Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 21 settembre 2021 n. 25478
PRINCIPI DI DIRITTO
In caso di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo, la sopravvenuta caducazione del titolo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione (nella specie: ordinanza di convalida di sfratto successivamente annullata in grado di appello) determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione si debba concludere non con l’accoglimento dell’opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione.
L’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale.
Ricorrendo invece quest’ultima ipotesi, la domanda andrà posta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; e, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Ritengono quindi queste Sezioni Unite che la vicenda processuale nella sua globalità, unitamente alla sostanziale inammissibilità del ricorso principale per difetto di interesse sopravvenuto, consentano di applicare nel caso di specie l’art. 363, terzo comma, cit., esaminando entrambe le questioni poste nell’ordinanza interlocutoria e procedendo, all’esito, all’enunciazione dei relativi principi di diritto. La prima questione: la caducazione del titolo esecutivo e le sue conseguenze nel giudizio di opposizione all’esecuzione. 7. La prima questione posta dall’ordinanza interlocutoria richiede una breve premessa.
Costituisce regola pacifica, condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che il processo esecutivo esige l’esistenza di un titolo valido ed efficace non soltanto nella sua fase iniziale, ma anche per tutta la durata del processo medesimo. Non è sufficiente, in altri termini, che il processo esecutivo si avvii sulla base di un titolo valido, ma occorre che questo permanga per l’intera sua durata. Tale regola generale – abitualmente sintetizzata col brocardo nulla executio sine título – è stata affermata anche da queste Sezioni Unite nella sentenza 7 gennaio 2014, n. 61, dove si è detto che nel processo di esecuzione la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la continuativa sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento.
Il problema della caducazione del titolo esecutivo verificatasi nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione è avvertito con particolare evidenza ove il titolo sia per sua stessa natura soggetto a venir meno a seguito di successive vicende maturatesi nell’ambito del processo di cognizione. Basti pensare, a mo’ di esempio, al decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo (art. 648 cod. proc. civ.), al provvedimento di convalida di sfratto, all’ordinanza di cui all’art. 186-quater cod. proc. civ. o, in generale, alla previsione dell’art. 282 cod. proc. civ. secondo cui la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti.
In questi casi può verificarsi che l’esecuzione venga promossa sulla base di un titolo esecutivo giudiziale avente una caducità intrinseca, in quanto si tratta di un titolo che è ancora soggetto al vaglio del giudice della cognizione (nello stesso grado o in gradi successivi); per cui può succedere – ed è quanto si è verificato nel giudizio odierno – che il creditore promuova l’esecuzione forzata, il debitore instauri il giudizio di opposizione all’esecuzione e, nelle more di questo, il titolo esecutivo venga meno nel processo di cognizione che frattanto va avanti in via autonoma.
E siccome, appunto, il processo esecutivo può proseguire solo in presenza di un titolo valido ed efficace, il giudice dell’opposizione all’esecuzione deve dichiarare l’improcedibilità del procedimento esecutivo se da lui o dal giudice della cognizione a seguito di opposizione venga accertato che il titolo non era esecutivo, ovvero se il provvedimento giurisdizionale fatto valere come titolo è annullato nel corso dei giudizi proposti per la sua impugnazione (v. in tal senso, tra le altre, le sentenze 6 agosto 2002, n. 11769, 9 gennaio 2002, n. 210, e l’ordinanza 12 marzo 2009, n. 6042).
È stato affermato più volte – a dimostrazione di quanto sia decisiva la permanenza di un titolo esecutivo valido ed efficace per l’intera durata del processo di esecuzione – che il giudice dell’opposizione all’esecuzione è tenuto a compiere d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità, la verifica sull’esistenza del titolo esecutivo, rilevandone l’eventuale sopravvenuta carenza (v., tra le altre, le sentenze 29 novembre 2004, n. 22430, 19 maggio 2011, n. 11021, e 13 luglio 2011, n. 15363, nonché l’ordinanza 5 settembre 2017, n. 20789).
Non a caso, quindi, autorevole dottrina insiste sul carattere «immanente» della necessità della verifica dell’esistenza del titolo esecutivo, trattandosi di elemento imprescindibile per la prosecuzione del processo esecutivo.
7.1. La giurisprudenza di questa Corte ha avvertito da sempre la necessità di tenere conto di tali mutamenti consistenti nel successivo venire meno del titolo esecutivo, ma non vi è stata convergenza di vedute sulle conseguenze che la sopravvenuta caducazione del titolo determina nel giudizio di opposizione all’esecuzione. Secondo un orientamento risalente, il successivo venir meno del titolo esecutivo determina l’ingiustizia dell’esecuzione promossa sulla base di questo, con la conseguenza che il giudizio di opposizione all’esecuzione deve concludersi con l’accoglimento della stessa (v. in tal senso, tra le prime, le sentenze 7 gennaio 1970, n. 28, 8 maggio 1973, n. 1245, 21 giugno 1974, n. 1854).
