Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 29 luglio 2021 n. 21763
PRINCIPIO DI DIRITTO
Salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione normativa specifica, che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se sia stata disposta, è possibile proporre subito istanza di prosecuzione in virtù dell’art. 297 c.p.c., il cui conseguente provvedimento giudiziale è assoggettabile a regolamento necessario di competenza), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
La questione pregiudiziale dell’amrnissibilità del regolamento di competenza.
- Rileva il collegio che occorre necessariamente valutare, in via pregiudiziale, se il ricorso proposto ai sensi dell’art. 42 c.p.c. possa ritenersi o meno ammissibile (profilo, peraltro, non preso in considerazione da alcuna delle parti costituite nei relativi atti difensivi né dal P.G. nelle sue conclusioni, ma che – ovviamente – è assoggettabile a rilievo d’ufficio) .
E’ da premettere che – secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte – il provvedimento di sospensione del processo, adottato ai sensi dell’art. 295 c.p.c., pur avendo la forma dell’ordinanza, non è revocabile dal giudice che lo ha pronunciato, poiché tale revocabilità confliggerebbe con la previsione della sua impugnabilità mediante regolamento necessario di competenza, con la conseguenza che, ove la parte anziché proporre il regolamento nel termine previsto dall’art. 47, secondo comma, c.p.c., abbia presentato istanza di revoca dell’ordinanza di sospensione al giudice che l’aveva emanata e questi abbia emesso un provvedimento meramente confermativo di quello precedente, la mancata impugnazione della prima ordinanza determina l’inammissibilità del regolamento proposto avverso il secondo provvedimento, risultando altrimenti eluso – mediante la inammissibile proposizione di un’istanza di revoca – il termine perentorio dalla norma stessa previsto (cfr. Cass. n. 8748/2004, n. 17747/2013 e n. 17129/2015 per tutte).
Come già posto in evidenza, il collegio rimettente ha consapevolmente applicato il principio espresso con l’ordinanza della Sezione VI-1 n. 27958/2013, ad avviso della quale la specialità della norma processuale annmissiva del regolamento necessario di competenza – che la giurisprudenza consolidata ritiene insuscettibile di applicazione analogica oltre i limiti testuali, in una fattispecie connotata da margini di discrezionalità del giudice – non ne preclude simmetricamente l’applicazione estensiva ad una diversa ipotesi, connotata invece dal vincolo di necessità della tempestiva riassunzione, quale quella relativa alla fattispecie speculare del rigetto dell’istanza di riassunzione formulata ai sensi dell’art. 297 c.p.c., a cui fa riscontro il diritto della parte a non subire un irreparabile effetto estintivo del giudizio.
E ciò non senza aggiungere l’ulteriore rilievo della rispondenza della soluzione positiva al principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), che impone il ricorso ad un rimedio processuale avverso un’ipotesi di abnorme quiescenza (al limite, sine die) del processo, non più giustificata dall’esigenza di un accertamento pregiudiziale. Queste Sezioni unite ritengono che l’orientamento estensivo della proponibilità del regolamento (necessario) di competenza predicato dalla citata ordinanza n. 27958/2013 possa essere condiviso; tuttavia, non risulta applicabile nella fattispecie concretamente dedotta in giudizio.
Ed invero, con riferimento alla vicenda processuale in esame, è rimasto univocamente accertato che il Tribunale di Ancona aveva, nel giudizio pregiudicato, respinto una prima istanza di prosecuzione (a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 21 luglio 2017) e confermato la sospensione tenuto conto che la decisione di primo grado del giudizio pregiudicante risultava impugnata dinanzi alla locale Corte d’appello ( con attribuzione del n. 376/2017 r.g.). Successivamente, però, era stata reiterata l’istanza di prosecuzione del giudizio sospeso, motivata sulla circostanza che l’appello nel giudizio pregiudiziale era stato proposto nei confronti di tutte le parti, tranne che avverso i proprietari danneggiati, opposti nel giudizio pregiudicato (che avevano visto accolta la loro pretesa risarcitoria), circostanza dalla quale poteva presumersi “che l’impugnazione fosse stata proposta per motivi estranei all’oggetto del “giudizio sospeso” “il che avrebbe fatto venir meno i presupposti della sospensione”.
Il Tribunale di Ancona, senza fissare l’udienza di comparizione delle parti (e, quindi, in assenza di preventiva instaurazione del contraddittorio), rigettava – come si è ricordato – l’istanza con provvedimento del 12 novembre 2019, oggetto di impugnazione con il regolamento di competenza che ci occupa.
Quindi, come è possibile evincere dall’evoluzione in concreto dello svolgimento del giudizio, la nuova (seconda) istanza di prosecuzione da parte della Lattanzio è stata proposta in conseguenza di questa ulteriore situazione processuale che era venuta ad emergere, rispetto alla quale il Tribunale di Ancona, con il citato provvedimento, si è determinato nel senso del suo rigetto, non fissando l’udienza di prosecuzione del giudizio “pregiudicato”, ribadendo, nella sintetica motivazione a supporto, che non era venuta meno la situazione pregiudiziale sottesa all’adozione dell’ordinanza di sospensione ex art. 295 c.p.c., ovvero che non si era verificato il passaggio in giudicato della decisione relativa ai giudizi iscritti ai nn. 40/2012 e 2080/2012 che avrebbe dovuto riguardare tutte le parti coinvolte nel giudizio “pregiudicato”, non essendo, altresì, pertinente il richiamo all’art. 337 c.p.c., posto che la sentenza di primo grado non era intervenuta antecedentemente al provvedimento di sospensione ma era stata emessa nelle more. Quindi, si verte propriamente nel caso del rigetto di un’istanza formulata ai sensi dell’art. 297 c.p.c. e non di un’istanza di revoca della disposta precedente sospensione.
Orbene, dal rappresentato sviluppo processuale e pur aderendosi all’interpretazione estensiva conseguente alla richiamata ordinanza di questa Corte n. 27958/2013 (valorizzata, sul piano meramente generale, con l’ordinanza di rimessione), emerge all’evidenza che l’odierna ricorrente avrebbe avuto l’onere di impugnare tempestivamente con regolamento di competenza il primo provvedimento di diniego dell’istanza di prosecuzione del giudizio formulata ai sensi dell’art. 297 c.p.c., non potendo avvalersi di tale strumento avverso il secondo provvedimento di rigetto della richiesta di fissazione dell’udienza di prosecuzione del giudizio ancora ritenuto pregiudicato e che non avrebbe – secondo l’avviso del Tribunale di Ancona – potuto essere definito prima del passaggio in giudicato della sentenza da adottare nel giudizio pregiudiziale (ovvero pregiudicante).
E ciò senza tralasciare di considerare che lo stesso Tribunale, ove avesse tenuto conto della mancata impugnazione del capo di sentenza che aveva statuito sul rapporto pregiudiziale (da cui il suo sopravvenuto passaggio in giudicato), poiché l’appello aveva investito altri capi non dipendenti dalla decisione sul predetto rapporto, avrebbe dovuto ritenere come legittimamente proposta ed accoglibile l’istanza di riassunzione ex art. 297 c.p.c., non permanendo più le condizioni per l’applicabilità (pur se qualificata, in generale, necessaria) della sospensione di cui all’art. 295 c.p.c. .
