Corte Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 3 dicembre 2024, n. 44060
PRINCIO DI DIRITTO
Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativadella custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è […] : “Se l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, debba impugnare l’ordinanza con la quale sia stata disposta, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen.,la custodia in carcere con la richiesta di riesame ovvero con l’appello cautelare”;
- Pur non implicando la risposta al quesito la necessità di prendere le mosse dall’analisi ex professo delle plurime caratteristiche distintive dei due strumenti di impugnazione, giova, tuttavia, rammentarne i fondamentali tratti identitari sul piano della configurazione formale;
2.1. Partendo dall’epilogo decisorio contestato dalla difesa del ricorrente, si osserva che, quanto alla sua forma, il gravame costituto dall’appello deve, a pena di inammissibilità, indicare in modo specifico i punti del provvedimento di cui l’impugnante richiede il nuovo esame e deve precisarne le ragioni, pena – in mancanza – il rilievo della sua genericità;
- Nella meno recente elaborazione ermeneutica, la genericità si intendeva limitata al profilo intrinseco al motivo stesso, così da ritenerla non correlata al confronto con quanto argomentato dal giudice del provvedimento impugnato, confronto invece necessario per il controllo di specificità della devoluzione operata con il ricorso per cassazione (Sez. 3, n. 31939 del 16/04/2015, […]; Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, […]);
3.1. La verifica della genericità è da intendersi ora assimilabile, con le dovute specificazioni, a quella che inerisce al ricorso per cassazione, essendosi precisato che l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, […], Sez. 2, n. 51531 del 19/11/2019[…]);
3.2. L’approdo registrato nella vicenda interpretativa dell’istituto ha ricevuto ratifica normativa con la modificazione dell’art. 581 cod. proc. pen., mediante l’inserimento del comma 1-bis (in forza dell’art. 33, comma 1, lett. d), D.Lgs. 15 ottobre 2022, n. 150), alla luce del quale l’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riguardo ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;
3.3. Attesa la riconosciuta fisionomia strutturale e strumentale degli ordinari mezzi di impugnazione come propria dell’appello cautelare di cui all’art. 310 cod. proc. pen., a tale strumento devono applicarsi le norme generali in materia, tra cui le disposizioni di cui agli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., con l’effetto che questa impugnazione, non solo deve indicare i capi e i punti ai quali si riferisce, ma deve anche enunciare i corrispondenti motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta (Sez. 5, n. 9432 del 12/01/2017[…] Sez. 1, n. 32993 del 22/03/2013 […]).
3.3. Sempre circoscrivendo il discorso alla forma dell’atto, si rammenta che la richiesta di riesame proposta avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare, ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., non esige la necessaria articolazione in motivi dei profili di censura. Si suole precisare che, nell’ambito del riesame di misure cautelari personali, il difetto di specificità dei motivi non comporta l’inammissibilità dell’impugnazione, stanti la natura interamente devolutiva del mezzo, l’inapplicabilità dell’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. e la conseguente facoltatività dell’ indicazione dei motivi stessi […];
3.4. Ciò, con l’opportuna specificazione che la natura interamente devolutiva di tale mezzo di impugnazione e la facoltatività dell’indicazione dei motivi non comportano l’automatica rilevanza di doglianze di carattere generico, dal momento che, in assenza della formulazione di specifiche questioni sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il giudice del riesame, pur tenuto a verificare anche tale presupposto, può, in presenza di un provvedimento motivato, limitarsi a richiamare il contenuto del titolo genetico, a condizione che mostri di averlo, comunque, valutato […];
3.5. In ogni caso, la richiesta di riesame, integrando un mezzo di impugnazione con effetto interamente devolutivo, determina la conseguenza che il Tribunale può annullare o riformare in senso favorevole all’imputato il provvedimento impugnato anche per motivi diversi da quelli enunciati nell’atto di impugnazione, così come può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione dell’ordinanza cautelare, ferma restando l’attenuazione dell’obbligo motivazionale, rispetto ai punti non oggetto di censura, qualora la richiesta deduca contestazioni avverso uno solo dei presupposti applicativi della misura […];
- D’altro canto, il discrimen fra i procedimenti a cui danno ingresso la richiesta di riesame, ex art. 309 cod. proc. pen., per un verso, e l’atto di appello, ex art. 310 cod. proc. pen., per altro verso, rileva anche per diversi altri ambiti, fra i quali la possibilità, in sede di riesame, di introdurre motivi nuovi in sede camerale, la diversità e la natura dei termini fissati per lo svolgimento del procedimento e l’emissione del provvedimento, nonché le modalità di svolgimento del procedimento stesso in relazione agli elementi acquisibili e utilizzabili per la decisione e ai poteri istruttori dei giudici procedenti;
- Come già accennato, non appare indispensabile, nella presente sede, illustrare nei dettagli le ulteriori, sensibili differenze fra i due strumenti impugnatori, né approfondire gli effetti determinati dalla riqualificazione dello strumento impugnatorio adottato dalla parte […];
5.1. E’, infatti, sufficiente il richiamo alla forma di tali atti ora operato, in quanto è questo requisito che qui primariamente rileva, giacché in virtù della sua valutazione è stata ritenuta dal Tribunale di Napoli l’inammissibilità dell’impugnazione. 3. Tornando al tema centrale proposto dal quesito devoluto al Collegio, il riferimento normativo va individuato nell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., che recita: “Qualora l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia successivamente condannato per lo stesso fatto, possono essere disposte nei suoi confronti misure coercitive quando ricorrono le esigenze cautelari previste dall’articolo 274, comma 1, lettere b) e c)”;
- Occorre stabilire se avverso l’ordinanza applicativa di misure coercitive emessa a termini della disposizione ora riportata sia esperibile, fra gli strumenti approntati dal legislatore in materia cautelare, quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. o quello dell’appello ex art. 310;
- Nel ripercorrere il tracciato dell’ordinanza di rimessione, va rilevato che, secondo l’orientamento, tuttora prevalente, cui ha aderito il giudice emittente il provvedimento impugnato, il mezzo da attivare, nella fattispecie, è quello dell’appello cautelare. […];
- Il ragionamento sviluppato nelle citate decisioni parte dalla necessità di valutare la novità o meno della misura applicata ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., al fine di decidere, poi, sul mezzo di impugnazione del titolo cautelare ammissibile. Per compiere siffatta valutazione, si sostiene, occorre individuare la causa di cessazione della misura stessa. Si profilano due distinte situazioni.
