Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 30 marzo 2022 n. 11586
PRINCIPIO DI DIRITTO
La riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso del dichiarante; tuttavia, la motivazione della sentenza che si fondi sulla prova non rinnovata deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, che il giudice ha l’onere di ricercare ed eventualmente acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: “se, in caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive, l’impossibilità di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa a causa del decesso del soggetto da esaminare precluda, di per sé sola, il ribaltamento del suddetto giudizio”.
- Prima di affrontare le tematiche connesse alla questione oggetto di rimessione, appare utile esaminare il primo motivo di ricorso, con cui si deduce, tra l’altro, la violazione dell’art. 512 cod. proc. pen. e la conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni di Monica Sanchi, di cui è stata data lettura.
Si assume, da parte della difesa, che il giudice del rinvio ha disposto l’acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali rese da Monica Sanchi sull’erroneo presupposto della imprevedibilità del suo decesso, evento questo che, invece, era del tutto prevedibile, considerando che alla coimputata, affetta da un male incurabile, i medici avevano dato pochi mesi di vita, tanto è vero che già nel corso del giudizio di primo grado era stata sentita presso la clinica dove era ricoverata per la grave malattia e che la stessa difesa di Sanchi, dinanzi alla richiesta del Procuratore generale di esaminarla nuovamente, aveva prodotto una certificazione attestante le sue gravi condizioni cliniche, di cui peraltro dà atto la stessa sentenza impugnata.
Il motivo è manifestamente infondato.
L’ordinanza di rimessione ha osservato come la valutazione sulla imprevedibilità dell’evento, che impedisce la ripetizione dell’atto assunto nelle indagini preliminari e ne legittima la lettura, trova il suo fondamento in un giudizio di prognosi postuma, che deve far riferimento alle circostanze note o conoscibili al momento in cui la parte interessata avrebbe potuto chiedere l’incidente probatorio, secondo un criterio di ragionevolezza (ex plurimis, Sez.
5, n. 4945, del 20/01/2021, T., Rv. 280669; Sez. 6, n. 50994, del 26/03/2019, D., Rv. 278195; Sez. 1, n. 45862, del 17/10/2011, Albano, Rv.
242712), mentre la difesa ha individuato il momento in cui operare la prognosi postuma” nel giudizio di rinvio, anziché collocarlo al tempo in cui si sarebbe potuto richiedere l’incidente probatorio, cioè entro i termini di chiusura delle indagini.
L’osservazione è corretta, tuttavia l’infondatezza del motivo trova la sua ragione soprattutto in considerazione del fatto che, sebbene lo stesso giudice del rinvio richiami l’art. 512 cit., nel caso di specie si è al di fuori dell’ambito applicativo di tale disposizione.
Innanzitutto, va sottolineato che le dichiarazioni predibattimentali di Monica Sanchi erano già state “ripetute”, essendo stata la coimputata escussa nel contraddittorio dibattimentale. Come è noto, le letture previste dal codice di rito, tra cui quelle cui si riferisce l’art. 512, consentono agli atti formati fuori del giudizio, in presenza di determinati presupposti previsti dalla legge, di essere acquisiti ufficialmente al fascicolo dibattimentale e, quindi, di divenire legittimamente valutabili come prove ai fini della decisione: in ogni caso alla lettura si può procedere solo quando un esame dibattimentale è mancato e, nel caso in questione, non si è verificata questa situazione, perché, come si è detto, la coimputata Sanchi è stata esaminata in dibattimento nel corso del primo giudizio.
Come si vedrà il recupero di tali dichiarazioni non si giustifica attraverso il ricorso al citato art. 512, bensì sotto il profilo dei poteri officiosi che vanno riconosciuti al giudice nella presente fattispecie.
