Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 05 ottobre 2022 n. 28975
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il termine (di trenta giorni) di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702quater c.p.c. decorre, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell’art. 281sexies c.p.c. In mancanza delle suddette formalità, l’ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell’art. 327 c.p.c..
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione devoluta a queste Sezioni Unite comporta la risoluzione del quesito se, anche quando la cancelleria abbia provveduto alla sua comunicazione integrale, il termine di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702quater c.p.c. decorra, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dal giorno in cui essa sia stata pronunciata e letta in udienza, senza alcuna rilevanza delle circostanze dell’avvenuta lettura alla fine dell’udienza, in assenza della parte e non contestualmente alla trattazione della singola causa, né di alcun avviso previo ai difensori.
- Essa è stata segnalata dal Presidente Titolare della Sezione Lavoro di questa Corte, in data 16 febbraio 2022, “al fine di evitare la formazione di un contrasto” in merito alla questione prospettata, rilevante non solo nell’ambito della protezione internazionale, ma di carattere generale. E ciò alla luce dell’orientamento assunto dalla sentenza della Corte di Cassazione 6 giugno 2018, n. 14478, secondo cui, in tema di procedimento sommario di cognizione, il termine per proporre appello avverso l’ordinanza resa in udienza e inserita a verbale decorre, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell’udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a “comunicazione” ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.; neppure essendo applicabile, limitatamente all’appello, l’art. 327, comma 1 c.p.c., poiché la decorrenza del termine per proporre tale mezzo di impugnazione dal deposito dell’ordinanza è logicamente e sistematicamente esclusa dalla previsione, contenuta nell’art. 702quater c.p.c., di decorrenza dello stesso termine, per finalità acceleratorie, dalla comunicazione o dalla notificazione dell’ordinanza medesima.
5.1. La segnalazione richiama, quale espressione di un “indirizzo recente ma minoritario”, l’ordinanza di questa Corte 18 maggio 2021, n. 13439, che ha invece affermato la decorrenza del termine breve di impugnazione dell’ordinanza, a norma dell’art. 702quater c.p.c., dalla comunicazione o dalla notificazione dell’ordinanza medesima, escludendola, per la parte costituita, dalla data dell’udienza in cui essa sia stata eventualmente resa mediante lettura in udienza ed inserimento a verbale: in quanto inapplicabile la diversa disciplina dell’art. 281sexies c.p.c. (“norma, peraltro, dettata per i procedimenti davanti al tribunale in composizione monocratica e per la decisione a seguito di trattazione orale”: così in motivazione, sub p.to 2, terzo capoverso).
In relazione a tale ultima norma, questa Corte ha chiarito che la lettura della sentenza in udienza e la sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale che la contiene, non solo equivalgano alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., ma anche esonerino il cancelliere dall’onere della comunicazione: sull’assunto che la lettura del provvedimento in udienza debba ritenersi conosciuta, con presunzione assoluta di legge, dalle parti presenti o che avrebbero dovuto essere presenti (Cass. 5 aprile 2017, n. 8832, in motivazione, sub p.ti 9 e 10, con richiamo di precedenti conformi).
5.2. Inoltre, sussiste pure contrasto in ordine all’appellabilità dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702ter, comma 6 c.p.c. nel termine semestrale stabilito dall’art. 327 c.p.c., in quanto esclusa dalla citata sentenza n. 14478 del 2018 e invece ritenuta da un’ordinanza della stessa Corte, di poco successiva (Cass. 27 giugno 2018, n. 16893, in motivazione, sub p.ti da 1.2 a 1.4.2).
- Queste Sezioni Unite reputano che la questione prospettata meriti un esame esaustivo dei profili processuali implicati, in riferimento tanto alla decorrenza del termine cd. “breve” di impugnazione, tanto all’applicabilità del termine semestrale stabilito dall’art. 327 c.p.c. (cd. “lungo”), ancorché questo secondo non sia stata esplicitato nella specifica formulazione dei due motivi di gravame.