Tale giurisprudenza, successivamente abbandonata, trovava il proprio implicito fondamento nel fatto che all’epoca non era stata ancora individuata con la dovuta chiarezza la possibilità di chiudere il giudizio con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui, non potendo l’opposizione all’esecuzione essere rigettata, l’unico esito possibile era quello del suo accoglimento. È stata la successiva evoluzione della giurisprudenza a condurre verso le due possibili alternative decisorie che l’ordinanza interlocutoria pone all’esame delle Sezioni Unite.
7.2. È da premettere che entrambe le impostazioni che si andranno adesso a ricordare si trovano concordi sul fatto che la successiva caducazione del titolo esecutivo disposta in sede di cognizione determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione debba chiudersi con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; mentre il disaccordo riguarda, in effetti, il profilo della liquidazione delle spese processuali. Secondo un primo orientamento, se il titolo esecutivo viene caducato, il giudice dell’esecuzione deve dichiarare cessata la materia del contendere; in tal caso, però, l’opposizione è da ritenere fondata, col risultato che il debitore opponente non può essere condannato al pagamento delle relative spese, risultando altrimenti violato il principio secondo cui queste non possono essere poste a carico della parte (sia pure virtualmente) vittoriosa (in tal senso v. le sentenze 25 maggio 2009, n. 12089, 13 marzo 2012, n. 3977, e 11 giugno 2014, n. 13249, nonché l’ordinanza 6 settembre 2017, n. 20868).
La sentenza n. 3977 del 2012, in particolare, osserva che la fondatezza – o, viceversa, l’infondatezza – dei motivi proposti dall’opponente nel giudizio di opposizione all’esecuzione diventano irrilevanti «posto che, per effetto del preliminare rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo in questione, i suddetti motivi risultano superati e, in definitiva, assorbiti». In altri termini, quali che fossero le ragioni poste a fondamento dell’opposizione, «quel titolo era stato rimosso con efficacia ex tunc dalla realtà giuridica, sicché l’opposizione risultava fondata».
Quest’orientamento è stato ripreso, di recente, dalla citata sentenza n. 21240 del 2019 della Seconda Sezione Civile. A sostegno della tesi della fondatezza dell’opposizione all’esecuzione, con conseguente necessità che le spese vengano poste a carico del creditore opposto, le pronunce ora richiamate pongono in luce anche l’ulteriore argomento secondo cui il creditore che avvia l’esecuzione forzata sulla base di un titolo soggetto a caducità intrinseca lo fa «a suo rischio e pericolo», perché sa che quel titolo potrebbe venire meno in seguito.
7.3. A quest’orientamento se ne contrappone un altro, più recente, maturato sempre all’interno della Terza Sezione Civile, del quale sono espressione le già menzionate sentenze n. 30857 e n. 31955 del 2018, nonché l’ordinanza 17 gennaio 2020, n. 1005. Tali pronunce, mentre concordano con i precedenti di cui al punto 7.2. sul fatto che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo determini come esito decisorio la cessazione della materia del contendere, ritengono però che tale caducazione non determini, di per sé, la fondatezza dell’opposizione all’esecuzione. I tre provvedimenti ora richiamati mettono in evidenza che il giudizio di opposizione all’esecuzione, regolato anch’esso secondo il principio della domanda, si fonda sui motivi in base ai quali l’opposizione è proposta; con la conseguenza che la sopravvenuta caducazione del titolo potrebbe essere intervenuta «per motivi del tutto autonomi e diversi da quelli rispetto ai quali fosse stata proposta originariamente l’opposizione» (sentenza n. 30857 del 2018).
In un caso del genere, quindi, non potrebbe parlarsi di opposizione fondata, pur essendo ugualmente venuto meno (per altra ragione) il titolo esecutivo. Il corollario che questo nuovo orientamento fa discendere dalla diversa ricostruzione compiuta è che «la caducazione del titolo esecutivo nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione porta, ove rilevata, alla declaratoria di cessazione della materia del contendere per sopravvenuto difetto di interesse e non all’accoglimento dell’opposizione, e che la liquidazione delle spese del giudizio non è da effettuarsi automaticamente in favore dell’opponente, potendola ritenere al massimo compensata, in presenza dei motivi di legge (come accadrebbe se si ritenesse l’opposizione accolta) ma deve avvenire utilizzando il criterio della soccombenza virtuale, che costituisce declinazione del principio di causalità, considerando, a tal fine, l’intera vicenda processuale» (così ancora la citata sentenza n. 30857).