- La questione sottoposta all’esame di questo Collegio si riferisce alle censure proposte nel ricorso con cui si contesta l’operazione compiuta dalla Corte di assise di appello, quale giudice di rinvio, censure formulate nel primo motivo del ricorso e ribadite nei motivi nuovi, che hanno formato oggetto delle articolate note di udienza presentate dall’Avvocato Generale. Secondo la difesa, non potendo ottemperare a quanto stabilito dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione, che aveva indicato la necessità di riaprire l’istruttoria dibattimentale in appello per risentire Monica Sanchi, nel frattempo deceduta, la Corte territoriale avrebbe dovuto fare applicazione del principio di diritto contenuto nella decisione delle Sezioni Unite Dasgupta peraltro richiamata dalla sentenza di annullamento -, che ha espressamente affrontato il caso della “impossibilità” di rinnovare la prova dichiarativa per irreperibilità, infermità o morte del soggetto, escludendo in queste ipotesi ogni possibilità di superamento della sentenza assolutoria in appello, quindi stabilendo che in appello, se non è possibile rinnovare la prova dichiarativa, non è consentito ribaltare il verdetto assolutorio.
L’interpretazione offerta dalla difesa renderebbe superfluo l’esame dei motivi del ricorso circa la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla credibilità della coimputata e condurrebbe alla conferma della sentenza assolutoria di primo grado.
- Il tema attiene all’obbligo di rinnovazione istruttoria in appello in caso di overturning sfavorevole all’imputato, così come configurato prima dalla giurisprudenza – europea e nazionale – e successivamente dal legislatore.
E’ noto il percorso della giurisprudenza sul tema del “ribaltamento” della sentenza assolutoria di primo grado, sicché è sufficiente in questa sede farvi solo brevi cenni, finalizzati all’inquadramento della questione.
Gli oneri motivazionali gravanti sul giudice di appello in caso di riforma della pronuncia di primo grado sono stati puntualmente delineati già con le Sez. U, Mannino (sent. n. 33748, del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; v., anche, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, R”. 226093) secondo cui, qualora all’assoluzione segua in appello una decisione di colpevolezza dell’imputato, sul giudice incombe l’onere di dimostrare, con una rigorosa «l’incompletezza o l’incoerenza» della decisione appellata, «non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma».
Successivamente la giurisprudenza si è mostrata particolarmente sensibile nel recepire le indicazioni interpretative provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, con il leading case rappresentato da Corte EDU, 05/07/2011, Dan c. Moldavia, ha sostenuto che, in caso di superamento di una sentenza assolutoria, il giudice di appello deve procedere all’esame diretto dei testimoni, per valutarne l’attendibilità e così assicurare l’equo processo.
4.1. Con questa decisione la Corte EDU ha riconosciuto la violazione del diritto ad un processo equo, ai sensi dell’art. 6 CEDU, nel caso di overturning sfavorevole senza rinnovazione dell’istruttoria: più precisamente, è stata esclusa l’equità del processo se, dopo un’assoluzione in primo grado, intervenga una condanna nel giudizio di appello senza che le prove dichiarative, poste a base del primo pronunciamento, siano state nuovamente formate davanti al secondo giudice. L’equità del processo impone che l’imputato si possa sempre confrontare con i testimoni davanti al giudice che dovrà decidere, confronto che avviene con la pubblica accusa, nel contraddittorio che diventa l’elemento essenziale del processo equo. Si tratta di un orientamento presente anche in decisioni precedenti (v., Corte EDU, 08/03/2007, Danila c. Romania) e ribadito successivamente con sentenze in cui si è affermata la prevalenza dell’oralità e della sua necessaria applicazione ogni qual volta il giudice di appello intenda riformare in pejus una sentenza assolutoria in base ad una rivisitazione della prova dichiarativa, puntualizzando che l’onere di esaminare direttamente i testimoni prescinde da un formale atto di impulso delle parti (cfr., Corte EDU, 26/02/2012, Gaitaranu I l c. Romania; Corte EDU, 05/03/2013, Manolachi c. Romania; Corte EDU, 04/07/2013, Hanu c. Romania; Corte EDU, 09/04/2013, Flueras c. Romania).
4.2. Sono state le Sez. U, Dasgupta a sigillare un legame strettissimo con l’orientamento della Corte di Strasburgo, affermando che il giudice di appello per riformare la sentenza assolutoria e riconoscere la responsabilità penale dell’imputato deve procedere, anche d’ufficio, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni decisive sui fatti del processo nel corso del giudizio di primo grado, precisando che qualora il “ribaltamento” della decisione avvenga solo sulla base di una diversa valutazione delle prove dichiarative, ritenute decisive, la sentenza è affetta da vizio di motivazione, seppur connesso ad una carenza istruttoria del giudizio di appello.
