Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 05 dicembre 2023, n. 33954
PRINCIPIO DI DIRITTO
Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione ed erronea applicazione degli artt. 167 e 342 c.p.c., per non avere la Corte d’Appello preso atto dell’inammissibilità dei motivi di appello per il loro difetto di specificità. In particolare, il motivo, con il quale si poneva la questione della carenza di sussidiarietà dell’azione di arricchimento senza causa accolta dal Tribunale, era carente quanto al soddisfacimento dei requisiti dettati dall’art. 342 c.p.c., come novellato nel 2012, mancando una chiara ed esauriente individuazione della materia del contendere devoluta al giudice di appello ed una contrapposizione delle argomentazioni dell’appellante a quelle fatte proprie dal Tribunale.
Il secondo motivo di ricorso lamenta, sempre in relazione all’eccezione di difetto di specificità del motivo di appello, la violazione degli artt. 99, 112, 132 e 167 c.p.c., nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in quanto la sentenza di appello non reca alcuna motivazione per confutare la fondatezza della dedotta eccezione di inammissibilità.
Il terzo motivo lamenta la violazione degli artt. 2041 e 2042 c.c. quanto al riscontro da parte della Corte d’Appello del difetto del carattere della sussidiarietà dell’azione accolta in primo grado. La sentenza si è incentrata su di una valutazione in astratto circa l’esistenza di una diversa azione in favore della ricorrente, trascurando però che la domanda de qua era stata avanzata in via subordinata rispetto a quella di cui all’art. 1337 c.c.
Dopo aver ricordato che la giurisprudenza riconosce la proponibilità della domanda di arricchimento senza causa nel casi in cui la domanda fondata su di un diverso titolo sia stata disattesa per il riscontro del difetto ab origine dello stesso titolo, la ricorrente richiama la più recente giurisprudenza di questa Corte che ha però reputato che la valutazione in astratto debba operare solo nel caso in cui la domanda principale possa reputarsi tipica, e non anche nella diversa ipotesi, qui sussistente, in cui l’azione spettante in astratto al richiedente sia fondata su clausole generali, come la domanda di risarcimento del danno per responsabilità aquiliana o precontrattuale.
Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 2041 e 2042 c.c. sotto un diverso profilo, e precisamente rilevando che la costante interpretazione giurisprudenziale del requisito della sussidiarietà è nel senso che lo stesso sia soddisfatto anche nel caso in cui la domanda principale sia stata rigettata in quanto non siano stati provati i fatti che la fondano, dovendosi quindi opinare per un tendenziale riconoscimento della valutazione della sussidiarietà in concreto.
Il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 2041 e 2042 c.c. sotto l’ulteriore profilo rappresentato dalla circostanza che il Tribunale aveva rigettato la domanda di responsabilità precontrattuale proposta nei confronti del Comune, ritenendo che dalle prove raccolte non emergeva l’assunzione da parte dell’amministrazione comunale di un impegno nel senso auspicato dalla società. Ne deriva che, poiché è stata esclusa la ricorrenza dei presupposti fondanti la responsabilità ex art. 1337 c.c., la domanda di arricchimento avanzata in via subordinata era proponibile.
Il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 91 c.p.c. e delle previsioni di cui al DM n. 55/2014, in quanto la liquidazione delle spese di lite sarebbe avvenuta in base ai valori medi, ma senza tenere conto della tardiva costituzione del Comune in primo grado e della limitata attività processuale svolta nella fase istruttoria, sicché andrebbe ridotto il compenso liquidato per detta fase.
2. I primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati. Non è, infatti, configurabile il vizio di omessa pronuncia quanto alla decisione, ancorché implicita, su questioni di carattere processuale, dovendosi al riguardo dare continuità al principio più volte affermato da questa Corte secondo cui, qualora il giudice d’appello abbia proceduto alla trattazione nel merito dell’impugnazione, ritenendo di non ravvisare un’ipotesi di inammissibilità, nella specie, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., la decisione sulla ammissibilità non è ulteriormente sindacabile sia davanti allo stesso giudice dell’appello che al giudice di legittimità nel ricorso per cassazione, anche alla luce del più generale principio secondo cui il vizio di omessa pronuncia non è configurabile su questioni processuali (Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018).
Quanto invece alla dedotta violazione dell’art. 342 c.p.c., la lettura del motivo di appello del Comune, che direttamente investiva la questione della ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c. per il preteso difetto del carattere della sussidiarietà, consente di affermare che lo stesso sia ampiamente satisfattivo dei requisiti di forma – sostanza dettati a seguito della novella della norma, nell’interpretazione della stessa norma che è stata offerta da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 27199/2017.
Avendo il Tribunale accolto la domanda di arricchimento senza causa, proposta dall’attrice in via subordinata rispetto a quella ex art. 1337 c.c. (rigettata per difetto di prova circa l‘esistenza di condotte da parte del Comune idonee ad ingenerare, in violazione della buona fede, l’affidamento della società circa l’impegno dell’ente locale a modificare la destinazione urbanistica del terreno della prima), senza che peraltro sia stata in alcun modo affrontata in primo grado la questione relativa al rispetto del precetto di cui all’art. 2042 c.c., il motivo di appello specificamente sviluppato sulla questione in esame, contiene una puntuale indicazione dei precedenti giurisprudenziali che, a detta dell’appellante, invece avrebbero dovuto indurre a dichiarare la domanda subordinata improponibile, sollecitando quindi (il che esclude che vi fosse la necessità di contrapporsi specificamente alle tesi sostenute dal giudice di primo grado) un rilievo di inammissibilità della domanda, imposto dalla norma citata, e pertanto una verifica che secondo la giurisprudenza di questa Corte si impone d’ufficio e per la prima volta anche in appello.
Infatti, precisa la Corte, la contestazione circa la natura sussidiaria dell’azione di arricchimento senza causa non integra un’eccezione in senso stretto, ma mira a confutare l’esistenza di un presupposto della domanda, richiesto dalla legge, sicché può essere rilevata d’ufficio dal giudice (cfr. Cass. n. 26199/2017), nei limiti in cui la circostanza risulti da elementi di fatto già acquisiti nel giudizio, ed è proponibile per la prima volta anche nel giudizio di appello, non operando il divieto di ius novorum posto dall’art. 345 c.p.c., (inapplicabile per le eccezioni rilevabili d’ufficio, cfr. Cass. n. 9486/2013).