Infatti, nel caso di specie, l’appello era stato limitato solo ai capi della sentenza emessa in relazione al giudizio ritenuto pregiudiziale che involgevano le domande attinenti all’operatività o meno della garanzia assicurativa (per la dichiarazione di manleva a carico della compagnia assicuratrice), mentre con riferimento alla statuita fondatezza – con la sentenza di primo grado – dell’azione risarcitoria in favore dei proprietari Trevi dell’immobile locato alla Lattanzio contro il proprietario (De Cesare Angelo) della sovrastante terrazza dalla quale si erano originate le infiltrazioni non era stato formulato appello (con il conseguente passaggio in giudicato della relativa pronuncia), ragion per cui non si poneva più una questione di “pregiudizialità tecnica” circa il rapporto tra un giudizio (rilevato come) pregiudicante e un giudizio pregiudicato ai fini della persistente operatività della sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. (con la derivante accoglibilità dell’istanza di prosecuzione di cui all’art. 297 c.p.c. del giudizio inizialmente ritenuto dipendente dalla definizione di quello pregiudiziale).
Ma, indipendentemente da queste ultime osservazioni, pur volendo considerare, in via generale, ammissibile il regolamento di competenza (in conformità alla ricordata ordinanza n. 27958/2013) avverso il provvedimento di diniego dell’istanza avanzata ai sensi dell’art. 297 c.p.c., tuttavia, qualora dopo un primo provvedimento del genere ne venga reiterato un altro, conseguente ad una successiva richiesta di fissazione della nuova udienza per la sospensione (basata sugli stessi presupposti), la mancata proposizione del regolamento avverso la prima ordinanza consuma il potere di impugnazione con tale mezzo non esercitato nel termine contemplato dall’art. 47, comma 2, c.p.c. e rende, perciò, inammissibile la formulazione dello stesso regolamento di competenza avverso il successivo provvedimento di rigetto dell’istanza di prosecuzione del giudizio dipendente (con la correlata persistenza della sospensione ex art. 295 c.p.c. preventivamente disposta).
Pertanto, il proposto regolamento di competenza va dichiarato, nel caso concreto, inammissibile. 2. Ciò, nondimeno, ritengono queste Sezioni unite che – pur a fronte della ritenuta inammissibilità del regolamento di competenza – sussistono indubbie rilevanti ragioni che inducono ad enunciare il principio di diritto sulla questione di massima di particolare importanza prospettata con l’ordinanza di rimessione n. 362/2021 della Sezione VI-3 (in relazione al disposto di cui all’art. 363, comma 3, c.p.c.), con la quale si è invocata una possibile rimeditazione sulla sentenza delle Sezioni unite n. 10027 del 2012 (sull’interpretazione dell’endiadi composta dagli artt. 295 e 297 c.p.c.), la cui portata, oltretutto, non è stata pienamente condivisa nella successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, la già citata recente Cass. n. 17623/2020, ord.), con la quale è stato affermato che pur essendo solo facoltativa la sospensione del processo ex art. 337, comma 2, c.p.c., perché può essere disposta in presenza di un rapporto di pregiudizialità in senso lato tra la causa pregiudicante e quella pregiudicata, senza che la statuizione assunta nella prima abbia effetto di giudicato nella seconda, né richiede che le parti dei due giudizi siano identiche, quella disciplinata dall’art. 295 c.p.c. è sempre necessaria (e va mantenuta fino alla formazione del predetto giudicato), essendo, per l’appunto, finalizzata ad evitare il contrasto tra giudicati nei casi di pregiudizialità (tecnica) in senso stretto (e presuppone altresì l’identità delle parti dei procedimenti).
– La risoluzione della questione di massima importanza ai fini di cui all’art. 363, comma 3, c.p.c.
1) Quadro normativo e determinazione della questione.
Prima di dare conto del quadro normativo ci. riferimento, appare opportuno – da un punto di vista meramente metodologico – operare qualche riflessione di ordine generale sulla relazione che corre tra le disposizioni che regolano la • sospensione necessaria (art. 295 c.p.c., la cui rubrica recita testualmente proprio così) e quella facoltativa (art. 337, comma 2, c.p.c.). Con esse il legislatore del 1942 ha generalizzato disposizioni contenute nel codice previgente, non predisponendo però un adeguato coordinamento tra quanto previsto dall’una, quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo (art. 337, comma 2, c.p.c.), e quanto disposto dall’altra, quando il giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa (art. 295 c.p.c.) e circa l’autorità (non della sentenza, ma) del giudicato (art. 2909 c.c.).
Merita di essere richiamato, allo stesso fine e ancorché solo per cenni, anche il panorama legislativo europeo e internazionale in tema di sospensione ed effetti sul giudicato. In particolare, nel modello accolto dal codice di procedura civile tedesco (ZPO) è stato recepito l’istituto della sospensione facoltativa; in quello francese, l’autorità di cosa giudicata sorge non appena è stata emanata la sentenza di primo grado, sebbene l’impugnazione ne sospende l’efficacia e, se ha esito vittorioso, può annullarla; infine, nel sistema anglo-americano si è da tempo stabilito che una questione (issue), la quale sia stata dibattuta in un processo e risolta dal relativo giudizio (judgment), non possa più essere discussa in un altro processo anche se basato su una diversa cause of action, in quanto deve assumersi come valida la soluzione già data nel precedente processo (collateral estoppel). La sospensione necessaria prevista dall’art. 295 c.p.c. stabilisce che “il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.
Nel testo vigente, così come scstituito dalVart. 35 della legge 26 novembre 1990, n. 353, il legislatore ha inteso attenuare il riferimento al nesso di pregiudizialità penale in consonanza con l’autonomia voluta dal nuovo codice di procedura penale per le azioni civili restitutorie e risarcitorie, eliminandone il relativo riferimento nonché quello relativo al nesso di pregiudizialità amministrativa, esprimendo così, più in generale, il disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo in quanto tale.
Questo radicale mutamento di prospettiva ha condotto sia la dottrina che la giurisprudenza a limitare le ipotesi di sospensione necessaria ai soli casi di pregiudizialità tecnica ed a quelli in cui sia la legge a prevedere espressamente che il giudicato di una causa si imponga sull’altra, determinando, per un verso, un ridimensionamento dell’istituto della sospensione e un’attenuazione della rilevanza del principio dell’uniformità del giudicato e, per altro verso, l’enfatizzazione della rilevanza del principio di economia processuale declinato nella prospettiva della ragionevole durata del processo (artt. 6 CEDU e 111, comma 2, Cost.) e di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.). La disposizione normativa di cui all’art. 295 c.p.c. introduce – come è noto – una vicenda anomala o di crisi del processo di cognizione che si pone in via autonoma al di fuori delle ipotesi in cui la sospensione è esplicitamente prevista dalla legge (cfr., ad es., il disposto dell’art. 75, comma 3, c.p.p., sul cui ambito di interpretazione v. la recente sentenza delle Sezioni unite n. i 13661/2019) e che influisce sull’andamento normale del processo, cui imprime un arresto dello svolgimento.
Il successivo art. 297 c.p.c. stabilisce i termini di fissazione della nuova udienza “in cui il processo deve proseguire” dopo la sospensione, prevedendo che, se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l’udienza (e, nel caso di sospensione necessaria di norma il termine non viene mai fissato), le parti devono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di tre mesi “dalla cessazione della causa di sospensione o dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa, di cui all’art. 295”.Accanto alla sospensione necessaria (così definita dalla rubrica dell’art. 295 c.p.c.), vengono disciplinate, per quanto qui rileva, due ulteriori ipotesi di sospensione: quella volontaria, concordata su istanza di tutte le parti di cui all’art. 296 c.p.c., che può avere una durata massima di “tre mesi” e può essere disposta “per una sola volta” e quella cd. facoltativa prevista dal già richiamato art. 337, comma 2, c.p.c., secondo il quale “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo” può farsi luogo alla sospensione “se tale sentenza è impugnata”.
