<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 11 marzo 2020 n. 47</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 112 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non prevede la possibilità di revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in caso di «acclarata mancanza della veste di persona offesa» dei reati di cui all’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. n. 115 del 2002, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.− Questa Corte ha più volte ribadito la pacifica riconducibilità dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato alla <strong>disciplina processuale</strong> nella cui <strong>conformazione</strong> il legislatore gode di <strong>ampia discrezionalità</strong>, con il solo limite della <strong>manifesta irragionevolezza o arbitrarietà</strong> delle scelte adottate (da ultimo, sentenze n. 97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3 del 2020).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1.− Nell’opera di bilanciamento degli interessi in gioco, la giurisprudenza costituzionale ha, di frequente, valorizzato l’obbiettivo di limitare le spese giudiziali (da ultimo, sentenza n. 178 del 2017) e, in particolare, anche di recente, ha sottolineato che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia (sentenza n. 16 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.− In questa prospettiva si spiega che per tutti i processi diversi da quello penale (civile, amministrativo, contabile, tributario e di volontaria giurisdizione) per il riconoscimento del beneficio è richiesto, dal comma 2 dell’art. 74 del d.P.R. n. 115 del 2002, che le ragioni di chi agisce o resiste «risultino non manifestamente infondate», e, in maniera speculare, è previsto che venga disposta la revoca dell’ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal consiglio dell’ordine degli avvocati se l’interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La finalità perseguita è evidentemente quella di non incoraggiare iniziative temerarie che, da un lato, aggraverebbero il carico dei processi, e, dall’altro, esporrebbero la controparte (abbiente, e quindi con spese a suo carico, o non abbiente, e quindi con ingiustificato aggravio per lo Stato) ad azioni temerarie, con il rischio di determinare una “discriminazione a rovescio”, inducendo i non abbienti a intentare cause palesemente infondate senza dover tener conto del loro peso economico, peso che invece devono sopportare coloro che non rientrano nella platea dei beneficiari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In sostanza, la previsione di un filtro legato alla non manifesta infondatezza delle ragioni dell’aspirante beneficiario deve ritenersi giustificata, anzi, opportuna, alla luce degli altri interessi di rilievo costituzionale in campo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come ha affermato questa Corte, tutto ciò non vale per il processo penale, del quale il legislatore ha inteso sempre privilegiare le specificità: da un lato, l’essere frutto di un’azione dell’organo pubblico che viene “subita” dal soggetto che aspira al beneficio in parola; dall’altro, avere, come posta in gioco, il bene supremo della libertà personale (sentenza n. 237 del 2015). Appare giustificato, dunque, che, pur in un sistema a risorse economiche limitate, venga assicurata in questo caso una più intensa protezione, sganciando l’ammissione al beneficio de quo da qualsiasi filtro di non manifesta infondatezza delle ragioni del soggetto interessato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.1.− Va peraltro osservato che queste considerazioni si attagliano al solo indagato o imputato, che, appunto, “subisce” l’azione dell’organo pubblico e vede messa in gioco la propria libertà personale, meno invece si addicono alla persona offesa, che è solo un soggetto eventuale del procedimento penale, nel quale, comunque, non è coinvolta la sfera della sua libertà personale (ordinanze n. 254 del 2011 e n. 339 del 2008).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ed infatti, con riferimento alla figura della persona offesa, nell’ambito di una prospettiva più legata alle sue peculiarità, questa Corte ha osservato che l’opzione legislativa in esame è giustificata da due elementi: la necessità di garantirle l’effettività del diritto di difesa, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico all’esercizio delle prerogative difensive con l’assistenza tecnica di un difensore, e la specificità del ruolo ad essa riconosciuto (particolarmente valorizzato proprio nello stadio delle indagini preliminari), che si sostanzia in «un’attività di supporto e di controllo» dell’operato del pubblico ministero tesa a realizzare una sorta di contributo all’esercizio dell’azione penale (sentenze n. 23 del 2015 e n. 353 del 1991; ordinanza n. 3 del 2020).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.2.− Ebbene, entrambi questi valori, di ben diversa e più limitata portata, non parrebbero giustificare l’attribuzione del beneficio ad un soggetto rispetto al quale la veste di persona offesa è stata attribuita dal pubblico ministero sulla base di elementi esposti dalla medesima nella denuncia-querela avente ad oggetto fatti in ordine ai quali ella ha poi riportato condanna per calunnia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A fronte di una condotta calunniosa, infatti, non solo viene meno ogni esigenza di tutela del diritto di difesa, ma è addirittura “tradito” il ruolo di supporto e controllo tradizionalmente riconosciutole, posto che, in una sorta di eterogenesi dei fini, la presunta persona offesa, invece di coadiuvare il pubblico ministero, ne intralcia l’operato e lo trae in inganno, accusando un terzo di un reato nella piena consapevolezza della sua innocenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.− Ciò tuttavia non si può tradurre in una pronuncia di accoglimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il petitum, infatti, è fortemente manipolativo, in quanto non solo mira ad introdurre una nuova ipotesi di revoca del decreto di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, ma implica anche una scelta comunque distonica rispetto a quella effettuata dal legislatore di non operare alcuna distinzione tra i soggetti del processo penale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Di fronte a materie, come quella processuale, nel cui ambito è riconosciuta l’ampia discrezionalità del legislatore, è costante l’orientamento di questa Corte di ritenere inammissibili questioni rispetto alle quali si chiede una pronuncia connotata da un cospicuo tasso di manipolatività (sentenze n. 219 del 2019, n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze n. 254 e n. 122 del 2016).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.− La questione proposta deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile.</em></p>