Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 27 maggio 2021 n. 8
PRINCIPI DI DIRITTO
- a) Il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto.
- b) Gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario.
- c) Gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.
- d) Gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- L’Adunanza Plenaria ritiene che l’amministrazione, che è risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perda il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell’insediamento di un commissario ad acta al quale è conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell’ottemperanza al giudicato (ovvero nell’adempimento di quanto nascente da sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto.
Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio concorrente del potere da parte dell’amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece.
5.1. Come è noto, l’art. 21 del codice del processo amministrativo (nell’ambito del Capo VI, dedicato agli “ausiliari del giudice”), prevede che “nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta”.
Le ipotesi nelle quali il Codice prevede tale nomina sono rappresentate:
– dall’art. 34, co.1, lett. e), secondo il quale il giudice “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”;
– dall’art. 114, co. 4, lett. d), in base al quale il giudice dell’ottemperanza “nomina, ove occorra, un commissario ad acta”;
– dall’art. 117, co. 3, secondo il quale, nell’ambito del giudizio sul silenzio dell’amministrazione, “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente, su istanza della parte interessata”;
– dall’art. 59, relativo alla “esecuzione delle misure cautelari”, che consente, laddove i provvedimenti cautelari non siano in tutto o in parte eseguiti, che il giudice, su istanza motivata dell’interessato, eserciti “i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza”, e dunque possa disporre anche la nomina di un commissario ad acta.
Dall’esame delle disposizioni innanzi riportate, appare innanzi tutto evidente la natura del commissario ad acta quale “ausiliario del giudice”, che procede alla sua nomina laddove debba “sostituirsi all’amministrazione”.
La nomina del commissario ad acta, dunque, si fonda su due presupposti normativamente indicati e, precisamente:
– che il giudice debba sostituirsi all’amministrazione;
– che tale circostanza si verifichi nell’ambito della giurisdizione del giudice medesimo, così come definita dalle norme che la attribuiscono.
Tali circostanze, oltre a costituire i presupposti per la nomina del commissario ad acta, definiscono anche il perimetro dei compiti del medesimo, che coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato e nel cui ambito il commissario agisce.
Diversamente, dunque, dagli altri ausiliari previsti dal Codice, quali il verificatore ed il consulente tecnico, che assistono il giudice “per il compimento di singoli atti o per tutto il processo” e dunque svolgono compiti strumentali e antecedenti alla pronuncia della sentenza (alla quale sono finalizzati), il commissario ad acta svolge compiti ausiliari del giudice “dopo” la decisione, laddove questi, nell’ambito della propria giurisdizione, “deve sostituirsi all’amministrazione”.
E ciò avviene – come si evince dalle disposizioni del Codice innanzi riportate – tutte le volte in cui il comando espresso dalla sentenza passata in giudicato o dotata di provvisoria esecutività (e non sospesa), ovvero il comando espresso dall’ordinanza cautelare, non venga eseguito dall’amministrazione, con pregiudizio per l’effettività e la pienezza della tutela della situazione soggettiva della quale è titolare la parte vincitrice nel giudizio di cognizione; tutela che, per realizzarsi pienamente, ha bisogno della necessaria attività dell’amministrazione.
Il commissario ad acta è, quindi, funzionale all’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione, in attuazione degli articoli 24 e 113 Cost., nonché degli articoli 6 e 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La disciplina normativa, nel definire espressamente, come si è visto, il commissario ad acta quale ausiliario del giudice, esclude, al tempo stesso, che a questi possa essere riconosciuta la natura di organo (straordinario) dell’amministrazione.
E ciò ricorre anche nei casi in cui il commissario, più che dare seguito a specifici aspetti già definiti dalla pronuncia in un’ottica stricto sensu esecutiva, per le finalità del proprio incarico esercita poteri discrezionali, come nel caso in cui, stante la perdurante inerzia dell’amministrazione, egli debba provvedere sulla istanza del cittadino o dell’impresa, senza che la sentenza abbia determinato il contenuto del potere da esercitare.
La natura esclusiva di ausiliario del giudice, peraltro, era già stata affermata, anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, sia dalla Corte costituzionale, sia da questa stessa Adunanza Plenaria.