Per completezza, giova segnalare che nel codice di rito vengono disciplinate altre ipotesi di sospensione, tra quali, in via principale, quelle previste: dall’art. 279, comma 4, c.p.c., che legittima la sospensione del gravame “sino alla definizione del giudizio di appello” contro le sentenze non definitive di cui al comma 2, n. 4 dello stesso articolo e in caso di riforma; dall’art. 129-bis, comma 1, disp. att. c.p.c., che consente, a sua volta, la sospensione del processo “sino alla definizione del giudizio di cassazione”; dall’art. 398, comma 4, c.p.c., il quale consente la sospensione “fino alla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla revocazione”; dagli artt. 624 e 624-bis c.p.c., i quali dettano la disciplina della sospensione nel processo di esecuzione; dall’art. 819-bis c.p.c. in tema di procedimento arbitrale.
L’art. 42 c.p.c. estende il rimedio del regolamento necessario di competenza ai provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., strumento di tutela introdotto nel 1990 e motivato dal disfavore manifestato dal legislatore per l’effetto della sospensione che blocca il corso del processo e lo pone in stato di quiescenza, onde l’opportunità di un immediato controllo, tramite impugnazione, sull’esistenza dei presupposti in diritto della sola sospensione riconducibile alla previsione stricto sensu di cui all’art. 295, ritenendosi rigorosamente circoscritto alle fattispecie di sospensione del codice di rito.
Richiamato in sintesi il quadro normativo di riferimento sul tema della sospensione del processo civile, il problema principale che si è venuto a porre concerne essenzialmente l’interpretazione del concetto di pregiudizialità (in ambito civilistico) cui fa riferimento quello di dipendenza enunciato dall’art. 295 e che presuppone l’analisi del rapporto di possibile interferenza fra decisioni che, con riferimento alla fattispecie oggetto di esame, si pone non sul piano del rito, ma su quello del merito ovvero attiene ad una situazione sostanziale che rappresenta un fatto costitutivo o comunque un elemento della fattispecie di un’altra situazione sostanziale.
Nel caso concreto a cui è riferito il proposto (ma, come detto, inammissibilmente) regolamento di competenza, si ricorda che veniva in esame il rapporto di dipendenza tra la causa pregiudicante attinente alla responsabilità civile dei convenuti per i danni causati all’immobile ad uso commerciale di proprietà degli attori e quella pregiudicata riguardante l’opposizione avverso l’intimazione di sfratto proposta dalla conduttrice (odierna ricorrente) del medesimo immobile e formulata contro i proprietari dello stesso, nel corso del cui giudizio erano stati evocati i medesimi soggetti convenuti e chiamati, come terzi, nel giudizio pregiudicante.
Il concetto di dipendenza fra decisioni può presupporre a sua volta l’esistenza di un rapporto di dipendenza fra le cause. In tale accezione, il nesso di pregiudizialità è posto in collegamento con la disposizione generale contenuta nell’art. 34 c.p.c., che regola, tra le norme dedicate alle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, l’istituto degli accertamenti incidentali, generalmente considerato come espressione di una ratio omologa a quella dell’art. 295 c.p.c. .
Quest’ultima norma prevede, tuttavia, la sospensione del processo dipendente in attesa della definizione, con provvedimento passato in giudicato, di quello pregiudiziale soltanto quando non sia possibile il cumulo nello stesso processo della causa pregiudiziale e di quella dipendente (c.d. simultaneus processus) con l’emanazione di un’unica decisione da parte di un solo giudice mediante riunione dei procedimenti (artt. 40 e 274 c.p.c.).
Pertanto, al termine pregiudizialità, attesa l’identità delle situazioni disciplinate dagli artt. 34 e 295 c.p.c. (diverse .quanto agli effetti, ma analoghe quanto ai presupposti), può attribuirsi il comune scopo di eliminare il rischio di giudicati contrastanti. L’incipit dell’art. 34 “se per legge o per esplicita domanda di una delle parti” induce a ritenere che l’ambito applicativo della norma sia più ampio dei casi previsti per volontà della legge o per volontà di parte, e ricomprenda anche le ipotesi in cui sussiste il rapporto di pregiudizialità che non è necessario decidere con efficacia di giudicato. La questione oggetto di accertamento incidentale è la sola, rispetto a qualsiasi questione pregiudiziale di rito o di merito, a potersi trasformare in una causa autonoma avente ad oggetto una situazione giuridica soggettiva sostanziale (e, quindi, la tutela giurisdizionale di un diritto), tale da determinare il giudicato.
La necessità di decidere (preliminarmente) l’oggetto di una questione pregiudiziale dipende dal fatto che esso è elemento costitutivo del rapporto giuridico oggetto della domanda fatta valere in via principale. L’oggetto della questione pregiudiziale può costituire, alternativamente, un fatto costitutivo oppure impeditivo, modificativo ed estintivo del diritto soggettivo controverso; nel primo caso vi è un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, nel secondo un rapporto di pregiudizialità per incompatibilità. Per evitare il blocco del processo causato dalla sospensione, il codice tende, quindi, a favorire la realizzazione del c.d. simultaneus processus. La sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. presuppone, quindi, le seguenti condizioni: che sussista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due situazioni sostanziali; che queste ultime siano entrambe dedotte in giudizio; che non si realizzi o in virtù dell’art. 34 c.p.c. o per effetto degli artt. 40 e 274 c.p.c. la simultaneità del processo.
Il che sta a significare che, in generale, nel nostro ordinamento il giudice della domanda dipendente ha il potere di conoscere incidentalmente della domanda pregiudiziale, salvo quando quest’ultima è dedotta in giudizio principaliter come oggetto di un’autonoma pretesa. Distinguendo in via generale e schematica, si è affermato ricorrentemente che:
– integra questione pregiudiziale la sussistenza della pregiudizialità tecnica o tecnico-giuridica o in senso stretto qualora vengano in considerazione più rapporti giuridici uno dei quali (quello pregiudiziale) appartiene alla fattispecie dell’altro che da quello dipende (pregiudicato); in sostanza, l’oggetto della causa pregiudicata non può essere deciso
– come sancisce la norma stessa – senza la necessaria e preventiva definizione, con efficacia di giudicato, della causa pregiudicante; in tal caso, l’accertamento di un diritto presuppone l’accertamento di un altro diritto (ad esempio, lo status familiae quale fatto costitutivo rispetto all’obbligo alimentare oppure il diritto di proprietà del veicolo che ha cagionato il sinistro come fatto costitutivo dell’obbligazione risarcitoria ex art. 2054 c.c.);
– integra punto pregiudiziale a sussistenza della pregiudizialità logica qualora un antecedente logico necessario va risolto incidenter tantum rispetto alla decisione della domanda principale che da esso dipende; in tal caso, l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura di un rapporto giuridico costituisce il presupposto di un diritto (ad esempio, nelle domande di adempimento contrattuale, il contratto rispetto alla pretesa di adempimento dedotta in causa; il pagamento del canone rispetto al contratto di locazione).
Entrambe le due species di pregiudizialità vengono ricondotte al genus dell’art.34 c.p.c. che, nell’indicare la necessità di decidere una questione pregiudiziale con efficacia di giudicato nei casi disposti per legge o per esplicita richiesta di una delle parti, costituisce il nucleo del problema posto dall’ordinanza interlocutoria in esame.
Esso è insito, cioè, nello stabilire, per un verso, quando su tali questioni occorra o meno una pronuncia con efficacia di giudicato che renda la sospensione necessaria nel caso si tratti di “risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa” (art. 295 c.p.c.) e quale significato attribuire al riferimento al “passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia” (art. 297, comma 1, c.p.c.).
Per l’altro verso, nello stabilire se occorra una pronuncia di sospensione facoltativa (art. 337, comma 2, c.p.c.) “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo (…) se tale sentenza è impugnata”. La soluzione della questione si è dimostrata non univoca a fronte dei diversi indirizzi sostenuti dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
2) Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e l’interpretazione restrittiva della sospensione necessaria (con corrispondente interpretazione espansiva della sospensione facoltativa) accolta dalla sentenza delle Sezioni unite n. 10027 del 2012.