Ciò comporta che ove la sentenza di primo grado abbia accolto l’azione di arricchimento senza causa, omettendo il previo riscontro positivo del requisito della sussidiarietà dell’azione medesima di cui all’art 2042 c.c., la relativa questione è rilevabile d’ufficio ed esaminabile dal giudice d’appello anche in difetto di uno specifico motivo di gravame, atteso che al riguardo non può dirsi formato il giudicato interno (Cass. n. 2046/2018), giudicato che invece è destinato a crearsi ove sia stata accolta la domanda de qua, risultando, quindi, preclusa la possibilità di poter successivamente azionare la domanda cd. tipica (Cass. n. 4099/2007).
L’assenza perciò di una specifica motivazione del Tribunale sul profilo relativo alla ricorrenza del requisito della sussidiarietà, unitamente alla possibilità per la parte di poter in ogni caso sollecitare, in presenza di altri motivi di appello che investivano la fondatezza della domanda di arricchimento, il riscontro ufficioso del requisito di cui all’art. 2042 c.c., consentono quindi di affermare che il motivo poi accolto era rispettoso del requisito di specificità imposto dalla norma, con il conseguente rigetto delle censure della ricorrente.
3. Evidenti ragioni di connessione impongono poi la congiunta disamina dei motivi dal terzo al quinto, i quali, sotto vari profili, attingono la corretta applicazione della regola di sussidiarietà dettata dall’art. 2042 c.c., assumendo la necessità di addivenire ad una rivalutazione della nozione di sussidiarietà quale recepita dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte, anche tramite una sua declinazione differenziata nel caso in cui la domanda principale si fondi sulla applicazione di clausole generali dell’ordinamento (come nel caso di responsabilità aquiliana o precontrattuale), aggiungendo, infine, che non erano state esattamente verificate le ragioni che avevano portato al rigetto della domanda svolta in via principale.
La questione posta dai motivi è stata poi ritenuta di particolare importanza dalla Terza Sezione che, con la menzionata ordinanza interlocutoria, ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per la valutazione circa la rimessione a queste Sezioni Unite. Occorre, quindi, dare rapidamente conto degli argomenti spesi nell’ordinanza di rimessione.
3.1 Il Collegio remittente ha richiamato la tesi della ricorrente, cui aderisce parte della giurisprudenza di questa Corte, a mente della quale la regola che rende solo residuale l’azione di arricchimento si applica nei soli casi in cui l’azione proposta in via principale è fondata o su contratto o sulla legge, e non è invocabile quando invece l’azione principale è fondata su una clausola generale, come nel caso in cui si fondi sulla responsabilità precontrattuale del convenuto. In pratica, a detta della ricorrente l’azione di arricchimento è residuale solo rispetto ad azioni basate sul contratto o sulla legge (si dice altresì che si tratta di azioni tipiche, mentre se l’azione alternativa è basata su una clausola generale, allora la sua disponibilità non preclude di agire con l’azione di arricchimento).
Secondo quanto affermato da Cass. n. 4620/2012, la ragione della regola della sussidiarietà risiede nell’esigenza di evitare che l’azione di arricchimento senza causa divenga strumento per eludere o aggirare i limiti esistenti nei confronti dell’azione tipica, limiti che invece non sussistono quando la parte può esercitare contro l’arricchito un’azione basata su clausola generale. Infatti, per poter dire che esiste un’azione alternativa a quella di arricchimento e che dunque quest’ultima è preclusa, occorre verificare il titolo, ossia occorre verificare se l’interessato abbia un titolo da far valere, in via principale e dunque in alternativa all’arricchimento.
Tuttavia, nei casi in cui l’azione principale è fondata su clausola generale, per stabilire se c’è un titolo che legittima quell’azione, e che di conseguenza impedisce l’alternativa di arricchimento, occorre valutare nel merito la domanda principale, e non limitarsi alla sua astratta disponibilità. Il precedente da ultimo richiamato ha altresì soggiunto che “sembra invece ultroneo ed eccessivo, in contrasto, in definitiva, con lo stesso requisito di tipicità che deve rivestire l’azione principale, spingere l’accertamento della condizione in parola al riscontro della sussistenza in concreto di tutte le condizioni richieste dalla legge per il sorgere di un obbligo a carico di un terzo di risarcire il danno per responsabilità precontrattuale, con l’effetto che l’indagine del giudice sconfinerebbe da un accertamento astratto dell’esistenza del relativo diritto per addentrarsi in una valutazione di merito in ordine alla fondatezza stessa della pretesa”.
Pertanto, ad avviso di questo orientamento, l’azione di arricchimento è residuale solo quando l’azione principale è fondata su contratto o sulla legge, dando luogo ad un’azione tipica: diversamente, se l’azione è fondata su clausola generale, per stabilire se v’è un’altra azione preclusiva a disposizione dell’interessato, occorrerebbe prima verificare il merito.
L’ordinanza richiama poi Cass. n. 843 del 2020, che ha aderito alla ratio del precedente del 2012, precisando che: “….il divieto di esperire azione di arricchimento, in presenza di azione tipica, serve ad evitare duplicazioni risarcitorie, ossia ad impedire che chi ha già ottenuto risarcimento o ragione con l’azione principale poi agisca nuovamente con l’azione di arricchimento lucrando di nuovo, ed ingiustamente, una seconda volta. E che la ratio sia di impedire che il soggetto impoverito, il quale abbia ottenuto ristoro mediante altro rimedio, ne ottenga un altro con l’azione di arricchimento, si ricaverebbe da talune disposizioni del codice civile che prevedono come alternativa l’azione di arricchimento rispetto ad altre (articoli 936 c.c., 1591 c.c.)”.