La Corte costituzionale, con sentenza 12 maggio 1977 n. 75, ha a suo tempo affermato che:
“il giudice amministrativo, sia che sostituisca la propria decisione all’omesso provvedimento della pubblica amministrazione, che vi era tenuta in forza del giudicato formatosi nei suoi confronti, come più spesso suole accadere quando si tratti di atto vincolato; sia che ingiunga alla amministrazione medesima di provvedere essa stessa, entro un termine all’uopo prefissatole e con le modalità specificate in sentenza; sia infine che disponga la nomina di un commissario per l’ipotesi che il termine abbia a decorrere infruttuosamente, esplica sempre attività di carattere giurisdizionale (“decide pronunciando anche in merito”, come si esprime l’art. 27, comma primo, del citato testo unico del 1924, riferendosi testualmente al Consiglio di Stato “in sede giurisdizionale”).
Né fa differenza, sotto questo aspetto . . . che la nomina del commissario sia operata dal giudice amministrativo direttamente, ovvero attraverso l’interposizione di un organo amministrativo. . . , poiché in tal caso a quest’ultimo viene semplicemente demandata la scelta della persona, e non già conferito il potere di agire in via sostitutiva per mezzo di un “suo” commissario, come si verifica invece quando sia l’organo di controllo, di propria iniziativa, ad inviare un commissario ad acta presso amministrazioni sottoposte alla sua vigilanza.
Procedendo, pertanto, direttamente o indirettamente, alla nomina di un commissario, il giudice amministrativo non si surroga all’organo di controllo, ma pone in essere un’attività qualitativamente diversa da quella che quest’ultimo avrebbe istituzionalmente il potere-dovere di esplicare nell’ipotesi di omissione da parte degli enti locali di atti obbligatori per legge, tra i quali rientrano bensì, ma senza esaurirne la specie, quelli da adottare per conformarsi ad un giudicato: potere-dovere che, comunque, preesiste alla pronuncia emessa nel giudizio di ottemperanza ed è da questa indipendente.
Ed a sua volta, l’attività del commissario, pur essendo, praticamente, la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall’amministrazione, o in ipotesi da un commissario ad acta inviato dall’organo di controllo, ne differisce tuttavia giuridicamente, perché si fonda sull’ordine contenuto nella decisione del giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”.
Anche questa Adunanza Plenaria, con decisone 14 luglio 1978 n. 23, precisato che il giudizio di ottemperanza risponde all’esigenza “del completamento della tutela giurisdizionale nella fase esecutiva della decisione”, afferma che con tale giudizio “il giudice amministrativo si sostituisce all’amministrazione inadempiente ponendo in essere l’attività che questa avrebbe dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti scaturenti dalla sentenza da eseguire, conformando la realtà alle relative statuizioni”.
In definitiva, può affermarsi che il commissario ad acta è, sul piano della qualificazione soggettiva, ausiliario del giudice e ritrae i propri poteri dall’atto di nomina al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale, adeguando la realtà giuridica e fattuale al comando contenuto nella pronuncia. Tale comando costituisce il contenuto ed il limite del potere del commissario ad acta, che ad esso (solo ad esso e nei limiti di quanto prescritto) deve dare attuazione.
Sul piano oggettivo dell’attività concretamente posta in essere, esso agisce in virtù di un potere, normativamente previsto, fondato sull’esigenza dell’attuazione delle decisioni giurisdizionali in quanto funzionali a rendere concreta ed effettiva della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive.
Ciò comporta che la fonte del potere del commissario ad acta è riconducibile, quanto all’investitura, all’atto di nomina e, quanto al contenuto, alla sentenza (o comunque al provvedimento giurisdizionale della cui esecuzione si tratta).
In conclusione, non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via “aggiuntiva”, la natura di organo straordinario dell’amministrazione (dovendosi, in tal senso, precisare quanto – peraltro incidentalmente – affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 9 maggio 2019 n. 7, che riconosce invece al commissario una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”), e ciò in quanto
– per un verso, la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l’unica normativamente riconosciuta e definita;
– per altro verso, gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge, mentre, diversamente opinando, ricorrerebbe in questo caso l’ipotesi di un organo amministrativo di fonte giurisdizionale;
– per altro verso ancora, il compito del commissario ad acta non è quello di esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico, bensì quello di dare attuazione alla pronuncia del giudice, anche eventualmente attraverso l’esercizio di poteri amministrativi non esercitati, dei quali il comando contenuto in sentenza (o nell’ordinanza) costituisce il fondamento genetico e l’approdo funzionale;
– da ultimo, non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale.