- Quando la misura cessa di avere efficacia per effetto di un automatismo (nel caso, ad esempio, di scadenza dei termini massimi di custodia cautelare o di assoluzione), quindi, senza che sia necessaria la valutazione sulla persistenza o meno delle esigenze cautelari, la successiva ordinanza cautelare, emessa a seguito del venir meno dell’impedimento oggettivo […] fa riespandere l’efficacia originaria del titolo, rimasto temporaneamente quiescente, che, quindi, resta collegato al precedente ed è impugnabile con l’appello;
9.1. Ciò, peraltro, considerando che, in tali casi di inefficacia “automatica”, non viene meno la validità del titolo ma, appunto, solo la sua efficacia, per un fatto esterno all’ordinanza cautelare genetica, proprio come nel caso dell’art. 300, comma 1, cod. proc. pen.;
9.2. Viceversa, quando vi è una valutazione che esclude la sussistenza di uno o più presupposti applicativi l’ordinanza genetica viene eliminata e, quindi, ogni successiva misura disposta deve considerarsi non mera rinnovazione, ma misura nuova e, dunque, oggetto di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.;
- Secondo l’orientamento maggioritario, la possibilità, prevista dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., di reiterare la misura nei confronti dell’imputato assolto in primo grado, ma condannato in appello, implica che la misura medesima debba considerarsi una riemissione di quella in precedenza già disposta, la cui efficacia era stata paralizzata a seguito della pronuncia assolutoria. Sez. 1, Leuzzo, sottolinea sul punto: “E che non si tratti di una “nuova” misura suscettibile di impugnazione ex art. 309 c.p.p. è reso evidente dalla considerazione che nell’ipotesi in cui non sia stata emessa prima della sentenza di condanna alcuna misura, non troverebbe applicazione l’art. 300, comma 5, c.p.p., ma la misura cautelare potrebbe essere disposta in applicazione della regola generale di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p.;
10.1. L’avere voluto, invece, il legislatore prevedere espressamente la possibilità di riemettere la misura, significa riconoscere un nesso necessario ed indissolubile tra il primo ed il secondo provvedimento, che non può, quindi, considerarsi genetico ed impugnabile ai sensi dell’art. 309 c.p.p.”;
- La tesi avversata, secondo tale decisione, si scontrerebbe, in primo luogo, con la collocazione della previsione nell’ambito della norma dedicata all’estinzione delle misure per effetto di determinate sentenze, estinzione che “paralizza l’efficacia della misura, senza incidere sulla sua validità”.
- […] la decisione in esame ribadisce che, se il legislatore avesse inteso recidere qualunque collegamento tra la prima e la seconda applicazione della misura, la disposizione di cui al quinto comma dell’art. 300 sarebbe stata superflua, in quanto la possibilità di applicazione ex novo sarebbe stata regolata dalle disposizioni generali in tema di misure cautelari personali;
12.1. Inoltre, avvalorerebbe l’opzione prescelta (impugnabilità con l’appello cautelare) la circostanza della pacifica appellabilità, secondo consolidata giurisprudenza, del provvedimento applicativo della misura a seguito di scarcerazione per decorrenza dei termini (art. 307 cod. proc. pen.), caso ritenuto analogo a quello di cui si discute, “essendo entrambi caratterizzati dall’effetto paralizzante esercitato sulla misura da un fattore esterno, estraneo alla validità del titolo, e non incidente nel merito dello stesso”;
- Secondo Sez. 5, Timperanza, non giustificherebbe l’opposta tesi l’asserita omogeneità della previsione di cui all’art. 300, comma 5, con quella di cui all’art. 275, comma 1 -bis, cod. proc. pen., “data la diversità di sedes materiae delle due disposizioni”;
13.1. Del pari inidoneo a sostenere tale soluzione, prosegue la decisione in parola, sarebbe il richiamo operato ad una serie di provvedimenti che dispongono la misura cautelare ritenuti dalla giurisprudenza impugnabili con richiesta di riesame;
13.2. Anzi, l’applicabilità di tale rimedio nei casi di revoca della custodia cautelare, inefficacia della misura per mancato rispetto dei termini di cui all’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., nuova ordinanza emessa dal giudice competente o a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione, confermerebbe la conclusione per cui, in caso di provvedimento ex art. 300, comma 5, il rimedio è quello dell’appello, “essendo l’inefficacia di quello precedente estranea alla validità e al merito di esso, non discendente da violazione di legge, né dal carattere provvisorio di quello emesso da giudice incompetente, né conseguenza di annullamento”;
13.3. Si rimarca, del resto, che anche l’orientamento della giurisprudenza di legittimità favorevole all’impugnabilità, mediante richiesta di riesame, dell’ordinanza emessa a seguito di caducazione di precedente misura per omessa effettuazione nei termini dell’interrogatorio di garanzia apporterebbe ulteriore conforto alla tesi dell’appello, “dal momento che, in quel caso, non diversamente che in quello dell’inosservanza dei termini di cui all’art. 309, co. 5 e 10 cpp, la violazione di legge che inquina il precedente provvedimento comporta la novità ed autonomia del successivo;
13.4. Il che non accade nell’ipotesi di cui all’art. 300 co. 5 c.p.p.”. Anche la incontestata giurisprudenza che, in quest’ultima ipotesi, esclude la necessità dell’interrogatorio di garanzia, ulteriormente corroborerebbe la tesi “del carattere ripristinatorio della precedente applicazione della misura”;
- […Quanto al contrapposto orientamento favorevole all’esperibilità dell’istanzadi riesame per impugnare l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., non si rinvengono, nel panorama della giurisprudenza di legittimità, pronunce diverse […] secondo la quale la misura caducata o, comunque, divenuta inefficace deve ritenersi come mai esistita e, dunque, tamquam non esset, con l’effetto che l’eventuale misura reiterativa, in quanto essa stessa “ordinanza che dispone una misura coercitiva”, dovrebbe essere assoggettata alla richiesta di riesame;
