Corte Costituzionale, sentenza 26 febbraio 2024 n.25
PRINCIPIO DI DIRITTO
“La disposizione censurata è espressiva di un principio generale dell’ordinamento, per di più di rango costituzionale: quello, cioè, secondo cui le norme più favorevoli in materia di sanzioni punitive devono, di regola, essere applicate retroattivamente a tutti i processi in corso. Sicché l’interpretazione analogica adottata dalla Corte di cassazione costituisce, al tempo stesso (doverosa) interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Marsala, sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost., dell’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui non consente di presentare al giudice dell’esecuzione, entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, istanza di applicazione di una delle pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen. «ai condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni nei confronti dei quali, al momento dell’entrata in vigore del succitato decreto, pendeva dinanzi alla Corte di appello il termine per il deposito della sentenza».
Il rimettente denuncia una «lacuna involontaria» nella disciplina transitoria dettata dall’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022, relativa alle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi, disciplinate ora dall’art. 20- bis cod. pen., introdotto dall’art. 1 dello stesso d.lgs. n. 150 del 2022.
L’art. 95, comma 1, di tale decreto legislativo stabilisce, nel primo periodo, che le norme relative alle pene detentive brevi si applichino «anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del presente decreto». Il secondo periodo prevede poi una disciplina transitoria per i condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni i cui procedimenti penali fossero «pendent[i] innanzi la Corte di cassazione all’entrata in vigore del presente decreto», stabilendo che – entro trenta giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna – essi potessero presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 del codice di procedura penale.
Secondo il rimettente, in sostanza, il legislatore delegato avrebbe omesso di disciplinare il caso specifico in cui il processo, alla data di entrata in vigore del decreto, fosse stato già definito dalla corte d’appello mediante la lettura del dispositivo, ma non potesse ancora ritenersi «pendente innanzi la Corte di cassazione», non essendo decorso il termine per il deposito della sentenza d’appello.
Tale omessa previsione avrebbe privato il condannato che si trovasse in questa situazione, al momento dell’entrata in vigore della riforma, della possibilità di ottenere la sostituzione della pena detentiva inflittagli con una delle pene previste dal nuovo art. 20-bis cod. pen.
Con ciò sarebbero stati violati:
– l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti i condannati espressamente contemplati dal tenore letterale della disposizione transitoria;
– l’art. 24 (recte: art. 24, secondo comma) Cost., perché la preclusione dell’accesso alle pene sostitutive avrebbe compresso irragionevolmente il suo diritto inviolabile alla difesa dell’interessato; nonché
– l’art. 27 (recte: art. 27, terzo comma) Cost., perché tale preclusione sarebbe incompatibile con la finalità rieducativa della pena, cui la riforma del 2022 complessivamente si ispira.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce in via preliminare l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.
2.1.– Secondo l’interveniente, il ricorso introduttivo del giudizio principale sarebbe stato tardivamente proposto rispetto al termine di trenta giorni dall’irrevocabilità della sentenza di condanna, stabilito dalla disposizione censurata. Ciò comporterebbe un’evidente ragione di inammissibilità del ricorso medesimo, che dovrebbe comunque essere rigettato per questa ragione dal giudice a quo; il che priverebbe di rilevanza le questioni proposte.
2.2.– Al riguardo, non può che convenirsi con l’Avvocatura generale dello Stato che il ricorso introduttivo del giudizio a quo risulta ictu oculi depositato oltre il termine di trenta giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna: la stessa ordinanza di rimessione dà atto, nell’arco di poche righe, che la sentenza è passata in giudicato il 25 marzo 2023, e che il ricorso è stato depositato il 2 maggio 2023.
La costante giurisprudenza di questa Corte afferma, tuttavia, che il giudizio di rilevanza esige soltanto la dimostrazione della necessità, da parte del rimettente, di fare applicazione della norma censurata nel processo a quo, e non richiede invece la dimostrazione che l’accoglimento della questione sia effettivamente suscettibile di incidere sull’esito del processo medesimo.
Ciò che è essenziale è, piuttosto, la dimostrazione che un eventuale accoglimento inciderebbe quanto meno sull’iter motivazionale che conduce alla decisione […].
Ora, il presupposto interpretativo da cui muove l’odierno rimettente lo condurrebbe a rigettare il ricorso in quanto il caso concreto non è sussumibile tra quelli previsti dalla fattispecie astratta.
Laddove, invece, le questioni di legittimità costituzionale fossero accolte, mediante una pronuncia additiva in grado di abbracciare anche il caso di specie, il ricorso non potrebbe più essere respinto per questa ragione; e si porrebbe, a quel punto, la diversa questione se il ricorso sia o meno inammissibile in quanto proposto oltre il termine di trenta giorni stabilito in via generale dalla disposizione censurata.