Anch’esso è comunque oggetto di devoluzione, avendo il ricorrente impugnato l’inammissibilità dell’appello (proposto con ricorso del 25 gennaio 2018) statuita dalla Corte d’appello veneziana, a fronte della comunicazione dell’ordinanza del Tribunale (pronunciata con lettura all’udienza dell’11 ottobre 2017) da parte della Cancelleria nel suo testo integrale il 28 dicembre 2017 e della scadenza del termine semestrale, decorrente dalla data di pubblicazione dell’ordinanza, coincidente con quello della sua lettura in udienza, in data 11 aprile 2018.
6.1. Al riguardo, sono noti i requisiti di formazione del giudicato, individuati con la locuzione giurisprudenziale di “minima unità suscettibile di acquisire stabilità”, costituita dalla sequenza logica di fatto, norma ed effetto giuridico: con la conseguenza che la censura motivata anche in ordine ad uno solo di tali elementi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perché, impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione (Cass. 4 febbraio 2016, n. 2217; Cass. 16 maggio 2017, n. 12202; Cass. 26 giugno 2018, n. 16853; Cass. 28 ottobre 2021, n. 30441). Sicché, esso non si è formato sull’applicabilità del suddetto termine semestrale, pertanto ben esaminabile.
6.2. Inoltre, può essere pure utilmente ribadito, nel merito della questione, il principio di accoglibilità del ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dalla parte ricorrente, purché fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio d’una eccezione in senso stretto (Cass. s.u. 11 febbraio 2015, n. 19704, in motivazione, sub p.to 1, con richiamo di precedenti conformi).
- Nel suo inquadramento normativo, il procedimento sommario di cognizione (inserito dall’art. 51, comma 1 l. 18 giugno 2009, n. 69 nel Libro IV, Titolo I, come Capo IIIbis, artt. da 702bis a 702quater c.p.c.), deve essere inteso, secondo l’insegnamento maggioritario della dottrina e della giurisprudenza di legittimità, riferendo la sommarietà al rito, non alla cognizione, che è invece piena (Cass. s.u. 10 luglio 2012, n. 11512; Cass. 27 giugno 2018, n. 16893, in motivazione, subp.to1.3.1), così come quella degli altri due riti, cui viene affiancato: ordinario di cognizione e del lavoro.
Originariamente, esso era stato previsto come puramente alternativo al rito ordinario, nella facoltà selettiva del solo attore (secondo l’incipit dell’art. 702bis c.p.c.: “Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda può essere proposta … ”), soggetta al vaglio di ammissibilità del giudice (il quale, “se rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702bis, … con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile”: art. 702ter, comma 2 c.p.c.).
Successivamente, la possibilità di applicazione del procedimento sommario è stata estesa anche alla valutazione del giudice. In base all’art. 183bis c.p.c. (introdotto dall’art. 14, comma 1 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con mod. da l. 10 novembre 2014, n. 162), esso può infatti disporre, non più soltanto il passaggio dal rito sommario a quello ordinario (art. 702ter, comma da 2 a 4 c.p.c.), ma pure (previo contraddittorio tra le parti, anche mediante trattazione scritta e invitando le medesime a indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, compresi i documenti e la relativa prova contraria; e, se richiesto, fissando una nuova udienza con termine perentorio per detta offerta probatoria) il passaggio dal rito ordinario a quello sommario, “valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria”.
Ben si comprende allora come la sommarietà si riferisca alla strutturale semplicità dell’oggetto del processo e alla natura “non complessa” della sua istruttoria, che si risolvono in una trattazione della causa “semplificata”, condotta dal giudice, che, “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto” (art. 702ter, comma 5 c.p.c.).