Quindi la giustificazione della natura residuale dell’azione sta nel divieto di cumulo delle azioni, così che se il depauperato ha già ottenuto ristoro con un’azione non può duplicare il suo risultato con un’altra; inoltre per verificare la residualità occorre verificare se c’è titolo per un’azione diversa (da quella di arricchimento) e quindi questa verifica è possibile solo se l’azione alternativa è fondata su contratto o su legge, altrimenti si finisce con il doversi spingere, per verificare se in astratto esiste azione, a dover accertare in concreto se essa è fondata: la verifica sulla esistenza di un’azione alternativa diventa, in altri termini, verifica della fondatezza in concreto.
La Terza Sezione nell’ordinanza interlocutoria, dopo aver ritenuto improprio il riferimento alla titolarità di un’azione tipica, quale fattore preclusivo di quella di arricchimento, sia in quanto le azioni (quali poteri processuali) non sono tipiche, sia perché, a ben vedere, non si deve correre il rischio di confondere l’asserita tipicità dell’azione con la tipicità della fattispecie, ha indagato la ratio della residualità, manifestando delle perplessità in ordine alla tesi secondo cui essa consista nel divieto di cumulo, ossia nell’esigenza di impedire che, ottenuto il risarcimento con l’azione principale, se ne ottenga un altro con quella di arricchimento, trattandosi di ipotesi di scuola e comunque impedita di per sé dalle regole sul giudicato o comunque dal principio per cui da un fatto illecito si può avere solo un risarcimento pari al danno e non superiore ad esso.
Ha, poi, escluso la pertinenza del richiamo da parte dei sostenitori dell’orientamento meno rigoroso a norme (artt. 936 e 1591 c.c.) che stanno a significare altro. Infatti, che il conduttore in mora nella restituzione della cosa, oltre a dover pagare il corrispettivo per il tempo che comunque la detiene per sé, debba altresì risarcire il danno da mancato godimento del locatore, è questione che ha poco a che fare con l’arricchimento ingiustificato, ma è regola che mira a dare al locatore la misura esatta del suo pregiudizio.
Così come nel caso dell’articolo 937 c.c. la scelta rimessa al proprietario se mantenere le opere fatte dal terzo sul proprio suolo anziché farle eliminare, e pagare l’eventuale differenza, non mira ad evitare un arricchimento ingiustificato del proprietario (men che mai del terzo), ma tutela un interesse del proprietario nel modo in cui reagire all’illecito, e trova la sua ragione nelle regole dei modi di acquisto della proprietà.
Ad avviso dell’ordinanza interlocutoria, la regola del principio di residualità opera in un senso contrario a quello sopra evidenziato, opera ossia ad evitare che chi ha perso l’azione principale, e dunque non ha ottenuto il risarcimento, possa aggirare questo esito ricorrendo all’azione di arricchimento ingiustificato. E’ per questo che l’azione di arricchimento è impedita se quella principale è prescritta (Cass. 30614/2018; Cass. 29916/2011): se la ratio fosse di evitare duplicazioni di risarcimento, prescritta o rigettata un’azione, quella di arricchimento dovrebbe essere consentita, posto che il suo accoglimento non porta ad una duplicazione.
Ogni volta che l’azione principale o alternativa non è più esercitabile o è stata rigettata, dovrebbe per conseguenza ammettersi che il danneggiato ha azione di arricchimento: in tale caso, infatti, non si corre il rischio di una duplicazione del risarcimento. Questa precisazione ha una sua conseguenza, in quanto non sarebbe possibile sulla base di tale argomento sostenere la tesi per la quale l’azione di arricchimento sarebbe residuale solo rispetto alle azioni derivanti da contratto o da legge, in quanto se l’esigenza che giustifica la residualità dell’azione di arricchimento è di impedire aggiramenti, allora non si comprende perché questa esigenza non la si debba avvertire anche quando il danneggiato ha un’azione alternativa basata su clausola generale.
Ne deriva che non vi sarebbero valide ragioni per limitare l’ambito della regola di cui all’art. 2042 c.c. ai soli casi in cui si disponga verso l’arricchito di un’azione basata su contratto o sulla legge.
Quanto alla considerazione secondo cui, quando l’azione principale è basata su clausola generale, per verificare se l’interessato ha un titolo da far valere (titolo che dunque impedisce l’altro, ossia quello da arricchimento) si dovrebbero accertare tutti i presupposti del diritto (per esempio, il dolo, il nesso di causa, l’ingiustizia del danno) e si finirebbe con il trasformare l’accertamento sulla esistenza del titolo nell’accertamento sulla fondatezza della domanda, l’ordinanza reputa che non si comprende perché la preclusione dell’azione di arricchimento non possa derivare dalla sola prospettazione o dal solo esperimento di un’azione svolta in via principale, e basata su una clausola generale, e si debba invece valutare se questa è fondata per poter dire che c’era o meno titolo per un’azione diversa.
Infatti, se la valutazione circa la sussidiarietà dell’azione in esame deve compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, non si richiede in concreto la prova di un rimedio concorrente concretamente fruibile, ma è sufficiente che un tale rimedio risulti configurato “in astratto”.
Tale indagine deve, quindi, ritenersi identica quale che sia la fattispecie che configura l’azione: l’accertamento della esistenza di un titolo in astratto che giustifica una diversa azione è identico quale che sia la fattispecie su cui l’azione è fondata.
Peraltro, anche ad ammettere che, nel caso di clausola generale, l’indagine sulla sussidiarietà dell’azione di arricchimento rischia di diventare indagine nel merito, ossia indagine che deve valutare non solo l’astratta disponibilità dell’azione alternativa, ma altresì se di quest’ultima sussistano ì presupposti, essa non ha più ragion d’essere quando, come nel caso presente, quell’indagine è stata già fatta e l’azione principale, giudicata nel merito, è stata rigettata.
I giudici di merito, osserva la Corte, hanno in altri termini ritenuto sfornita di prova la domanda di responsabilità precontrattuale, con la conseguenza che ammettere in questo caso la proposizione dell’azione di arricchimento significa aprire la possibilità di aggirare il rigetto della domanda principale mediante l’esperimento di quella sussidiaria. In questa prospettiva, ad avviso del Collegio remittente, nel caso in esame, si giustificherebbe l’impedimento all’azione di ingiustificato arricchimento, proprio per evitare l’aggiramento del rigetto, nel merito, dell’azione principale.
