Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 01 febbraio 2022 n. 3086
PRINCIPI DI DIRITTO
In materia di consulenza tecnica d’ufficio, il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite il cui accertamento si rende necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti fatti principali rilevabili d’ufficio.
In materia di consulenza tecnica d’ufficio il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio.
In materia di esame contabile ai sensi dell’art. 198 c.p.c., il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni.
In materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, o l’acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso.
In materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, che il consulente nominato dal giudice accerti nel rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice viola il principio della domanda ed il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o, in difetto, di motivo di impugnazione da farsi a valere ai sensi dell’art. 161 c.p.c..
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso – alla cui disamina non ostano le ragioni di inammissibilità fatte valere in via preliminare dalla banca controricorrente, che eccepisce, in relazione a tutti i motivi di ricorso, la genericità dell’indicazione dei capi della sentenza gravata su cui si intende sollecitare il vaglio della Corte e l’insindacabilità del giudizio esternato dal decidente nel valutare le risultanze istruttorie; eccezioni smentite, l’una, dalla constatazione che ciò di cui si dolgono i ricorrenti e’, carte alla mano, l’errore compiuto dal giudice d’appello nel ritenere utilizzabili le risultanze della CTU grafologica, malgrado l’intervenuta rinuncia della banca all’istanza di verificazione e malgrado il CTU avesse esteso il proprio esame anche alle contabili non oggetto di disconoscimento, l’altra dal cadere le censure ricorrenti sulle regole di diritto applicate dal giudice d’appello per ritenere utilizzabile la CTU grafologica, con il che resta assorbita anche l’ulteriore obiezione esplicitata in ordine all’irritualità che inficerebbe la capitolazione degli errori di diritto denunciati con i primo quattro motivi – deduce al primo motivo la violazione degli artt. 214,216 e 220 c.p.c..
Si sostiene che “avendo Veneto Banca s.p.a. rinunciato alla domanda e al procedimento di verificazione, la Corte d’Appello (confermando la corretta decisione del Tribunale di Treviso) avrebbe dovuto considerare tutte false le sottoscrizioni disconosciute ed asseritamente autorizzative delle operazioni in uscita. Infatti, disconosciuta la sottoscrizione di una scrittura, non è possibile l’utilizzazione in giudizio della scrittura medesima ovvero, come nel caso di specie, non è consentito riversare gli effetti giuridici della scrittura nei confronti del soggetto che (pur ammettendo l’esistenza storica e materiale del documento) ne abbia disconosciuto e non conosciuto la sottoscrizione medesima (negandone la paternità)”. La Corte d’Appello ha perciò errato nel ritenere utilizzabili le risultanze trasfuse nella CTU grafologica, perché “in assenza di verificazione della sottoscrizione disconosciuta la stessa deve necessariamente essere considerata apocrifa”.
- Il motivo, per come si dirà, è fondato e va pertanto accolto.
L’art. 216 c.p.c., subordina l’efficacia probatoria della scrittura privata prodotta in giudizio oggetto di disconoscimento alla proposizione dell’istanza di verificazione da parte di colui che intende valersene. L’efficacia probatoria di una scrittura privata, si legge nella vi giurisprudenza di questa Corte, è invero condizionata, oltre che dal fatto che la sottoscrizione sia stata autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, che sia stata giudizialmente riconosciuta come proveniente da colui contro il quale è prodotta in giudizio, sicché, ove non si versi in ipotesi di sottoscrizione autenticata, la negazione, da parte dell’interessato, che la sottoscrizione è la propria impone alla parte che intende valersi della scrittura di dimostrarne la provenienza mediante il procedimento di verificazione, la cui mancata proposizione equivale, per presunzione assoluta di legge, ad una dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura come mezzo di prova (Cass., Sez. I, 20/11/2017, n. 27506; Cass., Sez II, 8/01/1994, n. 155; Cass., Sez. I, 12/07/1984, n. 4094).
Poiché, dunque, a mente dell’art. 216 c.p.c., solo la parte a cui è opposto il disconoscimento e che intende avvalersi come mezzo di prova della scrittura privata disconosciuta è onerata dalla proposizione dell’istanza di verificazione della scrittura stessa, la conseguenza dalla mancata proposizione di detta istanza, pur se non legittima la parte che ha effettuato il disconoscimento a trarre dalla mancata proposizione dell’istanza di verificazione elementi di prova a sé favorevoli (Cass. Sez. III, 16/02/2012, n. 2220), non determina, tuttavia, a carico della parte che lo effettua l’inefficacia del detto disconoscimento ed il conseguente tacito riconoscimento della scrittura prodotta (Cass., Sez. IV 19/06/2009, n. 14475).
Eppur vero che la mancata proposizione dell’istanza di verificazione, privando il documento disconosciuto di ogni inferenza probatoria, ne preclude al giudice la valutazione ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass., Sez. IV, 5/03/1987, n. 2347), senza che gli sia consentito maturare altrimenti il giudizio sulla sua autenticità in base ad elementi estrinseci alla scrittura (Cass., Sez. III, 28/10/1976, n. 3962) o ad argomenti logici (Cass., Sez. I, 12/07/1984, n. 4094); ma, al contrario di ciò che mostra di credere la banca controricorrente, obiettando che la mancata proposizione dell’istanza di verificazione rende il documento inutilizzabile anche nell’interesse della parte che ne opera il disconoscimento, il disconoscimento della scrittura privata al quale non faccia seguito l’istanza di verificazione non pregiudica i diritti della parte che se ne rende interprete, dato che per mezzo del disconoscimento si intendono confutare, di regola secondo logica, i fatti avversariamente dedotti a proprio sfavore, di modo che l’effetto maggiormente pregiudizievole sul piano processuale si registra principalmente proprio in capo a chi si astenga dal proporre l’istanza di verificazione, vero, come ha avvertito il Procuratore Generale, che, ciò, come detto, può solo giovarsi, ma anche e segnatamente nei riguardi della parte che lo ha prodotto e che, non chiedendone la verificazione, non può giovarsi dell’efficacia probatoria a proprio vantaggio che da esso promanerebbe se non fosse stato disconosciuto. In sintesi un documento disconosciuto che non sia fatto oggetto di istanza di verificazione resta una prova muta e non può formare oggetto di alcun apprezzamento, con l’effetto che non potrà perciò andare esente da emenda la sentenza che, come quella qui in esame, abbia ritenuto di fondare su di esso il proprio deliberato.
- Ne’ contrasta questo assunto il fatto che l’istanza di verificazione, pur inizialmente proposta dalla banca in ordine alle contabili oggetto di disconoscimento, sia stata, in pendenza del relativo procedimento – di seguito, cioè all’avvio delle operazioni peritali intese a verificare l’aprocrifia o meno delle sottoscrizioni presenti su detti documenti fatta oggetto di rinuncia da parte della banca, dovendo registrarsi una sostanziale equivalenza di effetti tra mancata proposizione dell’istanza di verificazione e rinuncia alla stessa, nell’uno e nell’altro caso restando preclusa la maturazione di un giudizio di certezza sul punto, vuoi perché, di fronte al disconoscimento dell’efficacia probatoria operatane dalla controparte, si desiste a priori dal dimostrare l’autenticità del documento, vuoi perché, a procedimento avviato, successive ragioni di convenienza ne sconsigliano il proseguimento.
Così come nella stessa direzione non si mostrano risolutive le ulteriori obiezioni che la banca controricorrente muove in punto all’efficacia del disconoscimento attoreo, avendo esso ad oggetto documenti prodotti dagli attori stessi e non essendo consentito un disconoscimento preventivo, obiezioni che, in disparte da ogni rilievo in ordine alla loro novità, trovano sconfessione, l’una, nell’affermazione operata dalla sentenza che le contabili disconosciute sub 13 della propria elencazione erano state prodotte pure dalla banca come documento sub 6 della propria elencazione, l’altra, nel principio già enunciato da questa Corte secondo cui “il disconoscimento preventivo della firma apposta su una scrittura privata, non ancora depositata in giudizio, è idoneo ad impedire il riconoscimento tacito, ai fini degli artt. 214 e 215 c.p.c., quando vi sia certezza del riferimento ad una scrittura determinata e conosciuta dalle parti e la stessa rappresenti un elemento probatorio rilevante nell’economia della controversia” (Cass., Sez. II, 11/03/2021, n. 6890).
- Restano con ciò assorbiti anche il terzo motivo di ricorso per mezzo del quale si deduce l’erroneità dell’impugnata decisione in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1, per non aver essa preso atto che, avendo rinunciato Veneto Banca al procedimento di verificazione delle contabili in uscita, l’apocrifia delle medesime era rimasta perciò incontestata; ed il quarto motivo di ricorso per mezzo del quale si imputa alla decisione impugnata la violazione dell’art. 345 c.p.c., per aver essa pronunciato, considerando ai fini della determinazione del tantundem risarcitorio anche le contabili in uscita, su una domanda di verificazione a cui Veneto Banca aveva rinunciato in primo grado e che non poteva perciò essere proposta in appello.
- Con il secondo motivo di ricorso i G. censurano l’impugnata decisione lamentando la violazione dell’art. 215 c.p.c., comma 1. La Corte d’Appello, si sostiene, avrebbe provveduto a determinare il tantundem risarcitorio dovuto in loro favore considerando non solo le movimentazioni in uscita risultanti dalle contabili di cui si era disconosciuta la sottoscrizione e che in ragione dell’intervenuta rinuncia alla loro verificazione si sarebbero dovute considerare apocrife, ma pure le contabili registranti movimenti in entrata di cui la CTU grafologica versata in atti, benché nessun disconoscimento ne fosse stato operato dagli attori, aveva parimenti accertato la falsità della sottoscrizione.
Proprio perché non oggetto di disconoscimento, ragionano i deducenti, “le sottoscrizioni attribuite al Signor G.S. delle operazioni in entrata (versamenti) avrebbero dovute essere considerate tutte vere e quindi riconosciute”, sicché diversamente pronunciando la Corte d’Appello è incorsa nella violazione della norma rubricata recependo le risultanze dell’elaborato peritale in spregio alla condotta processuale delle parti.
- Adetta doglianza si riannoda anche il quinto motivo di ricorso a mezzo del quale i G. si dolgono della violazione in cui sarebbe incorso il nominato CTU – e, di riflesso, pure la sentenza impugnata che ne aveva recepito le conclusioni violando l’art. 112 c.p.c.– per aver esteso il raggio della cognizione peritale oltre i limiti dell’indagine demandatagli all’atto del conferimento dell’incarico.