Ai fini della ricostruzione del diritto vivente sull’ambito applicativo dell’istituto della sospensione, l’ordinanza interlocutoria richiama diffusamente l’arresto della Corte di cassazione a Sezioni unite intervenuto con la sentenza n. 10027 del 2012. Secondo quest’ultima pronuncia “il paradigma” posto dall’art. 337 c.p.c. applicabile alle fattispecie nelle quali viene invocata una sentenza preesistente in un altro giudizio, si “innesta…pure ai casi insorti dall’applicazione in senso positivo dell’art. 295 c.p.c.”.
A conferma della possibilità di detto innesto veniva richiamato dalla citata sentenza delle Sezioni unite del 2012 un precedente orientamento, incentrato su di una lettura restrittiva dell’istituto della sospensione necessaria e riferito alla specifica ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sull’an debeatur e di quello sul quantum. Ci si riferiva, in particolare, al precedente delle Sezioni Unite di cui all’ordinanza n. 14060 del 2004, con la quale era stato negato che il secondo giudizio dovesse rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, se nel primo fosse stata pronunciata una sentenza affermativa dell’esistenza del diritto, il giudice del secondo giudizio avrebbe potuto porre a base della propria decisione ciò che era già stato deciso, ancorché la sentenza fosse stata impugnata.
Pertanto, alla sentenza di condanna generica, sottratta all’ambito di applicazione dell’art. 295 c.p.c., veniva applicata la disciplina di cui agli artt. 336 e 337 c.p.c. in tema di effetti della riforma e della cassazione, con la rilevante precisazione ermeneutica secondo cui “l’autorità alla quale si riferisce l’art. 337, comma 2, c.p.c. è quella di qualsiasi sentenza, soggetta anche ai mezzi di impugnazione ordinari”.
E’ del tutto opportuno richiamare in proposito testualmente il passaggio della citata pronuncia n. 14060/2004, perché contiene uno snodo interpretativo di notevole impatto. Con esso si era sostenuto che “Non è condivisibile l’assunto secondo cui l’autorità alla quale si riferisce l’art. 337, comma 2, c.p.c., è quella della sentenza passata in giudicato, con la conseguenza che la norma sarebbe applicabile soltanto nel caso in cui la sentenza invocata nel diverso giudizio sia stata impugnata per revocazione straordinaria o con opposizione di terzo. L’autorità alla quale la norma si riferisce è quella di qualsiasi sentenza, soggetta anche ai mezzi di impugnazione ordinari.
Prima ancora del passaggio in giudicato, qualsiasi pronuncia giurisdizionale è infatti dotata di propria autorità, dato che la sentenza esplica un’efficacia di accertamento al di fuori del processo. La stabilità della sentenza impugnata, anche se provvisoria, costituisce naturale oroprietà dell’atto giurisdizionale, che esprime la volontà della legge nel caso concreto, e con questa l’esigenza di una sua immediata, anche se provvisoria, attuazione, nell’attesa del formarsi del giudicato ed indipendentemente aa questo.
Principio che trova conferma, in primo luogo, nelle disposizioni di legge che regolano gli effetti della sentenza non definitiva emessa nel giudizio di primo grado (artt. 278, 279, comma 2, n. 4 e 340 c.p.c.), ed in secondo luogo nella formulazione letterale della norma, che riconosce autorità, e auindi efficacia, alla sentenza ancor prima del suo passaggio in giudicato, atteso che di tale evento nella norma non v’è menzione.
Deve quindi; affermarsi che, nell’ipotesi di contemporanea pendenza del giudizio sull’an e di quello sul quantum davanti a due giudici di grado diverso il giudice può, a norma dell’art. 337, comma 2, c.p.c. disporre la sospensione facoltativa del processo relativo al quantum debeatur ove la sentenza sull’an sia stata impugnata. Se la sospensione facoltativa non è disposta, non sussiste il rischio di conflitto di giudicati, poiché soccorre il citato art. 336, comma 2, c.p.c. (nel testo modificato dalla riforma del 1990)”.
Con la richiamata ordinanza del 2004 le Sezioni unite avevano anche affermato che l’istituto della sospensione necessaria veniva considerato con un certo sfavore in virtù del fatto che potesse determinare “l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato e certamente non breve, destinato a protrarsi fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale secondo quanto specificato dall’art. 297, comma 1, c.p.c.”. Si osservava che, sebbene la sospensione fosse preposta a scongiurare il rischio di conflitto tra giudicati, poteva giungere tuttavia a sacrificare “il valore processuale della sollecita definizione dei giudizi”.
Nello stesso arresto, a conforto di questa linea di tendenza, venivano posti in rilievo alcuni intervent normativi sopravvenuti:
– il ridimensionamento in senso restrittivo della pregiudizialità penale (essendo stato espunto dal testo dell’art.295 c.p.c. il riferimento all’art. 3 c.p.p.), la modifica dell’art. 42 c.p.c. (con l’estensione del regolamento necessario di competenza all’intera area dei provvedimenti applicativi della sospensione del processo) e la novella dell’art.111 Cost. (considerata determinante nel senso di imporre una lettura restrittiva del citato art. 295);
– la limitazione (prima prevista) della sospensione necessaria per pregiudizialità nel processo tributario ex art. 39 d.lgs. n. 546/1992;
– l’esclusione della sospensione nel caso di controversie relative ai rapporti di lavoro con le PP.AA. davanti al giudice ordinario, nel caso di impugnazione di provvedimenti amministrativi presupposti (art. 68 d. Igs. n. 29/1993, come modificato dal d. Igs. n. 80/1998, prima della sostituzione con il d.lgs. n. 165/2001).
Nella stessa sentenza delle Sezioni unite del 2012 in esame venivano, inoltre, richiamate le rilevanti sentenze 31 maggio 1996, n. 182 e 12 aprile 2005, n.- 132 con cui la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 279, comma 2, n. 4 e comma 4, 277 e 295 c.p.c aveva sottolineato il “disfavore verso il fenomeno sospensivo in quanto tale, espresso dal legislatore, con la riforma del 1990, soffermandosi sugli orientamenti restrittivi che si erano manifestati nella giurisprudenza di legittimità al riguardo della precedente interpretazione dell’art. 295”.
Nella stessa prospettiva di ridimensionamento dell’istituto della sospensione necessaria veniva richiamato un altro precedente (Cass. n. 26435/2009) che (in accoglimento di regolamento ex art. 42 c.p.c.) aveva annullato l’ordinanza di sospensione, emessa ai sensi dell’art. 295, della causa pregiudicata attinente alla domanda di diniego di rinnovazione del contratto di locazione in ragione della pendenza in grado di appello dell’azione di riscatto proposta dal conduttore, già rigettata in primo grado, sulla base del seguente principio di diritto: “quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337
A Condividendo la prospettiva dei richiamati precedenti, le Sezioni Unite del 2012 .1″ ) hanno evidenziato due ulteriori profili volti a corroborare il fondamento delle predette argomentazioni. In primo luogo, si è posto in risalto il ruolo importante assunto dall’art. 282 c.p.c. che, nel riconoscere la provvisoria esecutività alla sentenza di primo grado, determina “una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado – che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari – e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che, conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro.” .
In secondo luogo, il compito attribuito dall’ordinamento al giudice il quale – salvi i casi specifici in cui la legge impone che “la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull’elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse” e tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta attraverso l’impugnazione – deve valutare se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 c.p.c.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337, comma 2, c.p.c.), in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo.”.
Pertanto, le Sezioni Unite del 2012 hanno affermano che l’istituto processuale della sospensione necessaria è costruito sui seguenti tre presupposti:
1) “la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata”;
2) “la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati, secondo diritto, nello stesso modo”;
3) “lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perché controversi tra le parti.”.