4. L’azione di ingiustificato arricchimento è un rimedio restitutorio mirante a neutralizzare lo squilibrio determinatosi, in conseguenza di diversi atti o fatti giuridici, tra le sfere patrimoniali di due soggetti, nei limiti – per l’appunto – dell’arricchimento che non sia sorretto da una “giusta causa”, nozione questa il cui approfondimento esula dal tema specificamente oggetto della presente sentenza.
A differenza di quanto previsto nel diritto romano, la scelta del legislatore denota come si sia voluto introdurre un rimedio di carattere generale, avente però natura sussidiaria alla stregua di norma di chiusura dell’ordinamento, attivabile in tutti quei casi in cui l’arricchimento di un soggetto in danno di altro soggetto non sia “corretto” da specifiche disposizioni di legge. Il nostro ordinamento, in questo accomunato con quello francese, ha conosciuto un’originaria resistenza al riconoscimento espresso dell’actio de in rem verso, in quanto sia il codice napoleonico sia quello italiano del 1865 non contemplavano espressamente l’azione di ingiustificato arricchimento, che però era stata ammessa dalla giurisprudenza in via interpretativa al fine di porre rimedio a tutti gli spostamenti di ricchezza privi di giustificazione causale.
Il codice del 1942, discostandosi dal modello francese, ha però dato riconoscimento di diritto positivo all’ingiustificato arricchimento, accordando un rimedio di carattere generale comune a tutte le fonti di obbligazioni di origine legale allo scopo precipuo di ‘‘integrare eccezionalmente le deficienti disposizioni del sistema legislativo’’.
L’introduzione dell’istituto è però stata accompagnata da quella che molti hanno ritenuto essere una vera e propria cautela da parte del legislatore, che è rappresentata dalla regola di sussidiarietà esplicitamente dettata dall’art. 2042 c.c., secondo cui il rimedio de quo non è azionabile quando l’impoverito ‘‘può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito’’, clausola che è invece assente nella legislazione di altri paesi, come ad esempio in Germania.
Varie sono le tesi che si sono presentate per offrirne la giustificazione. Parte della dottrina ha, infatti, reputato che il fondamento della clausola di sussidiarietà vada ravvisato nel principio di certezza del diritto, in quanto l’esperimento dell’azione di arricchimento, anche nel caso in cui l’attore sia titolare di azioni alternative, porrebbe in pericolo la generale tenuta del sistema sotto diversi profili.
In primo luogo, si paventa il pericolo di un’indebita locupletazione dell’impoverito, che potrebbe esperire in maniera cumulativa – accanto all’azione di ingiustificato arricchimento – gli ‘‘altri’’ rimedi, tesi a ristorare la sua posizione.
Ancora si è evidenziato il rischio di elusione della disciplina delle azioni alternative, in quanto sarebbe dato il ricorso al rimedio generale, anche nel caso in cui siano maturate preclusioni o decadenze relativamente alle azioni cd. principali.
Non è poi mancata la tesi che sottolinea il pericolo di attentato al principio di economia dei mezzi processuali, poiché permettere all’impoverito di esperire più rimedi concorrenti, implicherebbe l’abuso di una risorsa limitata, quale quella ‘‘giustizia’’.
Ad avviso di altri studiosi la ratio della clausola di sussidiarietà andrebbe individuata nella natura equitativa del rimedio di cui all’art. 2041 cod. civ. Pertanto, trattandosi di una norma di chiusura, ha inevitabilmente portata generale e residuale, di guisa che il suo ambito applicativo si comprime o espande a seconda della sussistenza o insussistenza di rimedi speciali alternativamente azionabili.
La dottrina ha altresì rimarcato che la corretta individuazione della ratio che sorregge la previsione in esame avrebbe poi anche riflessi in merito all’applicazione della regola di sussidiarietà, in quanto l’adesione al principio della salvaguardia della certezza del diritto, sorreggerebbe un’applicazione della clausola de qua in termini astratti, risultando quindi preclusa l’azione di ingiustificato arricchimento ove l’impoverito abbia a disposizione altri rimedi, a prescindere dalla loro concreta azionabilità.
Se invece si ritenga prevalente la ratio cd. equitativa, sarebbe conseguenziale optare per un’operatività della clausola in concreto, così che sarebbe possibile agire ex art. 2041 c.c. anche quando, pur essendo in astratto azionabili altri rimedi, essi siano – per qualsiasi ragione – concretamente preclusi.
In giurisprudenza le varie rationes individuate in dottrina sono state spesso richiamate a giustificazione dell’interpretazione più o meno rigorosa della regola dettata dall’art. 2042 c.c., come si ricava anche dalla puntuale esposizione contenuta nell’ordinanza di rimessione, ma va segnalato come, in relazione al tema dell’arricchimento mediato, che del pari involge il profilo della sussidiarietà dell’azione di arricchimento senza causa (potendo l’impoverito fruire dell’azione, di norma contrattuale, nei confronti del terzo soggetto, diverso da quello il cui patrimonio si sia arricchito, e mancando l’unicità del fatto causativo dell’impoverimento e dell’arricchimento), con l’intervento delle Sezioni Unite di questa Corte sia stata ammessa l’azione de qua nei soli casi in cui l’arricchimento sia stato realizzato dalla P.A., in conseguenza della prestazione resa dall’impoverito ad un ente pubblico, ovvero sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito.
In tale occasione la Corte ha però precisato che la deroga all’applicazione rigorosa della regola di sussidiarietà si legittimava onde perseguire lo scopo di equità che permea la norma, a voler quindi rimarcare che le esigenze equitative ben possano sorreggere una lettura della norma in termini più elastici rispetto a quanto invece suggerito dal tenore letterale dell’art. 2042 c.c.
5. L’opinione tradizionale, sostenuta anche nella dottrina espressasi nell’imminenza dell’entrata in vigore del codice civile, ha optato per una valutazione del presupposto della sussidiarietà in astratto, nel senso cioè che l’azione ex art. 2041 c.c. sarebbe esperibile solo quando l’ordinamento giuridico non appresti alcun altro rimedio “per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.