In verità, il Collegio rileva che le due sentenze ora indicate non costituiscono un’assoluta novità nel panorama giurisprudenziale della Terza Sezione Civile, perché vi erano stati già precedenti in tal senso, anche se in fattispecie diverse. Sono da menzionare, al riguardo, le sentenze 3 aprile 2015, n. 6822, 9 marzo 2017, n. 6016, e 8 giugno 2017, n. 14267. La sentenza n. 6016 del 2017, in particolare, benché pronunciata in un giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione, aveva già affermato con chiarezza che la caducazione sopravvenuta del titolo esecutivo determina la cessazione della materia del contendere e che, proprio in ragione di tale esito decisorio, il regolamento delle spese processuali deve avvenire in base «al criterio, ordinariamente correlato a siffatta tipologia di pronuncia e da cui non vi è ragione alcuna per discostarsi nella situazione esaminata, della soccombenza virtuale».
La soluzione del contrasto.
- Come si è già anticipato in precedenza, il contrasto rilevato dalla Terza Sezione Civile non attinge alla sostanza dell’esito decisorio, quanto piuttosto al solo profilo della liquidazione delle spese. Ritengono queste Sezioni Unite, innanzitutto, di dover ribadire che in caso di sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale intervenuta a causa di un provvedimento pronunciato nel relativo giudizio di cognizione, il giudizio di opposizione all’esecuzione si deve concludere con una pronuncia di cessazione della materia del contendere, e non con l’accoglimento dell’opposizione.
Tale esito decisorio, che costituisce ormai patrimonio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte (Sezioni Unite, sentenza 18 maggio 2000, n. 368), è quello che meglio si attaglia alla fattispecie in esame, perché dà conto del fatto che l’opposizione all’esecuzione viene a chiudersi in forza di un evento ad essa esterno, che si matura in una diversa sede, del quale il giudice dell’opposizione non può che prendere atto.
8.1. Ciò detto, le Sezioni Unite intendono comporre il contrasto di giurisprudenza nel senso di privilegiare l’orientamento più recente maturato in seno alla Terza Sezione Civile. È da rilevare che entrambe le tesi ora riportate sono supportate da corrette argomentazioni giuridiche. Deve tuttavia preferirsi l’interpretazione secondo la quale alla pronuncia di cessazione della materia del contendere deve affiancarsi la regolazione delle spese secondo i criteri della soccombenza virtuale.
A sostegno di questa ricostruzione del sistema stanno le seguenti ragioni. La prima è che il giudizio di opposizione all’esecuzione è un giudizio vincolato ai motivi in essa proposti; ciò significa che il giudice intanto può giudicare l’opposizione fondata in quanto abbia accertato che i motivi in essa proposti erano giuridicamente condivisibili. Giova ricordare, a tale proposito, che queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare che «non è consentito, nelle opposizioni esecutive, proporre ragioni di contestazione ulteriori rispetto a quelle dell’originario ricorso introduttivo della fase davanti al giudice dell’esecuzione, anche in quei giudizi vigendo rigorosamente il principio della domanda e con la sola eccezione della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo» (sentenza 14 dicembre 2020, n. 28387).
Allo stesso modo, si è anche detto che nell’opposizione all’esecuzione fondata su di un titolo giudiziale «non si può giammai addurre alcuna contestazione su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, poiché quelle avrebbero dovuto dedursi esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento contro di quello» (sentenza 23 luglio 2019, n. 19889). La caducazione del titolo esecutivo giudiziale avvenuta in sede di cognizione rappresenta quindi, per così dire, un evento esterno, rispetto al quale i motivi dell’opposizione all’esecuzione possono coincidere o meno.
In altri termini, considerando che il titolo esecutivo può venire meno anche per ragioni diverse da quelle poste a base dell’opposizione all’esecuzione, giudicare fondata tale opposizione in un caso del genere equivarrebbe ad accoglierla per motivi diversi da quelli effettivamente proposti; il che risulta disarmonico rispetto alla ricostruzione del sistema. La seconda ragione, di natura pratica, è quella di scoraggiare la proposizione di opposizioni strumentali.