La contemporanea sussistenza di questi tre presupposti comporta che la decisione sulla causa pregiudicante condizioni quella della causa che ne dipende che resta sospesa, a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull’altra e ciò scongiurerebbe il rischio “della duplicazione dell’attività di cognizione nei due processi pendenti”.
Osservano, però, le Sezioni unite nella sentenza qui in esame che “se nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio – della giurisdizione”.
In altri termini, “l’istituto della sospensione necessaria ha così esaurito í suoi effetti”. In conclusione, la sentenza n. 10027/2012 ha evidenziato come la disposizione di cui all’art. 297 c.p.c. possa essere intesa come norma integrativa del precedente art. 295 che, nel prevedere il potere di sospendere il giudizio, “tuttavia non indica quale sia il termine ultimo della sospensione che è così da ordinare”.
Viene, infine, sostenuto che “né trova ostacolo nella disposizione dell’art. 297 c.p.c., che dal canto suo sopporta un’interpretazione – del resto formulata in dottrina – per cui il passaggio in giudicato della sentenza resa sulla causa pregiudicante segna non già il termine di durata della sospensione, ma solo quello di inizio della decorrenza del termine ultimo oltre il quale il giudizio sulla causa pregiudicata si estingue (art. 307, comma 3, c.p.c.), se nessuna delle parti abbia assunto l’iniziativa richiesta per farlo proseguire”. La sopravvenienza della decisione di primo grado sulla lite pregiudiziale, pur suscettibile di impugnazione od impugnata, può giustificare che le parti ne attendano la decisione definitiva, ma non impedisce che chi ne rivendichi l’autorità solleciti la prosecuzione del processo, anche se il giudice potrebbe di nuovo sospenderlo, ma sulla base di una specifica valutazione.
Sulla base di tali argomentazioni le Sezioni Unite del 2012 ebbero a cassare l’ordinanza di sospensione emessa ai sensi dell’art. 295 c.p.c., ritenendo, con riferimento alla specifica fattispecie, che gli esiti del giudizio sulla filiazione naturale potessero essere tenuti in considerazione al fine di stabilire se proseguire in quello dipendente di petizione ereditaria, con una sentenza di accoglimento o rigetto, ovvero sospenderlo, e di autorizzare o no e se si, con quali cautele, la divisione”.
3) Il successivo corso della giurisprudenza della Corte.
Come evidenziato dall’ordinanza interlocutoria e dato atto nel suo svolgimento, il precedente delle Sezioni unite del 2012 sembrerebbe non essere stato pienamente “assorbito” dalla giurisprudenza di legittimità successiva.- Essa si è essenzialmente attestata su due filoni interpretativi tra loro paralleli, volti a sottolineare, su piani opposti, il primato dell’applicabilità della disciplina dell’art. 337 c.p.c., da un lato, e quello eguale e contrario, del primato dell’art.295 c.p.c., dall’altro.
Il primo orientamento (a favore del quale si sono schierate, tra le tante Cass.n. 6207/2014, n. 26251/2017 e n. 80/2019) ha ritenuto che allorquando tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante è stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato è possibile solo ai sensi dei criteri facoltizzanti dell’art. 337, comma 2, c.p.c. e non opera la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c., limitata ai casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato.
Il secondo orientamento ribadisce la cogenza dell’ambito di applicazione della sospensione necessaria; all’interno di esso, diverse pronunce mostrano piena adesione alla tradizionale finalizzazione della sospensione necessaria ad ottenere una pronuncia con efficacia di giudicato nella causa pregiudicante, così da impedire il conflitto dei giudicati.
Questo indirizzo tralascia di prendere posizione esplicitamente sul precedente delle Sezioni unite n. 10027 del 2012 e, come osservato nella stessa ordinanza interlocutoria, sembra reputare al pari di un obiter dictum quanto affermato dall’appena citato precedente sul ridimensionamento dell’art. 295 c.p.c. (cfr., in particolare, Cass. n. 3718/2013). All’interno del secondo orientamento, esemplari di questa presa di posizione appaiono due recenti arresti:
– il primo della Sez. III, ord. n. 1580 del 2020, ritiene che durante la sospensione necessaria del processo non possano essere compiuti, ai sensi dell’art. 298, comma 1, c.p.c., atti del procedimento, con la conseguenza che è inefficace, poiché funzionalmente inidonea a provocare la riattivazione del giudizio e motivo di nullità per derivazione di tutti gli eventuali atti successivi, l’istanza di riassunzione proposta prima della cessazione della causa di sospensione, ovvero anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza che abbia definito la controversia pregiudiziale, senza che rilevi, al fine del superamento di detta sanzione, il sopravvenuto venir meno della medesima causa;
– il secondo, riconducibile alla Sez. VI-1, ord. n. 17623 del 2020, afferma che la sospensione del processo ex art. 337, comma 2, c.p.c. è solo facoltativa, perché può essere disposta in presenza di un rapporto di pregiudizialità in senso lato tra la causa pregiudicante e quella pregiudicata, senza che la statuizione assunta nella prima abbia effetto di giudicato nella seconda, né richiede che le parti dei due giudizi siano identiche, mentre quella disciplinata dall’art. 295 c.p.c. è sempre necessaria, essendo finalizzata ad evitare il contrasto tra giudicati nei casi di pregiudizialità in senso stretto e presuppone, altresì, l’identità delle parti dei procedimenti.
Sempre nell’ambito dello stesso indirizzo giurisprudenziale – che rimarca, sotto diversi profili, il primato della sospensione necessaria – vanno incluse una serie di pronunce che la ritengono doverosa nelle ipotesi in cui la decisione della causa pregiudicante abbia portata vincolante di giudicato sulla causa pregiudicata (v. Cass. n. 21794/2013, ord.).
In tale prospettiva, la sospensione necessaria va disposta, anche d’ufficio, quando la decisione della causa pregiudicante abbia portata pregiudiziale in senso stretto, e cioè vincolante, con effetto di giudicato sulla causa pregiudicata, così rispondendo all’esigenza, di ordine pubblico, di evitare il conflitto tra giudicati. Lungo la stessa direttrice si è posto in evidenza che mentre la sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c. può trovare applicazione solo quando in altro giudizio debba essere decisa con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico, qualora oggetto dell’altra controversia sia una questione pregiudiziale soltanto in senso logico, viene in rilievo la previsione dell’art. 336, comma 2, c.p.c. sul c.d. effetto espansivo esterno della riforma o della cassazione di una sentenza sugli atti e i provvedimenti (comprese le sentenze) dipendenti dalla sentenza riformata o cassata (cfr. Cass. n. 12999/2014 e Cass. n. 5229/2016, ma già, in questi termini, come visto in precedenza si erano espresse le Sezioni unite con l’ordinanza n. 14060/2004).
4) Orientamenti della dottrina.
Schematicamente, tentando di ricondurre a sintesi la notevole mole dei contributi dottrinali esistenti in materia ed evitare di “perdersi nella varietà di sottilissime interpretazioni dottrinali”, può affermarsi che, con riguardo alla disciplina della sospensione regolata dall’art. 295 c.p.c., si contendono essenzialmente il campo due orientamenti.
4.1.) Orientamento ritenuto maggioritario. Questo orientamento della dottrina processualcivilistica — che si potrebbe definire “classico” – ha esaminato lo strumento della sospensione, dettato dagli artt. 295 c.p.c. e 337, comma 2, c.p.c., come mezzo processuale finalizzato a risolvere i conflitti e le interferenze che sorgono dalla relazione di pregiudizialità esistente tra due cause pendenti nello stesso o in diverso grado (la causa pregiudicata e la causa pregiudicante).