In questi casi la Corte di cassazione non si limita a richiedere una motivazione rafforzata, ma stabilisce che il giudice di appello non può condannare il prosciolto sulla base di una valutazione diversa delle prove dichiarative se non disponendone la rinnovazione. Le Sezioni Unite hanno quindi chiarito che l’omessa rinnovazione produce effetti sulla tenuta logica della sentenza di condanna, in quanto fondata sul materiale cartolare controverso, con la conseguenza che la mancata rinnovazione realizza la violazione della regola posta dall’art. 533 cod. proc. pen., secondo cui la condanna è sempre subordinata al superamento di ogni ragionevole dubbio. Tale omissione è rilevabile anche d’ufficio, in tutti i casi in cui i profili della responsabilità sono portati alla cognizione della Corte di cassazione attraverso il vizio di motivazione.
La regola Dasgupta è stata confermata anche in relazione al ribaltamento della pronuncia assolutoria emessa nel giudizio abbreviato (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785), è stata estesa alle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112), nonché all’annullamento, ai soli fini civili, della sentenza assolutoria di primo grado (Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228), mentre la sua applicazione è stata esclusa nell’ipotesi in cui la riforma riguarda una sentenza di condanna in primo grado (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430).
La sentenza Dasgupta ha anche affrontato il problema oggetto della questione rimessa e cioè quello dell’applicabilità della regola della necessaria rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei casi in cui l’esame del dichiarante sia divenuto impossibile, perché, ad esempio – per restare al caso di specie – medio tempore deceduto, sostenendo che, quando la rinnovazione in appello della prova dichiarativa si riveli impossibile per irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare, «non vi sono ragioni per ritenere consentito un ribaltamento del giudizio assolutorio ex actis».
Tuttavia le Sezioni Unite precisano che è dovere del giudice accertare «sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva della nuova audizione sia che la sottrazione all’esame non dipenda dalla volontà di favorire l’imputato o da condotte illecite poste in essere da terzi, essendo in tal caso il giudice legittimato a fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni».
Anche rispetto ai soggetti C.d. vulnerabili (minori, soprattutto se vittime di reati) si è sostenuto che «non sussistono valide ragioni per ritenere inapplicabile la preclusione di un ribaltamento ex actis del giudizio assolutorio», ma in questo caso la sentenza puntualizza che «è rimessa al giudice la valutazione circa l’indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell’impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria» (Sez. U, n. 27620 del 2016, Dasgupta).
Dunque, le Sez. U, Dasgupta pongono una regola tendenzialmente rigida, in quanto ritengono che in presenza di una sentenza assolutoria di primo grado, rafforzativa del principio di presunzione di non colpevolezza, il ribaltamento in appello può avvenire solo attraverso una riedizione della prova nel contraddittorio delle parti, essendo questo l’unico metodo processuale per superare l’oltre ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato. Tuttavia, la regola del “se non è possibile rinnovare la prova non è consentito ribaltare il verdetto assolutorio” non sembra espressa in termini assoluti, dal momento che, soprattutto con riguardo al teste vulnerabile, le stesse Sezioni Unite introducono un fattore di flessibilità, affidando al giudice la valutazione circa l’insuperabile necessità della reiterazione dell’atto istruttorio e, inoltre, sembrano ammettere casi residui in cui il giudice può decidere su “precedenti dichiarazioni”.
- Nella presente fattispecie occorre tenere presente che il quadro normativo di riferimento è mutato per effetto dell’introduzione del comma 3bis dell’art. 603 cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, successiva sia alla sentenza della Corte di appello oggetto di annullamento, sia alla decisione della Corte di cassazione.
La legge citata non ha previsto alcuna disposizione transitoria, sicché si pone la questione preliminare circa l’applicazione del nuovo comma 3-bis nel celebrato giudizio di rinvio e nel presente procedimento.