Poiché l’esecuzione promossa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo ha in sé una certa percentuale di rischio, porre le spese del giudizio di opposizione all’esecuzione sempre a carico del creditore opposto finirebbe con l’incoraggiare il debitore a proporre comunque l’opposizione – benché, magari, del tutto infondata – al solo scopo di lucrare le relative spese in caso di successiva caducazione del titolo. Tale aspetto, che può sembrare secondario, non è da trascurare soprattutto alla luce di un sistema processuale, come quello vigente, che si va evolvendo sempre più nel senso di favorire l’esecuzione provvisoria dei provvedimenti giurisdizionali; la liquidazione delle spese del giudizio di opposizione secondo le regole della soccombenza virtuale, infatti, risponde maggiormente all’obiettivo di non fornire al debitore esecutato una sollecitazione alla proposizione di opposizioni all’esecuzione prive di fondamento.
La terza ed ultima ragione – che è però, in un certo senso, quella più significativa – è che liquidare le spese del giudizio di opposizione all’esecuzione secondo il criterio della soccombenza virtuale equivale ad assumere la regola decisoria più giusta, nel senso che essa consente al giudice dell’opposizione di verificare se e in quale misura, a prescindere dalla caducazione del titolo avvenuta nella diversa sede di cognizione, l’opposizione sia o meno fondata. Senza contare che quel criterio è quello normalmente assunto quando il giudizio si conclude con la cessazione della materia del contendere (in tal senso v. la citata sentenza n. 6016 del 2017).
Le Sezioni Unite sono consapevoli del fatto che la tesi qui recepita potrebbe essere letta come un inutile aggravio posto sulle spalle del giudice dell’opposizione all’esecuzione, il quale è chiamato a scrutinare la fondatezza dei motivi di un’opposizione destinata comunque a chiudersi; e tuttavia questa è la soluzione che maggiormente consente di contemperare le ragioni della giustizia sostanziale con la tenuta del sistema nella sua globalità.
8.2. Il contrasto di giurisprudenza, quindi, va risolto enunciando il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, cod. proc. civ.: «In caso di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo, la sopravvenuta caducazione del titolo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione (nella specie: ordinanza di convalida di sfratto successivamente annullata in grado di appello) determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione si debba concludere non con l’accoglimento dell’opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione».
La seconda questione: individuazione del giudice competente ad emettere la pronuncia di cui all’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., in caso di sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale.
- La seconda questione posta dall’ordinanza interlocutoria, avente ad oggetto l’individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento danni ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cit., esige anch’essa una breve ricapitolazione di alcuni passaggi fondamentali.
9.1. Il primo ed il secondo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. non hanno subito modifiche rispetto al loro testo originario, formulato nella stesura del codice del 1942. Rispetto a tali disposizioni si presenta eccentrica la previsione del terzo comma, aggiunto dall’art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, che rimane estraneo alla questione oggetto del presente ricorso. Secondo un insegnamento ormai consolidato, i primi due commi dell’art. 96 cit. regolano due diverse fattispecie di responsabilità processuale.
Il primo comma sanziona la parte che «ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave»; il secondo comma, che direttamente riguarda la causa odierna, prevede la possibilità per il giudice di condannare al risarcimento dei danni la parte che, agendo «senza la normale prudenza», abbia assunto una delle iniziative processuali ivi elencate. In particolare, la norma indica «l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata». Alle due diverse previsioni corrispondono diversi presupposti; mentre il primo comma esige, infatti, la sussistenza della mala fede o della colpa grave, il secondo comma può trovare applicazione anche in caso di colpa lieve (senza la normale prudenza).
Com’è stato già affermato (sentenza 30 luglio 2010, n. 17902), il maggior rigore del secondo comma «si giustifica alla luce della gravità degli effetti ricollegabili ad iniziative che incidono direttamente sul patrimonio del debitore». La giurisprudenza di questa Corte è da tempo consolidata nel senso di ricondurre la responsabilità aggravata di cui all’art. 96 cod. proc. civ. ad una particolare forma di illecito la cui regolazione assorbe quella dell’art. 2043 cod. civ., ponendosi la norma dell’art. 96 in termini di specialità rispetto alla norma generale sulla responsabilità civile (v. Sezioni Unite, sentenza 6 febbraio 1984, n. 874, nonché le sentenze 17 ottobre 2003, n. 15551, 20 luglio 2004, n. 13455, 3 marzo 2010, n. 5069, e 23 agosto 2011, n. 17523). Altrettanto pacifica è l’affermazione che la condanna di cui all’art. 96 cit. presuppone la totale soccombenza della parte, non potendo la norma trovare applicazione in caso di soccombenza parziale (sentenze 2 giugno 1984, n. 3341, 9 febbraio 1991, n. 1341, 2 marzo 2001, n. 3035, 12 ottobre 2009, n. 21590, 14 aprile 2016, n. 7409, e 13 ottobre 2017, n. 24158).