L’Adunanza Plenaria non ignora il risalente dibattito sulla natura soggettiva del commissario ad acta, figura che – come ricorda anche l’ordinanza di rimessione – ha nel tempo oscillato tra le distinte nature di organo straordinario dell’amministrazione, ausiliario del giudice, soggetto con duplice natura (ausiliario del giudice e organo straordinario): un dibattito storicamente comprensibile, che ha accompagnato la progressiva definizione dell’istituto, esso stesso di origine giurisprudenziale (a partire da Cons. Stato, sez. IV, 9 marzo 1928 n. 181), fino alla sua piena affermazione sia sul piano della previsione normativa (ora art. 21 c.p.a.), sia sul piano dell’ambito di intervento, oggi praticamente esteso ad ogni necessità di ottemperanza e/o esecuzione del provvedimento giurisdizionale dotato di forza esecutiva, secondo quanto prescritto dall’art. 112 c.p.a..
Attualmente, ed in modo inequivocabile, la conquistata definizione normativa dell’istituto ne definisce espressamente la natura soggettiva, che è quella (esclusivamente) di ausiliario del giudice.
5.2. Tale natura di ausiliario del giudice non è revocata in dubbio dal fatto che il commissario ad acta, nel dare esecuzione alla decisione del giudice, debba adottare atti amministrativi, anche di natura provvedimentale, e ciò anche effettuando, in luogo dell’amministrazione inadempiente, valutazioni e scelte normalmente rientranti nell’esercizio del potere discrezionale della stessa; né la circostanza che gli atti adottati esplichino effetti imputabili alla sfera giuridica dell’amministrazione comporta, di necessità, l’attribuzione al commissario della natura di organo amministrativo.
Se, come si è detto, l’attività del commissario ad acta costituisce attuazione della decisione del giudice, onde rendere effettiva la tutela giurisdizionale costituzionalmente affermata nei confronti della pubblica amministrazione, gli effetti che si imputano all’amministrazione non dipendono da una “sostituzione” nell’esercizio di poteri a questa attribuiti e da essa autonomamente esercitabili, ricorrendone le ragioni di pubblico interesse; né tantomeno ricorre un’ipotesi di trasferimento dei poteri medesimi (dall’amministrazione al commissario).
Tali effetti derivano, invece, direttamente dalla pronuncia del giudice, la quale, avendo per oggetto atti amministrativi o l’esercizio in fieri di poteri provvedimentali, non può attuarsi se non attraverso l’adozione di atti o di provvedimenti, il cui momento genetico, tuttavia, non si ritrova nella norma attributiva del potere all’amministrazione, bensì nella sentenza, ed il cui momento funzionale non è (almeno direttamente) rappresentato dalla cura dell’interesse pubblico, bensì dall’effettività della tutela giurisdizionale.
Ed è significativo, sotto tale aspetto, che i poteri del commissario siano tradizionalmente ricondotti alla giurisdizione “di merito” del giudice amministrativo, la quale, anche nell’adozione di provvedimenti in luogo dell’amministrazione, resta esercizio di attività giurisdizionale e non amministrativa.
In questo senso, trova riscontro quanto affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 75/1977 innanzi citata), secondo la quale “l’attività del commissario, pur essendo, praticamente, la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall’amministrazione, o in ipotesi da un commissario ad acta inviato dall’organo di controllo, ne differisce tuttavia giuridicamente, perché si fonda sull’ordine contenuto nella decisione del giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”.
Il fondamento del potere esercitato dal commissario ad acta non è il medesimo del potere di cui è titolare l’amministrazione, poiché il primo si colloca, come si è detto, nella decisione del giudice, il secondo nella norma che lo attribuisce all’amministrazione; il primo ha la sua “giustificazione funzionale” nell’effettività della tutela giurisdizionale, conferendo alla parte vittoriosa in giudizio quella attribuzione che risulta satisfattiva della propria posizione giuridica per la cui tutela essa ha agito; il secondo, nella cura dell’interesse pubblico che costituisce, al contempo, fondamento genetico dell’attribuzione e funzionalizzazione dell’esercizio del potere.
Se, dunque – in via di approssimazione e per sintesi – di “sostituzione” del giudice (e, per esso, del commissario a acta) all’amministrazione si intende discorrere, ciò può avvenire solo nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell’esercizio di un medesimo potere, ma solo con riferimento a ciò che l’amministrazione avrebbe dovuto compiere per dare attuazione al giudicato e rispetto al quale è invece rimasta inottemperante.
E se per dare piena soddisfazione alla parte vittoriosa l’amministrazione avrebbe dovuto esercitare un potere amministrativo ad essa conferito dalla legge e ciò non ha fatto, allora il commissario sostituisce al primo potere l’esercizio di un potere analogo ma non identico, poiché, come si è detto, esso trova fondamento, per espressa previsione normativa, nella decisione del giudice.
