<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI – sentenza 30 ottobre 2019 n. 27842 </strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La società ricorrente imputa all’Adunanza Plenaria, in estrema sintesi, sconfinamento nelle attribuzioni riservate al legislatore e, quindi, superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, per avere esercitato una </em>potestas iudicandi<em> – consistente nella modulazione degli effetti sostanziali della sentenza – non riconosciutale dall’ordinamento, con l’effetto di avere deliberatamente creato </em>ex novo<em> una norma transitoria con efficacia </em>erga omnes<em>, disapplicando il principio di diritto pure astrattamente enunciato in senso ad essa favorevole. Alle Sezioni Unite è richiesto di verificare l’effettiva esistenza della suddetta </em>potestas<em> in capo all’Adunanza Plenaria, quale passaggio obbligato per adempiere al loro ruolo di giudice della giurisdizione, mediante verifica della fondatezza della denuncia di eccesso di potere giurisdizionale. E tuttavia, a questa richiesta non può darsi risposta in questa sede, essendo il ricorso in esame inammissibile, in quanto diretto contro una sentenza che, essendo priva di carattere decisorio, non è immediatamente ricorribile per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La sentenza impugnata, come risulta chiaramente anche dal dispositivo (dove il Consiglio di Stato «</em>enuncia i principi di diritto di cui al punto 6 della motivazione e restituisce per il resto il giudizio alla IV sezione<em>»), è stata emessa a norma dell’art. 99, comma 4, c.p.a., che riconosce all’Adunanza Plenaria la scelta tra la definizione integrale o parziale della controversia – in tale ultimo caso con restituzione del giudizio alla sezione remittente cui spetta di definire i capi residui della controversia che gli sono demandati, restando vincolata al giudicato formatosi sui capi definiti (salvo, in caso di dissenso, ulteriore rimessione motivata all’Adunanza Plenaria) – e, come nella specie, la sola enunciazione di un principio di diritto, con rimessione per il resto alla sezione «</em>alla quale spetterà, evidentemente, il compito di contestualizzare il principio espresso in relazione alle peculiarità del caso sottoposto al suo giudizio<em>» (in tal senso Cons. di Stato, Ad. pi., n. 2 del 2018). Il giudizio di appello non è quindi concluso ma </em>in fieri,<em> spettando alla sezione remittente del Consiglio di Stato, non solo, l’attività di contestualizzazione e sussunzione del principio enunciato dall’Adunanza Plenaria, ai fini della decisione del motivo (nella specie il secondo) che ha dato causa alla rimessione, ma anche la decisione degli eventuali altri motivi di appello (nella specie il terzo e quarto, non esaminati sul presupposto che dovessero esserlo solo nel caso in cui il secondo motivo fosse ritenuto infondato), con esito in astratto potenzialmente favorevole alla ricorrente. La sezione, tra l’altro, ha la facoltà di investire nuovamente l’Adunanza Plenaria, a norma dell’art. 99, comma 3, c.p.a., e di rilevare d’ufficio questioni pregiudiziali prima non emerse.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’assenza del carattere decisorio della sentenza impugnata risulta inoltre evidente se si considera che, nella specie, lo stesso interesse della società ricorrente all’impugnazione potrebbe venir meno nel caso in cui il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico venga (o sia venuto) a cessare qualora il relativo procedimento non si concluda neppure nel termine di 180 giorni decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza dell’Adunanza Plenaria. Secondo il precedente da ultimo richiamato (Ad. Pl. n. 2 del 2018), «</em>l’enunciazione da parte dell’Adunanza plenaria di un principio di diritto nell’esercizio della propria funzione nomofilattica non integra l’applicazione alla vicenda per cui è causa della regula iuris enunciata e non assume quindi i connotati tipicamente decisori che caratterizzano le decisioni idonee a far stato fra le parti con l’autorità della cosa giudicata con gli effetti di cui all’articolo 2909 cod. civ. e di cui all’articolo 395, n. 5), c.p.c. Il vincolo del giudicato può pertanto formarsi unicamente