Corte Costituzionale, sentenza 5 febbraio 2025 n. 8
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal G.U.P. del Tribunale dei Minorenni di Bari in relazione al contrasto con l’art. 31 comma 2 della Costituzione dell’art. 28, comma 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 nella parte in cui non ammette la sospensione del processo con messa alla prova per il delitto previsto dall’art. 609-octies del codice penale (violenza sessuale di gruppo), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter del medesimo codice, in quanto ,benchè le modifiche peggiorative afferenti l’istituto della sospensione con messa alla prova attengano al piano processuale, esse, incidono maggiormente sul piano sostanziale eliminando la possibilità di accedere a un istituto atto a determinare l’estinzione del reato e a escludere quindi l’applicazione di qualsiasi pena, rientrando di conseguenza nel cono di tutela dell’art. 25 della Costituzione concernente l’irretroattività della legge sfavorevole al reo.
TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
- Con le due ordinanze indicate in epigrafe, emesse il 25 marzo 2024, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari ha sollevato, in riferimento all’art. 31, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988, aggiunto dall’art. 6, comma 1, lettera c-bis), del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, nella parte in cui prevede che le disposizioni del comma 1 dello stesso art. 28, in tema di sospensione del processo con messa alla prova, non si applicano al delitto previsto dall’art. 609-octies cod. pen. (violenza sessuale di gruppo), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter del medesimo codice (reg. ord. n. 76 del 2024), ovvero al delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. (violenza sessuale), limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609- ter cod. pen. (reg. ord. n. 104 del 2024).
- L’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988 prevede che le disposizioni relative all’accesso al beneficio della sospensione del processo e della messa alla prova del minore contenute nel comma 1 dello stesso art. 28 «non si applicano ai delitti previsti dall’articolo 575 del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 576, dagli articoli 609-bis e 609-octies del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 609-ter, e dall’articolo 628, terzo comma, numeri 2), 3) e 3-quinquies), del codice penale».
Il rimettente deve giudicare della responsabilità di due imputati minorenni, chiamati a rispondere, l’uno, del reato di cui agli artt. 609-octies, commi primo, secondo e terzo, e 609-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., e, l’altro, del reato di cui agli artt. 609-bis e 609-ter, primo comma, numero 2), cod. pen.
Il giudice a quo ritiene che la questione sollevata in entrambi i giudizi sia rilevante in quanto, dovendo trovare applicazione il comma 5-bis dell’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, i rispettivi imputati non possono accedere alla messa alla prova.
La necessità di applicare il comma 5-bis deriverebbe dalla constatazione per cui l’istituto della messa alla prova, «pur avendo effetti sostanziali, determinando l’estinzione del reato, è intrinsecamente caratterizzato da una dimensione processuale», da cui discenderebbe l’operatività della regola tempus regit actum e la correlativa esclusione dell’operatività del principio di irretroattività della legge sfavorevole al reo. Pertanto, la disciplina applicabile in entrambi i giudizi a quibus sarebbe quella vigente al momento della pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 e non al momento della richiesta di sospensione (formulata, in entrambi i giudizi, prima del 15 novembre 2023, data di entrata in vigore della legge n. 159 del 2023, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 123 del 2023), la quale costituirebbe una «mera dichiarazione di disponibilità al programma trattamentale».
Nel merito, la scelta del legislatore di precludere l’accesso alla messa alla prova del minore per i soggetti imputati di determinati reati, tra i quali quelli di cui sono chiamati a rispondere gli imputati nei giudizi a quibus, sarebbe in contrasto con il richiamato precetto costituzionale di cui all’art. 31, secondo comma, Cost.
Per il fatto di prevedere un divieto assoluto di messa alla prova legato al titolo del reato, l’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988 impedirebbe a un giudice specializzato di individuare, sulla base delle circostanze del singolo caso, la risposta più aderente alla personalità del minore, ponendosi con ciò in contrasto con l’intero impianto del processo minorile, che ha come precipua finalità, in ossequio al citato precetto costituzionale, il recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, con rapida fuoriuscita dal circuito penale: finalità che trova nell’istituto considerato uno dei suoi più qualificanti strumenti di realizzazione.