- Il procedimento è definito con ordinanza (di accoglimento o di rigetto delle domande: art. 702ter, comma 5, ultima parte c.p.c.) provvisoriamente esecutiva e che costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione (art. 702ter, comma 6 c.p.c.), con la quale il giudice provvede in ogni caso sulle spese, ai sensi degli artt. 91 ss. c.p.c. (art. 702ter, ultimo comma c.p.c.). Ed essa produce gli effetti previsti dall’art. 2909 c.c., “se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione” (art. 702quater, prima parte c.p.c.).
Appare evidente come, ancorché ordinanza in senso formale, essa abbia natura di sentenza in senso sostanziale (Cass. 27 giugno 2018, n. 16893, in motivazione, sub p.to 1.3.1): sia per la funzione, in ragione della sua idoneità decisoria del giudizio di primo grado, sintomaticamente significata anche dalla definizione con provvedimento sulle spese processuali, in applicazione del principio di soccombenza (Cass. s.u. 20 luglio 1999, n. 480; Cass. 13 febbraio 2004, n. 2851; Cass. 19 giugno 2007, n. 14281; Cass. 21 aprile 2016, n. 8101); sia per la stabilità, quale attitudine alla formazione del giudicato (Cass. 19 dicembre 2014, n. 27127; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3945).
- Il quadro normativo illustrato consente di escludere immediatamente la corretta possibilità di assimilare, nel suo regime di appellabilità, l’ordinanza in esame, di natura e funzione decisoria, all’ordinanza (tale nella sostanza, oltre che nella forma) che il giudice abbia pronunciato in udienza, sotto il profilo di equivalenza di una tale conoscibilità alla comunicazione, per le parti presenti o che avrebbero dovuto esserlo (artt. 134 e 176 c.p.c.), in quanto ritenuta di valenza generale (come invece ritenuto da: Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, subp.to3.10).
9.1. Parimenti deve essere negata la pertinenza, ai fini in questione, del richiamo alla precedente sperimentazione, nell’ordinamento processualcivilistico, della tecnica acceleratoria basata sulla previsione della decorrenza, nel testo novellato nel 2005 dell’art. 669terdecies c.p.c., del termine per la proposizione del reclamo cautelare “dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione”: per quest’ultimo caso con la significativa aggiunta dell’inciso “se anteriore” (Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, sub p.to 3.4).
Occorre, infatti, distinguere il tipo di cognizione alla base del provvedimento al quale è riferito il termine di impugnazione: piena, nel procedimento sommario di cognizione; limitata alla sussistenza dei requisiti di fumus boni iuris e di periculum in mora, nel procedimento di reclamo cautelare. E senza neppure trascurare il diverso regime di stabilità: nel primo caso, idoneo al passaggio in giudicato; nel secondo, meramente strumentale (sia pure con le diverse gradazioni previste dall’art. 669novies c.p.c.) alla tutela cognitiva.
9.2. Tanto meno appropriato è, infine sul punto, il richiamo alla reiterazione di una tale tecnica di regime impugnatorio, con l’introduzione dal legislatore nel 2012 dell’art. 348ter c.p.c. (Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, ancora sub p.to 3.4), relativo alla pronuncia sulla inammissibilità dell’appello, in quanto individuante, ai fini qui d’interesse, soltanto un nuovo termine per l’impugnazione della sentenza di primo grado, per la diversa funzione dell’ordinanza che decide sul “filtro” introdotto dall’art. 348bis c.p.c., inidonea ad un effetto sostitutivo.
A questo proposito, e a rinforzo delle ragioni esposte a fondamento della natura decisoria dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702ter, comma 6 c.p.c., giova altresì sottolineare l’esigenza di un’impugnazione avverso di essa, che ne garantisca un esame a cognizione piena, non limitato ad una mera delibazione di (in)ammissibilità, sul presupposto di una “non … ragionevole probabilità di essere accolta” (art. 348bis, comma 1 c.p.c.), essendo per essa esplicitamente negata l’applicabilità del suddetto filtro (art. 348bis, comma 2, lett. b c.p.c.).