Pertanto, la mera esistenza di un’altra azione (avente fonte in un rapporto contrattuale o direttamente in una previsione di legge) preclude la tutela residuale, indipendentemente dal fatto che l’interessato ne abbia usufruito (invano) o che essa sia divenuta improponibile per altra ragione.
Pur con la deroga dettata in relazione all’arricchimento indiretto, per le ipotesi sopra richiamate, la prevalente giurisprudenza ha quindi optato per la soluzione secondo cui l’astratta sussistenza di un’altra azione (indipendentemente, dunque, dal fatto che essa sia stata infruttuosamente esercitata ovvero non sia più esercitabile per prescrizione o decadenza) preclude il ricorso all’azione di arricchimento senza causa (cfr. ex multis, e senza pretesa di esaustività, Cass. n. 1473/1960, non massimata; Cass. n. 1278 del 29/05/1962; Cass. n. 1737/1963; Cass. n. 3582/1968; Cass. n. 1073/1974; Cass. n. 1849/1980; Cass. n. 12242/2016; Cass. n. 20528/2017; Cass. n. 8694/2018; Cass. n. 29988/2018; Cass. n. 4909/2023, cui adde Cass. S.U. n. 28042/2008 e Cass. S.U. n. 9531/1996, che richiamano i precedenti sul punto, ma senza che però siano intervenute a risoluzione di un contrasto).
Il riferimento però alla superfluità circa l’accertamento della fondatezza nel merito della domanda appare temperato nella concreta applicazione giurisprudenziale, essendosi in più occasioni ribadito che torna ad essere esperibile l’azione di arricchimento nel caso in cui la diversa azione cd. principale sia stata disattesa “perché a priori insussistente”, così che la regola della sussidiarietà trova piena applicazione allorché il rigetto consegua all’accertamento della relativa infondatezza nel merito (Cass. n. 4398/1979; Cass. n. 3228/1995; Cass. n. 29988/2018, cit.).
Risulta, quindi, configurabile un discrimen tra le ipotesi di rigetto per infondatezza della domanda per difetto di prova, (ovvero, quando l’altra azione sia stata esercitata, ma la domanda sia stata respinta perché la fattispecie concreta, pur congrua, in astratto, alla previsione di legge, sia poi risultata difettosa di qualche requisito), da quelle in cui la domanda cd. principale sia stata respinta per non riconducibilità della fattispecie concreta alla fattispecie legale (cfr. Cass. n. 3682/1981, relativa all’ipotesi, molto frequente nella prassi, in cui l’azione di arricchimento venga accolta a seguito dell’accertamento della nullità del contratto – di norma concluso con la PA e per vizi di carattere formale; Cass. n. 4275/1983; Cass. n. 4269/1995; Cass. n. 7136/1996, per l’ipotesi di nullità del contratto per carenza della necessaria delibera autorizzativa da parte dell’ente pubblico contraente; Cass. n. 2350/2017).
Ed è proprio in relazione all’ipotesi di proposizione della domanda di arricchimento senza causa nel giudizio in cui sia stata già avanzata domanda di adempimento contrattuale, a fronte della contestazione circa la validità del titolo contrattuale che è sorta la problematica relativa alla sua ammissibilità in rito ed ai termini per la relativa proposizione, questione sulla quale è, infine, intervenuta Cass. S.U. n. 22404/2018, affermando che è ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta (affermazione che però presuppone a monte che sussista la sussidiarietà dell’azione ex art. 2041 c.c. rispetto ad una domanda di adempimento contrattuale, per la quale però il titolo si riveli nullo).
Peculiare è la fattispecie decisa da Cass. n. 10161/2021, non massimata, che ha ammesso l’esercizio dell’azione di arricchimento, dopo aver escluso l’astratta riconducibilità della fattispecie concreta, da un lato, al paradigma dell’impresa familiare, e dall’altro a quello del lavoro subordinato, e quindi all’esito di un riscontro della insussistenza degli elementi della diversa fattispecie posta alla base della domanda principale.
L’operatività della clausola di sussidiarietà è stata poi affermata nel caso in cui sulla domanda principale sia intervenuta la prescrizione (o decadenza) (Cass. n. 1125/1955 e più di recente Cass. n. 2318/1987; Cass. n. 30614/2018; Cass. n. 29916/2011).
5.1 Sulla spinta principalmente delle critiche della dottrina si è fatta strada anche una diversa soluzione che opta per una lettura dell’art. 2042 c.c. secondo cui la verifica della sussidiarietà dell’azione di arricchimento andrebbe condotta in concreto, dovendosi quindi ammettere il rimedio residuale ogni qualvolta il soggetto impoverito non disponga, in relazione alla specifica fattispecie concreta, di altro rimedio utile ad indennizzarlo per la perdita, indipendentemente dalla ragione per cui ciò accada.
Pertanto, il suo esercizio sarebbe ammesso in tutti i casi in cui si sia verificata la decadenza o la prescrizione dell’azione principale, quando l’azione sia in grado di offrire all’interessato utilità diverse o ulteriori rispetto a quelle apprestate dall’azione principale (si pensi nel caso di azione principale a carattere risarcitorio che non permette all’impoverito di recuperare i maggiori profitti che l’arricchito abbia conseguito tramite l’utilizzo di un bene dell’impoverito in assenza di consenso, in assenza di una specifica norma che operi in questo senso anche laddove sia esercitata l’azione risarcitoria, come appunto oggi previsto dall’art. 125, co. 3 del D. Lgs. n. 140/2006).
Chi, come accennato, valorizza l’esigenza equitativa che è alla base dell’art. 2041 c.c., opina nel senso che la regola di sussidiarietà mira solo ad impedire che l’impoverito possa conseguire più volte il ristoro del medesimo pregiudizio, così che ove tale eventualità sia scongiurata, anche per l’inerzia colpevole dello stesso impoverito, vi sarebbe spazio per l’azione in esame.
