<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 10 luglio 2019 n. 169</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La questione è fondata per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, restando assorbita ogni altra censura. Con la recente sentenza n. 34 del 2019, la Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di norma analoga a quella ora in esame (art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «</em>Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria<em>», convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come successivamente modificato): norma che, con riferimento al processo amministrativo, prevedeva che la mancata presentazione della «</em>istanza di prelievo<em>» costituisse motivo di improponibilità della domanda di indennizzo ex “</em>legge Pinto<em>”. In quel caso si è osservato che, per «</em>costante giurisprudenza della Corte EDU<em>» (il riferimento va appunto alle ricordate sentenze Daddi e Olivieri, ma anche alla sentenza della Grande Camera 29 marzo 2006, Scordino contro Italia), i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma solo se “</em>effettivi<em>” e, cioè, solo se e nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente. Alternativamente alla durata ragionevole del processo, il rimedio interno deve comunque allora garantire l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale. E, in applicazione di tali principi, la Corte ha conseguentemente affermato che «</em>l’istanza di prelievo<em> […] </em>non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente<em> […], </em>con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione”<em> </em>(che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata<em>». Le stesse considerazioni valgono ora per l’istanza di accelerazione del processo penale. Nel contesto della disposizione ora censurata, la suddetta istanza, non diversamente dall’istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce infatti un adempimento necessario ma una mera facoltà dell’imputato e non ha – ciò che è comunque di per sé decisivo − efficacia effettivamente acceleratoria del processo. Atteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di relativa, ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente. La mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo presupposto può eventualmente assumere rilievo (come indice di sopravvenuta carenza o non serietà dell’interesse al processo del richiedente) ai fini della determinazione del </em>quantum<em>dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non può condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della relativa, ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’art. 117, primo comma, Cost. Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma denunciata.</em></p>