sui capi delle sentenze dell’Adunanza plenaria che definiscono – sia pure parzialmente – una controversia, mentre tale vincolo non può dirsi sussistente a fronte della sola enunciazione di princìpi di diritto la quale richiede – al contrario – un’ulteriore attività di contestualizzazione in relazione alle peculiarità della vicenda di causa che non può non essere demandata alla Sezione remittente<em>». E ciò coerentemente con la giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudicato può formarsi soltanto sui capi della sentenza aventi contenuto decisorio, assolvendo l’interpretazione della norma ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione, e non sui princìpi di diritto autonomamente considerati (Cass. 20 ottobre 2010, n. 21561).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il collegamento tra il giudicato e l’impugnazione delle sentenze è nel sistema, se si considera che la sentenza amministrativa diventa cosa giudicata se non impugnata (anche per cassazione) nei termini di cui all’art. 92 c.p.a.; quindi è arduo sostenere l’immediata impugnabilità della sentenza dell’Adunanza Plenaria che, a norma dell’art. 99, comma 4, c.p.a., enunci un mero principio di diritto, insuscettibile – come si è detto – di costituire giudicato, non essendo «</em>predicabile<em> […] </em>l’ulteriore distinzione in princìpi di diritto di carattere astratto e princìpi maggiormente attinenti alle peculiarità del caso concreto<em>» (Ad. PI. n. 2 del 2018). Alla possibile obiezione che l’attitudine al giudicato non costituisce un elemento imprescindibile ai fini della impugnabilità dei provvedimenti giurisdizionali, essendovi provvedimenti insuscettibili di giudicato e tuttavia impugnabili, si potrebbe replicare che, ai fini dell’accesso alla Corte di cassazione, l’art. 111, comma 7, Cost. – del quale il comma 8 altro non è che una specificazione – da lungo tempo (a partire da Cass., sez. un., 30 luglio 1953, n. 2593) è stato interpretato nel senso che sono ricorribili per cassazione soltanto i provvedimenti aventi contenuto sostanziale di sentenza, in quanto, non solo, definitivi (rispetto ai quali non siano disponibili altri rimedi di tipo impugnatorio o oppositorio), ma anche effettivamente decisori, cioè idonei a definire una controversia su diritti soggettivi e </em>status<em>. La nozione di decisorietà implica un’operazione di riconduzione di una </em>regula iuris<em> al caso concreto, all’esito di un’attività </em>lato sensu<em> interpretativa, qual è quella che dev’essere svolta dal giudice remittente, il quale sia chiamato ad applicare nel caso concreto il principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria, risultando tale attività di contestualizzazione incoercibilmente connaturata a qualunque attività decisionale; il fatto che tale attività di sussunzione del caso concreto nella regola generale sia rimessa al Giudice remittente «</em>è evidentemente connaturato alla stessa scelta legislativa di ammettere che l’Adunanza plenaria non definisca il ricorso ma si limiti a dettare la <em>regula iuris</em> che presiederà alla sua definizione<em>» (Ad. PI. n. 2 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Utili indicazioni provengono anche dall’art. 360, comma 3, c.p.c. che, nel sistema processualcivilistico, esclude l’immediata proponibilità del ricorso per cassazione avverso le sentenze (e i provvedimenti diversi dalla sentenza) «</em>che decidono di questioni insorte<em> [di rito o di merito] </em>senza definire, neppure parzialmente, il giudizio<em>», quali sono le sentenze non definitive che non chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate o emesse a norma dell’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c., cui seguano i provvedimenti per l’ulteriore corso del giudizio medesimo (Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25774). La citata norma fa riferimento alla nozione di «</em>giudizio<em>» come procedimento devoluto al giudice di appello (Cass., sez. un., 10 febbraio 2017, n. 3556), il quale non può dirsi definito (neppure parzialmente) fino a quando il giudice non abbia rigettato o accolto l’impugnazione (anche se in parte), pronunciando sentenza definitiva o non definitiva su domanda o parziale. Ad