Corte Costituzionale, sentenza 28 ottobre 2021 n. 203
Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), inserito dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Napoli.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Deve preliminarmente essere esaminata la richiesta, formulata dalla parte civile nel processo a quo, costituitasi nel giudizio costituzionale, che questa Corte sollevi dinnanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, in riferimento all’art. 3 Cost., per la irragionevole disparità di trattamento tra la posizione della persona offesa dal reato e quella dell’indagato, per il quale il momento iniziale rilevante, ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo è, per effetto della sentenza di questa Corte n. 184 del 2015, quello nel quale egli ha avuto conoscenza della esistenza del procedimento.
2.1.– La richiesta di autorimessione è inammissibile.
L’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, infatti, è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nell’ordinanza di rimessione, con esclusione della possibilità di ampliare il thema decidendum proposto dal rimettente, fino a ricomprendervi questioni formulate dalle parti, che tuttavia egli non abbia ritenuto di fare proprie (in termini, sentenze n. 49 del 2021, n. 186 del 2020, n. 7 del 2019, n. 248, n. 194, n. 120, n. 27 e n. 4 del 2018 e n. 35 del 2017).
Nella giurisprudenza di questa Corte è altresì costante il principio per cui «[l]a possibilità che [la] Corte sollevi in via incidentale una questione davanti a sé si dà solo allorché dubiti della legittimità costituzionale di una norma, diversa da quella impugnata, che sia chiamata necessariamente ad applicare nell’iter logico per arrivare alla decisione sulla questione che le è stata sottoposta: in altri termini, si deve trattare di una questione che si presenti pregiudiziale alla definizione della questione principale e strumentale rispetto alla decisione da emanare (sentenze n. 122 del 1976, n. 195 del 1972 e n. 68 del 1961)» (sentenza n. 24 del 2018).
Nella specie, la questione avrebbe invece per oggetto la stessa norma denunciata dal rimettente, in quanto lesiva di parametri diversi da quelli indicati nell’ordinanza di rimessione, sicché deve escludersi la sussistenza del nesso di pregiudizialità che consente alla Corte di sollevare davanti a sé una questione in via incidentale.
3.– La questione sollevata dalla Corte d’appello di Napoli non è fondata.
4.– Questa Corte, con la sentenza n. 249 del 2020, pubblicata dopo l’ordinanza di rimessione, ha dichiarato non fondata una identica questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Firenze con ordinanza del 23 settembre 2019.
Quest’ultima aveva ritenuto che la norma censurata si ponesse in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, e in particolare con la sentenza Arnoldi contro Italia, secondo cui nel diritto italiano la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e delle facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 6 CEDU, da quella della parte civile.
4.1.– Nella sentenza n. 249 del 2020, questa Corte ha ritenuto che, al fine di verificare la legittimità della previsione legale di carattere generale con cui l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 ha determinato la congruità del termine di durata del processo penale per la persona offesa dal reato, considerandolo iniziato soltanto da quando la stessa assume la qualità di parte civile, occorresse analizzare gli interessi di cui è portatrice la medesima persona offesa già prima del momento in cui l’ordinamento nazionale attribuisce ad essa tale qualità. L’attenzione della Corte si è così soffermata sulle attività procedimentali consentite alla persona offesa, che precedono la costituzione di parte civile, in maniera da accertare se le stesse siano comunque idonee a determinare il danno per l’irragionevole protrazione del processo penale secondo il canone convenzionale, al cui ristoro è preposto il diritto all’equa riparazione.
In tale sentenza si è quindi evidenziato:
- a) che la costante giurisprudenza costituzionale guarda alla persona offesa dal reato nel processo penale come soggetto portatore di un duplice interesse: quello al risarcimento del danno, che si esercita mediante la costituzione di parte civile, e quello all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, che si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero (sentenza n. 23 del 2015);
- b) che l’assetto generale, posto a base del codice di procedura penale del 1988, è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile (sentenze n. 353 del 1994 e n. 192 del 1991), e guarda, pertanto, alla persona offesa, quale «soggetto eventuale del procedimento o del processo», e non quale parte principale e necessaria (ordinanze n. 254 del 2011 e n. 339 del 2008);
- c) che l’azione per il risarcimento del danno da reato o per le restituzioni ben può avere dall’inizio una propria autonomia nella naturale sede del giudizio civile, con un iter del tutto indipendente rispetto al giudizio penale (sentenza n. 532 del 1995);
- d) che il titolare dell’azione per il risarcimento del danno o per le restituzioni da reato può perciò chiedere tutela nel processo civile del tutto indipendentemente dal giudizio penale, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli (sentenza n. 94 del 1996; ordinanza n. 424 del 1998);
- e) che questo spiega altresì la legittimità dell’attribuzione alla persona offesa di poteri circoscritti rispetto a quelli riconosciuti al pubblico ministero o all’indagato, non rilevando l’esigenza di tutelare una eventuale esplicita manifestazione preventiva dell’intenzione del danneggiato di costituirsi parte civile anteriormente all’esercizio dell’azione penale (sentenza n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999).
