<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 25 novembre 2020 n. 249</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), inserito dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Firenze.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– La questione non è fondata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Questa Corte, con la sentenza n. 184 del 2015, ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, sollevata, con riguardo alla peculiare posizione dell’imputato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, nella parte in cui la medesima norma prevedeva che il processo penale si considerasse iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato avesse avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, avesse comunque avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La sentenza n. 184 del 2015 ha avvertito che, una volta penetrato nel nostro ordinamento, per effetto della giurisprudenza europea e con valore di fonte sovra-legislativa, il principio che collega alla lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 6 della CEDU, una pretesa riparatoria nei confronti dello Stato, viene da sé che l’equa riparazione abbia ad oggetto non soltanto la fase che la normativa nazionale qualifica “processo”, ma anche le attività procedimentali che la precedono, ove idonee a determinare il danno al cui ristoro è preposta l’azione. Determinante è stato ritenuto il richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, in più pronunce, ha dedotto dall’art. 6 della CEDU la regola che impone, ai fini dell’indennizzo conseguente all’inosservanza del termine di ragionevole durata del processo penale, di tenere conto del periodo che segue la comunicazione ufficiale, proveniente dall’autorità competente, dell’accusa di avere commesso un reato. La sentenza n. 184 del 2015 ha quindi reputato tale approdo ermeneutico del tutto consono alle finalità perseguite dal giudizio di riparazione e sollecitate dall’osservanza del canone del giusto processo in ambito convenzionale. In altri termini, se si individua nella CEDU il parametro interposto con cui confrontare la legittimità delle scelte legislative in punto di equa riparazione, la nozione di “processo” si rende per ciò stesso autonoma dalle ripartizioni per fasi dell’attività giudiziaria finalizzata all’accertamento dei reati, per come viene disegnata dal legislatore nazionale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La violazione del diritto a una celere definizione del processo penale, ex art. 6 CEDU, giustifica, così, la pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare il patimento cagionato dall’eccessiva pendenza dell’accusa, quando la stessa sia stata espressa per mezzo di un atto dell’autorità giudiziaria e abbia in tal modo acquisito una consistenza tale da ripercuotersi significativamente sulla vita dell’indagato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte ha ancora avuto modo di evidenziare nella sentenza n. 184 del 2015 che la discrezionalità legislativa riconosciuta agli Stati nella determinazione di quanto spetta a titolo di equa riparazione deve comunque manifestarsi nel rispetto dei principi cardine che la Corte europea trae dall’art. 6 della CEDU e senza incidere sull’an del diritto. In tale prospettiva, questa Corte ha accertato che l’art. 2, comma 2-bis, con riferimento alla posizione dell’imputato, non osservava nessuna di tali condizioni. Non la prima, perché il legislatore italiano si è svincolato dalla generale nozione di “processo” penale rilevante ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, tale da abbracciare anche parte delle indagini preliminari, per ripiegare sulla qualificazione nazionale di tale istituto. Non la seconda, giacché è ben possibile che il superamento del termine ragionevole, da cui dipende il diritto alla riparazione garantito dalla CEDU, derivi soltanto aggiungendo il periodo di svolgimento delle indagini al computo della durata del successivo processo penale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Pur dopo aver ristabilito la conformità a Costituzione e, mediatamente, alla CEDU dell’art. 2, comma 2-bis, nel senso di considerare iniziato il processo penale già quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, abbia avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico, la sentenza n. 184 del 2015 ha precisato, peraltro, come persista la discrezionalità del giudice dell’equa riparazione nel verificare, alla luce dei fattori indicati dalla Corte EDU e dal legislatore, se l’eventuale inosservanza dei termini di legge comporti o meno violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– Con la sentenza n. 36 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui tale norma determinava la durata considerata ragionevole del processo di primo grado di equa riparazione, questa Corte ha ravvisato poi nella stessa legge “Pinto” l’intento del legislatore di sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>E ancora, in altre pronunce, questa Corte ha affermato che la discrezionalità che la CEDU accorda allo Stato aderente nella scelta del rimedio interno per far fronte alla violazione della ragionevole durata del processo, in particolare ove si opti per quello risarcitorio, incontra il limite dell’effettività (sentenze n. 88 del 2018 e n. 30 del 2014).