esempio, non definisce neppure parzialmente il giudizio (e quindi non è immediatamente ricorribile per cassazione) la statuizione </em>in jure<em> con la quale il giudice si limiti a interpretare la disciplina urbanistica e a qualificare giuridicamente un immobile (Cass. 12 maggio 2017, n. 11916), ovvero a rigettare l’eccezione di prescrizione del diritto azionato e disponga la prosecuzione del processo (Cass., sez. un., 4 febbraio 2016, n. 2263); invece ha carattere decisorio e valore di giudicato la sentenza non definitiva relativa alla fase rescindente pronunciata dal Consiglio di Stato in sede di revocazione, che è pertanto ricorribile per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione (Cass., sez. un., 30 agosto 2019, n. 21869).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Una conclusione diversa da quella condivisa dal Collegio non potrebbe essere sostenuta valorizzando l’interesse ad impugnare della parte che si veda pregiudicata, seppur in astratto e potenzialmente, dal principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria (in particolare, per le particolari modalità applicative dello stesso), in vista della successiva definizione del giudizio di appello da parte della sezione remittente. Premesso che l’interesse all’impugnazione, quale articolazione dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., non è esercitabile liberamente ma nelle forme e nei modi regolati dalla legge, coerentemente con quanto disposto dall’art. 111, comma 1, della Costituzione, è opportuno evidenziare la peculiarità del ricorso per eccesso di potere giurisdizionale, con il quale non si contesta una violazione delle regole di riparto della giurisdizione, ma il modo di esercizio della giurisdizione amministrativa, sotto il profilo dell’indebita invasione delle attribuzioni altrui, mediante esercizio di una</em> potestas decidendi<em> riservata ad altri giudici, alla pubblica amministrazione e, come nella specie, al legislatore. Una logica conseguenza di questa peculiarità è che la fattispecie dell’eccesso di potere giurisdizionale è predicabile solo rispetto alle sentenze dell’organo di vertice della giurisdizione amministrativa che, definendo il giudizio di appello mediante accoglimento o rigetto dell’impugnazione e dettando la regola del caso concreto, siano per questo in concreto suscettibili di arrecare un </em>vulnus<em> all’integrità delle attribuzioni di altri poteri (è significativo che Cass., sez. un., 16 gennaio 2019, n. 1034 e 17 aprile 2019, n. 10770, abbiano escluso la configurabilità di un giudicato implicito sulla giurisdizione nella sentenza della Corte dei conti in primo grado e riconosciuto la proponibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa a conclusione del giudizio d’appello, soltanto quest’ultima essendo censurabile per eccesso di potere giurisdizionale, in quanto espressione di un </em>dictum<em> definitivo del plesso giurisdizionale di riferimento, suscettibile in concreto di arrecare il </em>vulnus<em> denunciato).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le censure proposte nel ricorso in esame potranno essere indirizzate, se del caso, verso la sentenza della sezione remittente a conclusione del giudizio di appello qualora, ad avviso della ricorrente, restino confermate (in tutto o in parte) le doglianze già formulate nei confronti della sentenza dell’Adunanza Plenaria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In conclusione, il ricorso in esame per motivi inerenti alla giurisdizione, sotto il profilo dell’eccesso di potere giurisdizionale, non è ammissibile avverso la sentenza resa, nell’esercizio della propria funzione nomofìlattica, dall’Adunanza Plenaria che, a norma dell’art. 99, comma 4, c.p.a., abbia enunciato uno o più principi di diritto e restituito per il resto il giudizio alla sezione remittente, non avendo detta statuizione carattere decisorio e definitorio, neppure parzialmente, del giudizio di appello, il quale implica un’operazione di riconduzione della </em>regula iuris<em> al caso concreto che è rimessa alla sezione remittente. Sussistono le condizioni di legge per compensare integralmente le spese, in considerazione della novità e complessità delle questioni trattate.</em></p>