4.2.– Va subito rilevato che, in linea con questa ricostruzione della posizione della persona offesa dal reato costituitasi parte civile nel procedimento penale, la recente sentenza n. 182 del 2021 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 578 cod. proc. pen. sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 2, CEDU, nonché in riferimento allo stesso art. 117, primo comma, e all’art. 11 Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
In tale sentenza questa Corte ha affermato che «[n]ell’ipotesi in cui la domanda risarcitoria venga […] proposta con la costituzione di parte civile nel processo penale, i rapporti tra azione civile e poteri cognitivi del giudice penale continuano ad essere informati, anche nel sistema accolto nel codice vigente, al principio dell’“accessorietà” dell’azione civile rispetto a quella penale, principio che trova fondamento nelle “esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”, e che ha quale naturale implicazione quella per cui l’azione civile, ove esercitata all’interno del processo penale, “è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura” di questo processo (sentenza n. 176 del 2019; in precedenza, anche sentenza n. 12 del 2016)».
Tale principio di “accessorietà”, chiarisce la sentenza n. 182 del 2021, «trova la sua principale espressione nella regola secondo la quale il giudice penale “decide” sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile, “[q]uando pronuncia sentenza di condanna” (art. 538, comma 1, cod. proc. pen.)», e ciò significa che la condanna penale «costituisce il presupposto indispensabile del provvedimento del giudice sulla domanda civile».
4.3.– Quanto all’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU emersa nella sentenza Arnoldi contro Italia, la sentenza n. 249 del 2020 ha ritenuto che le esigenze di tutela degli interessi della persona offesa, contemplate dalla Corte EDU, in correlazione alla peculiarità del caso concreto, non deponessero comunque per la illegittimità costituzionale della previsione legislativa di carattere generale dettata dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001.
Ciò in quanto, per ravvisare il contrasto tra l’art. 2, comma 2-bis, e la norma interposta, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., e per affermare la decorrenza anticipata del computo complessivo del termine di ragionevole durata, occorrerebbe verificare una necessaria, e non occasionale, identità tra il diritto di carattere civile spettante alla persona offesa già durante il periodo di svolgimento delle indagini preliminari e la posizione soggettiva di carattere privato da essa azionata a seguito della costituzione di parte civile nel processo penale, identità da cui discenderebbe, perciò, sotto il profilo dell’effettività del pregiudizio subito, altresì la necessaria unitarietà dell’interesse a che il complessivo giudizio penale si concluda in termini ragionevoli.
4.3.1.– Questa Corte ha quindi ritenuto erroneo il procedimento logico che propenda, in via generale ed astratta, per la omogeneizzazione ed il cumulo sostanziale, sotto l’aspetto della eccessiva durata, tra il segmento del processo in cui la persona offesa si sia resa attiva durante le indagini preliminari e il segmento conseguente poi alla costituzione di parte civile.
L’erroneità di una tale assimilazione discende innanzitutto dalla non necessaria coincidenza tra la persona offesa dal reato, cui fa riferimento l’art. 90 cod. proc. pen., e il soggetto al quale il reato ha recato danno, contemplato dall’art. 74 dello stesso codice ai fini della legittimazione all’azione civile.
Come già ricordato, in capo alla persona offesa si concentrano, in realtà, interessi di natura duplice ed eterogenea: l’interesse volto all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, che si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero, e l’interesse diretto al risarcimento del danno, che si esercita mediante la costituzione di parte civile. Le facoltà e i diritti di cui, in particolare, agli artt. 90, 90-bis, 101, 336, 341, 360, 369, 377, 394, 408, 410 e 410-bis cod. proc. pen. sono attribuiti dalla legge alla persona offesa e non al danneggiato, e sono comunque volti a coadiuvare il pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale, ovvero a conseguire l’accertamento del fatto-reato e la giusta punizione del colpevole.