- Nella pronuncia richiamata, si afferma che la tesi contraria della proponibilità dell’appello cautelare nel caso di rinnovazione della misura a seguito della perdita di efficacia di quella originaria apparirebbe in contrasto con la lettera del primo comma dell’art. 309, che parla di ordinanza che “dispone” una misura cautelare, con tale espressione determinando il possibile oggetto della richiesta di riesame, senza ulteriori specificazioni o limitazioni, e richiamando tutte indistintamente le ordinanze impositive, sia quelle emesse per la prima volta che quelle costituenti reiterazione di precedenti provvedimenti per qualsiasi ragione caducati;
15.1. Secondo la sentenza Sciascia, una interpretazione più restrittiva, che escludesse dal riesame i provvedimenti meramente reiterativi, equivarrebbe alla creazione di una norma sostanzialmente nuova, contenente, pur in assenza di un esplicito dato testuale, una non consentita limitazione del suo ambito di applicabilità all’ordinanza che dispone “per la prima volta” una misura coercitiva;
- L’ordinanza di rimessione riconduce al medesimo filone ermeneutico alcune decisioni che, pur senza affrontare espressamente il tema dell’ammissibilità del mezzo, ma dando implicitamente per assodata la sussistenza di tale presupposto processuale, hanno definito procedimenti susseguenti all’adozione di provvedimenti ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., impugnati con richiesta di riesame […];
16.1. La citata ordinanza osserva, inoltre, che un maggiore sforzo di elaborazione a sostegno dell’orientamento minoritario è stato profuso da una parte della dottrina attraverso la formulazione di plurimi rilievi critici nei confronti della prospettazione prevalente. La tesi maggioritaria non terrebbe conto, in primo luogo, della collocazione sistematica dell’art. 300 cod. proc. pen., che si pone all’esordio di una serie di norme (artt. 301, 302 e 303 cod. proc. pen.) accomunate dal fatto di determinare la perenzione ex lege del provvedimento custodiale;
16.2. In secondo luogo, svilirebbe la rubrica e il tenore letterale dell’art. 300, comma 1, cod. proc. pen., che, esprimendosi nel senso della “estinzione”, non possono che rimandare a situazioni che privano di efficacia in maniera definitiva la misura precedentemente emessa;
16.3. Sempre nell’ottica della valorizzazione dell’argomento letterale, si assume che la locuzione “ordinanza che dispone una misura coercitiva” – senza aggiungere “per la prima volta” – con la quale l’art. 309, comma 1, cod. proc. pen. indica i provvedimenti suscettibili di riesame, consentirebbe di estendere al caso contemplato dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. la proponibilità dell’istanza di riesame, in quanto già riconosciuta pacificamente dalla giurisprudenza di legittimità in ipotesi che presentano tratti di analogia con quella in argomento;
16.4. Si ricorda, a titolo esemplificativo, che l’istanza di riesame è stata ammessa:
- a) avverso il provvedimento applicativo di una misura coercitiva dopo la revoca di quello precedente;
- b) contro l’ordinanza pronunciata a seguito della declaratoria di inefficacia di quella precedente per inosservanza dei termini di cui all’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen.;
- c) nei confronti della nuova ordinanza emessa dal giudice competente ex art. 27 cod. proc. pen.;
- d) nel caso del provvedimento reiterato dopo la caducazione di quello precedente annullato dalla Corte di cassazione;
- e) nel caso di misura adottata, ai sensi dell’art. 302 cod. proc. pen., a seguito di perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare per omesso interrogatorio di garanzia ex art. 294 cod. proc. pen.;
16.5. A sostegno dell’orientamento minoritario, si sostiene, inoltre, che, dopo l’intervento di una decisione vincolante sul merito, le condizioni di applicabilità del provvedimento limitativo della libertà personale non potrebbero considerarsi le medesime del titolo “anteriore”, atteso che proprio i gravi indizi di colpevolezza, ritenuti sussistenti nel corso del giudizio di primo grado, sono, successivamente, venuti meno a seguito della declaratoria di proscioglimento dibattimentale ovvero di una sentenza di non luogo a procedere per riemergere, invece, nel giudizio di appello o contestualmente alla sentenza di condanna per lo stesso fatto;
- Si sostiene, quindi, la sostanziale equiparabilità della situazione del condannato in appello, nei termini di cui all’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a quelle previste dal legislatore nelle ipotesi di cui ai commi 1-bis e 2-ter dell’art. 275 cod. proc. pen., nel senso che il giudice, nell’applicare la misura cautelare, in tutti e tre i casi, dovrà rapportare la propria valutazione all’esito del procedimento, alle modalità del fatto e agli elementi sopravvenuti;
17.1.Si osserva, a tale riguardo, che la disposizione di cui all’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., con la quale – unitamente al comma 2-ter – viene attribuito rilievo alla pronuncia di colpevolezza in secondo grado, assume un proprio significato nel raffronto con il precetto già esistente dell’art. 300, comma 5, in quanto essa determina una omologazione dei criteri valutativi e delle regole alle quali il giudice deve attenersi all’atto della applicazione della misura; per effetto di tale omologazione, viene precluso, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, il ricorso all’esigenza probatoria, pervenendosi alla emissione di un’ordinanza genetica suscettibile di riesame e non all’adozione di un provvedimento concernente la rinnovazione, la modificazione o l’estinzione della misura avverso il quale è proponibile appello ex art. 310 cod. proc. pen. 4;
- Tutto ciò premesso, ritiene il Collegio che l’imputato, il quale si trovi nella situazione processuale delineata dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., debba impugnare con l’istanza di riesame l’ordinanza con la quale sia stata disposta nei suoi confronti la custodia cautelare in carcere, emessa a seguito di condanna pronunciata al termine del giudizio di appello;
- La rassegna giurisprudenziale di cui si è appena dato atto consente di formulare una prima considerazione di carattere generale;
19.1. Sulla questione sottoposta al vaglio del Collegio è intervenuto un numero contenuto di pronunce, insufficienti a delineare un orientamento consolidato;
19.2.Il primo indirizzo è tuttora fondato, essenzialmente, su due sole pronunce, risalenti nel tempo, le già menzionate sentenze Sez. 1, Leuzzo e Sez. 5[…];