9.2. Con riguardo alla specifica individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda di responsabilità processuale aggravata, la giurisprudenza di questa Corte, proprio in considerazione del carattere endoprocessuale dell’illecito, ha da tempo immemorabile stabilito che il giudice competente sia, necessariamente, quello della causa di merito (così già la remota sentenza 27 febbraio 1962, n. 390, di queste Sezioni Unite).
Se l’illecito, infatti, è di natura processuale ed è connesso allo svolgimento di un’attività giurisdizionale, il logico corollario è che solo il giudice di quella causa sia chiamato ad esaminare il fondamento della domanda risarcitoria. L’affermazione ora ricordata, ribadita da numerose pronunce, è stata variamente argomentata: si è detto, a questo proposito, che nessuno può giudicare di tale domanda «meglio» del giudice della causa nella quale il comportamento scorretto è stato tenuto; così come si è richiamata la necessità di evitare il contrasto di giudicati che ben potrebbe verificarsi ove la causa di merito e la domanda risarcitoria in questione fossero esaminate da due giudici diversi (v., tra le altre, le sentenze 27 maggio 1987, n. 4731, 26 novembre 1992, n. 12642, e 4 giugno 2007, n. 12952).
Altre pronunce hanno individuato il fondamento di tale obbligatoria coincidenza nel principio generale «di concentrazione necessaria dei due giudizi di risarcimento del danno ex art. 96 e di quello di merito della causa principale», richiamando la regola della «connessione necessaria» (così la sentenza 15 dicembre 1990, n. 11936). La ragione per la quale la domanda risarcitoria in questione non può essere proposta in una sede diversa da quella del giudizio di merito è stata anche individuata nel fatto che sia il primo che il secondo comma dell’art. 96 cit. fanno riferimento, come presupposto necessario, alla «istanza dell’altra parte».
La norma in questione, cioè, non pone una regola di competenza, ma piuttosto disciplina un fenomeno che si esaurisce all’interno di un processo già pendente, in base al quale il potere di chiedere la condanna si esercita solo in quella sede processuale e non in un’altra (così la sentenza 18 aprile 2007, n. 9297, ribadita sul punto dalle successive sentenze 20 novembre 2009, n. 24538, e 6 agosto 2010, n. 18344).
La giurisprudenza di questa Corte, peraltro, ha avvertito ben presto l’impossibilità di fare del principio ora richiamato una regola assoluta. È stato perciò riconosciuto che la domanda risarcitoria di cui all’art. 96 cit. può essere proposta anche in un giudizio autonomo qualora lo svolgersi della vicenda processuale abbia reso impossibile la concentrazione. Sono stati individuati, in proposito, i seguenti casi: responsabilità da sequestro ante causam non seguito (o/im) dal giudizio di convalida (sentenze 3 dicembre 1981, n. 6407, e 11 febbraio 1988, n. 1473); provvedimento di urgenza cui non abbia fatto seguito il giudizio di merito (sentenza 26 giugno 1973, n. 1838); opposizione a decreto ingiuntivo non iscritta a ruolo (sentenza 7 aprile 1979, n. 1998); rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento (sentenze 8 febbraio 1990, n. 875, 6 agosto 2010, n. 18344, e 8 novembre 2018, n. 28527).
Più in generale, si è detto che la domanda risarcitoria in esame può essere eccezionalmente proposta in una sede autonoma quando il procedimento, per un qualsiasi motivo, non pervenga alla fase conclusiva della decisione, ovvero, quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (v., tra le altre, le sentenze 26 ottobre 1992, n. 11617, e 7 agosto 2001, n. 10916, quest’ultima a proposito della responsabilità di cui all’art. 89 cod. proc. civ., fattispecie per molti versi assimilabile a quella in esame).
Va comunque evidenziato che tutte le ipotesi in ultimo delineate rappresentano altrettante eccezioni finalizzate alla «coerenza interna del sistema» (così la sentenza n. 11936 del 1990); per cui resta fermo il principio in base al quale la domanda di cui all’art. 96 cit. deve essere proposta, per connessione necessaria, nel giudizio in cui il comportamento processuale colposo è stato tenuto.
9.3. Fatta questa premessa di carattere ricostruttivo, necessaria per l’inquadramento generale, osservano le Sezioni Unite che il chiarimento sollecitato dall’ordinanza interlocutoria non può prescindere dalla specificità del caso in esame; si tratta, quindi, di stabilire da chi debba essere esaminata la domanda risarcitoria in questione in presenza di un’esecuzione forzata promossa in base ad un titolo giudiziale successivamente caducato.