Non si tratta, quindi, di poteri e facoltà necessariamente funzionali alla tutela anticipata del diritto potenziale riconosciuto alla parte civile e il loro esercizio non può perciò implicare una retrodatazione della decorrenza del periodo dei patimenti connessi all’accertamento processuale del credito risarcitorio da reato. Viceversa, solo dopo che sia stata esercitata l’azione penale, nel sistema del codice di procedura penale italiano emerge la primarietà della parte civile costituita, cui vengono attribuiti poteri processuali finalizzati al soddisfacimento della domanda risarcitoria.
4.3.2.– La valenza strettamente personale, e non patrimoniale, della qualità della persona offesa trae significativa conferma dal dettato del comma 3 dell’art. 90 cod. proc. pen., il quale attribuisce ai «prossimi congiunti» (e non agli eredi) le facoltà e i diritti ad essa spettanti ove sia deceduta in conseguenza del reato.
I diritti e le facoltà riconosciuti dal codice di procedura penale alla persona offesa nel corso delle indagini preliminari, allo scopo di far perseguire o condannare l’indagato, e consistenti, indicativamente, nel presentare memorie, nell’indicare elementi di prova, nel nominare un difensore, nel proporre querela, nell’interloquire sulla proroga delle indagini o sulla richiesta di archiviazione, risultano, pertanto, estranei di norma all’ambito dei «diritti e doveri di carattere civile» di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU.
Del resto, la possibilità di costituzione della parte civile rimane subordinata all’esercizio dell’azione penale, e dunque all’iniziativa del pubblico ministero, non potendo essere oggetto di censure il decreto del giudice, che accolga la richiesta di archiviazione del pubblico ministero e respinga l’opposizione proposta dalla persona offesa, se non per il mancato rispetto delle regole poste a garanzia del contraddittorio formale.
L’ordinamento italiano scongiura ogni automatica incidenza determinante dell’esito delle indagini preliminari sul «diritto di carattere civile» del danneggiato da reato, atteso che l’interferenza degli approdi del processo penale sulla pretesa civile di danno, ai sensi degli artt. 75 e 652 cod. proc. pen., discende unicamente dalla scelta che il danneggiato compie proprio mediante la costituzione di parte civile.
La sentenza n. 249 del 2020 ha perciò concluso che la soluzione adottata dal legislatore nazionale con la previsione generale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, secondo cui, ai fini del computo del termine ragionevole, il processo penale si considera iniziato soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile, si rivela coerente con la ricostruzione sistematica che, prima e al di fuori della formale instaurazione del rapporto processuale, nega al danneggiato la facoltà di far valere in sede penale, sia pur soltanto in senso sostanziale, il «diritto di carattere civile» al risarcimento.
5.– Rispetto alla data dell’ordinanza di rimessione della Corte d’appello di Napoli, è sopravvenuta la sentenza 18 marzo 2021 della Corte EDU, prima sezione, Petrella contro Italia. Decidendo con riguardo ad un caso di denuncia per diffamazione a mezzo stampa con contestuale manifestazione dell’intenzione di costituirsi parte civile, cui era seguita dopo sette anni l’archiviazione per intervenuta prescrizione del reato, la Corte EDU, a proposito della dedotta violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, ha rammentato che la Convenzione non riconosce, di per sé, il diritto di far perseguire o condannare penalmente terze persone.
Per rientrare nel campo di applicazione della CEDU, tale diritto deve, piuttosto, andare di pari passo con l’esercizio da parte della vittima del suo diritto di intentare l’azione, per definizione civile, offerta dall’ordinamento interno, anche soltanto al fine di ottenere una riparazione simbolica o la protezione di un diritto di carattere civile, quale ad esempio quello di godere di una «buona reputazione».
Secondo la sentenza Petrella contro Italia, pertanto, l’art. 6, paragrafo 1, CEDU si applica ai procedimenti relativi alle denunce con costituzione di parte civile a partire dal momento in cui interviene l’atto di costituzione, a meno che la vittima non abbia rinunciato in maniera inequivocabile all’esercizio del suo diritto a ottenere riparazione; sono stati però ricordati i precedenti che hanno riconosciuto applicabile questa disposizione anche alla parte lesa che non si era costituita parte civile, in quanto nel diritto italiano, anche prima dell’udienza preliminare, in cui può essere presentata tale costituzione, la vittima del reato può esercitare i diritti e le facoltà espressamente riconosciuti dalla legge.