19.3. Il secondo, viceversa, trova nutrimento, per lo più, da posizioni dottrinali e da un corredo di approdi giurisprudenziali dal carattere, però, ” implicito”, trattandosi, cioè, di decisioni che, nel definire procedimenti susseguenti all’emissione di provvedimenti ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., impugnati con richiesta di riesame, hanno dato ” implicitamente”per assodata la sussistenza di tale presupposto processuale, senza, tuttavia, occuparsi di rinvenire la giustificazione della sua attivazione […];
- È singolare, d’altro canto, rilevare, nell’analisi dei due orientamenti in commento, che l’uno e l’altro, nel giustificare le rispettive tesi, tendano a valorizzare, in parte, le medesime chiavi interpretative (ad es., la attera legis, il profilo sistematico), seppure facendone scaturire conseguenze di segno opposto;
- La navigazione in un arcipelago frammentato di isole decisorie come quello che si è descritto, mai realmente sedimentato e sovente affidato a una “deriva” tralaticia, suggerisce, allora, alle Sezioni Unite di individuare una più solida e coerente chiave di lettura con cui interpretare, non solo ai fini che qui strettamente rilevano, i fenomeni estintivi delle misure coercitive originariamente applicate e quelli, eventualmente, successivi, concernenti l’emissione di una “nuova” misura coercitiva in relazione allo “stesso fatto” ascritto all’indagato/imputato;
- Come noto, il Capo V (Estinzione delle misure) del Libro IV (Misure cautelari) del codice di rito disciplina tutti quei fenomeni in cui si concretizza il venir meno degli effetti delle misure cautelari personali, nonché le cause ostative al loro verificarsi (rinnovazione e proroga);
22.1. Mentre l’art. 299 cod. proc. pen. contempla la disciplina della revoca e della sostituzione delle misure, dipendenti, rispettivamente, dal venir meno dei presupposti di applicabilità delle stesse di cui agli artt. 273 e 274, ovvero, dalla attenuazione delle esigenze cautelari anche in funzione dell’adeguatezza e proporzionalità della cautela, negli articoli 300, 301 e 302 cod. proc. pen. sono disciplinati altri fenomeni estintivi che, pur nella loro diversità, si contrappongono unitariamente alla revoca, in quanto caratterizzati dall’automatismo delle conseguenze che si ricollegano al verificarsi di determinati eventi, salvo l’intervento di fattori ostativi, quali la rinnovazione e la proroga;
22.2. Il primo di tali fenomeni è preso in considerazione nell’art. 300 cod. proc. pen., ove si sottolinea l’incondizionato diritto della persona sottoposta a misura cautelare ad ottenere un’immediata reintegrazione dello status Ubertatis, in coincidenza con sentenze di proscioglimento che ribaltino la precedente valutazione di probabile “colpevolezza” posta a base della misura, ovvero che, pur avendo contenuto di condanna, pongano il permanere della misura in contrasto con il principio di proporzionalità (concessione della sospensione condizionale della pena, cause estintive della pena irrogata, pena di durata superiore a quella della custodia già sofferta: v. commi 3 e 4 del citato art. 300);
22.3. La normativa va letta, peraltro, tenendo conto anche del comma 2 del medesimo art. 300 cod. proc. pen., ove si precisa che la sentenza di proscioglimento per infermità mentale può comportare, in caso di applicazione della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (poi sostituita, in base alla legge 30 maggio 2014, n. 81, di conversione del D.L. 31 marzo 2014, n. 52, dalle “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”), la conversione della custodia cautelare, eventualmente disposta in un momento anteriore, nella provvisoria applicazione di detta misura di sicurezza, ai sensi dell’art. 312 cod. proc. pen.;
22.4. L’ultimo comma dell’art. 300, sottoposto all’odierno vaglio, prevede che l’imputato prosciolto e successivamente condannato per lo stesso fatto possa essere sottoposto a misure coercitive quando ricorrano le esigenze cautelari indicate nell’art. 274, lettere b) e c);
23.Tale disposizione, che condiziona ad una successiva condanna il ripristino della misura coercitiva nei confronti dell’imputato, trova applicazione tutte le volte in cui la precedente pronuncia di proscioglimento a seguito di dibattimento oppure la sentenza di non luogo a procedere (cui il primo comma della medesima norma ricollega l’effetto immediato della estinzione della misura cautelare) siano state riformate a seguito di impugnazione e non anche nel caso in cui sia intervenuta la revoca, ai sensi dell’art. 436, comma 1, cod. proc. pen., della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 cod. proc. pen.;
- Come esattamente messo in luce da Sez. 6, n. 927 del 17/03/1999, Giglio, […], la norma in questione costituisce la precisa attuazione della direttiva n. 63 della legge-delega n. 81 del 1987, la quale – come precisato dalla Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale – ha innovato in tal senso la delega del 1974, che, invece, stabiliva l’assoluto divieto di sottoporre a misure coercitive l’imputato prosciolto sino alpassaggio in giudicato della sentenza;
- La direttiva n. 63 recita: “previsione che, in caso di condanna dopo sentenza di assoluzione, il giudice possa disporre misure di coercizione quando sussistono inderogabili esigenze di tutela della collettività ovvero quando l’imputato si è dato alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga e il reato risulta di particolare gravità”;
- Così ricostruita la ratio legis, si rivela infondato il preliminare argomento sviluppato dal primo degli orientamenti ermeneutici in contrasto, secondo il quale, se il legislatore avesse inteso recidere qualunque collegamento tra la prima e la seconda applicazione della misura, la disposizione di cui al quinto comma dell’art. 300 sarebbe stata superflua, in quanto la possibilità di applicazione ex novo sarebbe stata regolata dalle disposizioni generali in tema di misure cautelari personali;
- La non superfluità della disposizione in esame discende, infatti, dalla necessità di dare coerente attuazione, da parte del legislatore delegato, ad una precisa direttiva proveniente dal legislatore delegante nei termini poc’anzi delineati;