1.2 In considerazione dell’identità della disposizione censurata e delle ragioni addotte a sostegno della sua illegittimità costituzionale, i giudizi devono essere riuniti.
- L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, sostenendo che il giudice rimettente non debba fare applicazione della disposizione censurata.
Ad avviso dell’interveniente, la valutazione compiuta dal rimettente quanto alla rilevanza delle questioni sarebbe errata, poiché l’istituto della messa alla prova del minorenne avrebbe una prevalente portata sostanziale, con la conseguenza che la sua applicabilità non sarebbe governata dalla regola tempus regit actum, ma dal generale principio di irretroattività della norma penale sostanziale meno favorevole al reo.
Nei casi di specie, la modifica peggiorativa introdotta dalla disposizione censurata non potrebbe ritenersi applicabile ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della stessa, laddove anche la domanda di messa alla prova sia stata presentata dagli imputati prima di dette modifiche.
In ogni caso, anche accedendo alla prospettazione del rimettente secondo cui l’istituto ha prevalente portata processuale e la sua applicabilità dipende dalla regola tempus regit actum, l’actus da prendere a riferimento per verificare la normativa applicabile non dovrebbe essere il provvedimento finale del giudice circa l’ammissibilità del beneficio, ma – ove questa sia stata presentata, come nei casi di specie – la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova avanzata dall’imputato. Diversamente, si farebbe dipendere da una variabile del tutto casuale (la durata dell’istruttoria) la possibilità per il minorenne imputato di avvalersi o meno «non soltanto della norma processuale ma anche dell’istituto sostanziale correlato».
- Preliminare all’esame di tale eccezione è una sintetica ricostruzione della normativa in materia di sospensione del processo con messa alla prova nel processo minorile, nella quale si inserisce la disposizione censurata.
- L’istituto della messa alla prova rappresenta, nell’ambito degli strumenti di adeguamento della risposta penale alle peculiari esigenze rieducative dell’imputato minore di età, «uno strumento particolarmente qualificante, rispondendo, forse più di ogni altro, alle […] finalità della giustizia minorile» (sentenza n. 125 del 1995).
La disciplina contenuta negli artt. 28 e 29 del d.P.R. n. 448 del 1988 prevede una particolare forma di probation, in forza della quale l’ordinamento rinuncia non solo all’esecuzione della pena, ma anche alla prosecuzione del processo e alla eventuale sentenza di condanna a fronte della partecipazione del minore imputato a un periodo di osservazione, trattamento e sostegno, stabilito nelle sue modalità dal giudice sulla base di un progetto predisposto dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, cui il minore stesso si sottopone volontariamente.
L’accesso all’istituto presuppone, al tempo stesso, un accertamento di responsabilità, sia pur provvisorio e allo stato degli atti, e la formulazione di un giudizio prognostico positivo sulla capacità del minore di avviare un percorso di rielaborazione critica dell’episodio criminoso, nonché di crescita e di reinserimento sociale.
Il tratto qualificante dell’istituto è rappresentato dall’adozione di un progetto di intervento che si traduce in una serie di prescrizioni individualizzate e a contenuto variabile perché tarate sul profilo personologico del minore e sul contesto socio-familiare in cui questi è inserito.
L’art. 27 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) stabilisce, tra l’altro, che il progetto di intervento debba prevedere «a) le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minorenne assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente locale; d) le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa».
Quanto ai presupposti applicativi, almeno fino all’adozione della disposizione censurata nei presenti giudizi, la messa alla prova nel processo minorile poteva essere astrattamente concessa per qualsiasi reato.
Il disvalore della condotta poteva (e può tuttora, fuori dei casi eccettuati) influire unicamente sulla durata massima del periodo di prova, che non può superare i tre anni quando si procede per reati puniti con la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni, restando limitato entro un anno negli altri casi (art. 28, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988).