- Più articolato è il discorso riguardante la comparazione tra il procedimento sommario di cognizione e il modello decisorio previsto dall’art 281sexies c.p.c.
Entrambi costituiscono “rimedi preventivi”, a norma dell’art. 1ter l. 24 marzo 2001, n. 89, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato. E sono “modelli procedimentali alternativi” tra loro, come si evince dalla lettera del primo comma dell’articolo citato, secondo cui: “ … Nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, ivi comprese quelle in grado di appello, costituisce rimedio preventivo proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell’art. 281sexies del codice di procedura civile … ”.
La Corte costituzionale (che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 11, ancorché impropriamente richiamato, non venendo in rilievo limitazione alcuna della sovranità nazionale e 117, comma 1 Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, degli artt. 1bis, comma 2, 1ter, comma 1 e 2, comma 1 della legge n. 89 del 2001, per la subordinazione dell’ammissibilità della domanda di equo indennizzo per durata non ragionevole del processo al ricorso a tali rimedi preventivi) ha ritenuto la sanzione non irragionevole o non sproporzionata, per il richiamo della parte del processo all’osservanza dell’onere di diligenza stabilito dall’art. 1ter, ovvero alla proposizione dei suddetti modelli, ritenuti preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, anche dalla giurisprudenza europea. E ciò perché l’eventuale limitato margine di compressione della tutela giurisdizionale (peraltro con riguardo alle sole modalità del suo esercizio e non alla qualità del relativo approfondimento, che possa derivare alla parte dal passaggio al rito semplificato) riflette una legittima opzione del legislatore nel quadro di un bilanciamento di valori di pari rilievo costituzionale, quali il diritto di difesa e il valore del giusto processo, per il profilo della ragionevole durata delle liti, che trova ostacolo nella già abnorme mole del contenzioso (Corte cost. 23 giugno 2020, n. 121). In particolare, essa ha chiarito la diversità dei rimedi preventivi esperibili individuati dall’art. 1ter, comma 1 della legge n. 89 del 2001: “uno strumento attinente alla trattazione del processo, ove sia proposta l’istanza di mutamento del rito da ordinario di cognizione in sommario di cognizione ai sensi dell’art. 183bis c.p.c. … ovvero uno strumento riguardante le forme di svolgimento della decisione, ove … sia avanzata richiesta di definizione del contenzioso secondo lo schema più duttile e concentrato della pronuncia della sentenza semplificata immediatamente a seguito di discussione orale” (Corte cost. 23 giugno 2020, n. 121, in motivazione, sub p.to 3.5).
10.1. Non è pertanto in discussione la comune ratio acceleratoria dei due modelli procedimentali tra loro alternativi, che l’arresto di legittimità oggetto di contrasto riconosce anche al procedimento sommario di cognizione (Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, sub p.to 3.1). Detta ratio che lo permea trova una sintomatica corrispondenza, ai fini qui d’interesse, nella funzione acceleratoria della comunicazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702quater c.p.c., che, come è stato opportunamente osservato, sottrae alle parti la decisione (tramite la notificazione, a norma dell’art. 326 c.p.c.) sull’applicazione del termine breve di impugnazione, in quanto effetto automatico della conoscenza del provvedimento.
E bene essa si salda con la previsione, introdotta dall’art. 183bis c.p.c., di attribuzione (anche) al giudice del potere di disporre il passaggio dal rito ordinario a quello sommario, “con ordinanza non impugnabile”, così rafforzando, con il conferimento di un tale potere officioso, la finalità di accelerazione processuale immanente al procedimento sommario di cognizione.
- L’art. 702quater c.p.c. stabilisce che “l’ordinanza emessa ai sensi del sesto comma dell’art. 702ter produce gli effetti di cui all’art. 2909 del codice civile se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. … ”.