La giurisprudenza della Terza Sezione Civile di questa Corte ha già avvertito la particolarità dell’ipotesi odierna. Vanno richiamate, in proposito, le sentenze 23 gennaio 2013, n. 1590, e 14 luglio 2015, n. 14653; pronunce che potrebbero definirsi gemelle, sebbene distanziate nel tempo, in quanto la loro motivazione è sostanzialmente la medesima (ed anche le parti processuali). Nelle sentenze ora citate la Corte è partita dalla conferma della consolidata giurisprudenza secondo cui la domanda risarcitoria deve essere devoluta in via esclusiva al giudice cui spetta conoscere il merito della causa. Ha perciò affermato che quel giudice può essere «il giudice del processo nell’ambito del quale il titolo esecutivo si è formato, quando trattasi di titolo esecutivo giudiziale» (come avviene quando l’esecuzione venga intrapresa in base a sentenza di primo grado), e quindi il giudice dell’appello o quello dell’opposizione al decreto ingiuntivo.
Ma può anche darsi che, in conseguenza della promossa esecuzione, «vi sia un giudice chiamato a pronunciarsi sull’esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata perché sia stata proposta un’opposizione all’esecuzione ex art.615 c.p.c.»; in tal caso, secondo le sentenze n. 1590 del 2013 e n. 14653 del 2015, è davanti a lui che deve proporsi l’istanza di cui all’art. 96 cod. proc. civ., perché è quello il giudice cui è demandato l’accertamento dell’ingiustizia dell’esecuzione forzata.
Queste due sentenze si richiamano, non a caso, ai precedenti in base ai quali il risarcimento del danno per l’eseguita esecuzione forzata illegittima può essere chiesto, ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cit., solo al giudice dell’opposizione all’esecuzione (v., tra le altre, le sentenze 23 aprile 1997, n. 3534, 24 maggio 2003, n. 8239, e 6 maggio 2010, n. 10960; nonché la sentenza 16 aprile 2013, n. 9152, sulla malafede del creditore pignorante); e tuttavia concludono prospettando un’alternativa, nel senso che in una simile ipotesi la domanda risarcitoria può essere avanzata «dinanzi al giudice del giudizio di merito, nel quale il titolo esecutivo si è formato, ovvero dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione». La soluzione della questione di massima.
- Prima di procedere alla risoluzione della questione di massima posta dall’ordinanza interlocutoria, è opportuno tenere presente che nella Terza Sezione Civile di questa Corte – alla quale è funzionalmente affidata, per ripartizione tabellare, la materia dell’esecuzione forzata – si sono verificate alcune ulteriori oscillazioni, in particolare circa la possibilità di proporre la domanda risarcitoria di cui all’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., in un giudizio autonomo.
Si intende qui fare riferimento all’ordinanza 31 ottobre 2017, n. 25862, cui ha «risposto», per così dire, la sentenza 8 novembre 2018, n. 28527. Non è il caso di soffermarsi sul contenuto di questi due provvedimenti; basti soltanto ricordare che l’ordinanza del 2017 sembra aprire alla possibilità di proporre la domanda risarcitoria anche in un giudizio autonomo, mentre la sentenza del 2018 si oppone a tale ricostruzione e ribadisce la necessità della concentrazione delle tutele nel solo giudizio di merito. Si tornerà tra breve sulle sollecitazioni che provengono da questi due provvedimenti.
- Tirando le fila del discorso svolto fin qui, le soluzioni in campo sono riconducibili, con le necessarie approssimazioni, a tre: 1) quella che ritiene che la domanda risarcitoria sia da proporre solo nel giudizio avente ad oggetto la formazione del titolo esecutivo (nel caso in esame, il giudizio di convalida di sfratto); 2) quella che ritiene che la domanda risarcitoria sia da proporre solo nel giudizio di opposizione all’esecuzione; 3) quella, infine, che ritiene che la domanda risarcitoria possa essere proposta anche in un giudizio autonomo.
11.1. Ritengono queste Sezioni Unite di dover innanzitutto escludere la praticabilità dell’ipotesi di cui al n. 3).
L’insegnamento tradizionale e consolidato, secondo cui la domanda prevista dall’art. 96, secondo comma, cit. va proposta davanti al giudice della causa di merito deve essere integralmente confermato. Tale conclusione è condivisa dal Collegio non solo perché rappresenta un approdo ermeneutico ribadito da lunghissimo tempo e perché la prevedibilità degli orientamenti della giurisprudenza è da ritenere un valore indiscutibile, ma anche per gli evidenti rischi che la proponibilità in sede autonoma comporta. Giova richiamare, sul punto, le argomentazioni della suindicata sentenza n. 28527 del 2018, le quali correttamente superano quelle contenute nell’ordinanza n. 25862 del 2017.