Questo orientamento si scinde, a sua volta, in due interpretazioni con riferimento al problema dell’ambito di operatività della sospensione ex art. 295 c.p.c.. L’interpretazione tradizionale afferma l’operatività della sospensione necessaria nel caso di mera contemporanea pendenza di processi aventi ad oggetto situazioni giuridiche in rapporto di pregiudizialità “dalla cui definizione dipende la decisione della causa” e che includono anche le ipotesi in cui nelle due cause pendenti siano dedotti diritti tra loro incompatibili.
Questa interpretazione ritiene che l’art. 295 c.p.c. si applica quando la causa pregiudicante e quella pregiudicata pendono in primo grado davanti a giudici diversi, non ne sia possibile la riunione e la causa pregiudicante non sia stata ancora definita con sentenza passata in giudicato; in tale ottica, l’art. 295 c.p.c. opera ogni qual volta gli artt. 34 e 40 c.p.c. risultano inapplicabili; in sostanza, il giudice non avrebbe che due possibilità: la prima, di riunire quella pregiudicata a quella pregiudicante oppure, se la riunione non è possibile, di sospenderla ex art. 295 c.p.c. sino a che la causa pregiudicante non si sia conclusa con una sentenza passata in giudicato.
Il fondamento dell’obbligatorietà del ricorso alla sospensione viene giustificato dall’intento di privilegiare l’armonia dei giudicati e prevenire i possibili contrasti. L’interpretazione restrittiva sostiene che la sospensione necessaria, in considerazione della gravità delle sue conseguenze pratiche sulla sollecita definizione del processo, si applica soltanto quando l’accertamento con autorità di giudicato della questione pregiudiziale è richiesto dalla legge e la causa pregiudiziale è iniziata prima di quella pregiudicata; questa prospettazione nega che l’art. 295 c.p.c. possa applicarsi al mero rapporto di pregiudizialità tra cause pendenti e ritiene che il giudice (invece dell’alternativa tra riunione o sospensione) avrebbe l’alternativa tra riunire le cause connesse per pregiudizialità (ex art. 40 o 274 c.p.c.) o lasciarle separate, senza disporre alcuna sospensione, con possibilità di conoscere incidenter tantum della questione pregiudiziale.
In tale prospettazione l’art. 295 c.p.c. viene collegato all’operatività del congegno di conversione previsto dall’art. 34 c.p.c. nel caso in cui la questione pregiudiziale che si presenta nel giudizio si trasforma in controversia pregiudiziale (per previsione di legge ovvero su istanza esplicita di una delle parti), con la conseguenza che la sospensione necessaria scatta quando il giudice si trovi nella temporanea impossibilità di conoscere, sia pure incidenter tantum, della questione e non sia possibile il simultaneus processus.Il fondamento di questa lettura dell’art. 295 c.p.c. (che guarda all’applicabilità della sospensione in senso restrittivo, cioè come extrema ratio) viene rinvenuto nelle disposizioni processuali di cui agli artt. 40, comma 2, 103, comma 2, 104 comma 2, e 274 c.p.c.; per tale prospettazione, il raccordo con tali norme dimostrerebbe che la sospensione necessaria opera soltanto nei casi in cui la causa pregiudiziale nasce in seno a quella dipendente (pregiudizialità interna) e non può essere trattata congiuntamente a questa, ma non opera anche nei casi in cui pendono, in processi autonomi, due controversie connesse (pregiudizialità esterna).
Questa ricostruzione è mossa dalla volontà di privilegiare il principio di economia processuale, assicurando “la ragionevole durata” del giusto processo (art. 111, comma 2, Cost.).
Lo stesso orientamento – definito “classico” – si scinde in due interpretazioni distinte anche rispetto all’ambito applicativo dell’art. 337, comma 2, c.p.c. La prima interpretazione – che può dirsi anch’essa tradizionale – ritiene che il citato art. 337, comma 2, c.p.c. si risolve nella possibilità di sospendere il processo nel quale è invocata l’autorità di una sentenza passata in giudicato resa in altro processo, soltanto quando la sentenza pregiudicante sia stata impugnata con mezzi di impugnazione straordinaria. Il fondamento di tale previsione viene ricondotto alla radice storica della formula della disposizione che deriva dalla fusione dei previgenti artt. 504 e 515 del codice di procedura civile del 1865.
La prima di tali norme (in materia di revocazione) disponeva: “Quando la sentenza impugnata sia stata prodotta in altra causa, l’autorità giudiziaria, davanti la quale pende quest’ultima, può sospenderne il corso”; la seconda (in materia di opposizione di terzo) sanciva: “Quando la sentenza impugnata sia stata presentata in un’altra causa, si applica la disposizione dell’articolo 504”; dunque, il codice del 1865 consentiva la sospensione della causa pregiudicata solo quando la sentenza pronunciata nella causa pregiudicante fosse stata impugnata con la revocazione o con l’opposizione di terzo e, quindi, già passata in giudicato; da tale origine genetica si è desunto — da parte di alcuni indirizzi dottrinali (prevalenti) – il principio secondo cui anche nel codice attuale nessuna efficacia potrebbe avere in altri giudizi la sentenza non passata in giudicato e che l’art. 337, comma 2, c.p.c. andrebbe inteso nel senso che la sospensione del processo, nel quale l’autorità di giudicato della sentenza pregiudicante viene invocata, è possibile soltanto quando quella viene impugnata.
La seconda esegesi presuppone di leggere il termine “autorità di sentenza” di cui all’art. 337, comma 2, c.p.c. come riferito sia alla sentenza passata in giudicato (ed assoggettabile solo a mezzi di impugnazione straordinari) sia a quella non ancora passata in giudicato. In tale prospettiva la disposizione è posta in un rapporto di stretto coordinamento con quella dell’art. 295 c.p.c., per cui il giudice della causa pregiudicata ha la possibilità o di sospendere il processo ed aspettare che sulla causa pregiudiziale si pronunci il giudice dell’impugnazione; oppure di proseguirlo sulla causa pregiudicata, salvo il vincolo derivante dagli accertamenti contenuti nella sentenza (non passata in giudicato) pronunciata nella causa pregiudicante.
Pertanto, l’art. 295 c.p.c. opererebbe solo fino al momento in cui non è decisa la causa pregiudiziale, mentre quando essa è stata risolta, la sentenza emessa, ancorché non passata in giudicato, produce effetti immediati nel giudizio dipendente, fatta salva la facoltà del giudice di questo, in caso di impugnazione, di disporre discrezionalmente la sospensione ex art. 337, comma 2, c.p.c. 4.2) Orientamento ritenuto minoritario. Questo orientamento anch’esso classico ma minoritario nella dottrina processualcivilistica nega che le disposizioni di cui agli artt. 295 e 337 c.p.c. siano disposizioni che disciplinano ipotesi di sospensione che possano risolvere questioni relative ai rapporti di pregiudizialità tra cause.
Una prima teoria – sostenuta da un autorevole orientamento dottrinale – ritiene che l’art. 295 c.p.c. disciplini ipotesi particolari di improponibilità della domanda; sarebbe riferito, cioè, alle ipotesi, che pur sono ricorrenti nella legge e nella pratica, in cui la soluzione della controversia dipenda da un accertamento che deve essere fatto da altro giudice, o anche più in generale da altro organo, esclusivamente competenti; più che di pregiudizialità, si tratterà quindi di improponibilità della domanda (fino a che quell’accertamento non sia compiuto) e la sospensione agirebbe da temperamento. Si afferma inoltre che l’art. 337, comma 2, c.p.c. disciplini il caso di un giudizio autonomo reso in altro processo e dei limiti di operatività di questo giudizio prima del passaggio in giudicato.