Come noto, la questione della sua legittimità costituzionale, per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, è stata ritenuta manifestamente infondata, trattandosi di una scelta discrezionale del legislatore, ragionevolmente in linea con la natura celere del procedimento, né lesiva del diritto di difesa, in quanto il detto termine decorre dalla piena conoscenza dell’ordinanza, che si ha con la comunicazione predetta ovvero con la notificazione ad istanza di parte (Cass. 9 maggio 2017, n. 11331).
11.1. Appare evidente che il tenore letterale del testo sia insuscettibile di un’interpretazione ricalcata sul modello decisorio dell’art. 281sexies c.p.c.: ossia di decorrenza del termine per proporre appello avverso l’ordinanza resa in udienza e inserita a verbale, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell’udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a “comunicazione” ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c. (Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, sub p.to 3.10). E pertanto con irrilevanza della comunicazione medesima, che, pure essendo (insieme con la notificazione) esclusivo e puntuale riferimento normativo di individuazione del dies a quo, sarebbe del tutto obliterato. Per giunta, senza neppure applicabilità del termine stabilito dall’art. 327 c.p.c., invece prevista per la fattispecie dell’art. 281sexies c.p.c. (con decorrenza del termine per proporre l’impugnazione, ai sensi della norma citata, dalla data della pronuncia, equivalente, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., con esonero, della cancelleria dalla comunicazione della sentenza a norma dell’art. 176 c.p.c.: Cass. 31 agosto 2015, n. 17311; Cass. 30 maggio 2017, n. 13617; Cass. 11 febbraio 2021, n. 3394). E ciò sull’assunto di avere il legislatore volutamente omesso il suo richiamo, per incompatibilità dell’ipotesi di un’applicazione del termine “lungo”, decorrente dal deposito dell’ordinanza, con la scelta acceleratoria, che permea l’art. 702quater c.p.c., della decorrenza dello stesso termine dalla comunicazione o dalla notificazione dell’ordinanza medesima (Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, sub p.ti 3.4 e 3.10).
11.2. Ma giova ora concentrare maggiormente l’attenzione sulla funzione della comunicazione dell’ordinanza e sulla sua specialità rispetto a quella dell’art. 133, comma 2 c.p.c.
È bene allora ribadire che, nel procedimento sommario di cognizione, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni previsto dall’art. 702quater c.p.c. per la proposizione dell’appello avverso l’ordinanza emessa a norma dell’art. 702ter, comma 6 c.p.c., la comunicazione di cancelleria debba avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione; con la conseguenza che, ai detti fini, occorra fare riferimento alla data di notificazione del provvedimento ad istanza di parte, ovvero, se anteriore, alla comunicazione di cancelleria in forma integrale, ossia comprensiva di dispositivo e motivazione (Cass. 23 marzo 2017, n. 7401; Cass. 16 febbraio 2022, n. 5079). Sicché, appare evidente la sua finalità di veicolare un’informazione chiara e completa della decisione, nel suo testo integrale, per l’equipollenza istituita tra la comunicazione (che è atto del cancelliere dell’ufficio giudiziario: art. 136 c.p.c.) e la notificazione (che l’ufficiale giudiziario effettua a richiesta di parte); non potendo farsi decorrere il termine breve d’impugnazione dalla sola notizia del dispositivo, per evidenti esigenze di difesa della parte soccombente, essendole necessaria la conoscenza della motivazione al fine di correlare ad essa i motivi a sostegno del gravame, anche sotto il profilo della relativa specificità (così: Cass. 23 marzo 2017, n. 7401, in motivazione, con ampio richiamo di precedenti).
11.3. Si tratta pertanto di una comunicazione che ha un carattere di palese specialità rispetto a quella della sentenza, ordinariamente prevista dall’art. 133, comma 2 c.p.c., in quanto produttiva di uno specifico effetto (decorrenza del termine di appellabilità), che la norma citata esclude invece espressamente (“… La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325.”).
11.4. Il regime di specialità così istituito dall’art. 702quater c.p.c. presenta un’evidente analogia con quello del reclamo, ai sensi dell’art. 1, comma 58 della l. 92/2012.