Ed infatti, posto che l’illecito in questione è un illecito processuale, è solo il giudice di quel processo che potrà giudicarlo; se è evidente che la concentrazione nel medesimo giudizio «riduce il contenzioso ed evita lo spreco di attività giurisdizionale», è altrettanto evidente che «a ritenere il contrario si perverrebbe ad effetti paradossali: ad esempio, che la parte la quale ha agito con mala fede o colpa grave possa vedersi compensate le spese di lite nel giudizio presupposto, e soccombere nel giudizio di responsabilità ex art. 96 c.p.c.» (così la sentenza n. 28527 cit.).
Il tutto senza contare l’ulteriore osservazione della sentenza appena citata secondo cui la possibilità di svincolare la domanda di risarcimento danni di cui all’art. 96 cit. dall’obbligo di proporla nel giudizio presupposto andrebbe a creare «inestricabili intrecci tra i due Ric. 2017 n. 03322 sez. SU – ud. 13-07-2021 -28- giudizi». Si deve registrare, del resto, che nel solco della sentenza n. 28527 del 2018 si è posta anche la Prima Sezione Civile di questa Corte con l’ordinanza 9 dicembre 2019, n. 32029, che ad essa integralmente si richiama. Nella medesima linea qui sostenuta si colloca, poi, nella particolare materia dell’esecuzione esattoriale, anche la recente sentenza 25 agosto 2020, n. 17661, della Terza Sezione Civile, la quale ha ribadito il principio secondo cui «la responsabilità dei danni da processo va fatta valere, tranne il caso di impossibilità non ascrivibile al preteso danneggiato, esclusivamente nel processo stesso, relativo alla pretesa sostanziale alla cui tutela esso è rivolto».
Confermare l’orientamento tradizionale e ribadire, quindi, che la domanda in questione deve essere proposta nel giudizio di merito esclude che la proponibilità in un giudizio autonomo possa avere luogo sulla base di una mera valutazione di interesse da parte del danneggiato; ma non esclude, come si è già detto in precedenza e come si dirà in seguito, che la proponibilità in un giudizio autonomo sussista come extrema ratio, qualora il processo non consenta la concentrazione delle tutele.
11.2. Occorre stabilire, giunti a questo punto, se la domanda di risarcimento dei danni per aver iniziato o compiuto l’esecuzione forzata «senza la normale prudenza» debba essere proposta, in caso di successiva caducazione del titolo esecutivo giudiziale, nel giudizio che ha ad oggetto la formazione del titolo o nel giudizio di opposizione all’esecuzione. È appena il caso di rilevare, intanto, che tale problema non si pone in caso di esecuzione forzata compiuta in base ad un titolo esecutivo stragiudiziale, ipotesi nella quale ogni contestazione sul titolo potrà avere luogo solo in sede di opposizione all’esecuzione. Osservano queste Sezioni Unite – nella consapevolezza dell’estrema varietà della casistica concreta, che non può essere imprigionata in schemi onnicomprensivi, e della sussistenza di possibili criticità di ciascuna diversa tesi – che il giudice competente ad esaminare la domanda risarcitoria debba essere, in prima battuta, quello del processo di cognizione, ossia il processo nel quale il titolo esecutivo viene a formarsi.
Tale affermazione deriva innanzitutto da esigenze di coerenza logica; è nella sede della cognizione, infatti, che si procede all’accertamento della fondatezza o meno della pretesa giuridica fatta valere. È pur vero che il risarcimento del danno chiesto ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., trova il proprio fondamento nell’avere la parte iniziato o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza; nel senso che il debitore esecutato si duole non tanto del fatto che il creditore abbia ottenuto un titolo esecutivo giudiziale soggetto a caducazione, quanto del fatto che egli l’abbia posto in esecuzione.
Tuttavia, proprio la soluzione data nella presente decisione al contrasto relativo all’esito decisorio del giudizio di opposizione all’esecuzione in ipotesi di successiva caducazione del titolo esecutivo giudiziale illumina anche la soluzione della questione ora in esame. Come si è detto nel precedente punto 8.1., la caducazione del titolo esecutivo giudiziale avvenuta in sede di cognizione rappresenta, per così dire, un evento esterno, rispetto al quale i motivi dell’opposizione all’esecuzione possono coincidere o meno; siccome, però, l’accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art. 96 cit. presuppone la soccombenza, appare preferibile attribuire la decisione di tale domanda al giudice della cognizione.