La natura ed il contenuto degli specifici atti adottati dal commissario ad acta (e che non differiscono da quelli che l’amministrazione avrebbe dovuto adottare) dipendono dal contenuto prescrittivo della decisione del giudice, alla quale prestano attuazione (ottemperanza, esecuzione).
Così come vario è il contenuto del giudizio di ottemperanza, altrettanto vario è il contenuto proprio dei poteri del commissario ad acta.
Come ha affermato questa Adunanza Plenaria, con sentenza 15 gennaio 2013 n. 2, “l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’“azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost..
Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 c.p.a., deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”.
Di conseguenza, il commissario ad acta potrà essere chiamato ad adottare atti dalla natura giuridica e dal contenuto più vari: da quelli volti al pagamento di somme di denaro, cui l’amministrazione è stata condannata, ai provvedimenti amministrativi di natura vincolata, che trovano già nella sentenza che ha concluso il giudizio di cognizione la propria conformazione; fino ai provvedimenti di natura discrezionale, che solo eventualmente possono trovare nella sentenza ragioni e limiti della valutazione e della scelta che il commissario deve effettuare in luogo dell’amministrazione.
Ma, in tutti i casi considerati, il potere esercitato dal commissario ad acta, ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare.
Anche nel caso in cui – come nel giudizio sul silenzio serbato dall’amministrazione su istanza del privato (ed al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 31 c.p.a.) – la sentenza sancisce esclusivamente l’“obbligo di provvedere” dell’amministrazione sull’istanza, l’esercizio del potere del commissario trova comunque il proprio fondamento nella sentenza perché è sempre nella decisione che si riscontra la giustificazione (genetica e funzionale) del distinto potere esercitato.
Proprio per le ragioni sin qui esposte (oltre che per una opportuna e condivisibile esigenza di speditezza ed economicità dei mezzi processuali), il codice del processo amministrativo rimette al giudice dell’ottemperanza (art. 114, co. 6) la decisione sulle questioni “inerenti agli atti del commissario ad acta” e al giudice del silenzio (art. 117, co. 4) la decisione sulle questioni “relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto”.
In ambedue le ipotesi, proprio perché gli atti adottati non sono espressione di autonomo esercizio di potere amministrativo (propriamente detto), la tutela avverso gli stessi deroga alle ordinarie regole del giudizio di cognizione ed è affidata al giudice del quale il commissario che ha adottato gli atti contestati costituisce l’ausiliario.
5.3. Alla luce di quanto sin qui esposto, può affermarsi:
- a) il commissario ad acta è solo ed esclusivamente “ausiliario del giudice”;
- b) il potere esercitato dal commissario non è il medesimo del quale l’amministrazione è titolare, né il commissario si “sostituisce” all’amministrazione nel suo esercizio, né si verifica un “trasferimento” di detto potere (come pure è stato anteriormente affermato: Cons. Stato, sez. V, 5 giugno 2018 n. 3378);
- c) il potere del commissario ad acta nella adozione di atti e provvedimenti trova il proprio fondamento genetico nella decisione del giudice (sentenza passata in giudicato; sentenza provvisoriamente esecutiva non sospesa; ordinanza cautelare) e la propria giustificazione sul piano funzionale nella necessità di assicurare pienezza ed effettività alla tutela giurisdizionale già riconosciuta alla situazione soggettiva per la quale si è agito in giudizio;
- d) gli effetti degli atti posti in essere dal commissario ad acta si imputano alla sfera giuridica dell’amministrazione non già come conseguenza del fatto che il commissario è organo straordinario della medesima (riconducendo quindi in tal modo, implicitamente, l’imputazione degli effetti alla immedesimazione organica), bensì perché tali effetti si producono nella sfera giuridica dell’amministrazione per derivazione dalla decisione del giudice (articoli 2908, 2909 c.c.).
6.1. La natura distinta del potere esercitato dal commissario ad acta rispetto al potere del quale è titolare la pubblica amministrazione soccombente già costituisce, di per sé, chiara indicazione in ordine alla ammissibilità della “concorrenza” della competenza commissariale con quella dell’amministrazione.
Difatti, il commissario ad acta svolge compiti ed esercita specifici poteri in virtù del munus conferitogli, nei sensi innanzi esposti, dall’atto di nomina da parte del giudice e dalla decisione da attuare. Nel suo caso, come si è detto, non si verifica alcuna “sostituzione” dell’amministrazione nell’esercizio dei poteri che le sono propri, né questi ultimi si “trasferiscono” al commissario per effetto della nomina della quale l’inerzia dell’amministrazione costituirebbe la ragione.