Una seconda teoria sostiene che l’art. 295 c.p.c. esiste in ragione e in funzione della imperatività della sentenza definitiva sul merito pronunciata in un diverso giudizio pregiudicante (non su tutte ma) su alcune cause connesse quale precedente vincolante con efficacia di giudicato nella causa pregiudicata. La sospensione di cui all’art. 295 c.p.c. viene posta in stretto collegamento con l’art. 2909 c.c. come strumento di coordinamento degli effetti riflessi che l’accertamento di un rapporto giuridico è destinato a produrre rispetto ai diritti dipendenti.
In questa ottica, si ritiene che l’art. 337 c.p.c. rechi una disciplina completamente diversa, relativa cioè all’efficacia che può avere una sentenza pronunciata in un’altra causa quale precedente non vincolante; in particolare, consentirebbe al giudice della causa in cui è invocata l’autorità di altra sentenza di non sospendere e di recepire nella propria sentenza “i materiali elaborati”. Ad avviso di tale qualificata – ma anche da molti autori criticata – impostazione “questa è l’«autorità» della sentenza, di cui parla, con sostantivo non felice l’art. 337, comma 2, c.p.c.”.
Quindi, sarebbe possibile sia l’uso discrezionale della sentenza pronunciata nella causa pregiudicante, impugnata o no, per lo scioglimento di questioni necessarie alla decisione di merito, sia l’attesa dell’esito dell’impugnazione per l’uso discrezionale, al medesimo fine, della sentenza che decide l’impugnazione.
5) Sintesi degli interventi critici all’arresto delle Sezioni unite del 2012.
Come accennato dall’ordinanza interlocutoria, l’orientamento dottrinale restrittivo, sopra meglio descritto, ha ritenuto che la soluzione raggiunta dalle Sezioni Unite del 2012 non sia condivisibile.
Da parte di alcuni indirizzi particolarmente critici è stato osservato che invece di fornire una lettura diretta a privilegiare l’esigenza di assicurare la ragionevole durata dei processi e, quindi, a limitare il dovere di sospensione ex art. 295 c.p.c. ai casi in cui l’accertamento con autorità di giudicato della questione pregiudiziale (ovvero la trasformazione in “causa” di una “questione” pregiudiziale) sia richiesta dalla legge, le Sezioni unite si sarebbero limitate a riportare la sospensione necessaria nell’ambito della contemporanea pendenza di due processi in relazione di pregiudizialità e ad affermare che la sospensione necessaria esaurisce i suoi effetti nel momento in cui nel processo sul rapporto pregiudiziale sopravviene la sentenza di primo grado, suscettibile di impugnazione.
Questa lettura – ad avviso degli orientamenti in esame – non sarebbe persuasiva soprattutto con riferimento al rilievo dato all’art. 297 c.p.c., che ricollega, letteralmente, al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all’art. 295 c.p.c., la decorrenza del termine trimestrale per riassumere il processo sospeso e che, quindi, non potrebbe che significare che – se il processo è sospeso ai sensi dello stesso art.295 c.p.c. – la sospensione dovrebbe durare fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale.
Secondo altra tesi dottrinale si è rilevato che la soluzione offerta dalle Sezioni unite del 2012 di ritenere applicabile l’art. 337, comma 2, e non l’art. 295, una volta decisa la causa pregiudiziale – ancorché con sentenza impugnata – potrebbe essere forse seguita, ma solo nelle ipotesi in cui la causa pregiudiziale possa in astratto essere conosciuta incidenter tantum e il giudice della causa dipendente non abbia disposto la riunione; viceversa, nei casi in cui la causa pregiudiziale sia relativa ad una questione che deve essere conosciuta con autorità di cosa giudicata per volontà di legge, e cioè nel caso in cui la causa pregiudiziale sia relativa allo stato o capacità delle persone (proprio come nella fattispecie che era stata dedotta nel giudizio su cui è, poi, intervenuta la sentenza n. 10027 del 2012), il relativo accertamento, per acquistare qualsiasi efficacia, deve necessariamente essere passato in giudicato e prima di tale momento non può essere soggetto alla disciplina ex art. 337, comma 2, c.p.c., con la conseguente necessità – in questa ipotesi – della sospensione ex art. 295 del processo relativo alla causa dipendente.
6) La risoluzione della questione di massima di particolare importanza in funzione dell’applicazione dell’art. 363, comma 3, c.p.c.
Come più volte rimarcato, le Sezioni unite, con la sentenza n. 10027/2012, hanno ritenuto che nell’ipotesi di un nesso di pregiudizialità c.d. tecnica, il giudice della causa dipendente dovrà applicare l’art. 295 c.p.c. sino a che la causa pregiudicante pende in primo grado e così disporre necessariamente la sospensione del processo innanzi a lui.
La sospensione della causa pregiudicata, però, non durerà per forza sino al passaggio in giudicato della sentenza resa sulla lite pregiudicante. Il fondamento della soluzione prescelta viene espressamente collegato, da un lato, alla provvisoria esecutività della sentenza di primo grado e, dall’altro, al correlato progressivo restringersi degli elementi di novità suscettibili di essere introdotti nel giudizio di impugnazione che consente di ritenere che «l’ordinamento preferisca all’attesa del giudicato la possibilità che il processo dipendente riprenda assumendo a suo fondamento la decisione, ancorché suscettibile di impugnazione, che si è avuta sulla causa pregiudicante, perché, essendo il risultato di un accertamento in contraddittorio e provenendo dal giudice, giustifica la presunzione di conformità al diritto».
Il problema del (potenziale) conflitto di giudicati si trasformerebbe in una scelta delle parti che, concordando tra loro l’attesa, potrebbero relegare la valutazione affidata al giudice ex art. 337, comma 2, c.p.c. ad una mera eventualità, in quanto condizionata al presupposto costituito dalla scelta di riassunzione; in definitiva, l’impulso processuale condizionerebbe così il paradigma del giudicato nella pregiudizialità. Ritengono queste Sezioni unite che l’approdo raggiunto con la citata sentenza n. 10027/2012 debba essere condiviso e quindi ad esso dato seguito (con il soddisfacimento dell’esigenza del raggiungimento di un assetto di sistema su una questione processuale tra le più controverse), pur con l’evidenziazione di qualche distinguo e l’apporto di ulteriori argomenti che ne corroborano la fondatezza.
Innanzitutto, in disparte – ai fini della risoluzione della questione – la non decisività di una lettura generalizzante dell’art. 282 c.p.c. (in virtù della quale rileverebbe – in consonanza con autorevole dottrina – anche la mera autorità dell’efficacia della sentenza adottata all’esito del giudizio pregiudicante e non necessariamente il passaggio in giudicato della stessa), per il resto la pronuncia del 2012 si pone nella giusta – e ormai imprescindibile – ottica di limitare per quanto possibile i casi di applicazione dell’art. 295 c.p.c. per evitare l’enorme dilatazione della durata dei processi che la sospensione (forzatamente) necessaria comporterebbe (e, quindi, per assicurare, nella sua effettività, il principio della durata ragionevole del processo, nella specie di quello “pregiudicato”), esigenza alla quale contribuisce una razionale e mirata concezione dell’ambito e dei presupposti di operatività dell’art. 337, comma 2, c.p.c. .
A proposito di quest’ultimo, peraltro, le stesse Sezioni unite, con l’ordinanza n. 14060 del 2004 (già in precedenza richiamata), hanno escluso che esso sarebbe applicabile soltanto nel caso in cui la sentenza invocata nel diverso giudizio sia stata impugnata per revocazione straordinaria o con opposizione di terzo.
Del resto è innegabile che il citato art. 337 cpv. abbia una valenza generale, nel senso cne si rivolge all’autorità che la sentenza del giudice spiega in un altro processo tra le stesse parti, sia o non sia passata in giudicato. In entrambi i casi, se la sentenza è impugnata (dizione che conferma come la disposizione non distingua, per l’appunto, tra decisione soggetta ad impugnazione e decisione passata in giudicato), il giudice davanti al quale l’autorità della sentenza è stata invocata si troverà di fronte all’alternativa tra la condivisione (almeno in termini potenziali) dell’accertamento in questa contenuto o la sospensione del processo nell’attesa della decisione del giudice dell’impugnazione.