Secondo quanto si ricava dall’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, la messa alla prova minorile pertiene alla fase successiva all’esercizio dell’azione penale, ed elettivamente alla fase dell’udienza preliminare, in cui opera un giudice collegiale (composto da un magistrato togato e da due giudici onorari) particolarmente qualificato per l’indagine personologica sul minore deviante. Il relativo procedimento può essere avviato, pur in assenza di precise indicazioni normative, oltre che per iniziativa officiosa del giudice, su impulso delle parti (imputato e pubblico ministero) o anche dei genitori del minore o dei servizi minorili.
L’ordinanza con cui il giudice si pronuncia sull’opportunità della messa alla prova contiene anche l’indicazione delle prescrizioni di cui si compone il progetto, già predisposto dai servizi minorili ai quali il minore è affidato sin dall’avvio del procedimento.
L’esito positivo della messa alla prova conduce a una pronuncia di non luogo a procedere per estinzione del reato, mentre, in caso di mancato superamento della prova, il giudice provvede con ordinanza motivata, che determina la ripresa del processo dal momento in cui era stato sospeso (art. 29 del d.P.R. n. 448 del 1988).
- La messa alla prova nel processo minorile è caratterizzata, rispetto a quella introdotta nel 2014 per i procedimenti penali a carico degli adulti, da un significativo elemento differenziale: per gli adulti, infatti, la messa alla prova è ammessa solo per reati di ridotta gravità (individuati dall’art. 168-bis, primo comma, cod. pen.), postula la richiesta dell’imputato e, ove tale richiesta sia formulata nel corso delle indagini preliminari, il consenso del pubblico ministero (art. 464-ter cod. proc. pen.), con ciò rendendo evidente la sua natura negoziale e la sua finalità deflativa; nella messa alla prova minorile, al contrario, prevalgono nettamente la funzione officiosa del giudice (non avendo pari valore condizionante il consenso del minore imputato) e la finalità rieducativa.
Sintetizzando la differente portata dei due istituti, la sentenza n. 139 del 2020 di questa Corte ha chiarito, da ultimo, che, «[q]uale istituto ad applicazione officiosa e illimitata, non condizionata cioè dalla richiesta dell’imputato, né dal consenso del pubblico ministero, né sottoposta a limiti oggettivi di pena edittale, la messa alla prova del minore evidenzia caratteristiche specularmente opposte a quella dell’adulto, poiché l’essenziale finalità rieducativa ne plasma la disciplina in senso rigorosamente personologico, estraneo ogni obiettivo di deflazione giudiziaria».
- Alla luce di tale inquadramento dell’istituto, può essere ora presa in esame l’eccezione di inammissibilità della questione formulata dall’Avvocatura generale.
L’eccezione è fondata.
- L’interpretazione proposta nelle ordinanze di rimessione in ordine al presupposto di rilevanza della questione, ovvero circa la sussistenza delle condizioni necessarie per l’applicazione della disposizione censurata nei giudizi a quibus, non può essere condivisa da questa Corte.
Contrariamente all’assunto da cui muove il rimettente, l’effetto sostanziale dell’istituto in questione, che opera come causa di estinzione del reato e perciò incide sulla punibilità della persona, comporta la sua inerenza all’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., e dunque la necessaria applicabilità ad esso del regime temporale di irretroattività della legge penale sfavorevole di cui al medesimo articolo.
È ben vero che il rimettente, nel qualificare la messa alla prova come istituto processuale con effetti sostanziali, fa implicito riferimento a una qualificazione adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sezione seconda penale, sentenza 9 marzo-25 giugno 2015, n. 26761; sezione quarta penale, sentenza 30 settembre-26 ottobre 2015, n. 43009; sezione sesta penale, sentenza 13 ottobre-27 novembre 2020, n. 33660) e nella giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 240 del 2015), in pronunce che hanno preso in esame il profilo della applicabilità della messa alla prova per gli adulti in procedimenti nei quali il limite temporale previsto per la formulazione della richiesta di accesso all’istituto era già stato superato al momento della entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, che ha introdotto l’istituto stesso.