Assumono, a tal riguardo, i deducenti che l’accertamento peritale e la riflessa decisione d’appello, sarebbero infatti affetti da nullità per ultrapetizione, avendo il consulente grafologico allargato il proprio campo di indagine anche alle sottoscrizioni non disconosciute dagli eredi del defunto, malgrado costoro avessero dichiarato di non riconoscere ai sensi dell’art. 214 c.p.c., comma 2, le sole sottoscrizione imputate al proprio dante causa figuranti sulle contabili registranti movimenti in uscita. “L’allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente”, ragionano in successione i ricorrenti, “cagiona la nullità della consulenza tecnica d’ufficio”, “il consulente tecnico non ha infatti il potere di accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni il cui onere probatorio incombe sulle parti”, “qualora egli sconfini dai predetti limiti intrinseci al mandato conferitogli, tali accertamenti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio e perciò privi di qualsiasi valore probatorio” e la sentenza, che come quella in esame, ne “recepisca valutazione esorbitanti è nulla perché viziata da ultrapetizione”.
- E’ in relazione al detto quinto motivo di ricorso che l’ordinanza interlocutoria 9811/2021 della I Sezione civile ha rilevato la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.
Sulla divisata premessa che tanto il Tribunale, prima, quanto la Corte d’Appello, poi, avevano implicitamente ritenuto di non poter dichiarare la nullità oggi dedotta in ragione della prestata acquiescenza della parte interessata a farla valere ai sensi dell’art. 157 c.p.c. comma 3, trattandosi di nullità relativa che, in quanto tale, doveva essere eccepita dalla parte interessata “nella prima istanza o difesa successiva all’atto”, ai sensi del comma 2 della medesima disposizione e non poteva essere perciò oggetto di rilievo officioso, la Sezione rimettente annota che “sulla questione oggetto della censura, ed in particolare sulla natura giuridica della nullità della consulenza tecnica di ufficio, e sul conseguente rilievo officioso, o su istanza di parte della stessa, si è verificato un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte”.
“Secondo l’orientamento tradizionale”, prosegue l’ordinanza di rimessione, “invero, tutte le ipotesi di nullità della consulenza tecnica, ivi ricompresa quella – ricorrente nella specie – dovuta all’eventuale allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente, nonché quella dell’avere tenuto indebitamente conto di documenti non ritualmente prodotti in causa, hanno sempre carattere relativo, e devono essere fatte valere dalla parte interessata nella prima udienza successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanate (Cass., Sez. 2, 11/09/1965, n. 1985; Cass., Sez. 3, 14/02/1968, n. 517; Cass., Sez. 1, 27/02/1971, n. 497; Cass., Sez. 1, 11/02/1975, n. 538; Cass., Sez. 1, 14/02/1980, n. 1058; Cass., Sez. Lav. 26/06/1984, n. 3743; Cass. Sez, Lav., 14/08/1999, n. 8659; Cass., Sez. 2, 15/04/2002, n. 5422; Cass., Sez. 2, 19/08/2002, n. 12231; Cass., Sez. 3, 31/01/2013, n. 2251; Cass., Sez. 3, 15/06/2018, n. 15747). Il carattere relativo della nullità esclude, per vero, in radice l’ammissibilità di un rilievo officioso da parte del giudicante”.
“A tale consolidato indirizzo” – continua l’ordinanza, richiamando le ragioni di Cass., Sez. III, 6/12/2019, n. 31886 – “si contrappone, tuttavia, una recente decisione, secondo cui, in tema di consulenza tecnica di ufficio, lo svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al “thema decidendum” della controversia o l’acquisizione ad opera dell’ausiliare di elementi di prova, in violazione del principio dispositivo, cagiona la nullità della consulenza tecnica, da qualificare come “nullità a carattere assoluto”, rilevabile d’ufficio e non sanabile per acquiescenza delle parti, in quanto le norme che stabiliscono preclusioni, assertive ed istruttorie, nel processo civile sono preordinate alla tutela di interessi generali, non derogabili dalle parti.
Ed invero, secondo la pronuncia in esame, in virtù del principio dispositivo e dell’operare nel processo civile di preclusioni, assertive ed istruttorie, l’ausiliare del giudice, nello svolgimento delle proprie attività, non può – nemmeno in presenza di ordine del giudice o di acquiescenza delle parti – indagare di ufficio su fatti mai ritualmente allegati da queste ultime, né acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni proposte e nemmeno procurarsi, dalle parti o dai terzi, documenti che forniscano tale prova. Alla regola sopra enunciata può, invero, derogarsi soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione non possa essere oggettivamente fornita dalle parti con i mezzi di prova tradizionali, postulando il ricorso a cognizioni tecnico-scientifiche, oppure laddove la consulenza si renda necessaria per la prova di fatti tecnici accessori o secondari e di elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti”.
Osserva ancora l’ordinanza di rimessione che “la pronuncia muove dal rilievo che “il principio secondo cui le nullità della consulenza restano sanate, se non eccepite nella prima difesa utile, venne in origine affermato con riferimento sempre e soltanto ad un tipo di nullità ben precisa: quella derivante dall’omissione dell’avviso ad una delle parti della data di inizio delle operazioni peritali”.
Per tale tipo di nullità era parso del tutto corretto – e sul punto la decisione succitata concorda – riservare alla parte, il cui diritto di difesa era stato vulnerato dall’omissione della comunicazione di avvio delle operazioni peritali, di eccepire la nullità della consulenza d’ufficio, secondo la disciplina delle nullità relative. Senonché, successivamente, quel principio venne esteso anche ad altre ipotesi di nullità della consulenza, “ed in particolare al caso di svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al thema decidendum o, più spesso, di acquisizione da parte del CTU di documenti non ritualmente prodotti dalle parti”.
Tuttavia – osserva la sentenza succitata – tale impostazione costituiva il logico corollario della strutturazione “senza barriere” del giudizio di cognizione delineato dall’originario impianto del codice processuale, “perché in quel tipo di processo tutte le nullità istruttorie non potevano che essere relative, non prevedendo la legge alcun termine perentorio per compierle”, ma non è più coerente con il sistema delle preclusioni, assertive ed asseverative, che attualmente informa il processo civile ed è preordinato alla tutela di interessi generali. Le norme che prevedono preclusioni assertive od istruttorie nel processo civile sono, per vero, preordinate a tutelare interessi generali, e la loro violazione è sempre rilevabile d’ufficio, anche in presenza di acquiescenza della parte legittimata a dolersene. Ed al riguardo la sentenza in esame richiama le pronunce di questa Corte in tal senso (ex multis, Cass., Sez. 3, 26/06/2018, n. 16800; Cass., Sez. 3, 18/03/2008, n. 7270).
Ad avviso della menzionata sentenza n. 31886/2019, pertanto, se “la violazione delle preclusioni assertive ed istruttorie non è sanata dall’acquiescenza delle parti, ed è rilevabile d’ufficio, non è possibile continuare a sostenere che tali violazioni nuocciano all’interesse generale, e siano causa di nullità assoluta, se commesse dalle parti; ledano invece un interesse particolare, e siano causa d’una mera “nullità relativa”, se commesse dal c.t.u.”.
Da qui dunque l’assunto, sviluppato dalla sentenza 31886/2019, che le attività poste in essere dal consulente in violazione delle preclusioni che si danno alle parti sul piano assertivo e probatorio siano dunque fonte “”di nullità assolute e non relative; non sanabili dall’acquiescenza delle parti; sempre rilevabili d’ufficio (salvo il giudicato), a nulla rilevando che non siano state eccepite nella prima difesa successiva al compimento dell’atto nullo””.
E l’interrogativo di cui si è fatta interprete l’ordinanza di rimessione sollecitando queste SS.UU. ad interrogarsi se, nel mutato regime regolatorio imposto alle attività delle parti dalla riforma processuale del 1990, le nullità che inficiano la consulenza tecnica d’ufficio per aver introdotto nel giudizio fatti non dedotti dalle parti siano tuttora fonte di nullità relativa, rilevabili solo ad istanza di parte e sanabili se non tempestivamente eccepite, ovvero se al contrario costituiscano nullità assolute, insuscettibili di sanatoria e rilevabili perciò d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento con l’unico limite del giudicato.
- Nell’accingersi ad esaminare la questione le SS.UU. sono tuttavia tenute previamente a scrutinare l’ammissibilità delle formulate doglianze ed in questa direzione devono prendere innanzi tutto atto dello stretto vincolo di ordine logico che rende l’esame del secondo motivo di ricorso subordinato all’esame del quinto motivo di ricorso.
Come visto, con il secondo motivo di ricorso si rimprovera alla sentenza impugnata di aver considerato ai fini di operare la liquidazione del danno patito dai G. le contabili in entrata reputate false dalla ctu grafologica, quantunque le sottoscrizioni figuranti sulle stesse non fossero state disconosciute e dunque non ne fosse perciò discutibile l’autenticità; con il quinto motivo di ricorso si addebita invece alla sentenza di essere andata ultra petita per aver recepito le risultanze maturate dal CTU estendendo il perimetro delle proprie rilevazioni oltre i limiti del mandato conferitogli.
E’ dunque evidente che per poter stabilire se effettivamente, come allegano i ricorrenti con il secondo motivo di ricorso, la Corte d’Appello abbia errato nell’aver considerato anche le contabili in entrata, le cui sottoscrizioni erano state ritenute apocrife dal CTU grafologo, occorre preliminarmente indagare se, come si assume con il quinto motivo di ricorso, il CTU sia andato oltre i limiti del mandato conferitogli ed è perciò necessario appurare se l’incarico peritale riguardasse tutte le contabili ascrivibili alla posizione del G.S. – e quindi anche le contabili in entrata, ancorché non disconosciute ed in tesi munite di firma autentica – o le sole contabili in uscita, disconosciute nella sottoscrizione e prive di rilevanza probatoria per l’intervenuta rinuncia alla loro verificazione.
Si rende, perciò, in tal modo prioritario lo scrutinio del quinto motivo di ricorso, nel procedere al quale le SS.UU. devono, tuttavia, constatare che esso è affetto da un manifesto vizio di autosufficienza. Ed invero, né nell’illustrazione del motivo né altrove nel ricorso i ricorrenti si sono dati premura, pur deducendo che il CTU sia andato oltre i limiti delle indagini commessegli, di riprodurre in extenso il testo del quesito sottoposto al CTU, di modo che non è possibile accertare il perimetro delle investigazioni demandate al perito o, più esattamente, se la c.t.u. avesse ad oggetto le sole contabili in uscita o anche le contabili in entrata.
L’inammissibilità del motivo che da ciò discende travolge anche la doglianza declinata con il secondo motivo di ricorso, stante il visto vincolo di ordine logico che rende quest’ultima condizionata rispetto alla prima e che ne preclude perciò per l’indicata ragione l’esame.
- Definendo dunque il proposto ricorso va accolto il primo motivo di gravame, va dichiarato inammissibile il quinto motivo di ricorso e vanno dichiarati assorbiti il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso.
In ragione di ciò l’impugnata sentenza va cassata nei limiti del motivo accolto e la causa va rinviata al giudice a quo per un nuovo giudizio.