- D’altro canto, non appare risolutivo ricorrere, come sostenuto dall’orientamento minoritario, al criterio “letterale” al fine di escludere qualsivoglia collegamento tra l’ordinanza genetica e quella emessa dopo la condanna in appello ai sensi dell’art. 300, comma 5;
- Secondo tale prospettazione, l’uso, nella norma in esame, del participio passato “disposte”, riferito alle misure coercitive da applicare, riecheggerebbe l’uso dell’indicativo presente “dispone”, contenuto nell’art. 309, comma 1, cod. proc. pen. relativo all’ordinanza – che, appunto, “dispone una misura coercitiva” – impugnabile con richiesta di riesame; a sua volta, tale locuzione verbale coinciderebbe con quella contenuta nell’art. 292, comma 2, cod. proc. pen. a proposito del provvedimento “genetico” (“L’ordinanza che dispone una misura cautelare…”);
- Tuttavia, l’idea di contrapporre, sulla sola base del criterio semantico-letterale, i provvedimenti che “dispongono” (suscettibili di riesame) a quelli che “ripristinano” misure cautelari (impugnabili con appello ex art. 310 cod. proc. pen.), non trova adeguato riscontro nell’impianto codicistico. In primo luogo, occorre evidenziare che lo stesso verbo “disporre” non è usato in maniera uniforme, afferendo esso a una gamma variegata di situazioni procedimentali, tra le quali, senza pretesa di esaustività, vanno annoverate:
- a) l’applicazione sia di misure coercitive (artt. 281 – 286 e 292 cod. proc. pen.) che di misure interdittive (artt. 288 – 290 e 308 cod. proc. pen.);
- b) la decorrenza degli effetti delle misure (art. 297 cod. proc. pen.);
- c) le modalità esecutive della misura, sia nel momento genetico che in quello relativo alla loro sostituzione (art. 299 cod. proc. pen.);
- d) le misure disposte, ai sensi dell’art. 299, comma 4, cod. proc. pen., in caso di aggravamento delle esigenze cautelari;
- e) i provvedimenti adottati in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte (art. 276 cod. proc. pen.);
- f) la misura emessa a seguito di estinzione della custodia per omesso interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare (art. 302 cod. proc. pen.);
- g) la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare (art. 304 cod. proc. pen.);
30.1 In secondo luogo, a dispetto della locuzione verbale usata, a fronte di alcune delle vicende cautelari elencate, il rimedio impugnatorio esperibile è pacificamente individuato dalla giurisprudenza di legittimità in quello dell’appello e non del riesame;
30.2. Si pensi ai casi di impugnazione proposta:
- a) avverso l’applicazione originaria di misure interdittive […];
- b) avverso provvedimenti inerenti alle modalità esecutive delle misure […];
- c) avverso provvedimenti adottati in tema di sospensione dei termini della custodia cautelare […];
- d) avverso provvedimenti emessi in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte
- e) avverso ordinanze emesse a seguito di aggravamento delle esigenze cautelari
30.2. Nella ricerca di un criterio ermeneutico maggiormente persuasivo, l’orientamento maggioritario, come già accennato, per valutare la novità o meno della misura emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., rispetto alla misura originariamente applicata e poi caducata, al fine di decidere, poi, sul mezzo di impugnazione del titolo cautelare ammissibile, ha ritenuto determinante individuare la causa di cessazione della misura stessa, ipotizzando due distinte situazioni: nella prima, contraddistinta dalla cessazione di efficacia della misura per effetto di un “automatismo” (scadenza dei termini massimi di custodia cautelare o sentenza di assoluzione), la successiva ordinanza cautelare, emessa a seguito del venir meno dell’impedimento oggettivo, farebbe “riespandere” l’efficacia originaria del titolo che, quindi, resterebbe collegato al precedente e sarebbe impugnabile con l’appello ex art. 310 cod. proc. pen.;
30.3. Nella seconda, caratterizzata da una valutazione che ha condotto alla cessazione del primo titolo (sopravvenuto venir meno delle esigenze cautelari), l’ordinanza genetica verrebbe eliminata del tutto e, quindi, ogni successiva misura disposta dovrebbe considerarsi quale misura “nuova” e, dunque, suscettibile di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.;
30.4. Neppure questa soluzione può, peraltro, considerarsi appagante, come messo in luce, soprattutto, da condivisibili critiche provenienti dalla dottrina. Si è, infatti, correttamente evidenziato che, in determinati casi di perdita di efficacia dell’ordinanza originaria per effetto di un “automatismo”, la concorde giurisprudenza di legittimità è orientata a reputare esperibile il mezzo dell’istanza di riesameavverso il provvedimento coercitivo successivamente adottato. Si tratta, in particolare, dell’impugnazione:
- a) dell’ordinanza pronunciata dopo ladeclaratoria di inefficacia della precedente per inosservanza dei termini di cui all’art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen. […];
- b) dell’ordinanza cautelare emessa dopo l’estinzione di altra precedente, divenuta inefficace, ai sensi dell’art. 302 cod. proc. pen., per omesso interrogatorio dell’imputato nei cinque giorni dall’iniziodell’esecuzione della custodia […];
- c) del provvedimento con il quale il giudice competente rinnova la misura cautelare disposta da giudice dichiaratosi incompetente […];
30.5. Nei casi appena elencati, in cui non vengono posti in discussione i presupposti della misura cautelare (gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari), ma si determina l’inefficacia della misura originariamente applicata per fattori esterni al provvedimento (essenzialmente legati al decorso vano di un termine perentorio), il provvedimento cautelare emesso successivamente alla caducazione del precedente viene considerato alla stregua di un autonomo e “nuovo” provvedimento, con il quale il giudice procedente è di nuovo chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti previsti dagli artt. 273 e 274 cod. proc. Pen;
- Avverso tale provvedimento è attivabile il rimedio del riesame e non quello dell’appello. Inadeguato, quindi, si rivela il criterio che, per stabilire se ci si trovi o meno dinanzi a un provvedimento cautelare “nuovo” rispetto al precedente caducato, ha inteso fare riferimento alla causa di cessazione dell’efficacia, escludendo il carattere di “novità” di quello emesso in seguito alla perdita di efficacia del precedente ascrivibile ad “automatismi” processuali;