Inoltre, come posto in risalto nella sentenza del 2012, la durata della sospensione necessaria sino al passaggio in giudicato della sentenza della causa pregiudicante non è imposta dall’art. 297 c.p.c., perché, se è vero che pone riferimento alla sentenza passata in giudicato, esso — da un punto di vista sistematico — non è inteso ad individuare il termine di durata della sospensione, bensì solo quello a decorrere dal quale va proposta l’istanza per la prosecuzione del processo dipendente. La soluzione adottata dalle Sezioni unite nel 2012 costituisce, quindi, un giusto bilanciamento tra diverse esigenze. Fin tanto che la causa pregiudicante penderà in primo grado, la causa dipendente resterà comunque soggetta a sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c..
Negli ulteriori sviluppi processuali, si configurerà tuttavia la possibilità di sciogliere il vincolo necessario della sospensione ove una parte del giudizio pregiudicato si attivi per riassumerlo e sempre che il giudice non reputi opportuno mantenere lo stato di sospensione (ovvero di quiescenza), ma, a tal riguardo, facendo ricorso all’esercizio del potere facoltativo di sospensione previsto dall’art. 337, comma 2, c.p.c. .
Questa ricostruzione, pur accrescitiva del potere discrezionale del giudice nel disporre (in via ulteriore ed eventuale) la sospensione del processo pregiudicato si pone, oltretutto, in sintonia con un innovato sistema normativo processuale (basti pensare alla nuova regolamentazione del c.d. “filtro in appello”, di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.), che tende a aumentare le • ipotesi di valutazioni prognostiche giudiziali sulla fondatezza (o meno) dell’impugnazione.
L’interpretazione di cui alla sentenza delle Sezioni unite del 2012 cerca, in ultima analisi, di coordinare la disciplina dell’art. 295 c.p.c. con le norme e i principi che hanno inciso sulla nuova impostazione del sistema processualcivilistico in generale, implicante la necessaria valorizzazione di un’interpretazione costituzionalmente orientata come imposta dalla diretta applicazione dell’art. 6 CEDU e dell’art. 111, commi 1 e 2, Cost. La sentenza delle Sezioni unite del 2012 ha il pregio di aver riconosciuto all’art.295 c.p.c. una funzione diversa da quella di assicurare l’armonia delle decisioni, che si mostra più coerente con l’idea che – nella realtà concreta del processo – spetta alle parti interessate scegliere se riassumere quello dipendente subito dopo la pronuncia della decisione sulla causa pregiudiziale o attendere che su di essa di formi il giudicato: questa funzione – secondo un acuto indirizzo dottrinale – permetterebbe che l’affermazione o la negazione dell’effetto giuridico pregiudiziale sia fatta valere nel giudizio dipendente anche prescindendo del tutto dai suoi effetti vincolanti.
Se si adotta questa sistematica lettura interpretativa (che, in fondo, riconduce alla volontà delle parti – nel cui esclusivo interesse si svolgono i giudizi in rapporto di pregiudizialità, non emergendo la necessità della salvaguardia di un interesse generale di natura pubblicistica – l’operatività in concreto del meccanismo sospensivo di cui all’art. 295 c.p.c., a cui si correla la facoltà del momento in cui avvalersi dell’applicazione dell’art. 297 c.p.c.), il giudice della causa dipendente riassunta dopo la pronuncia su quella pregiudiziale non ancora passata in giudicato, oltre a poter scegliere – su necessaria istanza della parte interessata – ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. se conformarsi ad essa o attendere la sua stabilizzazione con il passaggio in giudicato, potrebbe anche decidere in senso difforme ove ritenga che tale sentenza possa – sulla base di una ragionevole valutazione prognostica – essere riformata o cassata.
Questa impostazione consentirebbe di coordinare la primazia del diritto costituzionalmente protetto alla celerità dei processi (in generale) con l’esigenza di assicurare un’equilibrata efficienza all’amministrazione della giustizia nel suo complesso.
Allora se la sospensione deve essere inquadrata nell’ottica di garantire il più possibile il raggiungimento di questo obiettivo di efficienza, diventa consequenziale ritenere che essa non debba qualificarsi in termini di “obbligatorietà necessaria”, perché – in effetti – solo l’esame del caso concreto consente di distinguere le ipotesi in cui l’esito della causa pregiudiziale sia talmente incerto da rendere opportuno l’arresto del giudizio pregiudicato, per evitare di adottare pronunce che possano dare adito ad azioni di ripetizione, da quelle in cui sia ragionevole attendersi un risultato al quale ci si possa conformare anche prima che esso sia formalizzato. In questa dimensione ermeneutica, il conflitto tra il valore di armonizzazione tra giudicati e l’esigenza di evitare presumibili azioni di ripetizione è risolvibile attraverso il ricorso alla portata applicativa assegnata al disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c. (da non potersi ritenere limitata solo alle ipotesi di pregiudizialità logica), per cui, ferma l’esigenza prioritaria di assicurare coerenza ai giudicati, si può – condividendosi autorevoli orientamenti dottrinali – ricorrere all’operatività, in chiave sistematica, del meccanismo di coordinamento “a posteriori” anche nei casi di pregiudizialità tecnica, che garantirebbe, comunque, la celerità nella definizione del giudizio dipendente, altrimenti esposto ad una sospensione necessaria di durata non predetermina bile. In altri termini, per effetto dell’applicabilità del citato art. 336, comma 2, c.p.c. (nel quale, non a caso, si pone riferimento, oltre che agli atti, “ai provvedimenti” dipendenti) – che verrebbe ad assumere il ruolo di “norma di chiusura” (esplicante, cioè, la funzione di una sorta di “valvola di sicurezza”) – la sentenza (già eventualmente) passata in giudicato sulla causa pregiudicata sarà colpita di riflesso in forza dell’effetto espansivo esterno conseguente alla • riforma o alla cassazione della sentenza che definisce la causa pregiudiziale, ristabilendosi – ancorché ex post – l’armonia tra i giudicati.
7) Conclusioni ed enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 comma 3, c.p.c.
In definitiva, alla stregua del complesso impianto argomentativo esposto, ritengono queste Sezioni unite che – pur con gli ulteriori apporti chiarificatori evidenziati ma sempre nell’ottica imprescindibile della necessaria valorizzazione, in chiave interpretativa, dei principi generali desumibili dagli artt. 111, comma 2, Cost. e 6 della CEDU – vada confermata la scelta compiuta dalle stesse Sezioni unite con la precedente sentenza n. 10027 del 2012 di restringere l’ambito di operatività della sospensione necessaria e la soluzione prospettata di consentire, una volta decisa con sentenza impugnata la causa pregiudicante, una rivalutazione della permanenza delle esigenze di sospensione della causa pregiudicata ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c. .
Deve, perciò, ai sensi del citato art. 363, comma 3, c.p.c., essere enunciato il seguente principio di diritto: salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione normativa specifica, che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se sia stata disposta, è possibile proporre subito istanza di prosecuzione in virtù dell’art. 297 c.p.c., il cui conseguente provvedimento giudiziale è assoggettabile a regolamento necessario di competenza), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c.
In conclusione, il ricorso per regolamento di competenza deve essere dichiarato inammissibile. – Sussistono giuste ragioni in dipendenza della complessità delle questioni esaminate e decise (anche in relazione alla sollecitata rivisitazione della sentenza delle Sezioni unite n. 10027/2012 a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 362/2021 della Sezione VI-3) per disporre l’integrale compensazione delle spese di questo giudizio tra tutte le parti.