La Corte EDU ha constatato, nella specie, che la denuncia del ricorrente mirava a far valere un diritto di carattere civile – ovvero il diritto alla protezione della sua reputazione –, di cui l’interessato affermava di essere titolare, preannunciando l’intenzione di costituirsi parte civile nel procedimento penale e di richiedere il risarcimento dei danni, con istanza di essere avvisato di un’eventuale archiviazione. In tal modo, il ricorrente aveva esercitato almeno uno dei diritti e delle facoltà riconosciuti dall’ordinamento interno alla parte lesa, il che giustifica l’applicabilità dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU.
La sentenza Petrella contro Italia ha così ravvisato la sussistenza della violazione della norma convenzionale, sottolineando che il periodo da considerare, nell’ambito di un procedimento penale dal punto di vista del «termine ragionevole», inizia, per la persona che sostiene di essere stata lesa da un reato, nel momento in cui la stessa esercita uno dei diritti e delle facoltà che le sono espressamente riconosciuti dalla legge. Tale periodo doveva quindi intendersi decorso dal giorno in cui il ricorrente aveva sporto denuncia fino alla decisione di archiviazione adottata dal giudice per le indagini preliminari.
La Corte di Strasburgo ha anche messo in evidenza che nel corso di tale periodo non risultava svolta alcuna attività di indagine, che la causa non appariva particolarmente complessa e che il Governo non aveva fornito giustificazioni della eccessiva durata delle indagini preliminari.
5.1.– La Corte EDU ha reputato esistente pure la dedotta violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU sotto il profilo del mancato accesso a un tribunale, questione distinta rispetto a quella della durata del procedimento. Sussiste, infatti, violazione dell’art. 6 CEDU quando la chiusura del procedimento penale e il mancato esame dell’azione civile sono dovuti a circostanze attribuibili principalmente alle autorità giudiziarie, soprattutto a ritardi procedurali eccessivi che abbiano comportato la prescrizione del reato.
Nella specie, la Corte EDU ha quindi ritenuto che il comportamento negligente delle autorità avesse privato il ricorrente dell’esame delle sue richieste di carattere civile nell’ambito del procedimento interno che aveva scelto di esperire, non potendosi neanche esigere che l’interessato promuova un’analoga azione di responsabilità civile dinanzi al giudice civile dopo la constatazione di prescrizione del reato dovuta a errore del giudice penale. In proposito, la Corte EDU ha osservato che intentare una tale azione implicherebbe probabilmente la necessità di raccogliere nuovamente delle prove, che il ricorrente avrebbe a questo punto l’onere di produrre, e che l’accertamento dell’eventuale responsabilità civile potrebbe risultare estremamente difficile dopo così tanto tempo.
6.– Questa Corte non può non rilevare che le ragioni da ultimo indicate dalla Corte EDU a giustificazione della ravvisata violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU evidenziano la reale esistenza nell’ordinamento italiano di un problema effettivo – connesso, ma non coincidente, con quello oggetto dell’odierna questione – concernente il riconoscimento di un diritto della persona offesa (della “vittima del reato”, secondo la terminologia europea di recente adottata anche dal nostro legislatore) a un sollecito svolgimento delle indagini preliminari in vista di una altrettanto sollecita decisione sulla pretesa di risarcimento del danno da reato.
6.1.– Nell’ordinamento italiano, come si è visto, l’azione volta a ottenere tale risarcimento può essere esercitata – a discrezione della vittima – nell’ambito del procedimento penale, ovvero in separato giudizio civile. Ove la vittima scelga, in concreto, di esercitare tale diritto nel procedimento penale, deve poter avere una risposta in tempi ragionevoli nell’ambito del procedimento penale stesso, in forza dell’art. 6 CEDU.
Deve considerarsi che, nonostante la rilevanza del ruolo che la “vittima del reato”, come individuata dall’art. 2, lettera a), della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, ha progressivamente acquisito nel sistema processuale penale italiano, con le modifiche del codice di procedura penale introdotte dal decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 (Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI) e poi dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), il percorso legislativo non si rivela tuttora soddisfacente allo scopo di realizzare in modo compiuto le istanze di tale soggetto durante l’intero corso del procedimento penale, tanto più ove la vittima versi in condizioni di fragilità.
In particolare, non appare ancora attuato pienamente l’art. 16 della citata direttiva, che sancisce il diritto della vittima ad «ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo, tranne qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un altro procedimento giudiziario»; clausola, quest’ultima, che si riferisce evidentemente alla situazione di ordinamenti che, a differenza di quanto accade in Italia, non prevedano la possibilità di esercitare l’azione civile nel procedimento penale.