- Ci si chiede, fra l’altro, se fra questi ultimi possa essere annoverata la sentenza di assoluzione, come tralaticiamente sostenuto dall’orientamento prevalente. Il Collegio ritiene che la risposta non possa che essere negativa. Il venir meno della misura originariamente applicata a seguito della sentenza di assoluzione, in primo grado, dell’imputato non può, invero, essere considerato il frutto di un”automatismo” processuale oggettivo, come nei casi sopra passati in rassegna, ma, piuttosto, il risultato di un ribaltamento integrale dell’originario quadro indiziario e cautelare, cui il giudice procedente è pervenuto, nell’esercizio della sua discrezionalità valutativa, in base al compendio probatorio acquisito, e che lo ha indotto, con la decisione assolutoria, a travolgere dalle fondamenta la misura coercitiva già applicata;
- È proprio partendo dal significato della pronuncia di assoluzione in primo grado che all’interprete è consentito orientarsi verso un approdo esegetico che lo autorizza ad attribuire carattere di “novità” e “autonomia” al provvedimento cautelare emesso successivamente alla condanna, in appello, per lo stesso fatto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen.;
- Ed invero, rispetto alla prima misura coercitiva applicata, la sentenza di assoluzione, che ne fa venir meno l’efficacia, innegabilmente costituisce una forte cesura, come, del resto, si evince dalle ragioni che hanno portato all’introduzione della norma in commento, siccome richiamate dalla già citata Sez. 6, n. 927 del 1999 […];
- Se questo è vero, è altrettanto indubbio che la nuova misura susseguente a sentenza di condanna in appello viene emessa dopo un nuovo giudizio di cognizione in appello suscettibile di essere arricchito da nuove prove, sicché difficilmente può dubitarsi della sua autonomia rispetto al primo provvedimento caducato in conseguenza dell’assoluzione;
- Va osservato, al riguardo, che, anche a prescindere dall’acquisizione di nuovi elementi istruttori, le valutazioni effettuate in appello, seppur basate sullo “stesso fatto”, possono contenere nuovi apprezzamenti in merito al riconoscimento di circostanze in un primo momento escluse dalla ordinanza genetica o diversi apprezzamenti in tema di ricostruzione del fatto, intensità del dolo, personalità dell’imputato, idonei come tali a modificare sensibilmente il quadro cautelare;
- In questo caso, quindi, appare quantomeno problematico parlare di “reviviscenza” di un’ordinanza che ha perso efficacia e che viene sostituita da un provvedimento il quale, nei limiti descritti, certamente ha un contenuto di novità;
- In argomento, può richiamarsi Sez. 1, n. 13407 del 08/01/2021, Iadonisi, Rv. 281055 – 01, che ha affermato come la stessa pronuncia di una sentenza di condanna costituisce, di per sé, un fatto nuovo che legittima l’emissione di una misura coercitiva personale, basata su nuove e diverse esigenze cautelari, non ostando a tal fine la formazione di un giudicato cautelare precedente. 8.2. Si è, inoltre, sottolineata, perspicuamente, in dottrina, nel raffronto tra l’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. e le disposizioni di cui all’art. 275, commi 1-bis e 2-ter, cod. proc. pen., l’omologia dei criteri valutativi e delle regole alle quali il giudice deve attenersi nell’applicazione della misura conseguente alla condanna inflitta;
- Va, poi, brevemente, rammentato che l’art. 275 cod. proc. pen., modificato da ultimo dall’art. 16, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, come modificato dalla I. 19 gennaio 2001, n. 4 e, successivamente, dalla I. 26 marzo 2011, n. 128, art. 14, comprende, per effetto dei citati interventi legislativi, il comma 1-bis e il comma 2-ter.;
39.1. Il primo comma impone al giudice, contestualmente alla pronuncia di una sentenza di condanna, un particolare esame delle esigenze cautelari ex art. 274 cod. proc. pen., lett. b) e c), da apprezzare alla luce dell’esito del procedimento, della sanzione applicata, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, al fine di stabilire se, a seguito della decisione di condanna, si renda necessaria l’adozione di una misura cautelare personale;
39.2. Il secondo comma regola, invece, l’applicazione di misure cautelari personali nei casi di condanna in appello per uno dei reati indicati dall’art. 380, comma 1, cod. proc. pen., commessi da un soggetto recidivo, stabilendo l’obbligatorietà dell’adozione della misura cautelare in presenza delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 cod. proc. pen. esaminate secondo i parametri fissati dal comma 1-bis della medesima disposizione;
- La Corte di legittimità ha posto in evidenza la diversa portata delle due disposizioni: la prima, come è reso palese anche dal chiaro e univoco tenore letterale, impone al giudice che pronunci una sentenza di condanna una valutazione discrezionale, in base a parametri predefiniti, della sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), cod. proc. pen.;
40.1. La seconda stabilisce l’obbligo per il giudice di appello, quando l’anzidetta valutazione si risolva nell’accertamento della sussistenza delle esigenze cautelari, di adottare la misura nei casi in precedenza indicati di condanna per uno dei reati elencati nell’art. 380, comma 1, cod. proc. pen., commessi da soggetto recidivo;
- Nelle citate pronunce si è precisato che l’interpretazione logico sistematica dell’art. 275, commi 1 -bis e 2-ter, cod. proc. pen. rende chiaro che, al di fuori delle ipotesi (art. 275, comma 2-ter, cod. proc. pen.) in cui l’adozione della misura è obbligatoria, rimane comunque salva la facoltà del giudice d’appello di valutare discrezionalmente la necessità o meno della misura, non diversamente da quanto può fare il giudice di primo grado;
- Una differente lettura delle due disposizioni, si è osservato, porterebbe a risultati paradossali, attribuendo al giudice di primo grado un potere più ampio e incisivo rispetto a quello d’appello, pur in presenza di un accertamento di merito più approfondito in conseguenza dell’intervenuto vaglio delle censure mosse alla decisione del primo giudice;
