T.R.G.A., sez. Trento, 3 febbraio 2022 n. 21
MASSIMA
In materia di provvedimento di concessione della cittadinanza italiana, dal lato della P.A., la valutazione dei requisiti patrimoniali che deve dimostrare di possedere l’istante è qualificabile quale attività vincolata e non discrezionale, con la conseguenza che ex post il G.A. può valutare la legittimità dell’attività svolta dalla P.A.. Qualora però la P.A. non si sia ancora mai espressa sulla ridetta valutazione, il G.A. non può esprimersi sulla legittimità della stessa, salvo i casi di silenzio-inadempimento o nell’ambito di un giudizio di ottemperanza, alla luce della c.d. riserva di procedimento, degli artt. 34, comma 2, primo periodo e 31, co. 3, cod. proc. amm., poiché vi sarebbe una inammissibile sostituzione del G.A. alla P.A. rispetto a poteri non ancora esercitati dalla stessa, creando una violazione del principio della c.d. separazione dei poteri tra i diversi organi dello Stato.
La disposizione dell’art. 34, comma 2, primo periodo mira a salvaguardare non già il potere come prerogativa della pubblica amministrazione, bensì la sua specifica modalità di esercizio, ossia il procedimento amministrativo, con la conseguenza che al Giudice amministrativo deve ritenersi precluso l’esercizio di un potere non ancora estrinsecatosi attraverso un apposito procedimento amministrativo.
Del resto, tale conclusione trova conferma nella già ricordata disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. – che nei casi di attività vincolata consente al Giudice di pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio a condizione che non siano “necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Occorre poi rammentare che, come più volte affermato da questo Tribunale (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 22 giugno 2021, n. 103; id., 20 aprile 2021, n. 60; id. 19 ottobre 2020, n. 177; id. 13 aprile 2017, n. 136), dal combinato disposto dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”) con la disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”) si desume che nei casi di attività vincolata il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso, perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo; invece nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno.
Dunque, a fronte di tale giurisprudenza, potrebbe (astrattamente) ritenersi che nel caso in esame sia consentito al Collegio accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio dalla ricorrente e condannare l’Amministrazione dell’interno a provvedere, previo annullamento del provvedimento impugnato, perché l’Amministrazione dell’interno si è autovincolata ai fini della verifica dell’ammissibilità, sotto il profilo reddituale, delle domande di concessione della cittadinanza, prendendo come parametro di riferimento il reddito fissato in € 8.263,31 annui, incrementato ad € 11.362,05 annui in presenza di coniuge a carico e di ulteriori € 516,00 annui per ciascun figlio a carico, e stabilendo che la verifica del possesso di tale requisito reddituale debba riguardare quantomeno un triennio. In altri termini, secondo l’implicita prospettazione della ricorrente, nulla impedirebbe al Tribunale di tener conto anche della documentazione dalla stessa prodotta in giudizio in data 29 novembre 2021 ed in data 5 gennaio 2022 (ossia delle buste paga attestanti i redditi dalla stessa percepiti nel 2021), la quale, unitamente a quella allegata alle osservazioni presentate all’amministrazione a seguito del preavviso di rigetto (ossia le dichiarazioni dei redditi attestanti i redditi percepiti nel 2019 e nel 2020), comproverebbe che ella «possiede un reddito superiore ai parametri ministeriali richiesti per la concessione della cittadinanza italiana».
Tuttavia, a ben vedere, una duplice preclusione a tale accertamento si rinviene nella disposizione dell’art. 34, comma 2, primo periodo, cod. proc. amm., secondo la quale “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora
esercitati” e nella già citata disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm., la quale – sebbene discutibilmente collocata dal legislatore nell’ambito della disciplina dell’azione avverso il silenzio dell’amministrazione – finisce per assume un indiscutibile rilievo sistematico nel contesto generale della definizione dei limiti dei poteri del Giudice amministrativo (cfr., al riguardo, Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321), come del resto confermato dall’art. 34, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., nella parte in cui dispone che l’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto dall’interessato può essere esercitata, per l’appunto, soltanto nei limiti di cui all’art. 31, comma 3, cod. proc. amm..
- Come già evidenziato da questo Tribunale in altra occasione (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 22 giugno 2021, n. 103, cit.), a seguito dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo dottrina e giurisprudenza hanno posto in rilievo l’ampliamento della gamma delle azioni esperibili innanzi al Giudice amministrativo, specie nell’ambito della giurisdizione di legittimità. Minore attenzione è stata invece dedicata alla codificazione di taluni limiti ai poteri decisori del Giudice amministrativo – ivi compreso quello derivante dalla disposizione dell’art. 34, comma 2, primo periodo, cod. proc. amm. – sebbene il legislatore stesso sembri aver attribuito portata generale e assoluta al divieto posto da tale disposizione, come si desume non solo dall’incipit della disposizione stessa (“in nessun caso”), ma anche dal fatto che nella relazione governativa al codice la suddetta disposizione è qualificata come un presidio al «principio della divisione dei poteri».