In questo senso, può parzialmente convenirsi, nei limiti di seguito esposti, con l’ordinanza di rimessione laddove la stessa afferma che “in assenza di una (pur consentita dalla legge) chiara ed univoca determinazione del giudice amministrativo sulla perdita di potere dell’organo ordinariamente competente, si potrebbe continuare a considerare perdurante la competenza attribuita in via ordinaria dalla legge, militando in tal senso il principio di legalità sulla articolazione delle competenze, nonché il principio di correttezza dei rapporti di diritto pubblico…”.
In primo luogo, è dubbio che il giudice abbia il potere di indicare una data oltre la quale l’amministrazione non possa più provvedere nell’attuazione della decisione, poiché si tratterebbe di un potere di “interdizione” dall’esercizio di poteri amministrativi per il quale difetta il presupposto normativo (la stessa ordinanza, d’altra parte, pur ammettendolo in teoria, considera tale potere una “extrema ratio”).
In secondo luogo, ciò che l’ordinanza riassume sotto l’egida dell’attuazione del principio di legalità traduce, per un verso, la difficoltà se non l’impossibilità di conferire per sentenza poteri amministrativi, la cui attribuzione è diversamente prevista dall’ordinamento; per altro verso, costituisce la riaffermazione della persistenza dell’esercizio di un potere del quale l’amministrazione ha la titolarità e del quale conserva l’esercizio nonostante la nomina o l’insediamento del commissario ad acta, titolare di un potere diverso, non sovrapponibile e privo di effetti escludenti.
Come si è affermato in parte della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 10 maggio 2011 n. 2764):
“la nomina del Commissario ad acta non determina di per sé l’esaurimento della competenza della p.a. sostituita a provvedere all’ottemperanza al giudicato, in quanto il venir meno dell’inerzia della p.a. stessa, pur dopo la scadenza del termine assegnatole, rende priva di causa la nomina e la funzione del Commissario, secondo i principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, non smentiti dalla legge o dalla pronuncia del giudice dell’ottemperanza ed essendo indifferente per il privato che il giudicato sia eseguito dall’Amministrazione, piuttosto che dal Commissario, perché l’attività di entrambi resta comunque egualmente soggetta al controllo del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29 dicembre 2008, nr. 6585; Cons. Stato, sez. IV, 10 aprile 2006, nr. 1947; Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 1999, nr. 109)”.
Può ulteriormente aggiungersi che la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte dell’amministrazione, sia da parte del commissario ad acta, rafforza la posizione della parte già vittoriosa in sede di cognizione.
E la concorrenza della competenza del commissario ad acta e dell’amministrazione ha termine allorché uno dei due soggetti dà attuazione alla decisione del giudice.
6.2. D’altra parte, non vi è alcun dato normativo che consenta di affermare con certezza la perdita del potere dell’amministrazione di provvedere per effetto della nomina o dell’insediamento del commissario ad acta.
E ciò a fronte della sussistenza non solo di un dovere per la parte soccombente di dare attuazione a quanto a proprio carico derivante dalla sentenza del giudice, ma anche della sussistenza di un “diritto” di adempiere al fine di evitare l’aggravarsi della propria posizione, anche quanto alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’inottemperanza.
Laddove, infatti, non si ammettesse il potere dell’amministrazione di dare attuazione alla decisione del giudice, la stessa rimarrebbe senza rimedio esposta, oltre che ai costi derivanti dall’intervento dell’ausiliario, anche alla “azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. . .”, di cui all’art. 112, co. 3, c.p.a..
- Da quanto innanzi esposto consegue:
- a) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta,non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario medesimo. Tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, l. n. 241/1990), ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità;
- b) il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto. Qualora persista il dubbio del commissario in ordine all’esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione (poiché, ad esempio, questa è reputata dal commissario parziale o incompleta), lo stesso potrà rivolgersi al giudice che lo ha nominato, ai sensi dell’art. 114, co. 7 c.p.a.;
- c) gli atti emanati dal commissario ad acta,non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela. Qualora l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il comando contenuto nella decisione del giudice), potràesclusivamente rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.;
- d) qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsiinefficacie, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio. Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto.
Chiarito il rapporto intercorrente tra commissario ad acta ed amministrazione soccombente, occorre ricordare come resti ovviamente fermo il potere della parte vittoriosa di rivolgersi al giudice per ogni doglianza o chiarimento nei confronti degli atti adottati.
- Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di diritto:
- a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto;
- b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario.
- c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.
- d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.
- L’Adunanza Plenaria dispone la restituzione del giudizio alla sezione rimettente, per ogni ulteriore decisione nel merito e sulle spese ed onorari del giudizio, ivi compresi quelli inerenti alla presente fase.