- Si è, quindi, affermato che l’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., che impone al giudice di osservare determinati criteri ai fini della valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari “contestualmente” a una sentenza di condanna, lungi dal limitare l’applicabilità delle misure cautelari al momento stesso della pronuncia della sentenza di condanna, impone solo una particolare regola di giudizio in ordine all’esame delle esigenze cautelari qualora l’imputatosia stato condannato;
- Pur se la previsione può apparire scontata […] appare chiaro che la sua ratio è quella di ampliare i margini di applicabilità delle misure cautelari in termini di apprezzamento della sussistenza di esigenze cautelari e dei criteri di scelta tra esse e, nello stesso tempo, di imporre al giudice, in presenza di una richiesta del pubblico ministero, di non ritardare a un tempo successivo alla pronuncia di condanna la decisione circa l’applicazione della misura […];
44.1. Ciò detto, sembra difficilmente contestabile che le tre disposizioni poste a raffronto (art. 300, comma 5, e art. 275, commi 1-bis e 2-ter, cod. proc. pen.) presentino tratti di analogia, se non di vera e propria omologia quanto al compito demandato al giudice che applica una misura cautelare personale contestualmente o successivamente a una sentenza di condanna. Ed invero, nei casi indicati, si impone al giudice di rivalutare le esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. b) e c), cod. proc. pen. attraverso un accertamento compiuto alla luce dei fatti emersi nel processo, anche di secondo grado;
44.2. Si tratta di un accertamento che contiene, evidentemente, una componente di “novità”, in quanto viene effettuato su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica operata in sede di emissione della ordinanza genetica, tenuto conto che è trascorso del tempo e, intanto, è intervenuta la sentenza di condanna di secondo grado; a riprova di ciò, si ricorda che in questa fase il giudice potrà applicare una misura più o meno grave rispetto a quella precedentemente eseguita che ha perso efficacia, a dimostrazione della autonomia e novità del suo giudizio;
44.3. E se è vero che tale valutazione non si estende al pericolo di inquinamento probatorio, questo avviene non perché si è realizzata una reviviscenza degli effetti e della valutazione dell’ordinanza genetica, ma perché in questa fase le prove a sostegno dell’accusa sono, ormai, cristallizzate;
- […] La giurisprudenza di legittimità ha già affermato, in più occasioni, il principio per cui, in caso di applicazione della misura a seguito di sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., si è in presenza di una “nuova” misura, anche laddove il titolo originario sia stato caducato per motivi inerenti alla dichiarata insussistenza, in sede di riesame, delle esigenze cautelari, sicché avverso di essa è esperibile l’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 45140 del 20/06/2014, De Biase, […]; Sez. 1, n. 43814 del 08/10/2008, […]);
45.1. Non sarebbe, quindi, ragionevole, in presenza di analogia o di omologia di situazioni processuali, distinguere gli strumenti di tutela a disposizione dell’imputato, individuandol’opzione dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen. per il solo caso contemplato dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen.;
45.2. Altrettanto irragionevole, sul piano della tutela dell’imputato e della effettività del suo diritto di difesa, sarebbe distinguere la posizione dell’imputato condannato in appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, senza essere mai stato raggiunto da precedente titolo cautelare o dopo essere stato destinatario di titolo cautelare poi annullato o revocato nel corrispondente subprocedimento cautelare, e l’imputato condannato in sede di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, dopo essere stato prosciolto in primo grado: la proposizione del riesame per il primo ambito e dell’appello per il secondo non rinverrebbe idonea giustificazione – secondo la convincente obiezione sollevata dalla dottrina – nella differenza di situazioni di fatto, a fronte della omologia della valutazione dei presupposti di emissione di un’ulteriore misura nei confronti di ognuno dei destinatari della stessa;
- Tirando le fila del ragionamento, il Collegio ritiene che l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., non possa considerarsi quale semplice “reviviscenza” dell’ordinanza genetica, poi caducata, a fronte di un quadro cautelare certamente inciso dal trascorrere del tempo e dall’intervento della sentenza di condanna in appello, che ha ribaltato la decisione di proscioglimento adottata in primo grado: il provvedimento de quo, viceversa, presenta indubbi aspetti di “novità” ed “autonomia” in confronto a quello precedente, sì da giustificare, per la sua impugnazione, l’attivazione del procedimento di riesame;
- Alla luce di quanto prima esposto, concorrono a sostenere tale approdo:
- a) il carattere di forte cesura impresso alla primigenia vicenda cautelare dalla sentenza di assoluzione emessa in primo grado, in coerenza con la già ricordata ratio giustificatrice della introduzione della norma in commento;
- b) la componente di “novità” intrinseca nel giudizio di appello e nella condanna che ribalti la pronuncia assolutoria, essendo rimesso al giudice di secondo grado, anche in assenza di rinnovazione istruttoria dibattimentale, il compito di “rivalutare” le esigenze cautelari mediante un accertamento compiuto alla stregua dei fatti emersi nel processo, anche sopravvenuti, e necessariamente effettuato su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica operata in sede di emissione della ordinanza genetica, poi venuta meno;
- c) l’omologia dei criteri valutativi e delle regole che il giudice emittente l’ordinanza di cui all’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. è tenuto ad applicare rispetto ai criteri e alle regole imposti al giudice emittente la misura cautelare nei casi previsti dall’art. 275, commi 1 -bis e 2-ter, cod. proc. pen., con riferimento ai quali la giurisprudenza di legittimità ha affermato la praticabilità del ricorso con istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.;
- d) l’esigenza di evitare irragionevoli discriminazioni, nell’opzione dello strumento di tutela, tra medesime situazioni di fatto;
- Può, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativadella custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.”.