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.– La questione posta dalla Corte d’appello di Firenze investe, allora, la previsione legale di carattere generale con cui l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 ha provveduto a determinare la congruità del termine di durata del processo penale per la persona offesa dal reato, considerandolo iniziato soltanto da quando la stessa assume la qualità di parte civile. Occorre perciò verificare la legittimità di tale scelta legislativa interna in tema di equa riparazione, alla luce del parametro interposto individuato nella CEDU, analizzando gli interessi di cui è portatrice la persona offesa dal reato già prima del momento in cui l’ordinamento nazionale attribuisce ad essa la qualità di «parte civile», e dunque avendo riguardo alle attività procedimentali che precedono tale momento, ove comunque idonee a determinare il danno per l’irragionevole protrazione del processo penale secondo il canone di ambito convenzionale, al cui ristoro è preposta l’azione risarcitoria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.– La costante giurisprudenza di questa Corte guarda alla persona offesa dal reato nel processo penale come soggetto portatore di un duplice interesse: quello al risarcimento del danno, che si esercita mediante la costituzione di parte civile, e quello all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, che si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero (sentenza n. 23 del 2015).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.1.– L’assetto generale del processo, posto a base del codice di procedura penale del 1988, è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendosi rivelata prevalente, nel disegno del legislatore, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione dei processi rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di avvalersi del processo penale ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica (sentenze n. 353 del 1994 e n. 192 del 1991).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.2.– L’intervento nel processo penale della parte civile trova, invero, giustificazione, oltre che nella necessità di tutelare un legittimo interesse della persona offesa dal reato, nell’unicità del fatto storico, valutabile sotto il duplice profilo dell’illiceità penale e dell’illiceità civile, realizzando così non solo un’esigenza di economia dei giudizi, ma anche evitando un possibile contrasto di pronunce. Tuttavia, l’azione per il risarcimento o le restituzioni ben può avere ab initio una propria autonomia nella naturale sede del giudizio civile, con un iter del tutto indipendente rispetto al giudizio penale, senza che sussistano quei condizionamenti che, viceversa, la legge impone nel caso in cui si sia preferito esercitare l’azione civile nell’ambito del procedimento penale, e che sono giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato (sentenza n. 532 del 1995).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.3.– Il disegno del legislatore italiano del codice di procedura penale del 1988, per come costantemente ricostruito da questa Corte, guarda, pertanto, alla persona offesa, quale «soggetto eventuale del procedimento o del processo», e non quale parte principale e necessaria (ordinanze n. 254 del 2011 e n. 339 del 2008). Il diverso risalto attribuito agli interessi della parte civile e dell’imputato nel sistema processuale penale viene giustificato dalla constatazione che alla prima è comunque assicurato un diretto e incondizionato ristoro dei propri diritti attraverso l’azione sempre esercitabile in sede propria (sentenze n. 217 del 2009 e n. 168 del 2006). Il titolare dell’azione per il risarcimento del danno o per le restituzioni da reato, può, dunque, chiedere tutela nel processo civile del tutto indipendentemente dal giudizio penale, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli (sentenza n. 94 del 1996; ordinanza n. 424 del 1998).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.4.– Così si sono ritenute legittime sia l’attribuzione alla persona offesa di poteri circoscritti rispetto a quelli riconosciuti al pubblico ministero o all’indagato, sia la previsione di limiti alla possibilità per la “potenziale” parte civile di far valere le sue ragioni nel giudizio penale, in maniera da precludere l’esercizio dell’azione di danno prima e al di fuori della fase processuale in senso proprio, non potendosi dare la costituzione di “parte” se non allorché sia insorto un vero e proprio rapporto processuale. Né rileverebbe in senso opposto a tali conclusioni – che lasciano al legislatore la scelta della configurazione della tutela civilistica in vista degli scopi propri del processo penale – l’esigenza di tutelare una eventuale esplicita manifestazione preventiva dell’intenzione del danneggiato di costituirsi parte civile anteriormente all’esercizio dell’azione penale, restando pur sempre intatta anche in tale evenienza la sua facoltà di esercitare l’azione di risarcimento nella sede civile (sentenza n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.