Su posizioni ancora più avanzate si pone parte della dottrina che si spinge a sostenere che la norma vieterebbe solo l’esercizio cumulativo, essendo dato però un concorso alternativo o integrativo (che si realizza allorquando la riparazione del pregiudizio patrimoniale, ottenuta attraverso l’utilizzo dell’altro rimedio, non sia stata integrale, e cioè quando il rimedio dell’arricchimento consenta di recuperare quanto l’azione risarcitoria non permette di conseguire).
Inoltre, la scelta per l’esercizio immediato dell’azione di arricchimento sarebbe possibile anche nel caso in cui volontariamente il danneggiato ometta di esercitare l’azione cd. principale in quanto sarebbe così scongiurato il pericolo di indebite locupletazioni scaturenti dal conseguimento di un duplice ristoro.
Esula, come accennato, poi dal tema oggetto della rimessione la diversa questione della applicazione dell’art. 2042 c.c. in caso di arricchimento indiretto, in quanto la Corte ritiene sul punto di dover tenere ferma la soluzione raggiunta in passato nell’intervento del 2008 (Cass. S.U. n. 24772/2008).
5.2 Gli argomenti sviluppati in dottrina hanno ricevuto una parziale condivisione anche nella giurisprudenza che, sia pure per determinate tipologie di controversie, ha mostrato di aderire ad una soluzione propensa alla verifica in concreto della regola della sussidiarietà.
La preclusione all’azione di arricchimento maturerebbe quindi solo nei casi in cui il rimedio cd. principale sia stato perduto a causa di un ostacolo di diritto addebitabile allo stesso impoverito (in particolare, nel caso in cui il rimedio concorrente risulti colpito da prescrizione o decadenza), poiché effettivamente si avrebbe un aggiramento della legge; se, invece, il diverso rimedio sia stato reso vano per un ostacolo di mero fatto non ascrivibile all’impoverito (come, ad esempio, nel caso di insolvenza dell’intermediario contro il quale l’impoverito abbia un’azione contrattuale), l’art. 2042 c.c. non impedirebbe il ricorso, in via sussidiaria, all’azione di arricchimento (nei confronti, in questo caso, del terzo arricchito).
In giurisprudenza, al fine di mitigare il rigore della cd. sussidiarietà in astratto, si è fatta strada la soluzione secondo cui il presupposto per proporre l’azione di ingiustificato arricchimento è la mancanza – accertabile anche d’ufficio – di un’azione tipica, tale dovendo intendersi non ogni iniziativa processuale ipoteticamente esperibile, ma esclusivamente quella derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata.
Ciò comporta che la tutela residuale sarebbe ammissibile anche quando l’azione, teoricamente spettante all’impoverito, sia prevista da clausole generali, come quella risarcitoria per responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. (così in maniera articolata in motivazione Cass. n. 4620/2012, cui hanno fatto seguito Cass. n. 4765/2014; Cass. n. 27827/2017; Cass. n. 843/2020).
6. Ad avviso delle Sezioni Unite, la risposta ai dubbi sollevati con l’ordinanza interlocutoria non può prescindere dalla presenza nel diritto positivo della previsione di cui all’art. 2042 c.c., che pone la regola della sussidiarietà in termini generali, senza quindi distinzione tra le diverse azioni suscettibili di essere dedotte in via principale. Non può, quindi, accedersi alla soluzione fatta propria dal richiamato orientamento che reputa sempre ammissibile l’azione di arricchimento, ove la diversa azione proponibile sia fondata su clausole di carattere generale.
Ciò vale soprattutto al fine di scongiurare la sua declinazione in termini estremi – come fatto da parte della dottrina che reputa che il potenziale concorso tra azione principale (risarcitoria aquiliana ovvero ex art. 1337) ed azione di arricchimento possa dare vita a fenomeni non solo di concorso integrativo (potendosi con la seconda integrare quanto spettante all’impoverito e non recuperato con l’azione principale), ma anche di concorso alternativo, essendo rimessa all’impoverito la scelta su quale azione proporre (restando preclusa solo la possibilità di un concorso cumulativo) – e ciò in quanto ad avviso della Corte occorre salvaguardare la volontà che è alla base dell’introduzione dell’art. 2042 c.c., e che è quella di preservare la certezza del diritto ed evitare elusioni della norma, ammettendo che si possa agire con l’azione di arricchimento anche nei casi in cui la domanda principale non sia stata coltivata o sia andata perduta per il comportamento colpevole del titolare.
A tal fine è opportuno il richiamo al contenuto della Relazione al codice civile, nella quale si giustifica il principio di sussidiarietà sostenendo che “là dove si possa eliminare una situazione anormale con l’applicazione di una norma particolare, il ricorso all’azione generale mancherebbe del suo presupposto, ossia del pregiudizio altrimenti evitabile”.
Va, pertanto, tenuto fermo il principio per cui resta precluso l’esercizio dell’azione di arricchimento ove l’azione suscettibile di proposizione in via principale sia andata persa per un comportamento imputabile all’impoverito e, quindi, con riferimento ai casi di più frequente applicazione, per la prescrizione ovvero per la decadenza. Colgono nel segno le riflessioni di quella dottrina che ha sottolineato come l’azione di arricchimento non possa far rivivere il diritto prescritto, che è estinto e resta tale.
La regola della sussidiarietà impone di affermare che, se l’impoverito dispone di altre difese, l’azione di arricchimento non può essere esercitata, e ciò vale anche se le altre difese, già pertinenti al soggetto, siano andate perdute, come appunto nel caso della prescrizione.
Né può trascurarsi l’argomento speso da autorevole dottrina secondo cui “concedere in questi casi l’azione di arricchimento, significherebbe frustrare la finalità di quegli istituti, che consiste proprio nel determinare la perdita di un diritto a danno di chi non lo ha esercitato”.