- Ciò tuttavia non dispensa le SS.UU. dal dare comunque seguito all’interrogativo sollevato dall’ordinanza di rimessione rendendosi per vero applicabile, attesa, per le ragioni in essa enunciata, laparticolare rilevanza della questione sollevata, l’art. 363 c.p.c., comma 4, in guisa del quale pur se il ricorso sia dichiarato inammissibile, è in facoltà della Corte di Cassazione pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge.
- Sicché nel procedere alla disamina della questione oggetto di rimessione nell’interesse della legge, le SS.UU. non possono non richiamare l’attenzione, in via di prima approssimazione, sul fatto che, a dispetto della sua stringatezza, l’interrogativo posto apre un finestra su uno scenario problematico di più ampi respiro che, anche senza toccare temi di maggiore complessità – che in questa cornice, solo citando a caso, si interrogano ad esempio sul rapporto nella dinamica del processo tra sapere comune e sapere scientifico ovvero sui metodi attraverso i quali le leggi scientifiche si rendono concretamente utilizzabili dal giudice o che, dando sfogo a tutt’altro ordine di questioni, si intrattengono sulla funzione del processo per chiedersi suggestivamente se con riguardo ad alcuni principi fondamentali non se ne debba ripensare l’assetto in nome del valore primario della ricerca della verità – mette a nudo un ordito relazionale in cui la questione sollevata – e meglio, sarebbe dire, le questioni che il quesito sottintende – tanto per dare una misura della loro portata, portano l’interprete a confrontarsi, da un lato, con la ricchezza dell’esperienza empirica, alla radice di una stratificazione pretoria di lungo periodo i cui contorni non sono sempre univocamente decifrabili, e, dall’altro, come pure avverte l’ordinanza di rimessione, con alcuni snodi cruciali nella geografia del processo civile che fanno leva sul principio della domanda, sul principio del contraddittorio, sul principio dispositivo e, non ultimo, sul tema aperto delle nullità processuali.
- Di fronte a questo scenario le SS.UU. sono primariamente investite di un compito di razionalizzazione in modo da assicurare, almeno tendenzialmente, l’obiettivo di una coerenza interpretativa viceversa spesso deficitaria, e ciò pur nella consapevolezza che il disallineamento degli orientamenti che talora si registra nella pratica – e che può apparire una stonatura quando nello scrutinio della fattispecie concreta si finisce per assecondare una chiave di lettura improntata ad una certa elasticità nel rapporto rispetto ai principi che vengono in gioco – non è solo frutto di una mancanza di rigore, ma riflette al fondo la convinzione inespressa, ma immanente nella realtà del processo – che si fa addirittura indiscussa certezza, nel caso della consulenza tecnica di tipo percipiente – che la nomina del consulente tecnico d’ufficio costituisca lo strumento, come bene si è detto in dottrina, per mezzo del quale il giudice esce dalla torre di cristallo nella quale lo pongono l’operare congiunto del principio dispositivo e delle preclusioni istruttorie e riesce a rompere il diaframma tra gli atti di causa e la realtà materiale che egli può di regola conoscere solo per il tramite dell’attività delle parti.
- Nell’andare in questa direzione le SS.UU. ritengono di dover dare sviluppo alle considerazioni iniziali procedendo previamente a delimitare il campo di indagine alla luce delle peculiarità che connotano la questione in giudizio e che non si compendiano, a ben vedere, nel solo interrogativo sollevato dalla sezione remittente.
Anzi già a partire da questo, dal chiedersi cioè se i vizi che inficiano l’operato del consulente siano fonte di un’irregolarità sanabile nella forma della nullità relativa o se si traducono in una ragione di nullità assoluta, è intuitivo che esso al suo interno ne racchiude a monte un altro, potendo per vero tacciarsi la c.t.u. di essere irregolare se, per quanto qui rileva – e dunque al netto delle irregolarità che affondano le radici nella violazione di norme procedurali – il CTU nell’espletamento dell’incarico ricevuto abbia ecceduto nell’esercizio delle prerogative che gli sono accordate con l’ordinanza di conferimento. Di modo che, volendo indicare un primo spunto problematico, occorre chiedersi quali siano i poteri esercitabili dal CTU, cui il giudice demanda le indagini che si rendono necessarie ai fini del giudizio ovvero, ancora più sinteticamente, che cosa può fare o non può fare il CTU nell’espletare l’incarico affidatogli.
- Qui si apre un secondo ordine di problemi e, più esattamente, si è portati a dare la stura, sotto l’egida di quello precedente, ad un secondo interrogativo traguardando il tema dei poteri esercitabili dal CTU sotto il profilo delle preclusioni cui va incontro l’attività assertiva e deduttiva delle parti in un modello processuale organizzato in base alla novella del 1990 secondo lo schema dei blocchi di attività.
E’, questo, l’argomento forte su cui fa leva il richiamato precedente di questa Corte 31886/2019, dell’avviso che, con il solo limite dell’impossibilità per la parte di procurarsi la prova se non ricorrendo a cognizione tecnico-scientifiche ovvero dell’accertamento dei fatti secondari ed accessori che si rendono indispensabili per rispondere al quesito, “in virtù del principio dispositivo e dell’operare nel processo civile di preclusioni, assertive ed istruttorie, l’ausiliare del giudice, nello svolgimento delle proprie attività, non può – nemmeno in presenza di ordine del giudice o di acquiescenza delle parti – indagare di ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle parti, né acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni proposte e nemmeno procurarsi, dalle parti o dai terzi, documenti che forniscano tale prova”; approccio a cui, si è visto, si ricollegano anche i dubbi esternati nell’ordinanza interlocutoria della sezione rimettente, indotta, proprio in ragione del principio di diritto affermato dall’arresto 31886/2019 e delle drastiche conseguenze che questa ha inteso trarne circa la sorte degli atti compiuti dal CTU in violazione del regime preclusivo imposto alle parti (“lo svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al “thema decidendum” della controversia o l’acquisizione ad opera dell’ausiliare di elementi di prova… in violazione del principio dispositivo cagiona la nullità della consulenza tecnica, da qualificare come nullità a carattere assoluto, rilevabile d’ufficio e non sanabile per acquiescenza delle parti”), a chiedersi e a chiedere se, di fronte all’acquiescenza della parte interessata avverso l’irregolarità consumata dal CTU, ciò sia fonte di una nullità relativa, e quindi nella specie sanata dal mancato rilievo di essa su istanza di parte, come stima d’abitudine la quasi totalità della giurisprudenza di questa Corte, o se sia, al contrario, fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto di acquiescenza come pensa innovativamente Cass. 31886/2019.
- Una terza questione, che si colloca su un piano assolutamente prossimo a quello contrassegnato dalle preclusioni istruttorie a carico delle parti, sorge considerando, per omogeneità di materia, il rapporto tra l’art. 183 c.p.c.e l’art. 198 c.p.c., l’uno circoscrivendo l’attività delle parti nel rigido dettato del regime preclusivo, l’altro autorizzando il CTU in relazione alla specifica materia dell’esame contabile ad estendere, con le debite cautele, il raggio delle proprie investigazioni anche ai “documenti e ai registri non prodotti in causa”. Il che, stante il modo apparentemente contrapposto con cui le norme teste’ richiamate provvedono alla regolazione della medesima attività, rende spontaneo l’interrogativo di quale sia appunto il rapporto tra esse ed in particolare se le regole dettate per l’esame contabile abbiano portata derogatoria o meno rispetto alle regole cui va invece ordinariamente soggetta l’attività delle parti.
- Un quarto scoglio problematico affiora infine quando, chiariti i limiti entro cui siano esercitabili i poteri di investigazione conferiti al CTU al fine di compiere le indagini commessegli dal giudice, si passa ad esaminare l’altra faccia della medesima questione e, di fronte alla patologia che evidenzia il mandato peritale per aver il CTU esteso il campo delle indagini demandategli a circostanze non ricomprese nell’ambito del thema decidendum risultante all’esito della maturazione delle preclusioni assertive a carico delle parti o per aver acquisito al giudizio fonti di cognizione probatoria estranee alle produzioni consentite alle parti nei limiti delle preclusioni istruttorie, ci si interroghi su quali conseguenze processuali discendono dallo sconfinamento imputato al CTU e se su questo versante l’opzione sanzionatoria che si offre resti interna all’orientamento tradizionale basato sulla dicotomia nullità assoluta/nullità relativa con una predilezione maggioritaria in favore di quest’ultima ovvero se, come si preconizza anche nelle conclusioni del Procuratore Generale, l’orientamento tradizionale non debba lasciare il passo ad un meccanismo assimilabile nel funzionamento a quello che si realizza nell’ipotesi di violazione delle preclusioni dove il sistema reagisce in entrambi i casi a mezzo della “inammissibilità/inutilizzabilità” dell’atto viziato.
- Delimitato in tal modo il campo di indagine, il ragionamento decisorio che le SS.UU. sono chiamate a svolgere non può che muovere dalla constatazione che nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 al codice vigente l’istituto peritale è stato fatto oggetto, nel rinnovato assetto valoriale che ha posto il giudice al centro dell’ordinamento processuale, di un profondo ripensamento che, ben più di quanto non rendano percepibile l’assunzione di una nuova denominazione e la nuova collocazione nella topografia del codice, ne ha mutato alla radice la natura in nome di una diversa concezione del ruolo che – già in allora, ma tanto più oggi di fronte alla preponderante lievitazione del contenzioso ad alto tasso di specialità – l’apporto del sapere tecnico gioca nella risoluzione delle controversie civilistiche.
E’ un dato di fatto, di sicuro rilievo anche in funzione di quanto si dirà, che da atto delle parti quale era delineato dall’art. 253 del codice del 1865, che rimetteva appunto alle parti la nomina del perito e autorizzava l’intervento del giudice solo nel caso di disaccordo tra loro, nel codice attuale la consulenza tecnica si sia trasformata in strumento a disposizione del giudice, a cui il giudice, senza essere in ciò minimamente condizionato dalla volontà delle parti, può ricorrere ogni qualvolta reputi necessario ai fini della definizione della lite l’acquisizione di conoscenze specifiche che esulano dal sapere comune poiché postulano una particolare competenza tecnica che egli non possiede.
Nella concezione fatta propria del legislatore del ‘40, il consulente tecnico vede perciò evolvere la propria condizione in quella di ausiliario di giustizia proprio perché la sua attività è prestata in funzione del superiore interesse della giustizia quale si realizza nel fatto che il giudice possa pronunciare la propria decisione anche in grazia delle conoscenze tecniche specifiche acquisite tramite il consulente.