Questo prevede, infatti, che il termine breve di trenta giorni per la proposizione del reclamo alla corte di appello avverso la sentenza del tribunale sulla impugnativa di licenziamento, a norma dell’art. 18 l. 300/1970 come novellato dalla citata l. 92/2012, decorra solo dalla comunicazione della sentenza o dalla notificazione della stessa se anteriore, senza che rilevi la lettura del provvedimento in esito all’udienza ai sensi dell’art. 429 c.p.c., attesa la specialità del rito rispetto alla disciplina ordinaria e la necessità di interpretare restrittivamente la norma in tema di decadenza dall’impugnazione, escludendosi pertanto la possibilità di individuare un momento di decorrenza della stessa diverso da quello indicato dalla legge (Cass. 11 luglio 2016, n. 14098; Cass. 26 luglio 2018, n. 19862).
Sul punto, questa Corte in particolare ha chiarito, ai fini qui d’interesse in relazione alla disposizione contenuta nell’art. 281sexies c.p.c., che “la lettura della sentenza in udienza e la sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale che la contiene, non solo equivalgono alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c, ma anche esonerano il cancelliere dall’onere della comunicazione”. Ed ha precisato che “l’affermazione trova fondamento nel fatto che la lettura del provvedimento in udienza debba ritenersi conosciuta, con presunzione assoluta di legge, dalle parti presenti o che avrebbero dovuto essere presenti (Cass. 22659/ 2010, 20417/ 2006, 16304/ 2007, 4401/2006; Cass. ord. 17665/2004) e, inoltre, che siffatta soluzione è applicabile anche all’analoga disciplina introdotta per il rito del lavoro dall’art. 429, comma 1 c.p.c., come modificato dall’art. 53, comma 2 del D.L. n. 112 del 2008, convertito nella L. n. 133 del 2008, in mancanza di diversa previsione ed atteso che l’art. 430 c.p.c. si riferisce ormai ai soli casi in cui il giudice non dia contestuale lettura del dispositivo e della motivazione della sentenza, ovverosia qualora, attesa la «particolare complessità della controversia», egli decida di limitarsi alla lettura del dispositivo (Cass. n. 24805 del 07/12/2015)”. Inoltre, essa ha esplicitamente affermato che i “principi sopra richiamati non possono trovare applicazione nella fattispecie in esame perché essa è regolata dalla L. n. 92 del 2012, che ha introdotto un nuovo rito speciale, la cui disciplina può essere integrata dai principi processuali generali solo per gli aspetti in cui vi è lacuna del dettato normativo … ” (Cass. 5 aprile 2017, n. 8832, in motivazione, p.ti da 9 a 11).
11.5. Si comprende allora come la comunicazione, lungi dal poter essere (nonostante la sua positiva previsione di legge) pretermessa, sia anzi essenziale nel microsistema impugnatorio istituito dall’art. 702quater c.p.c., in funzione della stabilizzazione degli effetti (“di cui all’art. 2909 del codice civile”) della decisione soltanto “se non … appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione”. Essa è pertanto necessaria anche laddove l’ordinanza sia stata pronunciata in udienza, perché, come condivisibilmente è stato affermato in dottrina, “dire che l’ordinanza pronunciata in udienza è conosciuta dalle parti e quindi si ha per pubblicata è … cosa diversa dall’affermare che tale pronuncia è idonea a soddisfare il requisito della comunicazione, prescritto dall’art. 702quater c.p.c. per il decorso del termine breve”.
Si può quindi affermare che la cadenza acceleratoria del procedimento sommario di cognizione abbia avvio e perno di modulazione, non già nella volontà delle parti, ma proprio nella comunicazione, intesa come “completezza e certezza della notizia sulla possibilità di accedere al provvedimento e come disponibilità del suo testo”.