In quello scenario, l’eventuale riscontro della tardività del ricorso introduttivo del giudizio a quo darebbe dunque luogo a un suo rigetto sulla base di un iter motivazionale del tutto diverso: il che basta a garantire la rilevanza delle questioni sollevate.
L’eccezione di inammissibilità deve, dunque, essere rigettata.
3.– Nel merito, le questioni sono, tuttavia, infondate.
3.1.– Nella lettura del rimettente, la disposizione censurata sarebbe affetta da una lacuna involontaria, non avendo disciplinato l’ipotesi particolare in cui la corte d’appello – alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022 – avesse già definito il giudizio innanzi a sé mediante la pronuncia del dispositivo in udienza, ma fosse ancora pendente il termine per il deposito della motivazione.
Ipotesi alla quale, peraltro, potrebbe agevolmente affiancarsi quella in cui la motivazione fosse stata depositata, ma fosse ancora pendente il termine per il ricorso in cassazione.
3.2.– Una tale lettura non può, in sé, ritenersi implausibile.
In entrambe queste ipotesi, il processo ben potrebbe ritenersi – da un punto di vista letterale – ancora “pendente in grado d’appello”, posto che i relativi atti si trovavano ancora fisicamente negli uffici della corte d’appello procedente; ma la previsione del primo periodo dell’art. 95, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022 risulterebbe in concreto inapplicabile per ragioni sistematiche, dal momento che, secondo i principi generali del processo penale, una volta letto in udienza il dispositivo la corte d’appello non ha più alcun potere di modificare la statuizione relativa alla pena, salva l’ipotesi della correzione dell’errore materiale che qui certamente non ricorre.
Per altro verso, la disciplina del secondo periodo – che prevede la possibilità per il condannato di ottenere la sostituzione della pena mediante un incidente di esecuzione, una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna – è testualmente riferita soltanto ai processi «pendenti innanzi la Corte di cassazione»: espressione che, secondo il significato letterale delle parole, non è riferibile a processi ancora non approdati presso la Corte di cassazione, e i cui atti si trovassero, al momento dell’entrata in vigore della riforma, presso la corte d’appello che ha pronunciato la sentenza.
3.3.– Ove quella assunta dal rimettente fosse l’unica interpretazione possibile della disciplina censurata, essa risulterebbe – in effetti – in evidente frizione con il principio di eguaglianza, non essendo ravvisabile alcuna ragione giustificatrice della differenza di trattamento rispetto alle altre ipotesi ivi disciplinate, e in particolare a quella in cui il processo già pendesse innanzi alla Corte di cassazione.
La lacuna di disciplina si porrebbe altresì in contrasto con il principio della retroattività della lex mitior, pur non evocato dal rimettente; principio che la costante giurisprudenza di questa Corte riconduce all’area di tutela degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (da ultimo, sentenze n. 198 del 2022, n. 238 del 2020 e n. 63 del 2019).
3.4.– Successivamente all’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha tuttavia chiarito che, ai fini dell’applicabilità del regime transitorio previsto dalla disposizione censurata, deve considerarsi «pendente innanzi la Corte di cassazione» qualsiasi processo che, alla data di entrata in vigore della riforma, fosse stato definito dalla corte d’appello mediante la pronuncia del dispositivo: e, dunque, anche quei processi nei quali sia ancora pendente il termine fissato dal collegio per il deposito delle motivazioni (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 26 settembre-2 novembre 2023, n. 43975), ovvero nei quali sia pendente il termine per il ricorso per cassazione […].
In queste pronunce, la Corte di cassazione muove dalla constatazione che il codice di rito non contiene alcuna norma che individui il fatto o l’atto processuale che determina la “pendenza” del giudizio di impugnazione.
Essa valorizza però il precedente costituito da una sentenza delle Sezioni unite sulla disciplina transitoria stabilita dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, recante «Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione», (cosiddetta “legge ex Cirielli”), che, per effetto della sentenza n. 393 del 2006, circoscriveva l’applicazione retroattiva della più favorevole disciplina in materia di prescrizione ai processi pendenti in primo grado, escludendone così dal raggio operativo quelli pendenti in grado di appello o innanzi la Corte di cassazione.
Le Sezioni unite avevano, in quell’occasione, identificato il fatto processuale che determina la pendenza in grado di appello nella pronuncia del dispositivo da parte del giudice di primo grado: da quel momento, infatti, il giudice non può più assumere ulteriori decisioni in merito all’accusa (salva la residua competenza in tema di procedimenti incidentali cautelari).