- All’investitura pubblicistica, di cui si parla perciò segnatamente in dottrina, che prende forma negli artt. 61 c.p.c.e segg., e che, di più, si rafforza nell’estensione al consulente delle garanzie di imparzialità che si rendono applicabili in forza del richiamo alle norme previste per il giudice sull’obbligo di astensione e sulla possibilità di ricusazione, si affianca, nell’ottica di una concezione dell’istituto che ne esalta la funzione ancillare rispetto alle finalità di giustizia, un ulteriore indice ricavabile dalla collocazione nella sistematica del codice della disciplina della consulenza tecnica nell’ambito dell’istruzione probatoria, ma in un paragrafo tuttavia separato rispetto a quelli destinati a regolare l’assunzione dei mezzi di prova tendenzialmente riservati alle attività delle parti, dove appunto la cesura grafica che si introduce tra il primo paragrafo ed i successivi si presta ad essere letta nel senso che anche quando assolve una funzione indirettamente istruttoria, mettendo a disposizione del giudice le conoscenze che sono frutto della sua particolare competenza tecnica, l’attività del consulente ha sempre e solo un destinatario, perché egli compie le indagini che gli sono commesse al solo scopo di far conoscere al giudice la verità.
L’opzione consulenziale si mostra così svincolata dalla volontà delle parti risultando affidata al solo apprezzamento del giudice che vi ricorre quando la definizione della contesa al suo esame postuli l’acquisizione di conoscenze specialistiche estranee alla sua scienza ufficiale.
- Queste considerazioni portano a prendere atto che, pur nella diversità dei ruoli, sul piano ordinamentale si realizzi un’oggettiva convergenza di funzioni tra giudice e consulente tecnico, le attività di entrambi, quando beninteso il primo giudichi necessaria quella del secondo, rivelandosi infatti complementari ai fini dell’ufficio giurisdizionale.
Conferme in questa direzione si rinvengono sul terreno del diritto positivo, l’esegesi degli artt. 62 e 194 c.p.c., conducendo, invero, alla conclusione, da un lato, che, poiché il giudice procede alla nomina del consulente quando reputi necessario disporre di particolari competenze tecniche, le indagini che il consulente è incaricato di svolgere sono quelle stesse indagini che il giudice non avrebbe bisogno di compiere se disponesse delle particolari competenze tecniche richieste nel caso specifico; dall’altro, che se il giudice ed il consulente possono svolgere le indagini “insieme”, quando il consulente le svolga da “sé solo” non svolge delle indagini diverse da quelle che il giudice avrebbe svolto insieme a lui.
Credono, perciò, le SS.UU. di poter ribadire, al cospetto di questi elementi, il convincimento più volte espresso che il consulente tecnico, allorché, nella sua veste di ausiliario fornisca il proprio apporto di competenze specialistiche al giudice che ne ravvisi la necessità, coadiuvi questo nell’esercizio del suo ufficio e ne integri l’operato rendendo possibile la giustizia del caso concreto e scongiurando così il pericolo di una pronuncia di non liquet.
- Questa connaturata funzione della consulenza tecnica di rendersi strumento al servizio del giudice è alla radice dell’opinione di quanti in dottrina, occupandosi del tema, si sono indotti a sostenere che, in quanto ausiliario del giudice, il consulente che dal giudice – ed ora solo dal giudice – riceve la propria investitura, ne ripeta con riguardo alle indagini commessegli anche i poteri processuali.
L’opinione, certo condivisibile nelle sue premesse metodologiche, laddove, registrando la discontinuità tra il nuovo ed il vecchio ordinamento processuale, sottolinea la complementarietà dell’istituto peritale rispetto alla funzione decisoria che compete al giudice, si rende tuttavia meritevole, quanto alle ricadute sulle questioni qui in trattazione, di alcune precisazioni.
Non è forse inopportuno a questo riguardo, riflettendo sul suo precipuo ruolo di integrazione dell’attività decisoria del giudice, fermarsi inizialmente a considerare che l’attività consulenziale e’, nella sua veste ordinaria, un’attività tipicamente interna al processo, che nel processo rinviene la propria ragione giustificativa in funzione della necessità di colmare il deficit conoscitivo che si delinea in capo al giudice in relazione alla materia oggetto di lite.
Una prima più immediata conseguenza di questa osservazione, tale perché prende forma sul piano in cui la consulenza esplica primariamente la propria funzione, che è il piano istruttorio, è quella che si traduce nel divieto della cd. “consulenza meramente esplorativa”, non potendo disporsi infatti la consulenza tecnica, come si insegna abitualmente, al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume o, più esattamente, quando la parte tenda per suo tramite a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o a compiere un’indagine alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non debitamente provati.
Già in questo si scorge un’ulteriore implicazione che prende forma nella considerazione che il divieto della consulenza “esplorativa” è diretta emanazione del principio dispositivo e del principio della domanda, da cui il primo insieme al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato promana, di guisa che, gettando lo sguardo oltre lo steccato istruttorio, è proprio nel rapporto con questi principi che il tema dei poteri esercitabili dal CTU si schiarisce e si rivela in tutta la sua oggettiva consistenza.
- Se guardando, dunque, in questa direzione può sembrare in qualche misura scontato dire, in termini più generali, che il principio della domanda, in correlazione con il principio di corrispondenza tra il chiesto pronunciato, concorrendo a delimitare il campo del giudizio in quanto entrambi espressione di un principio dispositivo di ordine sostanziale che identifica solo nella parte il titolare del potere esclusivo di disporre dell’interesse materiale sotteso al proprio diritto, delimiti indirettamente anche il perimetro dei poteri esercitabili dal giudice e, riflessamente, anche dal consulente che egli abbia nominato, è invece maggiormente interessante osservare come questi principi concretamente si atteggino nell’esercizio dell’attività consulenziale.
Va infatti considerato che l’attività espletata dal consulente si iscrive dinamicamente nell’orbita istruttoria del processo, sicché anche quando da mezzo di valutazione della prova si evolve in mezzo di ricerca della prova ed in questa forma acquisisca la natura di fonte oggettiva di prova, la consulenza non smarrisce mai il proprio radicamento nel campo della prova, perché se nella forma della consulenza c.d. “deducente” essa si esercita propriamente sul compendio probatorio edificato dalle parti con lo scopo di offrine al giudice una lettura mediata dalla scienza del suo autore, nondimeno anche nella forma della consulenza c.d. “percipiente” il sostrato probatorio si rivela sempre indefettibile, vuoi perché è l’attività probatoria delle parti, che si mostra in qualche misura manchevole, che ne giustifica l’espletamento, vuoi perché scopo di essa è colmare proprio quella lacuna ricercando la prova che le parti non sono state in grado di offrire.
Ne discende, per quel che qui rileva, che, allorché si indaghi il tema al vaglio delle Sezioni Unite, l’interrogativo che sorge è interno non solo, come è ovvio, al cerchio processuale idealizzato per mezzo della domanda che l’attore indirizza al giudice e di cui preconizza i futuri sviluppi enunciandone causa petendi e petitum, ma in quel perimetro esso trova ragione di porsi solo in relazione al problema della prova, perché, come visto, è la necessità di valutare le prove alla luce di un sapere tecnico di cui il giudice non dispone ovvero di ricercare una prova che solo il sapere tecnico è in grado di reperire che giustifica la nomina ex officio del consulente tecnico.
E’ poi ancora vero, progredendo ulteriormente in questa analisi, che i poteri esercitabili dal CTU, quantunque l’investitura pubblicistica guadagnata sotto il codice vigente porti a ritenere che essi promanino dal giudice che ne effettua la nomina, oltre ai limiti deducibili in vista del principio della domanda e del radicamento dell’attività consulenziale nel vivo dell’istruzione probatoria, rinvengono un ulteriore fonte di non trascurabile condizionamento in ragione di ciò che forma oggetto delle indagini in concreto commissionategli dal giudice, di modo che se il divieto della c.d. consulenza tecnica “esplorativa” funge da estremo superiore del quadrante investigativo, l’estremo inferiore è rappresentato dalle indagini commesse dal giudice ai sensi dell’art. 62 c.p.c., comma 1, delineandosi tra l’uno e l’altro uno spazio intermedio che, anche quando rifletta gli sviluppi impressi al thema decidendi dal confronto processuale che ha luogo tra le parti e, vieppiù, al thema probandi che n’e’ conseguenza, risulterebbe, a rigore, pur sempre estraneo ai compiti che il giudice ha inteso affidare al CTU disponendone la nomina, il mandato conferito a quest’ultimo esaurendosi infatti nei limiti delle indagini commessegli.
- Alla luce di queste avvertenze, volendo stringere il cerchio della riflessione, viene innanzitutto da sé che, stante il vincolo discendente dal principio della domanda, nonché, riflessamente, il limite sotteso alle indagini commessegli dal giudice, il consulente non possa estendere il raggio delle proprie investigazioni ai cd. “fatti avventizi” ovvero ai fatti costitutivi della domanda e, oppostamente, ai fatti modificativi o estintivi di essa che non abbiano formato oggetto dell’attività deduttiva delle parti.
Il consenso intorno a questa affermazione, che si giustifica intuitivamente in funzione del fatto che, come detto, i poteri esercitabili dal CTU sono quelli che potrebbe esercitare il giudice stesso se disponesse delle necessarie competenze tecnico-scientifiche, sicché come per il giudice anche per il CTU vige il principio ne eat iudex ultra petita partum, è ampio ed incondizionato.
Se ne rende significativamente interprete, sullo sfondo della convinzione che il consulente tecnico, pur potendo acquisire ai sensi dell’art. 194 c.p.c., ogni elemento atto a rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice, non ha il potere di accertare i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni proposte dalle parti, la giurisprudenza in materia di consulenza percipiente, dell’avviso che anche laddove il giudice, ricorrendone le condizioni, affidi al consulente tecnico l’incarico non solo di valutare i fatti provati dalle parti, ma di accertare i fatti stessi, facendo sì che l’onere probatorio ordinariamente gravante sulle parti si arresti alla soglia di quanto sia puramente tecnico e, di conseguenza, che la consulenza da mezzo di valutazione delle prove si tramuti in mezzo di ricerca della prova, nondimeno è pur sempre necessario che “la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto” (Cass., Sez. III, 8/02/2019, n. 3717).
E vi presta adesione, pur in presenza di una norma che asseconda apertamente il fine precipuo di quel rito in direzione della ricerca della verità materiale del fatto, anche la giurisprudenza lavoristica, dato che i poteri istruttori ufficiosi ivi accordati al giudice dall’art. 421 c.p.c., sono esercitabili, tra l’altro, come si precisa, solo al “ricorrere dei presupposti di coerenza rispetto ai fatti allegati dalle parti” (Cass., Sez. IV, 10/12/2019, n. 32265).
- Reputano tuttavia le SS.UU., nel registrare l’affermazione e nel farla propria, che essa, tenuto conto delle finalità a cui aspira più in generale lo strumento processuale, necessiti di qualche precisazione che ne stemperi l’iniziale rigidità.
La necessità, invero, di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo che non è e non può essere rigida applicazione di regole, segnatamente, di ordine formale che quel diritto ingiustamente penalizzino, ma deve mirare a garantire attraverso una pronuncia sul merito della contesa, l’interesse delle parti al conseguimento di una decisione per quanto più è possibile giusta.