- Dalle argomentazioni appena svolte consegue l’applicabilità all’ordinanza ai sensi dell’art. 702quater c.p.c., qualora essa non sia stata comunicata, anche del termine semestrale di impugnazione, in corrispondenza coerente all’esigenza di stabilizzazione della decisione, in funzione di certezza dei rapporti giuridici.
Questa Corte ha già affermato (sia pure in contrasto con l’altro suo arresto del 6 giugno 2018, n. 14478) l’applicabilità del termine “lungo” di impugnazione nel procedimento sommario di cognizione (Cass. 27 giugno 2018, n. 16893), in una controversia che le ha devoluto solo tale esame, ma non anche di quello “breve” in riferimento alla comunicazione in caso di pronuncia dell’ordinanza in udienza, peraltro oggetto di un rapido passaggio (neppure vincolante, per la sua evidente natura di obiter dictum: Cass. 27 maggio 1997, n. 4686; Cass. 23 luglio 2004, n. 13824; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1815; Cass. 8 febbraio 2019, n. 3793).
In particolare, essa ha affermato che “l’introduzione … di una norma specifica per regolare il termine breve per la proposizione dell’appello … cioè l’articolo 702quater, nell’ottica sistemica non può intendersi come manifestazione di una voluntas legis escludente il termine lungo; esclusione che, d’altronde, sul piano letterale non può neppure ricavarsi dal riferimento agli “effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile”, poiché quest’ultimo riferimento va inquadrato in quanto si è finora illustrato. Vale a dire, il provvedimento decisorio è impugnabile sempre o entro termine breve o entro termine lungo; l’introduzione di una specifica disciplina attinente al termine breve e agli effetti del suo decorso non può quindi assorbire in modo meramente implicito la via dell’articolo 327. Nel contesto sistemico, allo scopo il legislatore avrebbe dovuto espressamente negare l’applicazione del termine lungo” (Cass. 27 giugno 2018, n. 16893, in motivazione, sub p.to 1.3.3). E ciò ritengono pure queste Sezioni unite, in esito alla ricostruzione del quadro normativo del procedimento sommario di cognizione (in particolare, al superiore punto 7), come speciale alternativo rispetto a quello ordinario di cognizione, dal quale ben possono essere attinte le disposizioni di ordine generale, a chiusura del sistema (nel caso di specie: in riferimento alla decadenza dall’impugnazione), quale è l’art. 327 c.p.c. in discussione: con la sua decorrenza dalla data di pubblicazione dell’ordinanza, che, come noto, si effettua con il deposito del provvedimento in cancelleria e costituisce l’ “atto conclusivo del grado di giudizio” (Cass. 25 luglio 1997 n. 6987, citata con altri precedenti da: Cass. 27 giugno 2018, n. 16893, in motivazione, sub p.to 1.4.2.).
- L’interpretazione offerta dell’art. 702quater c.p.c., sotto i profili sia di letteralità, sia di sistematicità, appare anche rispondente all’esigenza di individuare un punto di equilibrio della ratio acceleratoria (indubbiamente sussistente, al pari che nel modello decisionale configurato dall’art. 281sexies c.p.c., anche nel procedimento sommario), quale prospettiva di interpretazione normativa assunta dal citato arresto in contrasto (Cass. 6 giugno 2018, n. 14478, in motivazione, subp.to3.2), con l’attuazione del giusto processo, sotto i profili della garanzia di accesso al giudice e di tutela giurisdizionale dei diritti, in riferimento alla conoscenza certa (e non soltanto ad una conoscibilità presunta) della data di decorrenza del termine di appellabilità dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 702ter, comma 6 c.p.c., al fine di evitarne alla parte la decadenza.
13.1. Il tema dell’esigenza di una conoscenza effettiva e non di una conoscenza legale, che si risolva in una conoscibilità mera, è stato recentemente affrontato da queste Sezioni unite, in specifico riferimento all’individuazione, ai fini di decorrenza del termine di riassunzione del giudizio interrotto (ancorché automaticamente, per effetto della dichiarazione di fallimento di una delle parti, ai sensi dell’art. 43 l.fall.), dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; sicché tale dichiarazione, qualora non sia già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2 c.p.c., deve essere notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario (Cass. s.u. 7 maggio 2021, n. 12154).
