su cui in particolare insiste con le memorie illustrative, non coglie nel segno neppure quando denuncia la sproporzione della sanzione in violazione della giurisprudenza unionale.
3.2.5.- Questa Corte ha ripetutamente affermato che la negazione, in concreto, della tutela richiesta al giudice speciale, determinata dall’erronea interpretazione di norme o principî del diritto europeo da parte del giudice amministrativo o contabile, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione, così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, comma 8, Cost., atteso che proprio nell’interpretazione delle norme di diritto si concretizza l’esercizio della funzione giurisdizionale attribuita, nel riparto della giurisdizione, ai giudici speciali.
3.2.6.- Conseguenza logica è l’insindacabilità, da parte della Corte di cassazione, ex art. 111, comma 8, Cost., delle violazioni del diritto dell’Unione europea ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali. Ciò, ancorché possa conseguirne la negazione della tutela richiesta, è infatti compatibile con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, in quanto correttamente ispirato ad esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai principi del giusto processo ed idoneo a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione.
3.2.7.- Si tratta di limiti chiaramente riconosciuti ed avvallati dalla giurisprudenza unionale, che, investita da questo stesso consesso (rimessione pregiudiziale, Sez. U, n. 19598 del 2020), ha affermato che il diritto europeo non osta a che «i singoli (…) non possono contestare la conformità al diritto dell’Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato membro nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro» (CGUE, sent. 21 dicembre 2021, in C-497, Randstad Italia s.p.a.).
3.2.8.- Nello specifico la Corte di giustizia UE ha disatteso l’argomento del giudice del rinvio, secondo cui, quando il Consiglio di Stato effettua un’applicazione o un’interpretazione di disposizioni nazionali che risulti incompatibile con le disposizioni del diritto dell’Unione, come interpretate dalla Corte, esso eserciterebbe un potere giurisdizionale di cui è privo o un potere di produzione normativa che non rientrerebbe nemmeno nella competenza del legislatore nazionale; e che, di conseguenza, ciò costituirebbe un difetto di giurisdizione, che dovrebbe poter essere impugnabile innanzi alle Sezioni unite della Cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.
Al contrario, la Corte di giustizia ha reputato come non sia ammissibile equiparare un motivo vertente su una violazione del diritto dell’Unione ad un motivo inerente alla «giurisdizione», ai sensi del citato art. 111, comma 8, Cost., secondo la linea di pensiero esposta dalla sentenza della Corte costituzionale del 18 gennaio 2018, n. 6. In ordine al principio di effettività, la Corte UE ha affermato che il diritto dell’Unione non obbliga gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso, diversi da quelli già contemplati dal diritto interno, tranne il caso che ivi non sussista nessun rimedio giurisdizionale, che assicuri il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione. Ha concluso nel senso che il diritto dell’Unione non impone allo Stato membro di prevedere la possibilità di impugnare, dinanzi all’organo giurisdizionale supremo, le decisioni di irricevibilità adottate dal supremo giudice amministrativo.
3.2.9.- Pertanto anche il contrasto delle decisioni giurisdizionali del giudice speciale (Corte dei Conti o Consiglio di Stato) con il diritto europeo non integra, di per sé, l’eccesso di potere giurisdizionale denunziabile ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., atteso che pure la violazione delle norme dell’Unione europea o della CEDU dà luogo ad un motivo di illegittimità, sia pure particolarmente qualificata, che si sottrae al controllo di giurisdizione della Corte di cassazione, né può essere attribuita rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio, essendo tale valutazione, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriera di incertezze, in quanto affidata a valutazioni contingenti e soggettive (Sez. U, 11 novembre 2019, n. 29085; Sez. U, 6 marzo 2020, n. 6460).
Il principio dispensato dalla Corte di giustizia U.E., con la sentenza 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad, trova ormai plurime condivisioni nelle Sezioni unite (Sez. U, 4 ottobre 2022, nn. 28803 e 28800; 29 settembre 2022, n. 28431; 30 agosto 2022, n. 25503; 28 luglio 2022, n. 23657; 8 aprile 2022, n. 11549; 16 febbraio 2022, n. 5121; 31 gennaio 2022, n. 2879; 24 gennaio 2022, n. 1996; 18 gennaio 2022, n. 1454).
3.2.10.- Nel caso di specie la censura della ricorrente, che si limita a denunciare che il giudice contabile non abbia riconosciuto la sproporzione della sanzione rispetto alla gravità del fatto, in violazione di principi unionali, così come interpretati dalla giurisprudenza delle Corti europee, per le quali invoca la decisione adottata dalla Corte di Giustizia europea in causa C-205/20, sollecitando una “disapplicazione” della sanzione, non si avvede che nelle valutazioni operate dalla pronuncia impugnata il giudice contabile sia rimasto rigorosamente nei limiti interni della propria giurisdizione, così che la critica risulta inammissibile.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Nulla deve essere disposto in punto di spese con riguardo al P.G. presso la Corte dei conti, considerata la sua natura di parte in senso formale. P.Q.M. La Corte a Sezioni Unite rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.