La Corte EDU ritiene, con giurisprudenza ormai consolidata, che il termine di ragionevole durata del procedimento che conduce all’accertamento della pretesa della vittima al risarcimento del danno decorre dal momento in cui la vittima stessa denuncia il fatto all’autorità giudiziaria, manifestando l’interesse di chiedere, al momento opportuno, una riparazione per la violazione del suo diritto di carattere civile alla riparazione dei pregiudizi che ha subito. Da tale denuncia discende, invero, il dovere a carico del pubblico ministero di effettuare indagini che potranno condurre all’instaurazione di un procedimento nel quale la vittima potrà esercitare il proprio diritto di chiedere il risarcimento del danno. E ciò è tanto più vero in ordinamenti che, come quello italiano, prevedono l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.
6.2.– Non è, tuttavia, sul terreno della decorrenza del computo del termine di ragionevole durata del processo penale per la parte civile, che è poi l’oggetto esclusivo della disciplina dettata dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, che possono trovare più adeguata risposta le esigenze di migliore protezione e di potenziamento delle prerogative della vittima del reato sin dall’avvio del procedimento, in maniera che le stesse siano funzionali alla giusta punizione del colpevole, a prescindere dal perseguimento dagli obiettivi risarcitori.
6.2.1.– L’art. 6, paragrafo 1, CEDU ed il rimedio interno contenuto nella legge n. 89 del 2001, nel prevedere il diritto ad una equa riparazione di chi abbia subito un danno a causa dell’irragionevole durata del processo, attribuiscono la legittimazione a chiunque vanti un diritto di carattere civile e la sua correlata tutela giurisdizionale, ovvero ai titolari di posizioni soggettive di carattere privato tutelabili in via processuale, spettanti a persone comunque coinvolte in un giudizio e perciò destinatarie degli effetti di questo.
Il censurato art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 ha così individuato una soluzione di carattere generale, nel senso che, ai fini del computo del termine ragionevole, il processo penale si considera iniziato soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile, e cioè al momento della formale instaurazione del rapporto processuale secondo le modalità dettate dall’art. 78 cod. proc. pen. (e non già solo per il tramite della presentazione di denunce o istanze al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria), momento che segna, peraltro, anche il criterio necessario di coordinamento con l’azione per le restituzioni e per il risarcimento proposta in sede civile ai sensi dell’art. 75 cod. proc. pen.
Non può ravvisarsi nella scelta legislativa compiuta con l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 un contrasto immediato con il parametro convenzionale interposto costituito dall’art. 6 paragrafo 1, CEDU, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., così da doverne correggere il testo in maniera da rimettere al giudice dell’equa riparazione, alla luce delle circostanze del caso concreto, la determinazione della congruità del termine di durata in ragione delle modalità di esercizio di alcuno dei diritti e delle facoltà riconosciuti dall’ordinamento interno alla persona offesa, ove l’esercizio di tali diritti e facoltà miri, nella specie, a far valere un diritto di carattere civile e preannunci l’intenzione di costituirsi parte civile nel procedimento penale.
Né è di per sé imputabile all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui tale norma determina la durata considerata ragionevole del processo penale per la parte civile, una lesione sistemica degli interessi di questa, allorché le peculiarità del caso concreto rivelino un malfunzionamento (consistente nell’eccessiva durata delle indagini che porti alla prescrizione del reato), valutato ex post, di una delle due vie giudiziarie autonome che l’ordinamento interno offre al danneggiato per far valere il suo «diritto di carattere civile» al risarcimento.
6.3.– Nella sentenza n. 249 del 2020, questa Corte ha conclusivamente ritenuto che esulano dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del diritto al rispetto del termine ragionevole del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU – trovando appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi – i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti.
Proprio in tale prospettiva, l’art. 1, comma 18, lettera b), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), detta principi e criteri direttivi per l’adozione di una disciplina organica della giustizia riparativa, prevedendo l’introduzione nell’ordinamento della definizione di vittima del reato, valorizzandone il ruolo e delineandone nuovi meccanismi di tutela. È, quindi, in tale ambito e in questa prospettiva, che i diritti, anche di natura civile, della vittima del reato potranno trovare migliore protezione, attraverso l’introduzione di meccanismi idonei a prevenirne la violazione.
7.– Per le considerazioni che precedono, la questione deve essere dichiarata non fondata.