Una precisazione però si impone per le ipotesi di rigetto ovvero di infondatezza della domanda proponibile in via principale, e ciò in quanto, alla luce della disamina della giurisprudenza di questa Corte, come compiuta al punto 5. che precede, la formale adesione al principio della sussidiarietà in astratto risulta oggetto di un costante temperamento, soprattutto nel caso in cui l’azione principale sia fondata su una fonte contrattuale, mediante il riconoscimento della sua esperibilità ove sia riconosciuta la nullità del titolo contrattuale azionato (si veda da ultimo Cass. n. 13203/2023, secondo cui, nei casi in cui l’azione contrattuale è stata rigettata per inesistenza del titolo, sarebbe contraddittorio sostenere che la proposizione di una azione, che presuppone la non esistenza di un contratto, possa essere impedita da una pronuncia che abbia per l’appunto dichiarato la non esistenza di un contratto, e ciò anche perché, se al rigetto del rimedio contrattuale, determinato dall’inesistenza del titolo, potesse conseguire l’improponibilità del rimedio sussidiario, costituito dall’azione di arricchimento, l’avente diritto sarebbe privato di qualsiasi strumento processuale per ottenere il rimborso del pregiudizio subito; conf. Cass. n. 15496/2018).
Tuttavia, come confermato da Cass. n. 13203/2023, va ribadito che resta preclusa la possibilità di agire ex art. 2041 c.c., anche in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico (conf. ex multis, Cass. n. 10427/2002; Cass. n. 14085/2010).
Come sopra ricordato, è proprio in relazione ai casi di nullità del titolo contrattuale che ha avuto modo di svilupparsi sul versante processuale la giurisprudenza che si è interrogata sui limiti in merito alla proposizione in via subordinata della domanda di arricchimento, limiti che sono stati delineati dall’ultimo intervento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 22404 del 2018.
L’ammissibilità della domanda in via subordinata sul piano processuale sottende a monte l’ammissibilità anche della medesima sul piano sostanziale, in quanto ove si presti adesione ad una nozione rigorosa della sussidiarietà in astratto (che prescinda in assoluto da ogni verifica sul merito della domanda avanzata in via principale), la stessa circostanza che sia stata proposta una domanda fondata su titolo contrattuale renderebbe improponibile ex art. 2042 c.c. la subordinata domanda di arricchimento.
Ancorché il riscontro della nullità del titolo contrattuale porti ad una pronuncia di rigetto nel merito della domanda fondata sullo stesso, la giurisprudenza di questa Corte ha però sottolineato come in tal caso il rigetto discenda da una carenza originaria del titolo, in quanto la fattispecie dedotta in giudizio, pur in astratto congrua a realizzare gli effetti previsti dalla legge, è risultata difettosa di qualche requisito essenziale (id est, elemento costitutivo della fattispecie o presenza di elemento impeditivo), ovvero (cfr. Cass. n. 10161/2021) non è possibile ricondurre la fattispecie concreta a quella astrattamente delineata a fondamento dell’azione proposta in via principale.
Occorre quindi distinguere tra le ipotesi in cui il rigetto derivi dal riconoscimento della carenza ab origine dei presupposti fondanti la domanda cd. principale, da quelli in cui derivi dall’inerzia dell’impoverito ovvero dal mancato assolvimento di qualche onere cui la legge subordinava la difesa di un suo interesse. Nella prima ipotesi il rigetto per accertamento della carenza ab origine del titolo fondante la domanda cd. principale comporta che quello che appariva un concorso da risolvere ex art. 2042 c.c. in favore della domanda principale si rivela essere in realtà un concorso solo apparente, in quanto deve escludersi la stessa ricorrenza di un diritto suscettibile di essere dedotto in giudizio con la conseguente improponibilità della domanda ex art. 2041 c.c.
Viceversa, il rigetto della domanda, correlato al mancato assolvimento dell’onere della prova in relazione alla sussistenza del pregiudizio, non esclude che il diverso titolo sussista e che quindi sia preclusa la domanda fondata sulla clausola residuale.
Se la domanda principale è correlata ad una pretesa scaturente da un contratto, di cui si lamenta l’esecuzione in maniera difforme da quanto pattuito, chiedendosi il ristoro del pregiudizio subito e si accerta che il contratto era affetto da nullità, lo spostamento contrattuale si palesa privo di una giusta causa e legittima quindi la proposizione, anche in via subordinata nel medesimo giudizio, dell’azione di arricchimento. Se viceversa, incontestata o dimostrata l’esistenza del contratto, il rigetto sia derivato dalla mancata prova da parte del contraente del danno derivante dall’altrui condotta inadempiente, la domanda di arricchimento resta preclusa in ragione della clausola di cui all’art. 2042 c.c.
6.1 Con specifico riferimento ai rapporti tra azione di arricchimento ed azioni risarcitorie una prima significativa differenza si coglie quanto alla irrilevanza dell’elemento soggettivo ai fini dell’azione di arricchimento. Inoltre, si sottolinea come alla residuale tutela di cui all’art. 2041 c.c. sia estraneo il presupposto della lesione di una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico (che sostanzia il requisito dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), ovvero l’inadempimento di una preesistente obbligazione (fonte della responsabilità contrattuale), essendo piuttosto rilevante che lo squilibrio patrimoniale di cui si chiede l’indennizzo non debba essere ingiusto, bensì ingiustificato.
Tale considerazione si riflette poi anche sul piano dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli, in quanto la tutela offerta all’impoverito dalla norma di carattere generale è limitata alla dimensione del “danno emergente”, ma nella (sola) misura corrispondente all’incremento patrimoniale verificatosi nella sfera giuridica del convenuto. E’ stato, perciò, rimarcato come quella contro l’arricchimento sia l’unica tutela praticabile in assenza della lesione di un diritto (danno ingiusto) ovvero al cospetto della lesione di un diritto, non accompagnata dall’elemento soggettivo (nonché in presenza di una lesione di un diritto, accompagnata dall’elemento soggettivo, dalla quale però non scaturisca un pregiudizio nei termini dell’art. 1223 c.c. ma solo un arricchimento).
Se il rigetto della domanda risarcitoria è ascrivibile a ragioni che consentano di affermare la carenza del titolo posto a fondamento della relativa domanda (nel caso di carenza degli elementi costitutivi della fattispecie legale ovvero in presenza di elementi impeditivi), risulta quindi ammissibile la proposizione dell’azione di arricchimento, che mantiene in tal modo il suo carattere residuale.