– Il dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, sollevato dalla Corte d’appello di Firenze con riguardo al dies a quo del termine di durata del processo penale per la persona offesa dal reato, muove dall’interpretazione emersa nella sentenza Arnoldi della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale, nel diritto italiano, la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, ai fini dell’osservanza del canone del giusto processo in ambito convenzionale, da quella della parte civile. In questa sentenza, la Corte EDU ha ribadito che l’applicabilità dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione non può dipendere dal riconoscimento dello status formale di «parte» ad opera del diritto nazionale, che lo spirito della Convenzione impone di non intendere il termine «contestazione» in un’accezione troppo tecnica e di darne una definizione materiale piuttosto che formale, e che non è determinante per la tutela convenzionale la data del deposito della domanda di risarcimento. Ciò che piuttosto è apparso decisivo alla Corte EDU per l’operatività dell’art 6, paragrafo 1, è stato verificare: a) se, nel caso deciso, la ricorrente avesse inteso, in sostanza, ottenere la tutela del suo diritto civile o «far valere il suo diritto a una riparazione» nell’ambito del procedimento penale; b) se l’esito della fase delle indagini preliminari fosse stato determinante per il «diritto di carattere civile in causa».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La predetta sentenza ha comunque riaffermato che «la Convenzione non sancisce né il diritto (...) alla “vendetta privata”, né l’actio popularis [e che] perciò, il diritto di far perseguire o condannare penalmente terze persone non può essere ammesso di per sé», sicché nell’ipotesi in cui la persona presenti denuncia con finalità puramente repressive l’art. 6 non trova applicazione. Viceversa, nella vicenda esaminata dalla Corte EDU, era riscontrabile come la ricorrente già con la denuncia presentata avesse manifestato la volontà di ottenere tutela di un suo diritto civile e di chiedere poi, al momento opportuno, una riparazione per la correlata violazione di quel diritto di carattere civile di cui sosteneva di essere titolare. D’altro canto, tale sentenza, proprio tenendo conto delle peculiarità del sistema giuridico interno italiano, ha ritenuto l’art. 6, paragrafo 1, applicabile alla parte lesa che, ancor prima dell’udienza preliminare, nella quale costituirsi parte civile, abbia esercitato quei diritti e facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge e consistenti nel ricevere informazioni, sollecitare il pubblico ministero, nominare un rappresentante, presentare memorie ed indicare elementi di prova, condurre indagini, opporsi alla richiesta di archiviazione e ricorrere per cassazione avverso la decisione di archiviazione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.– Osserva questa Corte che le esigenze di tutela degli interessi della persona offesa, contemplate nella più volte citata sentenza della Corte EDU, in correlazione alla peculiarità del caso concreto, non depongono comunque per la illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e al parametro interposto di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, della previsione legislativa di carattere generale dettata dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui la norma censurata, ai fini del computo della durata ragionevole del processo penale, considera iniziato quest’ultimo, per la persona offesa, con l’assunzione della qualità di parte civile.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>9.– Per ravvisare il contrasto, denunciato dalla Corte d’appello di Firenze, tra l’indicato art. 2, comma 2-bis, e la richiamata norma interposta, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., e per postulare, perciò, il computo complessivo del termine di ragionevole durata, con decorrenza anticipata rispetto a quanto stabilito dal medesimo art. 2, comma 2-bis, occorrerebbe verificare la necessaria, e non occasionale, identità tra il diritto di carattere civile spettante alla persona offesa già durante il periodo di svolgimento delle indagini preliminari e la posizione soggettiva di carattere privato da essa azionata a seguito della costituzione di parte civile nel processo penale, identità da cui discenderebbe, perciò, sotto il profilo dell’effettività del pregiudizio subito, altresì la necessaria unitarietà dell’interesse a che il complessivo giudizio penale si concluda in termini ragionevoli.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.– L’ipotizzato procedimento inferenziale, che porti in via generale ed astratta, sotto l’aspetto della eccessiva durata, alla omogeneizzazione ed al cumulo sostanziale tra il segmento del processo in cui la persona offesa si sia resa attiva durante le indagini preliminari e il segmento conseguente poi alla costituzione di parte civile, si rivela erroneo per svariate ragioni.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.1.