Diversamente, infatti, potrebbe aversi la paradossale situazione nella quale il giudice dell’opposizione all’esecuzione, chiamato ad esaminarne il fondamento ai fini del giudizio di soccombenza virtuale per la liquidazione delle spese, ritenga infondata l’opposizione e, ciò nonostante, condanni il creditore alla responsabilità processuale aggravata per l’attività esecutiva intrapresa. Questa possibile torsione del sistema non può essere ignorata. A ciò va aggiunta un’altra considerazione, e cioè che al giudice dell’opposizione all’esecuzione è di regola preclusa ogni pronuncia di condanna, a maggior ragione a titolo di responsabilità per fatto illecito (e tale è, secondo quanto si è detto, la condanna di cui all’art. 96 cit.).
Consegue dal complesso di questi argomenti che il giudice competente ad esaminare la domanda risarcitoria in questione è da identificare in prima ipotesi nel giudice della formazione del titolo esecutivo. Può peraltro verificarsi, per le ragioni già indicate in precedenza, che tale domanda risarcitoria non sia più proponibile davanti al giudice della cognizione; perché quel giudizio si è già concluso, o perché sussistono preclusioni di carattere processuale (sono state, ad esempio, già precisate le conclusioni); oppure perché il grado del giudizio nel quale la causa si trova di per sé esclude che si svolgano accertamenti di merito che possono richiedere attività istruttoria (si pensi al caso in cui la caducazione del titolo esecutivo giudiziale consegua ad una sentenza della Corte di cassazione).
In siffatte ipotesi, e solo in queste, la domanda risarcitoria dovrà essere proposta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; il quale sarà chiamato necessariamente a dare corso alla fase di merito del relativo giudizio, senza possibilità di ricorrere al meccanismo di estinzione anticipata della procedura delineato dall’art. 624, terzo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dall’art. 49, comma 3, della legge n. 69 del 2009. Tale conseguenza, che può apparire singolare, si giustifica in considerazione del fatto che la domanda risarcitoria è stata proposta dal debitore esecutato, il quale non può imputare ad altri il rischio del possibile allungamento dei tempi processuali.
Le Sezioni Unite, pertanto, intendono chiarire, superando ogni possibile ambiguità derivante dalle sentenze n. 1590 del 2013 e n. 14653 del 2015, che le due sedi processuali ora indicate non sono alternative, ma subordinate, nel senso che il debitore esecutato dovrà attenersi all’ordine qui stabilito, proponendo la domanda davanti al giudice dell’opposizione all’esecuzione solo se essa non sia più proponibile davanti al giudice della cognizione. Le due ipotesi delineate, tuttavia, non esauriscono l’intera casistica delle possibilità. Ben potrebbe darsi, infatti, che la domanda risarcitoria non possa essere proposta né davanti al giudice della cognizione né davanti a quello dell’opposizione all’esecuzione.
Come correttamente ha rilevato la citata sentenza n. 28527 del 2018, infatti, può sussistere tanto un’impossibilità di fatto quanto un’impossibilità di diritto. La prima si ha quando la vittima, al momento del compimento della temeraria iniziativa processuale, non aveva patito alcun danno e non poteva ragionevolmente prevedere di subirne in seguito; la seconda, invece, si verifica quando, per le ragioni già dette, vi siano preclusioni di carattere processuale alla proposizione della relativa domanda. Quanto al giudizio di opposizione all’esecuzione, l’ostacolo potrebbe essere costituito dal fatto che nel momento in cui il danno si è manifestato, il giudice potrebbe avere già chiuso il giudizio, prendendo atto della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale intervenuta nel giudizio di cognizione. In questi casi – e soltanto in questi, giova ripeterlo – il danneggiato non avrà altra strada che quella di proporre la domanda risarcitoria in un giudizio autonomo.
Ma siffatta possibilità non è frutto di una libera scelta della parte, bensì dell’impossibilità di percorrere le strade in precedenza delineate. Si tratta, in definitiva, di una sorta di estrema e residua eventualità che non può essere sempre esclusa e che costituisce uno strumento di tutela del danneggiato e di coerenza interna del sistema.
11.3. La questione di massima di particolare importanza proposta in questa sede deve essere risolta, pertanto, enunciando il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, cod. proc. civ.: «L’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale.
Ricorrendo, invece, quest’ultima ipotesi, la domanda andrà posta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; e, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo».
Conclusioni. 12. In conclusione, devono essere enunciati i due principi di diritto, nell’interesse della legge, indicati nei precedenti punti 8.2. e 11.3.