Allorché sia esclusa la fondatezza della domanda ex art. 2043 c.c., perché la condotta dell’arricchito non si caratterizza per la presenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma (ovvero in caso di azione ex art. 1337 c.c., perché non è dato riscontrare la violazione della regola della buona fede nella condotta del convenuto), resta esclusa la stessa sussistenza ab origine di un titolo fondante una domanda suscettibile di essere avanzata in via principale e con carattere assorbente della domanda ex art. 2041 c.c., di cui deve perciò affermarsi la proponibilità.
Viceversa, resta impregiudicata l’efficacia preclusiva derivante dalla regola della sussidiarietà ove il rigetto sia dipeso da prescrizione o decadenza ovvero nel caso in cui derivi dalla carenza di prova circa l’esistenza del danno ingiusto. La soluzione che distingue a seconda delle ragioni del rigetto della domanda risarcitoria si configura così idonea a salvaguardare le varie rationes che si reputa sorreggano la regola della residualità, in quanto accanto al rispetto del principio della certezza del diritto, è tutelata anche la regola di equità che sottende la previsione di cui all’art. 2041 c.c., riconoscendosi all’impoverito il ristoro per quelle situazioni che siano già ab origine prive di un rimedio riconosciuto dalla legge.
6.2 Tale verifica risulta sicuramente più agevole nel caso in cui nello stesso giudizio siano cumulate la domanda principale e quella di arricchimento, in quanto l’esame della seconda per il nesso di subordinazione che ex lege le correla, potrà avvenire solo una volta che si sia risolta negativamente, e nei termini sopra esposti, la verifica circa la ricorrenza del titolo della prima. Lo stesso è a dirsi allorché sia già stata coltivata e rigettata la domanda risarcitoria, potendosi quindi verificare le ragioni che hanno portato al rigetto.
Ma tale verifica, ancorché sulla base delle allegazioni delle parti, si impone anche laddove sia direttamente avanzata la domanda di arricchimento (il cui contenuto deve comunque essere rispettoso della necessità di allegazione da parte dell’attore, dei caratteri che giustificano la sua proposizione in ragione della ricorrenza del requisito della sussidiarietà), rientrando nelle verifiche officiose del giudice quello del riscontro del carattere della residualità della domanda proposta.
Sostenere la tesi della sussidiarietà in astratto nella sua accezione più rigorosa, nel senso che sarebbe sufficiente la mera prospettazione dell’esistenza di una diversa azione, prescindendo da quale possa essere il suo esito, potrebbe legittimare anche un utilizzo strumentale del richiamo a siffatta regola della residualità da parte di chi sia stato convenuto in un giudizio nel quale sia stata esperita l’azione di arricchimento, in quanto, per ottenere una pronuncia di improponibilità della domanda, per questi sarebbe sufficiente semplicemente allegare, anche se in maniera del tutto infondata, la possibilità dell’esercizio di una diversa azione da parte dell’impoverito.
Non va poi sottaciuto il rischio di un potenziale corto circuito che si verrebbe a creare nel caso in cui – dichiarata inizialmente improponibile la domanda di arricchimento sulla base della mera prospettazione del convenuto – l’attore esperisca l’azione risarcitoria che si concluda con una pronuncia di rigetto per carenza originaria dei presupposti fondanti la tutela aquiliana. Se si dovesse ritenere, come sostengono i fautori della sussidiarietà in astratto, che il rigetto della domanda principale preclude sempre e comunque l’azione di arricchimento, anche a voler annettere alla prima pronuncia di improponibilità una valenza solo processuale, resterebbe in ogni caso esclusa la riproponibilità della domanda di arricchimento.
Se invece, come appare corretto ad avviso di questo Collegio, si deve distinguere in merito alle ragioni del rigetto, il giudice al quale sia riproposta la domanda di arricchimento dovrebbe verificare se sia stata riscontrata una carenza originaria del diverso titolo fondante la domanda cd. principale.
Risulta, quindi, anche conforme al principio di economia processuale che sia sempre il giudice adito con la domanda di arricchimento a compiere la verifica circa il carattere sussidiario della domanda proposta (verifica come sopra ricordato officiosa ed esperibile anche in grado di appello), e ciò sulla scorta di quanto emerge dagli atti e dalle allegazioni offerte dalle parti.
7. Va quindi affermato il seguente principio di diritto:
Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
8. Tornando quindi alla disamina dei motivi di ricorso, osserva la Corte che in applicazione dei principi esposti, gli stessi si rivelano fondati.
La Corte d’Appello ha dichiarato improponibile la domanda di arricchimento senza causa operando una applicazione acritica del principio di sussidiarietà, essendosi limitata ad affermare che il Tribunale aveva rigettato la domanda di responsabilità precontrattuale del Comune, poiché non era stata fornita una prova idonea, salvo poi aggiungere che non era emerso che il Comune avesse assunto un impegno a mutare la destinazione dei terreni di proprietà della ricorrente (pag. 5 della sentenza d’appello).
Trattasi però, come si ricava anche dal contenuto della sentenza di primo grado, di un rigetto, frutto della valutazione sia delle prove orali che di quelle documentali, motivato per la mancata dimostrazione della violazione dell’obbligo di buona fede da parte del Comune, il che equivale ad un rigetto correlato all’accertamento dell’insussistenza del titolo fondante la domanda ex art. 1337 c.c.
Ne consegue, sempre alla luce dei principi esposti, che la domanda di arricchimento senza causa è proponibile.
In accoglimento dei motivi in esame, la sentenza gravata deve quindi essere cassata, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, che dovrà altresì esaminare gli altri motivi di appello reputati assorbiti, e direttamente riferiti alla domanda ex art. 2041 c.c.
9. L’accoglimento del ricorso, quanto ai motivi dal terzo al quinto, comporta poi evidentemente l’assorbimento del sesto motivo, dovendo il giudice di rinvio provvedere anche ad una nuova regolamentazione delle spese di lite anche delle precedenti fasi di merito. Quanto alle spese del giudizio di legittimità, tenuto conto della necessità di dover intervenire per la risoluzione della questione di diritto posta dall’ordinanza di rimessione, nonché della sua complessità, si ritiene che ricorrano i presupposti per la loro compensazione.