A ben vedere, però, l’assolutezza del predetto divieto si stempera alquanto se si tiene conto dell’impianto complessivo del codice del processo amministrativo. Ad esempio, all’esito dei giudizi relativi alle materie per le quali è prevista la giurisdizione di merito (cfr. l’art. 134 cod. proc. amm.), la statuizione del giudice può fisiologicamente sostituire, per diverse ragioni, quella dell’amministrazione (cfr. l’art. 114, comma 4, cod. proc. amm., quanto al giudizio di ottemperanza, e l’art. 130, comma 9, cod. proc. amm., quanto al giudizio elettorale). In particolare questo Tribunale (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 24 gennaio 2019, n. 22) ha ribadito che «nell’ambito del giudizio elettorale, poiché gli organi che proclamano gli eletti hanno natura temporanea e giuridicamente non sono più costituiti dopo l’esaurimento dei loro compiti, le leggi attribuiscono direttamente al Giudice amministrativo il potere di correggere i risultati elettorali e di proclamare eletti i candidati che ne abbiano titolo. Ne consegue che la giurisdizione di merito prevista dall’art. 134, comma 1, lett. b), cod. proc. amm., deve esse intesa nel senso che il Giudice amministrativo è chiamato a correggere il risultato delle elezioni (come prevede il citato art. 130, comma 9, cod. proc. amm.) non solo laddove le parti chiedano di riesaminare l’operato dell’Amministrazione, ma anche laddove sia chiesto al Giudice di sostituirsi tout court all’Amministrazione che abbia omesso attività di sua competenza, come nel caso in esame, nel quale risulta la radicale omissione, da parte dell’Ufficio centrale circoscrizionale di una parte delle operazioni di riesame».
Lo stesso art. 34 cod. proc. amm. dispone altresì, al comma 1, lett. e), che il Giudice in caso di accoglimento del ricorso “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese”.
La già ricordata disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. consente addirittura al Giudice di “pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio” quando su di essa l’amministrazione non si sia ancora pronunciata in ragione del silenzio serbato sull’istanza, anche se la disposizione stessa consente una pronuncia sulla fondatezza della pretesa “solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”. Pertanto, come già precisato da questo Tribunale (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 13 aprile 2017, n. 136, cit.) il giudizio sulla spettanza del bene della vita deve ritenersi consentito anche nei casi di attività vincolata in concreto – ossia nei casi in cui l’amministrazione, attraverso il meccanismo del c.d. autovincolo, abbia azzerato la discrezionalità prevista a livello normativo – perché la disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm., consente al giudice di pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio non solo quando si tratta di attività vincolata in astratto (ossia vincolata già a livello normativo), ma anche quando (per effetto di vincoli esterni di carattere non normativo o di autovincoli) “risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità”.
Infine l’introduzione del divieto in questione non ha certo inciso sul c.d. effetto conformativo del giudicato amministrativo, espressamente menzionato nell’art. 113 cod. proc. amm., che – per l’appunto – si fa riferisce al “contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti” del Giudice (cfr. al riguardo T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 14 novembre 2016, n. 383).
Dunque, come correttamente evidenziato dalla migliore dottrina, non v’è dubbio che il divieto in questione non possa essere riferito né ai poteri che l’amministrazione dovrà esercitare nuovamente a seguito della sentenza di annullamento, né ai quelli che l’amministrazione non ha esercitato, pur essendovi tenuta, nel termine stabilito dalla legge (vale a dire, in caso di silenzio), anche perché il divieto stesso – se interpretato in senso assoluto – avrebbe suscitato seri dubbi di legittimità costituzionale, specie con riguardo all’altrimenti irragionevole arretramento dei livelli di tutela innanzi al Giudice amministrativo rispetto al sistema processuale anteriore al codice.
- Una volta appurato che il divieto di cui trattasi non è assoluto (come invece potrebbe apparire ad una prima lettura del testo dell’art. 34, comma 2, primo periodo), residua semmai il problema di chiarire la ratio del divieto stesso e, soprattutto, di definirne l’ambito di applicazione. Sul punto, la relazione governativa al codice del processo amministrativo si limita ad affermare che il divieto è stato introdotto «al fine di evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa pro futuro, con palese violazione del principio della divisione dei poteri», e l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella fondamentale sentenza n. 5 del 2015 ha precisato che il divieto «è espressione del principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri (e di riserva di amministrazione) che, storicamente, nel disegno costituzionale, hanno giustificato e consolidato il sistema della giustizia amministrativa».
La prevalente dottrina, a sua volta, dubitando sul punto circa l’effettiva vigenza nel nostro ordinamento del principio della separazione dei poteri, ha ritenuto che la norma sia meramente ricognitiva dei principi tradizionali del contenzioso amministrativo o, comunque, espressione della c.d. riserva di amministrazione, della quale peraltro non è agevole rinvenire il fondamento costituzionale. Difatti che la Corte costituzionale, nell’esaminare le c.d. leggi provvedimento, ha più volte evidenziato, con giurisprudenza risalente e rimasta a tutt’oggi consolidata, come la funzione amministrativa non sia affatto riservata alla pubblica amministrazione (ex multis, Corte Cost., 25 maggio 1957, n. 59 e n.60; 24 febbraio 1995, n. 63; 21 luglio 1995, n. 347).