La sentenza n. 240 del 2015, in particolare, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova ai processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della nuova norma. L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova – si è chiarito in tale sentenza – pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, è connotato comunque da un’intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. Questa Corte ha quindi ritenuto che l’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., attesa la sua prospettiva processuale, dovesse essere assoggettato al principio tempus regit actum, e non già al principio di retroattività della lex mitior, il quale, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena.
Diverso è il caso della disposizione censurata.
Questa, invero, interviene sull’istituto della sospensione del processo minorile con messa alla prova – già operante con riconosciuta idoneità al perseguimento del recupero del minore sin dal 1988 e applicabile a tutti i reati, senza esclusione alcuna –, precludendone in radice, e con effetto retroattivo, la fruibilità da parte dell’imputato ove l’imputazione a suo carico riguardi i reati specificamente individuati.
Per il fatto di precludere, per taluni reati, la possibilità di un esito processuale alternativo all’eventuale riconoscimento di responsabilità e alla conseguente irrogazione della pena detentiva per il minore, detta disposizione incide direttamente sulla disciplina sostanziale di quelle fattispecie di reato, con la conseguenza che la stessa non può essere assoggettata al principio tempus regit actum, ma deve essere ricondotta nell’ambito di operatività dell’art. 25, secondo comma, Cost., che stabilisce il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Principio, quest’ultimo, che, a differenza di quello di retroattività della lex mitior, ha valore assoluto e non è soggetto a bilanciamento con eventuali controinteressi (sentenze n. 65 del 2019 e n. 236 del 2011).
- In tal senso depone, innanzi tutto, l’orientamento ormai da tempo consolidato della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
A partire dalle sentenze della Corte EDU, grande camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia e 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, si è affermata una linea interpretativa dell’art. 7 della Convezione europea dei diritti dell’uomo secondo cui i confini esterni del principio di irretroattività in materia penale devono essere estesi alle disposizioni processuali che mostrino di avere un carattere sostanzialmente afflittivo perché intimamente correlate alla natura e all’entità della pena da irrogare in concreto, e non semplicemente alle misure riguardanti l’esecuzione o l’applicazione di quest’ultima.
Nel caso di specie, attesa l’irrilevanza della collocazione della disposizione censurata all’interno di un provvedimento normativo mirante a disciplinare il processo minorile, assume valore dirimente la duplice circostanza per cui la sospensione del processo con messa alla prova del minore presuppone per la sua applicabilità, come anticipato, la commissione di un reato e, soprattutto, mira ad impedire, in caso di esito positivo, la prosecuzione del processo, con il relativo, eventuale, accertamento di responsabilità e la conseguente applicazione della pena.
In quanto misura volta non soltanto a scongiurare l’applicazione della pena, ma anche, alle condizioni dianzi riferite, a escludere lo stesso accertamento del reato, essa non può che essere ascritta al novero delle norme di diritto penale sostanziale cui si applica l’art. 7 CEDU e il connesso principio di non retroattività delle norme penali sfavorevoli.
- Questo orientamento interpretativo è stato, peraltro, fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte.
In particolare, a partire dalla sentenza n. 32 del 2020 – e, successivamente, nelle sentenze n. 193 del 2020 e n. 183 del 2021 – questa Corte, in sintonia con la riportata giurisprudenza maturata intorno all’art. 7 CEDU, ha messo in discussione la rigida linea di separazione tra le norme penali sostanziali e quelle di carattere processuale, al fine di innestare i contenuti di tutela del divieto di retroattività della norma penale sfavorevole (di cui all’art. 7 CEDU e all’art. 25, secondo comma, Cost.) anche in ambiti ritenuti sino ad allora governati dalla regola tempus regit actum.
La citata sentenza n. 32 del 2020, infatti, ha inteso dare avvio a una «complessiva rimeditazione» della materia, affermando in linea generale che, «di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale».
Ogni qualvolta, pertanto, la normativa sopravvenuta – sia pur topograficamente afferente alla sfera processuale – «non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato», si deve ritenere che la successione di norme nel tempo sia soggetta al divieto di retroattività della norma sfavorevole di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., anziché alla regola, prima di allora applicata, del tempus regit actum. E ciò – precisa ancora la sentenza n. 32 del 2020 – vale allorché la successione normativa determini «l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto», come paradigmaticamente è dato riscontrare «allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost. E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo».