In questo senso una prima precisazione, circa i poteri esercitabili dal CTU in relazione ai fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa di cui il consulente, pur non avendo essi formato oggetto di deduzione ex parte, prenda incidentalmente conoscenza nel corso dell’espletamento del mandato peritale, si rende obbligata sul filo della distinzione da tempo praticata, anche dalla giurisprudenza di questa Corte, tra potere di allegazione e potere di rilevazione.
E’ appena il caso di ricordare che mentre il primo, in quanto estrinsecazione del principio della domanda e del correlativo principio dispositivo che individua nella parte e solo nella parte il soggetto che può disporre anche in chiave processuale del proprio diritto, compete, per l’appunto, esclusivamente alla parte, il secondo può essere invece oggetto di una condivisione tra la parte, quando la manifestazione della sua volontà sia elevata dalla legge ad elemento integrativo della fattispecie – sicché in tal caso anche il potere di rilevazione compete in via esclusiva alla parte – ed il giudice, atteso che il generale potere che compete a questo di rilevare le eccezioni in senso lato si traduce nella rilevazione anche dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa ove questi, sebbene non precedentemente allegati dalla parte, emergano tuttavia dagli atti di causa.
Orbene, in una visione del processo che si orienta per disegno costituzionale in direzione della tendenziale giustizia della decisione e che in questa logica autorizza dunque il giudice a rilevare anche officiosamente i predetti fatti, ove essi risultino acquisiti al giudizio indipendentemente dalla volontà dispositiva della parte che ne trae vantaggio, non credono le SS.UU. che nell’esercizio di siffatto potere possa opporsi al giudice che i fatti in parola siano venuti a sua conoscenza non motu proprio, ma attraverso le indagini commissionate al CTU, che lui stesso avrebbe potuto compiere se non avesse avuto la necessità di servirsi di un esperto.
E dunque è immune da vizi la decisione che, recependo le risultanze peritali, ne faccia propri e ne valorizzi anche quei profili di essa che evidenzino fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa che, ancorché non dedotti dalla parte, siano stati accertati dal consulente nell’espletamento dell’incarico.
- Il limite di che trattasi si rende poi operante con riferimento ai soli fatti principali, vale a dire ai fatti che nel rispetto del principio della domanda possono essere introdotti nel processo solo per l’iniziativa delle parti, sicché ne sono esclusi i fatti secondari che sono i fatti privi di efficacia probatoria diretta, ma funzionali alla dimostrazione dei fatti principali. In disparte da come il CTU ne acquisisca conoscenza – sul che si tornerà più avanti – la giurisprudenza di questa Corte è infatti stabile nel ritenere che, dato il raggio di azione accordato al potere di investigazione del consulente dall’art. 194 c.p.c., comma 1, il CTU sia legittimato ad acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti demandatigli dal giudice, “sempre che si tratti di fatti accessori rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse” (Cass., Sez. II, 30/07/2021, n. 21926).
Non dubitano perciò le SS.UU., in questa linea di pensiero che, stante il potere del CTU di procedere nei limiti dei quesiti sottopostigli alla investigazione dei fatti accessori, il consulente possa estendere il proprio giudizio anche ai fatti che, pur se non dedotti dalle parti, siano pubblicamente consultabili, non essendovi ragione di vietare in tal caso al CTU, pur se ne maturi la conoscenza aliunde, di esaminare in guisa di fatti accessori e dunque in funzione di rendere possibile la risposta ai quesiti, i fatti conoscibili da chiunque, così come è da credere, secondo un intendimento presente in dottrina, che l’attività consulenziale possa indirizzarsi anche in direzione dell’accertamento dei fatti accessori allorché, pur non costituendo oggetto di espressa indicazione, “essi risultino in qualche modo già ricompresi nelle allegazioni delle parti”, in quanto, fermo il fatto costitutivo o, diversamente, modificativo od estintivo dedotto dalla parte, il fatto accessorio accertato dal CTU nel corso delle indagini affidate dal giudice, corrobori indirettamente l’assunto fatto valere con la domanda o con l’eccezione.
- Tanto chiarito in ordine ai poteri esercitabili dal consulente tecnico allorché il giudice ravvisi la necessità della sua nomina e gli conferisca, per mezzo dei quesiti costituenti l’oggetto delle indagini commissionategli, il mandato peritale, le SS.UU., entrando nel vivo delle perplessità esternate dall’ordinanza interlocutoria sulla scorta degli enunciati di Cass. 31886/2019, devono ora confrontarsi con il tema delle preclusioni – e, riflessamente, delle preclusioni istruttorie – che si danno alle parti per effetto dell’ordinamento del processo civile basato sul modello dei “blocchi di attività”.
E ciò perché, come è intuibile, il nodo problematico da sciogliere in questo contesto non attiene tanto ai poteri che il CTU nell’espletamento del mandato affidatogli è legittimato ad esercitare per rispondere ai quesiti, dato che la narrazione sul punto procede, per così dire, a “rime obbligate”, non potendo essa deflettere, pur con i visti temperamenti, dal principio della domanda e, correlativamente, dai limiti impliciti nell’incarico affidato.
E’, infatti, piuttosto in vista dei limiti preclusivi che si accompagnano alle attività delle parti nel vigente ordinamento processuale che occorre traguardare l’esercizio di quei poteri, dacché, come la prassi ben insegna, sovente la conoscenza che il consulente matura in ordine ai fatti rilevabili officiosamente, ai fatti accessori, ai fatti pubblicamente accessibili e ai fatti impliciti nell’oggetto della domanda – per non dire dei fatti extra-mandato – avviene per il tramite di fonti documentali non oggetto di produzione a cura delle parti e di cui il consulente prende cognizione procedendo egli stesso alla loro ricerca e alla loro acquisizione al processo.
Chiosa, perciò, al riguardo Cass. 31886/2019, patrocinando la tesi dell’applicabilità alle attività consulenziali del regime preclusivo imposto alle parti, che “se, infatti, fosse consentito al consulente tecnico d’ufficio di acquisire dalle parti o da terzi documenti anche dopo lo spirare delle preclusioni istruttorie, si perverrebbe di fatto ad un’interpretatio abrogans dell’art. 183 c.p.c., comma 6″, con l’effetto di violare il principio della parità delle parti e di determinare un allungamento dei tempi processuali, non potendo negarsi alle parti, di fronte ad acquisizioni documentali effettuate dal CTU di propria iniziativa, il diritto alla controprova.
- Le SS.UU. reputano di dover prendere le distanze da questo indirizzo.
Si è già avuto occasione di dare atto che nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 a quello vigente il consulente tecnico – e, meglio, il perito – ha visto profondamente mutata la propria natura, fregiandosi ora di un’investitura pubblicistica che gli deriva dall’essere designato dal giudice e non dalle parti e dall’assunzione in conseguenza dell’atto di nomina dello status di ausiliario di giustizia; nonché la propria funzione, dacché il giudice ricorre alla sua nomina allorché, in relazione alla materia oggetto di lite, avverte la necessità di essere coadiuvato nella valutazione delle risultanze del giudizio che postulano il possesso di cognizioni tecnico-scientifiche che sfuggono alla sua scienza ufficiale.
Si è poi ancora detto, nel dare conto dell’esegesi dell’art. 194 c.p.c., che le indagini che il consulente tecnico, ricevendone il mandato del giudice sotto forma dei quesiti ai quali rendere risposta, è incaricato di espletare sono quelle stesse indagini che il giudice potrebbe svolgere da sé medesimo se, in relazione a quanto oggetto di lite, disponesse delle necessarie competenze tecnico-scientifiche.
Questo, oltre a far rimarcare l’obiettiva convergenza dei ruoli che sul piano dell’attuazione della giurisdizione si realizza tra il giudice ed il consulente da lui nominato, ha portato pure a maturare l’opinione che i poteri di cui il consulente tecnico dispone nei dare esecuzione all’incarico promanino direttamente dal giudice che lo ha nominato e siano perciò esercitabili – segnatamente sotto il profilo istruttorio che è quello che qui rileva negli stessi limiti in cui sarebbero esercitabili dal giudice.
- Una prima conseguenza di questo ragionamento, per quel che qui interessa, è che se per effetto di queste considerazioni la collocazione che il consulente viene ad assumere nella geografia del processo si mostra più prossima a quella del giudice che non a quella delle parti, non si è certo lontani dal vero nel dire, in via più generale, che al consulente tecnico non si applichino le preclusioni processuali ordinariamente vigenti a carico delle parti, costituendo infatti un risultato saldamente acquisito al dibattito apertosi a seguito della novella del 1990 che, nell’ambito delle disposizioni intese ad assicurare la concentrazione delle attività processuali, occorra distinguere tra quelle rivolte al giudice e quelle di cui sono invece destinatarie le parti. La tesi secondo cui i poteri ufficiosi del giudice non possano subire, come si è rilevato in dottrina, “l’incidenza restrittiva di preclusioni e decadenze, da cui sono normalmente colpiti i poteri delle parti a seconda delle fasi o dei momenti processuali, se non laddove la legge lo preveda espressamente in via eccezionale” trova del resto chiara conferma, significativamente proprio sul terreno istruttorio – ma così si orientava, nella primigenia impostazione del disegno riformatore, pure l’art. 184 c.p.c., comma 3, e così si orientava e si orienta tuttora l’art. 421 c.p.c., comma 2, letto alla luce delle decadenze comminate in danno delle parti dagli art. 416e 418 c.p.c.e dalla rimessione in termini consentita dall’art. 420 c.p.c., comma 5- nell’art. 183 c.p.c., comma 8, norma dalla cui lettura si ritrae non solo argomento per credere che il giudice eserciterà i poteri istruttori d’ufficio quando le parti per il decorso dei termini di cui al comma 6, siano ormai decadute da ogni potestà deduttiva, ma pure la certezza che le preclusioni così maturate in danno delle parti – in ragione del che si giustifica l’assegnazione alle medesime di un duplice termine per dedurre e controdedurre – non operano con riguardo ai mezzi di prova che il giudice, valendosi in tal senso dei poteri riconosciutigli dall’ordinamento, dispone d’ufficio.
- Ma in questa direzione è possibile compiere un ulteriore passo in avanti perché una seconda conseguenza che si può trarre dal ragionamento in atto è che, se come si è visto, il consulente con riguardo a ciò che è oggetto di indagine esercita i medesimi poteri di accertamento che competono al giudice e che il giudice potrebbe esercitare da sé se disponesse delle necessarie cognizioni tecnico-scientifiche, similmente non è infondato ritenere, sempre nei limiti delle indagini commessegli e nel più generale rispetto – con la vista riserva sotto questo versante dei fatti modificativi o estintivi rilevabili d’ufficio – del principio dispositivo quanto alla deducibilità dei fatti principali posti a fondamento della domanda o delle eccezioni, che l’attività del consulente è chiamato a compiere per mandato del giudice non sia del tutto immune dal rifletterne in qualche misura anche le prerogative che questo può esercitare in campo istruttorio in disparte dalle sollecitazioni di parte.