Più di recente un’attenta dottrina – muovendo dal presupposto che le garanzie proprie del procedimento amministrativo costituiscono oramai, nella quasi interezza, “livelli essenziali delle prestazioni” ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., come tali inderogabilmente assicurate a tutti gli interessati – ha condivisibilmente collegato il divieto di cui trattasi alla c.d. riserva di procedimento, così lasciando intendere che la disposizione dell’art. 34, comma 2, primo periodo, mira in realtà a preservare, seppure non in modo assoluto, il procedimento quale forma della funzione amministrativa, ossia quale luogo fisiologico di svolgimento del c.d. rapporto amministrativo.
Dunque può conclusivamente ritenersi che la disposizione dell’art. 34, comma 2, primo periodo miri a salvaguardare non già il potere come prerogativa della pubblica amministrazione, bensì la sua specifica modalità di esercizio, ossia il procedimento amministrativo, con la conseguenza che al Giudice amministrativo deve ritenersi precluso l’esercizio di un potere non ancora estrinsecatosi attraverso un apposito procedimento amministrativo.
Del resto tale conclusione trova conferma nella già ricordata disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. – che nei casi di attività vincolata consente al Giudice di pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio a condizione che non siano “necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione” – essendo il procedimento amministrativo la sede nella quale l’Amministrazione deve porre in essere le attività istruttorie di sua competenza.
- In ragione di quanto precede il Collegio ritiene che in un caso come quello in esame – sebbene l’Amministrazione si sia effettivamente autovincolata ad utilizzare come parametro di riferimento il reddito fissato in € 8.263,31 annui, incrementato ad € 11.362,05 annui in presenza di coniuge a carico e di ulteriori € 516,00 annui per ciascun figlio a carico, nonché a verificare il possesso del requisito reddituale quantomeno con riferimento ad un triennio – tuttavia non sia possibile tener conto, ai fini della verifica della fondatezza della pretesa fatta valere in giudizio dalla ricorrente, della documentazione dalla stessa prodotta in giudizio in data 29 novembre 2021 ed in data 5 gennaio 2022: difatti tale documentazione attesta una
situazione di fatto (attinente al possesso del requisito reddituale nell’anno 2021) che non è stata ritualmente accertata dell’amministrazione nell’ambito del procedimento amministrativo, ma è stata prospettata, per la prima volta, dalla ricorrente medesima nel presente giudizio. Dunque la prospettazione della ricorrente mira, a ben vedere, a determinare un’inammissibile sostituzione della valutazione di questo Tribunale a quella dell’Amministrazione, in palese violazione delle disposizioni dell’art. 34, comma 2, primo periodo, e dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm., nonché del principio della riserva di procedimento sotteso a tali disposizioni.
- Inoltre – anche a voler opinare diversamente – non può sottacersi che le buste paga prodotte in giudizio dalla ricorrente in data 29 novembre 2021 ed in data 5 gennaio 2022, seppur attestanti i redditi da ella percepiti nel corso del 2011, non dimostrano affatto il possesso del requisito reddituale relativo a tale anno, perché non dimostrano quanti fossero i familiari fiscalmente a carico della ricorrente medesima, e comunque la circolare ministeriale del 22 marzo 2019 (invocata dall’amministrazione resistente e non impugnata dalla ricorrente) prevede espressamente che la verifica della capacità reddituale dichiarata dall’interessato sia effettuata tramite la procedura informatizzata dell’Agenzia delle Entrate “SIATEL V 2.0/Punto Fisco”, ossia in base a quanto dichiarato dall’interessato a fini fiscali.
- In definitiva il ricorso deve essere respinto perché – pur avendo l’Amministrazione procedente omesso di valutare gli elementi addotti dalla ricorrente con le proprie osservazioni procedimentali, in palese violazione della predetta circolare ministeriale del 5 gennaio 2007 – tuttavia la documentazione prodotta in giudizio dalla ricorrente medesima non è idonea a dimostrare che ella «possiede un reddito superiore ai parametri ministeriali richiesti per la concessione della cittadinanza italiana». Difatti la ricorrente, a fronte di un preavviso di rigetto datato -OMISSIS-, mediante le osservazioni procedimentali presentate all’amministrazione procedente avrebbe dovuto dimostrare quantomeno il possesso del prescritto requisito reddituale in relazione al triennio 2018-2020.
Resta fermo, ovviamente, che la ricorrente potrà ripresentare l’istanza di concessione della cittadinanza dimostrando il possesso del prescritto requisito reddituale relativo al triennio 2019-2021 in conformità a quanto previsto dalle circolari ministeriali innanzi richiamate.