Per altro verso, la pronuncia del dispositivo è anche il momento in cui prende avvio la fase dell’impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 ottobre-10 dicembre 2009, n. 47008).
La soluzione era stata, allora, raggiunta sulla base dell’argomento che «non deve tanto ricostruirsi la nozione generale ed astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio di appello, ma piuttosto l’esatto significato che la locuzione normativa assume nel particolare contesto in cui è stata introdotta, considerando gli interessi perseguiti e le condizioni per le quali l’esclusione della retroattività si palesa compatibile con la legge fondamentale. Né potrebbe giovare un richiamo dogmatico al dato testuale, posto che il concetto di pendenza non ha ricevuto definizione nel nostro sistema processual-penalistico, il che consente di adeguarlo alle caratteristiche ed alla finalità delle situazioni in cui è destinato ad incidere».
Il medesimo schema argomentativo è stato, ora, adottato dalla Corte di cassazione anche rispetto alla disciplina transitoria all’esame, la cui ratio evidente è quella di garantire a tutti gli imputati il cui giudizio sia ancora pendente la possibilità di un “recupero” della possibilità di vedersi applicata una pena sostitutiva.
3.5.– Le pronunce appena menzionate, che riflettono un orientamento sin qui unanime della Corte di cassazione, possono già essere ritenute espressive del diritto vivente relativo all’interpretazione della disposizione censurata.
Tale interpretazione […] si sottrae a tutte le censure di legittimità costituzionale formulate dal rimettente.
Essa assicura infatti uniformità di trattamento a tutti gli imputati i cui processi fossero ancora pendenti – in qualsiasi grado di giudizio – all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, e consente loro di accedere alle più favorevoli pene sostitutive di cui al nuovo art. 20-bis cod. pen., spiccatamente orientate alla rieducazione del condannato, evitando al contempo qualsiasi vulnus al diritto di difesa.
3.6.– Non coglie nel segno, d’altra parte, l’argomento del giudice rimettente, secondo cui l’interpretazione in parola non sarebbe consentita dal tenore letterale della disposizione censurata, ciò che renderebbe imprescindibile un intervento di questa Corte.
Invero, la norma enucleata dal diritto vivente con riferimento all’ipotesi specifica del condannato in grado d’appello, per il quale pendesse ancora il termine per il deposito della sentenza ovvero quello per la proposizione del ricorso per cassazione al momento dell’entrata in vigore della riforma, non è estraibile dal dato letterale del secondo periodo dell’art. 95, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022.
Tuttavia, tale norma non è incompatibile con il dato testuale, inserendosi in uno spazio non regolato in maniera difforme dal legislatore; e non può pertanto ritenersi il risultato di un’interpretazione contra legem […].
La norma in questione deve, semmai, considerarsi il frutto di una interpretazione analogica, senz’altro consentita in materia processuale a fronte di una lacuna non intenzionale della legge, in applicazione degli ordinari canoni ermeneutici.
Che la lacuna non fosse intenzionale, d’altra parte, è mostrato dalla stessa relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, in cui si sottolinea che «le modifiche normative che riguardano il sistema sanzionatorio hanno pacificamente natura sostanziale e, pertanto, sono soggette al principio di irretroattività in malam partem e di retroattività in bonam partem. Le disposizioni che elevano il limite della pena detentiva sostituibile sono più favorevoli al reo e devono essere applicabili retroattivamente, salvo il limite del giudicato (art. 2, co. 4 c.p.)».
Ciò che mostra come la chiara intenzione del legislatore fosse quella di assicurare la possibilità di accedere alle nuove pene sostitutive a tutti i processi in corso sino alla loro definizione con sentenza irrevocabile: possibilità assicurata, anche negli interstizi non coperti dal dato letterale del prodotto legislativo, proprio dall’interpretazione ora riferita della giurisprudenza di legittimità.
Una simile interpretazione, infine, non è affatto preclusa – ai sensi dell’art. 14 Preleggi – dal carattere transitorio, e dunque asseritamente eccezionale, della disposizione censurata, come erroneamente sostiene il rimettente. La disposizione censurata è, all’opposto, espressiva di un principio generale dell’ordinamento, per di più di rango costituzionale: quello, cioè, secondo cui le norme più favorevoli in materia di sanzioni punitive devono, di regola, essere applicate retroattivamente a tutti i processi in corso. Sicché l’interpretazione analogica adottata dalla Corte di cassazione costituisce, al tempo stesso (doverosa) interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata.
3.7.– A fronte, dunque, di un diritto vivente che ha già estratto dalla disposizione censurata una norma non incompatibile con i parametri costituzionali evocati, le questioni sollevate dal rimettente debbono essere dichiarate non fondate.