– Deve considerarsi innanzitutto come la persona offesa dal reato, cui fa riferimento l’art. 90 del codice di procedura penale, e il soggetto al quale il reato ha recato danno, contemplato dall’art. 74 cod. proc. pen. ai fini della legittimazione all’azione civile, non sono immancabilmente coincidenti. La persona offesa è soltanto il titolare dell’interesse direttamente protetto dalla norma penale incriminatrice, e quindi la sua individuazione è correlata alla struttura del reato, mentre l’individuazione del danneggiato riflette le conseguenze privatistiche dell’illecito penale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.2.– In capo alla persona offesa si concentrano, in realtà, interessi di natura duplice e non omogenea: un interesse è volto all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, e si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero; un altro interesse è diretto al risarcimento del danno e si esercita mediante la costituzione di parte civile.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le facoltà e i diritti, di cui, in particolare, agli artt. 90, 90-bis, 101, 336, 341, 360, 369, 377, 394, 408, 410, 410-bis cod. proc. pen., sono attribuiti dalla legge alla persona offesa e non al danneggiato, e sono comunque volti a coadiuvare il pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale, ovvero a conseguire l’accertamento del fatto-reato e la giusta punizione del colpevole. Non si tratta, quindi, di poteri e facoltà funzionali alla tutela anticipata del diritto potenziale riconosciuto alla parte civile e il loro esercizio non deve perciò implicare una retrodatazione della decorrenza del periodo dei patimenti connessi all’accertamento processuale del credito risarcitorio da reato. Viceversa, solo dopo che sia stata esercitata l’azione penale, nel sistema del codice di procedura penale italiano emerge la primarietà della parte civile costituita, cui vengono attribuiti poteri processuali finalizzati al soddisfacimento della domanda risarcitoria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La valenza strettamente personale, e non patrimoniale, della qualità della persona offesa trae significativa conferma dal dettato del comma 3 dell’art. 90 cod. proc. pen., il quale attribuisce ai «prossimi congiunti» (e non agli eredi) le facoltà e i diritti ad essa spettanti ove sia deceduta in conseguenza del reato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.3.– I diritti e le facoltà riconosciuti dal codice di procedura penale alla persona offesa nel corso delle indagini preliminari, allo scopo di far perseguire o condannare l’indagato, e consistenti, indicativamente, nel presentare memorie, nell’indicare elementi di prova, nel nominare un difensore, nel proporre querela, nell’interloquire sulla proroga delle indagini o sulla richiesta di archiviazione, risultano, pertanto, estranei di norma all’ambito del «diritto di carattere civile in causa» di cui all’art. 6 della Convenzione. Del resto, non può sottacersi che la stessa condizione cui è subordinata la possibilità di costituzione della parte civile – e cioè l’esercizio dell’azione penale – è pur sempre rimessa all’iniziativa del pubblico ministero; con la precisazione che lo stesso decreto del giudice, che accolga la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero e respinga l’opposizione proposta dalla persona offesa, non è suscettibile di impugnazione se non nei soli casi di mancato rispetto delle regole poste a garanzia del contraddittorio formale, non potendo poi essere oggetto di censura le valutazioni poste a fondamento dell’ordinanza di archiviazione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.4.– Il sistema italiano vigente, giacché ispirato all’idea della separazione dei giudizi, scongiura ogni automatica incidenza determinante dell’esito delle indagini preliminari, semmai di eccessiva durata, sul «diritto di carattere civile» del danneggiato da reato, sempre tutelabile con la proposizione dell’azione restitutoria o risarcitoria innanzi al giudice civile. L’interferenza degli approdi del processo penale sulla pretesa civile di danno, ai sensi degli artt. 75 e 652 cod. proc. pen., discende, piuttosto, unicamente dalla scelta che il danneggiato compie proprio mediante la costituzione di parte civile, la quale configura l’unico modo di esercizio dell’azione civile nel processo penale stesso.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.5.– La soluzione adottata dal legislatore nazionale con la previsione legale di carattere generale dettata dall’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, secondo cui, ai fini del computo del termine ragionevole, il processo penale si considera iniziato soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile, si rivela perciò coerente con la ricostruzione sistematica che, prima e al di fuori della formale instaurazione del rapporto processuale, nega al danneggiato la facoltà di far valere in sede penale, sia pur soltanto in senso sostanziale, il «diritto di carattere civile» al risarcimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>11.– Esulano, peraltro, dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del diritto al rispetto del termine ragionevole del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, trovando appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi, i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>12.– Per le considerazioni che precedono, la questione deve essere dichiarata non fondata.</em></p>