Norme come quelle degli artt. 118 e 213 c.p.c., e così pure l’art. 2711 c.c., non solo evidenziano, a conferma di quanto si è dianzi notato, che il giudice potrà ricorrervi solo quando le parti abbiano esaurito ogni facoltà di prova concessa loro dall’ordinamento, o perché i mezzi istruttori dalle medesime richieste siano stati già espletati o perché esse siano insanabilmente decadute dal relativo potere; ma nel conferire al giudice il potere di promuovere d’ufficio i mezzi istruttori che vi sono disciplinati e nel veicolarne “l’esercizio in funzione di un’esigenza particolarmente qualificata che si riassume nel concetto di indispensabilità” (Cass., Sez. I, 16/04/1997, n. 3260), concorrono a delineare un modello processuale che nel corrente assetto costituzionale appare saldamente orientato in modo da garantire il primario valore della giustizia della decisione.
E’ un anelito, questo, a cui non si può dire resti indifferente, per quanto innanzi si è osservato in punto al rapporto tra giudice e consulente, anche l’attività consulenziale, sicché anche il consulente potrà procedere, nei limiti visti, a quegli approfondimenti istruttori che, prescindendo da ogni iniziativa di parte, nel segno caratterizzante della indispensabilità, appaiono necessari al fine di rispondere ai quesiti oggetto dell’interrogazione giudiziale.
Va da sé che questo non vuol dire che il consulente nell’espletare il mandato affidatogli dal giudice possa servirsi dei mezzi di prova titolati che solo il giudice può disporre in via ufficiosa, ma lo “scopo di fare conoscere al giudice la verità”, che il consulente assume su di sé all’atto di accettare l’incarico e che ne permea perciò le attività, è certo segno, per un verso, della speciale sensibilità del legislatore per le difficoltà a cui il processo può essere talora esposto quando si trova al bivio di importanti questioni tecnico-scientifiche che il giudice non è in grado di affrontare con le sue sole forze, ma pure, per l’altro, del campo largo che il legislatore ha voluto assicurare al teatro delle investigazione peritali, non confinabili perciò, dal punto di vista istruttorio, entro lo steccato delle attività deduttive riservate alle parti.
Significativamente, nel riassumere questo scenario, si è scritto che “l’utilizzo della consulenza con estensioni a elementi di fatto e di prova non acquisiti al processo per iniziativa delle parti è così oggi, nel nostro processo civile, quanto di più vicino esista all’esercizio di poteri ufficiosi del giudice civile in materia di prove, con riferimento non solo alla valutazione, ma anche alla ricerca della prova stessa”.
- Questa impostazione si rafforza dal confronto con la disciplina di quelle speciali forme di consulenza tecnica ad alto tasso di specializzazione che hanno luogo, in particolare, in materie che richiedono l’esame di registri e documenti contabili e che presuppongono di regola l’esistenza di un rapporto fra le parti in forza del quale di debba formare un conto.
Se non è forse decisivo richiamarsi in questa cornice all’art. 121, comma 5, cod. prop. ind. che come ha già considerato questa Corte, laddove consente al consulente tecnico d’ufficio di ricevere nuovi documenti ancora non prodotti in causa, ha portata sostanzialmente derogatoria della disciplina generale dettata per il deposito dei documenti sia in primo grado che in appello (Cass., Sez. I, 3/12/2018, n. 31182) – è alla consulenza contabile di cui all’art. 198 c.p.c., che occorre guardare ed, in particolare, al suo comma 2, che consente al consulente nominato dal giudice, acquisito previamente il consenso delle parti, di poter “esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa”, vietandogli tuttavia di poterne “far menzione nel processo verbale o nella relazione di cui all’art. 195” se le parti non prestino ancora il proprio consenso.
La norma è stata resa oggetto di consolidata interpretazione nella giurisprudenza di questa Corte, specie nella giurisprudenza in materia bancaria, nel senso che il consulente, sempreché ne sia autorizzato dalle parti, può procedere all’esame dei documenti non prodotti solo a condizione che si tratti “di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice” (Cass., Sez. I, 3/08/2017, n. 19427; Cass., Sez. I, 27/04/2016, n. 8403; Cass., Sez. I, 2/12/2010, n. 24549). Alla radice di questo orientamento vi è la convinzione che la disciplina della consulenza contabile debba essere letta al lume del regime preclusivo che regola le attività deduttive delle parti, di guisa che, così come l’indisponibilità di esso, scandita dalla perentorietà dei termini in cui quelle attività devono compiersi, vieta alle parti di introdurre tardivamente nel giudizio documenti concernenti fatti e situazioni posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni, così, del pari, neppure il consenso che esse prestano all’attività acquisitiva in tal senso dispiegata dal consulente vale a sanare la decadenza in cui esse sono incorse, perché le parti non possono fare a mezzo del consulente quello che non possono più fare da sé medesime.
- Le SS.UU. ritengono di non poter condividere questo indirizzo.
Esso, avallando un’interpretazione sostanzialmente abrogante della norma, ne mortifica ingiustamente la ratio, e con essa le superiori finalità del processo in materie in cui la complessità delle questioni tecniche dovrebbe al contrario giustificare il più ampio dispiegamento dell’apporto peritale, nell’ottica di addivenire ad una decisione, per quanto più è possibile, tendenzialmente giusta.
Vi si oppongono, a tacer del fatto che, come si è visto, già in via generale l’attività consulenziale sfugge per natura e per fini all’estensione del regime preclusivo imposto alle parti, due ordini di ragioni.
La prima è di ordine letterale e si risolve nel notare che l’art. 198 c.p.c., comma 2, allorché abilità il consulente con il consenso delle parti ad esaminare i documenti, ha cura di indicarli con la locuzione “non prodotti”, senza aggiungere alcuna ulteriore qualificazione in grado di orientarne in qualche modo l’interpretazione.
Quel “non prodotti” vuol dire che quei documenti hanno fatto il loro ingresso nel processo, comunque ne sia avvenuta l’acquisizione, sia se il consulente li abbia autonomamente reperiti sia se vi siano entrati per iniziativa di una delle parti, senza sottostare in ogni caso alle forche caudine del regime preclusivo, diversamente non potendo essere qualificati come tali. Questo genera una prima conclusione ovvero che è quantomeno inappropriato guardare all’esame contabile dell’art. 198 c.p.c., con gli occhiali del regime preclusivo.
E’ vero che si potrebbe obiettare, nel solco del ragionamento che si vuole qui confutare, che “non prodotti” sono i documenti acquisiti dal consulente a riprova dei fatti accessori, dei fatti, cioè, che secondo questa linea di pensiero il consulente sarebbe legittimato a valutare per rispondere in modo esauriente al quesito, ma è evidente che, così ragionando, si finisce di far dire alla norma qualcosa di più di quello che essa effettivamente dice, dacché la distinzione tra documenti a comprova di fatti principali e fatti accessori è ad essa del tutto estranea.
La seconda ragione è di ordine sistematico. Si è visto che, potendo indagare nei limiti dei quesiti sottopostigli intorno ad un ampio numero di fatti diversi dai fatti principali – e talora anche in ordine ad essi se ne sia consentita la rilevazione d’ufficio – il consulente può procedere anche agli approfondimenti istruttori che ne forniscano la dimostrazione ed, in particolare, può procedere, in questa ottica, anche all’acquisizione dei documenti che quei fatti attestino, l’acquisizione dei documenti relativi a detti fatti da parte del consulente dovendo, infatti, ritenersi sempre consentita se essa si riveli necessaria ai fini della soddisfazione del mandato peritale.
Ora, va da sé che se, come si crede dall’interpretazione corrente, nell’esegesi dell’art. 198 c.p.c., comma 2, si reputa che i documenti non prodotti esaminabili e, se del caso, utilizzabili dal consulente, previo consenso delle parti, siano i documenti a comprova dei fatti accessori, la norma smarrisce ogni connotato di originalità e diviene un’inutile doppione delle attività che il consulente è ordinariamente abilitato, in ragione del mandato ricevuto, a svolgere senza bisogno del consenso delle parti.
L’assunto, sostanzialmente abrogante, a cui conduce questa interpretazione nel dire, in pratica, che il consulente contabile può fare le stesse cose che può fare un qualsiasi consulente non contabile, si colora poi di un ulteriore effetto che ne evidenzia gli esiti paradossali, dato che, postulando la previa acquisizione del consenso delle parti, il compito del consulente contabile che intenda estendere il raggio delle proprie investigazioni anche ai fatti accessori viene ad essere gravato di un onere formale (il consenso delle parti), al cui rispetto egli non è di norma tenuto, il che in un campo, in cui per la complessità delle questioni tecniche da affrontare, dovrebbe essere consentita al consulente una più ampia libertà di giudizio e quindi una più ampia libertà di indagine, svilisce in modo irreparabile le finalità che la norma si propone di perseguire.
- E’ convinzione invece delle SS.UU. che ciò che nell’interpretazione dell’art. 198 c.p.c., occorre salvaguardare è la sua specialità; che non discende semplicemente dal fatto di affiancarsi alla disciplina generale della consulenza tecnica risultante dagli artt. 194 c.p.c.e segg., ovvero dal suo contenuto precettivo infittito di oneri formali ignoti alla disciplina generale e reso per questo più rigoroso; ma che va, piuttosto, ascritta alla particolare natura delle materie su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi, le cui elevate difficoltà tecniche, imputabili segnatamente alla necessità di scrutinare sovente un’ingente mole di documenti che adottano un linguaggio specialistico e non si prestano ad un’interpretazione di senso comune, esigono la nomina di un esperto in grado di chiarirne la portata rispetto a quanto è oggetto di lite e di offrire con ciò dati conoscitivi ed elementi di prova rilevanti ai fini della decisione.
Questa complessità delle materie oggetto di giudizio non riverbera solo i suoi effetti nel determinare la specialità delle indagini che hanno luogo nell’esame contabile e che ne giustificano l’autonomia concettuale, prima che normativa, rispetto ad una comune consulenza disposta in via ordinaria; di essa si possono avvertire i riflessi anche con riferimento all’attività di allegazione delle parti, posto che le difficoltà di sondare compiutamente tutti gli aspetti di quanto è oggetto di lite, potrebbero risolversi nell’impedire alle parti, anche quando siano assistite dal consiglio di un esperto, una corretta valorizzazione dei temi decisionali ed, insieme, dei temi probatori postulati dal giudizio.
Nel ragionare perciò sull’onere di allegazione che compete alle parti nelle controversie aventi ad oggetto siffatte materie non si può non tenere conto di ciò e non si può perciò non assecondare, con riferimento ai profili istruttori della lite, l’idea di una sua attenuazione a misura della complessità tecnica di questa, così da permettere al consulente contabile anche l’esame di quei documenti che, ancorché afferenti alla prova di fatti principali, le parti non siano state in grado di individuare e di indicare tempestivamente.