- Tali principi, affermati da questa Corte con riferimento alle modificazioni normative peggiorative che attengono alla fase di esecuzione della pena, devono valere anche per le modifiche inerenti alle condizioni di accesso alla sospensione del processo con messa alla prova del minore, in quanto istituto contrassegnato da una evidente implicazione sostanziale, con la conseguente, necessaria, applicazione ad esso, in sede di cognizione, del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.
La conclusione cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, per la quale le modifiche normative che incidono sulla “qualità” della pena ricadono nel cono di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., a prescindere dalla collocazione “topografica” della norma incisa, si impone in effetti a maggior ragione nel caso in esame.
La disposizione censurata, infatti, non determina un semplice mutamento in peius della “qualità” della pena da eseguire, ma un effetto negativo ancora più radicale, eliminando la possibilità di accedere a un istituto atto a determinare l’estinzione del reato e a escludere quindi l’applicazione di qualsiasi pena (tenuto conto anche del fatto che alle prescrizioni inerenti al programma cui il minorenne deve essere sottoposto non può essere ascritta alcuna funzione sanzionatoria, ma solo di promozione del percorso rieducativo del minore: sentenza n. 68 del 2019).
Non può dubitarsi, pertanto, che la preclusione all’accesso alla messa alla prova del minorenne comporti una radicale alterazione peggiorativa del trattamento riservato all’imputato di cui il giudice competente ritenga sussistente la responsabilità, perché esclude la possibilità di garantire la fuoriuscita del minore dal circuito processuale e di addivenire, in caso di esito positivo della messa alla prova, alla declaratoria dell’estinzione del reato e alla mancata irrogazione della pena detentiva.
- L’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988 configura pertanto, per i reati ivi considerati, una presunzione iuris et de iure di gravità delle condotte associate a detti reati, tale da impedire qualsiasi possibilità che il minore – al di là delle circostanze concrete delle condotte poste in essere e prescindendo dalla valutazione sulle sue effettive possibilità di recupero e di reinserimento sociale – venga sottratto al circuito processuale volto all’accertamento di responsabilità e, eventualmente, all’irrogazione della pena.
Le modifiche apportate dalla disposizione censurata alla disciplina della sospensione del processo minorile con messa alla prova, dunque, in quanto volte a precludere l’applicabilità dell’istituto in relazione a taluni reati, danno luogo a una disciplina sostanziale di contenuto deteriore rispetto a quella previgente e, pertanto, non possono essere applicate per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 159 del 2023, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 123 del 2023.
In effetti, nei casi oggetto dei giudizi a quibus, i reati sono stati commessi prima del 15 novembre 2023. Prima di tale data, gli imputati potevano quindi avere accesso, anche per quei reati, a un trattamento di risocializzazione che matura fuori dal carcere e che esclude anche l’accertamento di responsabilità penale; possibilità, invece, esclusa a seguito dell’entrata in vigore della disposizione censurata.
Dunque, nei giudizi a quibus, l’esclusione per i reati contestati, ai sensi dell’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 448 del 1988, della possibile estinzione del reato, seppur mediata dalla regola processuale che preclude l’ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova, configura indubitabilmente un regime più gravoso di quello vigente al momento della commissione dei fatti, il che è dirimente ai fini della sfera di tutela garantita dall’art. 25, secondo comma, Cost. L’applicazione nei medesimi giudizi del regime legislativo sopravvenuto lederebbe altresì la tutela dell’affidamento legittimamente sorto negli imputati con riguardo al complessivo regime sanzionatorio applicabile ai reati commessi.
- Alla luce di tali considerazioni, contrariamente a quanto assume il giudice a quo, deve ritenersi che l’art. 28, comma 5-bis, del d.P.R. n. 488 del 1988, non sia applicabile ai fatti commessi prima del 15 novembre 2023, in forza del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. e all’art. 7 CEDU.
- Le questioni sono pertanto inammissibili per difetto di rilevanza, con assorbimento di ogni altro profilo.