In quel caso, si è ritenuto che la conoscenza dell’evento interruttivo debba attingere la parte interessata nello specifico processo, in cui i suoi effetti siano esplicitati mediante una dichiarazione, una notificazione o una certificazione rappresentative di esso, assistite da fede privilegiata e che non sia sufficiente una conoscenza altrimenti acquisita: con attribuzione così di rilievo non soltanto al mezzo di diffusione della notizia, ma anche alla sua fonte. Come è stato osservato, una tale istanza esprime nel suo nucleo irriducibile il principio costituzionale del giusto processo (artt. 24 e 111, primo e secondo comma Cost.), che esige il suo effettivo inveramento nel processo, con il pieno rispetto delle sue regole.
13.2. Nell’odierna controversia, parimenti certa deve essere la conoscenza del momento di decorrenza del termine di appellabilità dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 702ter, comma 6 c.p.c.: e derivare da un mezzo di diffusione della notizia, garantito nella sua fonte, così da essere assistita da una fede privilegiata, nell’insufficienza di una conoscenza altrimenti acquisita.
E mentre nel caso richiamato in comparazione la certezza (idest: effettività) della conoscenza, in assenza di una esplicita norma positiva, è stata ricavata in via di interpretazione sistematica, nel presente una tale certezza di individuazione del momento rilevante (decorrenza del termine di trenta giorni per l’appellabilità dell’ordinanza) è stata posta dal legislatore con una norma positiva (“dalla sua comunicazione o notificazione”).
Sicché, solo una tale interpretazione assicura quell’interazione sinergica di valori tra il diritto, da una parte, di agire in giudizio (attraverso una tempestiva impugnazione) a tutela dei propri diritti ed interessi e, dall’altra, il principio di una ragionevole durata del processo. Il rispetto dell’art. 3 Cost. sarebbe invece negato da un regime di decadenza dall’impugnazione, dipendente dalla scelta del singolo ufficio giudiziario di modalità processuali ed operative.
13.3. L’osservanza degli artt. 24 Cost. e 6 Cedu è infine garantita, sotto i profili di accesso al giudice e di tutela giurisdizionale dei diritti, dal rispetto del principio di proporzionalità, rispondente ad obiettive esigenze di buona amministrazione della giustizia, soprattutto se si tratti, come nel caso di specie, di regole prevedibili e di sanzioni prevenibili con l’ordinaria diligenza, anche in eligendo; sicché, l’inammissibilità dell’impugnazione, conseguente all’inosservanza di tali formalità anche quando integrano un termine, non costituisce sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica (CEDU del 30 marzo 2021, Oorzhak c. Russia, in C-4830/18).
In ogni caso, le restrizioni applicate non devono limitare l’accesso aperto all’individuo in una maniera o a un punto tali da pregiudicare l’esercizio del diritto nella sua stessa sostanza: conciliandosi, anzi, le limitazioni di accesso a un giudizio con l’articolo 6, comma 1 CEDU, solo se perseguano uno scopo legittimo e se esista un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, rispondente ad obiettive esigenze di buona amministrazione della giustizia, soprattutto se si tratti di regole prevedibili e di sanzioni prevenibili con l’ordinaria diligenza, anche in eligendo (CEDU 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia, in C-32610/07; Cass. 8 maggio 2019, n. 12134). E la soluzione adottata pare davvero assicurare l’efficace protezione del diritto, a tutela del quale è preordinata l’azione promossa, realizzando, in definitiva, quell’accesso alla giustizia garantito dall’art. 24 Cost.
- Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto: “Il termine (di trenta giorni) di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702quater c.p.c. decorre, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell’art. 281sexies c.p.c. In mancanza delle suddette formalità, l’ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell’art. 327 c.p.c.”.