Va da sé – ed è appena il caso di precisarlo, vigendo al riguardo il principio della inderogabilità della domanda – che l’attenuazione di che trattasi opera nei soli limiti dell’onere della prova e, beninteso, della prova documentale, restando per converso immutato ogni altro onere probatorio gravante ordinariamente sulle parti. In breve, la specialità dell’art. 198 c.p.c., sta dunque nel consentire espressamente al consulente contabile l’esame di documenti non prodotti in giudizio, anche se questi riguardino fatti principali ordinariamente soggetti ad essere provati per iniziativa delle parti.
- Giunti a questo punto le SS.UU. avvertono la speciale necessità di rimarcare – come raccomandazione di carattere generale e, di più, come condizione irrinunciabile per consentire al consulente l’esame di fatti, nei limiti visti, e documenti non oggetto di rituale deduzione delle parti – che nell’espletamento delle attività demandategli il consulente tecnico nominato dal giudice debba attenersi al più fedele e scrupoloso rispetto del principio del contraddittorio.
Della preoccupazione di non sottrarre l’attività del consulente al controllo e al confronto delle parti il legislatore si era già reso pienamente consapevole per mezzo dell’art. 194 c.p.c., comma 2 e art. 201 c.p.c., consentendo alle parti, anche tramite i consulenti da esse nominati, di assistere allo svolgimento delle operazioni peritali e, sinanco, di interloquire con il medesimo presentandogli per iscritto o a voce osservazioni e istanze.
Questa azione si è fatta, a costituzione vigente, più decisa considerando che, come regolata dall’art. 194 c.p.c., comma 2, l’interlocuzione tra consulente e parti poteva aver luogo solo in una prima fase del procedimento peritale tendenzialmente coincidente con la fase che si accompagna al reperimento e alla raccolta del materiale ritenuto utile ai fini consulenziali – restandone, per contro, scoperta, anche per il divieto posto dall’art. 90 disp. att. c.p.c., comma 2, la fase in assoluto più delicata e potenzialmente più pregiudizievole per gli interessi delle parti, quella in cui il consulente elabora il proprio responso e ne dà conto nel predisporre la relazione. Con la novellazione dell’art. 195 c.p.c., comma 3, questa anomalia è stata sanata ed il contraddittorio delle parti è stato ora esteso anche alla fase della predisposizione dell’elaborato peritale.
L’intendimento del legislatore in questa direzione si è reso ancor più esplicito di quanto non dicano le norme teste’ richiamate sul terreno della prova. Se a cagione della sua specialità non è particolarmente significativo l’appello all’art. 198 c.p.c., comma 2, quantunque la norma a presidio delle prerogative di parte, di contro all’esame e all’utilizzazione da parte del consulente di documenti da esse non prodotti preveda un elaborato meccanismo di checks and balances che si spiega segnatamente in funzione del fatto, che come si è visto, nelle particolari materie in cui l’esame contabile si rende necessario il consulente può estendere il proprio esame anche ai documenti rilevanti ai fini della prova di fatti principali sfuggiti alla deduzione delle parti, di più incisivo effetto su questo terreno risulta il dettato dell’art. 183 c.p.c., comma 8.
La norma, che reitera in linea generale il comando già contenuto dall’art. 184 c.p.c., comma 3, integrandone il disposto con la previsione di un’appendice scritta in cui è data alle parti facoltà di replica, prende atto, nel solco di una linea di pensiero che aveva già portato a sanzionare con decisione le sentenze della c.d. “terza via” e che avrebbe condotto in prosieguo ad aggiungere all’art. 101 c.p.c., un comma 2 segnatamente diretto a stemperare il pericolo delle decisioni a sorpresa, della necessità di assicurare il più ampio dispiegamento del contraddittorio delle parti in ordine ai mezzi di prova che il giudice può disporre facendo uso dei poteri ufficiosi accordatigli dall’ordinamento.
Non vi è dubbio che analoga esigenza debba governare anche le attività consulenziali e che il principio di cui la norma si rende espressione si comunichi anche alle attività del consulente, tanto più se si crede che nell’acquisire officiosamente, nei limiti visti, la cognizione di fatti e di documenti probatori dei medesimi rilevanti ai fini di rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice, il consulente, dal medesimo nominato e che del medesimo ripeta, lato sensu, i poteri istruttori che questo può esercitare in via ufficiosa, non si muove in una logica processuale diversa da quella che guiderebbe l’attività del giudice se fosse il giudice a procedere alle indagini commesse al consulente.
E così allora, come il giudice – quantunque non dovendo attivare un procedimento di carattere formale, che osterebbe alla definizione dell’incombente nel termine assegnato e ridonderebbe in negativo sulla ragionevole durata del processo, e quindi ben restando nei limiti del contraddittorio assicurato dall’art. 195 c.p.c., comma 3, ovvero a quello praticabile per le vie brevi ai sensi dell’art. 194 c.p.c., comma 2 – il consulente non potrà deflettere nell’attività che comporta l’accertamento dei fatti e la raccolta dei documenti significativi ai fini dell’espletamento del mandato peritale, la cui introduzione nel giudizio non è rituale opera di parte, dalla necessità che su di essi il confronto tra le parti si esplichi nel modo più idoneo a garantirne il diritto di difesa.
- Le conclusioni a cui si è sin qui pervenuti spianano, in una certa misura, anche la strada alla soluzione della questione posta dalla prima Sezione Civile di questa Corte, che con l’ordinanza interlocutoria in rassegna ha chiesto di sapere se l’acquisizione del documento rinvenuto dal CTU nel corso delle operazioni peritali non ritualmente introdotto nel giudizio dalle parti dia luogo ad una nullità relativa, sanabile perciò se non eccepita nel termine dell’art. 157 c.p.c., comma 2, ovvero ad una nullità assoluta rilevabile ex officio prescindendo da eccezioni di parte.
Va da sé, per quanto detto innanzi, che la tesi della nullità assoluta per come argomentata da Cass. 31886/2019 non è condivisibile. Posto, per vero, che essa si radica sull’assunto che mette in diretta correlazione le violazioni ascrivibili all’attività del consulente con la regolamentazione delle scansioni processuali, perché, come si afferma, non è possibile sostenere nel mutato assetto normativo seguito alla riforma del 1990 che la violazione delle preclusioni assertive ed istruttorie cui è soggetta l’attività delle parti nuoce all’interesse generale ed è perciò fonte di nullità assoluta se commesse dalle parti e non è sanabile per effetto della loro acquiescenza, mentre lede un interesse particolare, fonte perciò solo di nullità relativa, se sia commessa dal CTU, la tesi in parola si svuota di consistenza allorché se ne ponga in discussione il fondamento di diritto e si abbracci la diversa prospettiva che valorizza la funzione ausiliare del CTU rispetto all’attuazione dell’ufficio giurisdizionale e che in questa chiave ricostruttiva, in cui il consulente si rende partecipe dei poteri istruttori che competono al giudice in via ufficiosa, ne enfatizza significativamente il ruolo, segnatamente in quei campi ad alta specializzazione tecnico-scientifica in cui il quadro probatorio, per la complessità degli approfondimenti istruttori postulati dalla res litigiosa, sfugge alla regola di una rigida preordinazione.
- Quid iuris allora quando il consulente, pur disponendo, come si è detto, di un ampio margine di manovra, che gli consente in non pochi frangenti di svincolarsi dall’attività di allegazione delle parti, acquisisca nel corso dell’espletamento del mandato peritale la cognizione di fatti o di documenti da esse non tempestivamente introdotti nel giudizio?.
A questo fine, prima di dare risposta al quesito, non è inopportuno, per coglierne in tutta la sua estensione la portata, intendersi previamente sull’effettiva consistenza che può assumere il fenomeno di che trattasi, giacché, in disparte da quanto in senso limitativo già non si possa argomentare dai poteri di autonoma investigazione ordinariamente riconoscibili al consulente – e dei quali si è già ampiamente discorso – le violazioni in cui egli a tal riguardo potrebbe incorrere non sempre sono foriere di conseguenze esiziali in danno del prodotto peritale.
Ciò accade ad esempio, come si è già affermato (Cass., Sez. I, 27/07/2011, n. 16441), guardandosi al precetto dell’art. 159 c.p.c., comma 1, secondo cui la nullità di un atto non ne comporta quella degli atti successivi che ne siano indipendenti, allorquando il CTU, pur avvedendosi di fatti non dedotti dalle parti o avvalendosi di documenti parimenti non prodotti dalle parti nelle forme e tempi di rito, eviti tuttavia di farne richiamo ai fini di formalizzare il proprio responso, che prescinde perciò dalla loro considerazione e non vede perciò compromessa la propria formazione a cagione del vizio che ne inficia la presa d’atto.
Sotto una diversa angolazione, che ne contempla sempre gli effetti estensivi, irrilevanti le violazioni in parola – ed anche di ciò si è dato conto (Cass., Sez. III, 10/05/2021, n. 6502) – si rendono pure nel caso in cui, trasfusosi il vizio di acquisizione nell’elaborato peritale, di esso si faccia avvertito il giudice che ne sterilizzi gli effetti espungendo la consulenza dal compendio istruttorio delibato ai fini della decisione ovvero purgandola, ove sia possibile comunque conservarne l’utilità, di quella parte di essa che si mostri viziata.
E non ultimo, è appena poi il caso di avvertire, che resta pur sempre nella disponibilità del giudice lo strumento della rinnovazione delle attività peritali a mente dell’art. 196 c.p.c., a cui egli può a ricorrere anche in vista di emendarne gli eventuali vizi.
- Circoscritto con ciò il fenomeno al caso in cui l’acquisizione irrituale si comunichi alla relazione di perizia e da qui, se del caso, alla sentenza, le SS.UU. reputano che nell’operare la qualificazione del relativo vizio non possa che guardarsi in direzione del sistema delle invalidità processuali di cui agli artt. 156 c.p.c.e segg., in esso individuandosi per diritto acclarato il complesso dei rimedi endoprocessuali indicati dal legislatore per porre correttivo alle anomalie che si verificano nel corso del processo e che non sfociano in ragioni di nullità della sentenza, in relazione alle quali si impone il più specifico rimedio dell’impugnazione (art. 161 c.p.c.).
In questo contesto, che delimita secondo i canoni della tassatività e della tipicità il campo entro cui contenere la ricerca, non può trovare adesione la diversa opzione ricostruttiva, che trapela dalle requisitorie del P.M., che fa leva sulla pretesa dicotomia “inammissibilità/inutilizzabilità” per stigmatizzare la “CTU extramandato che amplia il thema decidendum o probandum” o per sostenere, come fatto altrove, che se il CTU “abbia valutato un documento irritualmente acquisito e non tempestivamente prodotto dalle parti nei termini di rito, egli ha computo una valutazione su un documento inutilizzabile, sicché la sua valutazione, per la proprietà transitiva, è anche essa inutilizzabile del giudice”.