48.1.Tale principio si pone in una linea di coerenza sistematica con il carattere pacificamente residuale dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen. e con il corrispondente favor espresso dal legislatore per lo strumento del riesame, nell’ottica di una più ampia (mezzo pienamente devolutivo, non condizionato dalla necessità di formulare specifici motivi) e celere (decisione del Tribunale in tempi serrati) tutela del diritto effettivo di difesa. Esso, inoltre, si rivela del tutto adeguato anche in un’ottica di esegesi orientata costituzionalmente (artt. 3, 13, 24 e 111 Cost.) e convenzionalmente;
48.2. A quest’ultimo riguardo, è utile ricordare il disposto dell’art. 5, par. 4, CEDU, secondo il quale “Ogni persona privata della libertà… ha diritto di presentare ricorso a un Tribunale affinché decida entro un breve termine sulla legittimità della sua detenzione…”;
48.3. Non è, pertanto, arbitrario affermare che l’enunciato principio, trascendendo il caso di specie, possa fornire all’interprete le chiavi di lettura utili a riconoscere icasi in cui sia consentito parlare di “nuova” misura cautelare, suscettibile di essere impugnata con l’istanza di riesame;
48.4 Il Collegio ritiene, in conclusione, che possa parlarsi di “nuova” misura, impugnabile con istanza di riesame, tutte le volte che la misura originariamente applicata venga caducata, per qualsivoglia ragione, e ne venga emessa una successiva, autonoma dalla prima, ossia non condizionata dalla precedente vicenda cautelare. 12.1. A fronte di tale regola, di carattere tendenzialmente generale, deve tenersi conto delle eccezioni che lo stesso legislatore indica e, segnatamente:
- a) nel caso di proroga dei termini di custodia cautelare, previsto dall’art. 305 cod. proc. pen., che, al comma 2, contempla l’appellabilità dell’ordinanza di proroga a norma dell’art. 310 cod. proc. pen.;
- b) nel caso di “rinnovazione” di misura cautelare disposta per esigenze probatorie, ai sensi dell’art. 301, comma 1, cod. proc. pen.: per quanto manchi un esplicito riferimento al mezzo di impugnazione esperibile avverso il provvedimento di rinnovazione, la giurisprudenza di legittimità lo ha individuato nell’appello cautelare (Sez. 1, n. 31244 del 07/07/2009, […]), tenuto conto, da un lato, che la “rinnovazione” è, secondo il significato proprio del termine usato dal legislatore, una mera reiterazione della misura, e quindi presuppone la persistenza dell’unica esigenza che ne costituiva l’originario fondamento; e considerato, dall’altro, il richiamo, operato dal comma 2 della disposizione in esame, ai limiti previsti dall’art. 305 cod. proc. pen., costituendo entrambi gli istituti (quello di rinnovazione della misura e quello di proroga dei termini di custodia), l’uno indipendentemente dall’altro, titolo idoneo a protrarre, entro i detti limiti, la custodia, anche in deroga al termine ordinario (Sez. 1, n. 35687 del 10/02/2003, Tramonte, Rv. 226109 – 01);
- c) nei casi previsti dall’art. 307, comma 2, lett. a) e b), cod. proc. pen., atteso che l’uso del termine “ripristina” da parte del legislatore, riferito alla custodia cautelare, consente di ritenere ravvisabile uno stretto collegamento con la misura originariamente applicata […];
- d) nel caso previsto dall’art. 307, comma 4, cod. proc. pen., poiché anch’esso afferente, come nell’ipotesi contemplata dal comma 2, lett. a), dello stesso articolo, a un episodio di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare disposta a norma del comma 1 ovvero alla fattispecie prevista dal comma 2, lett. b), quando l’imputato stia per darsi alla fuga. Proprio perché si innestano, quali eventi modificativi, sulla stessa misura cautelare inizialmente applicata, devono reputarsi, infine, pacificamente appellabili ex art. 310 cod. proc. pen. i provvedimenti di aggravamento delle misure previsti dagli artt. 276 cod. proc. Pen […], 299, comma 4, e 275, comma 1 -bis, cod. proc. pen. […];
- Una nuova misura, viceversa, deve ritenersi quella emessa ai sensi dell’art. 307, comma 1, cod. proc. pen., perciò soggetta al procedimento di riesame ex art. 309 cod. proc. pen. La prevalente giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di applicazione di altre misure cautelari nei confronti dell’indagato posto in libertà per decorrenza dei termini, l’inciso contenuto nel primo comma dell’art. 307 cod. proc. pen., come novellato dall’art. 2, comma 5, del D.L. 24 novembre 2000 n. 341, convertito dalla legge 9 gennaio 2001 n. 4, che consente l’adozione di misure sostitutive “solo se sussistano le ragioni che avevano determinato la custodia cautelare”, va interpretato nel senso che occorre una verifica in positivo della persistenza delle condizioni di applicabilità della misura;
- Tale verifica non può consistere, pertanto, nel semplice richiamo dell’accertamento originario, ma deve dar conto delle ragioni per le quali si ritiene che sussistano nuove e comprovate esigenze cautelari, diverse da quelle originarie, sopravvenute alla scarcerazione […];
50.1. Anche a voler ritenere, […], che l’inciso suddetto vada interpretato nel senso di ricomprendere sia la permanenza di tutte, alcune, o una sola delle esigenze originarie, sia la sopravvenienza di nuove esigenze, non vi è dubbio che la valutazione demandata in tal caso al giudice, debba essere improntata, necessariamente, all’attualità, e perciò generatrice di un provvedimento “nuovo”, privo, cioè, di collegamento con la misura originariamente disposta e venuta meno per la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di custodia;
50.2. Per queste ragioni l’ordinanza emessa nella situazione descritta deve essere impugnata con l’istanza di riesame e non con l’appello cautelare, come, di contro, sostenuto da Sez. 6, n. 17152 del 23/03/2022, Isca, […], con una pronuncia rimasta, peraltro, isolata, se si fa eccezione per la risalente Sez. 5, n. 261 del 25/01/1996 […];
51.Tanto premesso e venendo alla vicenda in esame, deve, anzitutto, disattendersi la prospettazione contenuta nella requisitoria scritta della Procura generale, secondo la quale l’esperibilità dello strumento del riesame dipenderebbe, nell’occasione, dalla “diversità” del fatto per il quale l’odierno ricorrente è stato condannato (concorso anomalo ex art. 116 cod. pen. nei reati di omicidio e di tentato omicidio) rispetto a quello contestatogli nella originaria fase cautelare (concorso pieno ex art. 110 cod. pen. nei suddetti reati);
- In primo luogo, perché già in sede di riesame, per come esposto in premessa, il Tribunale di Napoli riconobbe, per tutti i coindagati, la ravvisabilità del concorso anomalo. In secondo luogo, perché siffatta tipologia di concorso costituisce forma di manifestazione del reato di omicidio punito dall’art. 575 cod. pen. e non immuta, perciò, il titolo di reato che sostiene la misura cautelare […];
- Non venendo in discussione, nella specie, l’identità del fatto, va fatta applicazione del principio di diritto prima enunciato, nel senso che la generica impugnazione proposta nell’interesse di A.A. avverso il provvedimento applicativo della custodia in carcere emesso nei suoi confronti dalla Corte di assise di appello di Napoli dopo la sentenza di condanna in secondo grado deve essere qualificata come istanza di riesame e non come appello cautelare, dal che consegue l’irrilevanza, ai fini dell’ammissibilità, della mancanza dei motivi contestuali […];
- Proprio perché si tratta di misura cautelare susseguente a una sentenza di condanna, non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia, come affermato da Sez.U, n. 18190 del 22/01/2009, La Mari, […], con decisione condivisa dal Collegio. In conclusione, l’ordinanza impugnata va annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Tribunale di Napoli per il giudizio di riesame. […].