Non conforta, per vero, in principalità questo assunto la vista inestensibilità all’attività consulenziale delle preclusioni imposte alle attività delle parti, onde non sarebbe perciò azionabile a proposito delle prime la categoria dell’inammissibilità che si impiega a proposito delle seconde quando queste se ne discostino.
A questo primo argomento è poi possibile affiancarne un altro, posto che il sistema delle invalidità processuali, come declinato negli artt. 156 c.p.c. e segg., segnatamente ove si creda che esso sia applicabile anche al campo delle nullità extraformali, è un sistema che copre l’intero arco dei vizi processuali, sicché ricorrere ad un ulteriore categoria di invalidità, quale si configurerebbe nell’opzione in questione quella della “inutilizzabilità”, propria di altri ordinamenti processuali e dai contorni tutt’altro che certi, introduce nel sistema che il legislatore ha modellato sulla categoria della nullità un elemento di evidente distonia, che ne penalizza il carattere tendenzialmente autosufficiente e ne compromette la stabilità di principio.
- Ne’, peraltro, nel guardare in direzione del sistema delle invalidità processuali, rappresenta un ostacolo altrimenti insuperabile il fatto che, non potendo operarsi la qualificazione del vizio alla stregua dell’art. 156 c.p.c., comma 1, non essendo prevista una sanzione specifica, occorrerebbe condurre l’esame a partire dall’art. 156 c.p.c., comma 2, ma in tal caso non si potrebbe negare che se lo scopo della consulenza d’ufficio è colmare, mediante l’apporto delle necessarie nozioni di carattere tecnico-scientifico, la lacuna che a tal riguardo si palesa nella scienza ufficiale del giudice, l’atto consulenziale, pur se in modo irrituale, abbia comunque conseguito il suo scopo, in tal modo rendendosi perfino dubbio che esso possa perciò essere sanzionato.
Obiezione a cui però, come si è prontamente replicato in dottrina, va opposta la considerazione, estensibile anche al caso in questione, che “posto che, in ossequio al principio costituzionale dell’immediatezza, la relazione in ogni caso deve consentire al giudice (anche, e pur solo potenzialmente) di procedere direttamente alla assunzione delle fonti, e dunque di riesaminare il materiale sul quale il prodotto peritale si è fondato, tale possibilità risulta esclusa (sicché la relazione deve dirsi nulla ex art. 156 c.p.c., comma 2) ogniqualvolta l’iniziativa del CTU abbia introdotto fatti che il giudice per primo non avrebbe potuto ricercare”.
- Dentro, dunque, il sistema delle invalidità processuali di cui agli artt. 156 c.p.c.e segg., è ferma convinzione delle SS.UU. che occorra confermare, salvo quanto si preciserà più avanti, l’orientamento tradizionalmente invalso nella giurisprudenza in materia di questa Corte secondo cui i vizi che infirmano l’operato del CTU sono fonte di nullità relativa e rifluiscono tutti invariabilmente sotto il dettato dell’art. 157 c.p.c., comma 2.
Come è noto – e come bene documenta Cass. 31886/2019 – il principio in parola, alla luce del quale quindi le nullità che inficiano il risultato consulenziale restano sanate se non eccepite dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva all’atto viziato o alla notizia di esso, aveva trovato inizialmente applicazione in relazione all’ipotesi del tutto circoscritta dell’omesso avviso del consulente alle parti della data di inizio delle operazioni peritali. In prosieguo di tempo quel principio, che nell’ipotesi di partenza trovava giustificazione nella tutela del diritto di difesa, della cui violazione non avrebbe potuto dolersi se non il titolare di esso, tenuto perciò ad azionarsi prontamente se non avesse voluto vedere prodotti in suo danno gli effetti sananti della mancata contestazione, venne esteso anche ad altre ipotesi di nullità, a cominciare da quelle ravvisabili in conseguenza dell’estensione del sindacato peritale all’accertamento di fatti estranei al tema decisionale o all’acquisizione di documenti non ritualmente prodotti in giudizio dalle parti, e da lì si era poi propagato per effetto di naturale inerzia a qualsiasi ipotesi di invalidità peritale sino a divenire affermazione generalizzata e priva di sostanziali distinzioni.
L’avvento del regime preclusivo seguito alla novella processuale del 1990 ha indotto Cass. 31886/2019 a dubitare della fondatezza di un simile orientamento sul presupposto – si è già ricordato – che le parti non possono fare a mezzo del consulente ciò che non è più consentito fare da sé medesime, di talché, come le violazioni delle preclusioni in cui incorrono le parti ledono interessi generali e sono fonte di nullità assoluta rilevabile come tale d’ufficio, così altrettanto anche le violazioni di pari effetto compiute dal CTU devono essere sanzionate e devono rendersi rilevabili allo stesso modo.
Si è già visto – e non vi è perciò motivo di ritornare sull’argomento che quel dubbio non è fondato.
Qui, per completezza di ragionamento, non è forse inopportuno aggiungere, in disparte dalle ragioni in chiave ostativa già altrove enunciate, che quel dubbio non apparirebbe condivisibile neppure se se ne volesse sondare la tenuta di merito.
A rigore, infatti, si potrebbe sostenere che, ritenendo sanabili per difetto di tempestiva contestazione le violazioni ascritte all’operato del consulente – che ad esempio acquisisca un documento non prodotto ritualmente dalle parti – l’effetto che ne scaturisce – sia pure se per mezzo di un meccanismo che obbliga l’altra parte a un dovere di autoresponsabilità – è quello di rendere in pratica derogabile il regime preclusivo, nel senso che, per stare sempre all’esempio in parola, il documento si dovrebbe ritenere validamente acquisito al processo non già perché tempestivamente e ritualmente prodotto dalla parte a cui giova, ma perché l’altra parte, non formalizzando a breve la propria contrarietà non ne avrebbe contestato l’acquisizione. Il rilievo, pur focalizzando l’attenzione sull’effetto finale di una mancata tempestiva contestazione, non coglie tuttavia la specificità del sottostante quadro di riferimento ove la violazione e’, a ben vedere, pur quando ne sia innesco l’attività della parte, ascritta all’operato del CTU e non a quello della parte, di modo che, seppure una parte ne potrà trarre vantaggio – e ciò, lo si ribadisce è conseguenza di un difetto di autoresponsabilità dell’altra – la violazione di che trattasi non rileverà primariamente in funzione dell’interesse delle parti, ma in funzione di far conoscere al giudice la verità che è il fine ultimo a cui tende l’attività consulenziale.
- Nel dare però contezza delle ragioni che a giudizio delle SS.UU. impongono di confermare l’orientamento tradizionalmente prevalente in materia, è bene sottolineare la centralità che nella ricognizione del tema incarna lo snodo cruciale – non sufficientemente lumeggiato anche a cagione del modo effettivamente tralatizio in cui questo orientamento si è tramandato nel tempo – costituito, come già si è avuto occasione di avvertire, dalla necessità che l’attività consulenziale si svolga nel più fedele e scrupoloso rispetto del contraddittorio delle parti.
Questa necessità non era certo ignota a quelle prime decisioni di questa Corte che, nel decretare la nullità ad eccezione di parte delle violazioni procedimentali in cui poteva incorrere il ctu, segnatamente nell’omettere di avvisare le parti dell’inizio delle operazioni commessegli dal giudice, aveva esplicitamente preso atto della compromissione che in ragione di ciò pativa il diritto di difesa delle stesse. Ma è comune anche a quella più tarda giurisprudenza che nella stessa linea di pensiero ha ritenuto sanzionabile nei termini e modi dell’art. 157 c.p.c., l’operato del CTU per aver indagato su fatti non riconducibili al mandato ricevuto o per aver acquisito documenti non allegati in modo tempestivo dalle parti.
E va ribadita nuovamente oggi giacché il CTU che, nei limiti delle indagini commessegli dal giudice, estenda il perimetro delle proprie attività e proceda ad accertare fatti non oggetto di diretta capitolazione di parte o ad esaminare documenti, del pari, non introdotti nel giudizio delle parti, senza darsi previamente cura di attivare su di essi il necessario confronto processuale, non lede, anche nel mutato ordinamento processuale scaturito dalla novella del 1990, un interesse del processo, in guisa del quale quella attività possa giudicarsi affetta da un vizio di nullità assoluta, ma lede un interesse, pur primario delle parti in quanto posto a tutela del diritto di difesa delle medesime, di cui le parti possono tuttavia pur sempre disporre, poiché compete solo a loro il potere di farne valere la violazione e di eccepire la nullità dell’atto che ne è conseguenza a mente dell’art. 157 c.p.c., comma 2.
- Tutto ciò, è appena poi il caso di avvertire, laddove l’attività consulenziale viziata entri in conflitto con un interesse di parte e di cui è in facoltà delle parti disporre liberamente, quando cioè il consulente, pur potendo estendere le proprie investigazioni a fatti e documenti non acquisiti al processo per iniziativa delle parti, abbia cura di mantenerne il perimetro entro i limiti segnati dalla domanda e, più esattamente, dai fatti principali che siano dedotti dall’attore a fondamento di essa.
Il limite della domanda, in ossequio al principio dispositivo che alla base dell’ordinamento processuale vigente, costituisce, infatti, un vincolo insormontabile anche per il giudice che non può infrangere il principio ne procedat iudex ex officio e deve attenersi al comando secondo cui iudex iudicare debet iuxta alligata partium; e di, riflesso, per le ragioni più innanzi spiegate a contrario, anche per il consulente dal medesimo nominato.
Quando, ad onta di ciò, la consulenza affidata al perito indaghi su temi estranei all’oggetto della domanda e pervenga pure al risultato di stimare la fondatezza della pretesa esercitata dall’attore in base a fatti diversi da quelli allegati introduttivamente dal medesimo, l’accertamento così operato si colloca al di fuori dei limiti della domanda e contrasta, dunque, con essa, scaturendone perciò una ragione di nullità che, in quanto afferente alla sfera dei poteri legittimamente esercitabili dal giudice, è rilevabile d’ufficio o che, diversamente, può farsi valere quale motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 161 c.p.c..
- Si possono perciò in conclusione affermare nell’interesse della legge i seguenti principi di diritto:
“in materia di consulenza tecnica d’ufficio, il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite il cui accertamento si rende necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti fatti principali rilevabili d’ufficio”.
“In materia di consulenza tecnica d’ufficio il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio”.
“In materia di esame contabile ai sensi dell’art. 198 c.p.c., il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni”.
“In materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, o l’acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso”.
“In materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, che il consulente nominato dal giudice accerti nel rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice viola il principio della domanda ed il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o, in difetto, di motivo i impugnazione da farsi a valere ai sensi dell’art. 161 c.p.c.“.