In tema di successione di leggi processuali nel tempo, con riferimento alla materia delle impugnazioni, le Sezioni Unite n. 27614 del 29/03/2017, Lista, Rv. 236537, hanno stabilito che ai fini dell’individuazione del regime applicabile, in assenza di disposizioni transitorie, deve farsi riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. Per superare il conflitto tra disposizioni processuali che si succedono nel tempo, la sentenza suindicata ha evidenziato la necessità che si individui correttamente l’actus cui fare riferimento per fissare il corretto parametro intertemporale, parametro che, con specifico riferimento al campo processuale, è costituito dall’art. 11, primo comma, preleggi. Si è così precisato che l’atto «va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stesso processo», non potendosi accogliere una nozione indifferenziata di atto processuale. Ed infatti le Sez. U, Lista hanno, in via esemplificativa, individuato alcune specie di atti, rispetto ai quali il parametro intertemporale finisce per essere diversamente modulato: «l’atto con effetti istantanei, che si esaurisce nel suo puntuale compimento»; l’atto ad esecuzione istantanea che però «presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga», ancorato ad un altro atto che definisce la catena procedimentale divenendone centrale; l’atto «strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento», che realizza una fattispecie processuale complessa. La diversa tipologia di atti processuali finisce necessariamente per condizionare la regola tempus regit actum.
Il principio affermato dalle Sez. U, Lista si riferisce all’atto di impugnazione in senso stretto, che consente il passaggio al successivo grado di giudizio, ricompreso nella tipologia degli atti con effetti istantanei, : con riferimento a questo tipo di actus, con funzione “autoreferenziale”, si giustifica
la regola posta dalla sentenza citata, secondo cui, come si è visto, il regime dell’atto di impugnazione viene determinato con riferimento alla normativa in vigore al momento della pronuncia della sentenza impugnata, in quanto «è in rapporto a quest’ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla» (così, Sez. U, Lista).
Ma nella fattispecie in esame la situazione è del tutto diversa.
La nuova disciplina dell’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., non è intervenuta a regolamentare in modo innovativo l’atto di impugnazione in quanto tale ovvero il regime stesso dell’impugnazione, ma ha introdotto una nuova regola processuale sulla istruttoria in appello, peraltro ponendosi in linea di continuità con la giurisprudenza delle Sez. U, Dasgupta.
In questo caso, proprio seguendo quanto affermato dalle Sez. U, Lista circa la necessità di individuare l’actus per definire il corretto parametro intertemporale, deve riconoscersi che la regola posta dal comma 3-bis dell’art. 603 cit. riguarda una regola procedimentale del giudizio di appello, che viene ad operare nel caso di ribaltamento della precedente decisione assolutoria, regola che è posta in relazione alla presunzione costituzionale di non colpevolezza e al paradigma dell’oltre ogni ragionevole dubbio e che deve trovare immediata applicazione ai sensi del citato art. 11, primo comma, preleggi. Non vi è alcun atto processuale che si sia già perfezionato e abbia prodotto i propri effetti prima dell’entrata in vigore della nuova legge; la rinnovazione dell’istruttoria, cui si riferisce il nuovo comma 3-bis, costituisce un’attività procedimentale complessa, che è stata posta in essere successivamente all’entrata in vigore della legge n. 103 del 2017.
Si tratta di una questione di diritto intertemporale che non riguarda un singolo atto che abbia esaurito i propri effetti, quale quello di impugnazione, bensì un procedimento ricompreso nel giudizio di impugnazione, ancora non esaurito, rispetto al quale il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento in cui l’atto complesso del procedimento stesso viene ad essere compiuto (in questo senso, Sez. 5, n. 32011 del 11/06/2019, Romano, Rv. 277250; Sez. 6, n. 16860 del 19/03/2019, Cuppari, Rv. 275934; Sez. 6, n. 10260 del 14/02/2019, Cesi, Rv. 275201).
Il principio affermato dalle Sez. U, Lista, pienamente giustificato in rapporto all’atto di impugnazione, produrrebbe effetti irragionevoli applicato al caso in esame, perché avrebbe come conseguenza che in tutti i procedimenti pendenti di impugnazione non troverebbero mai applicazione le nuove disposizioni processuali, in contrasto con la regola generale dell’art. 11, primo comma, preleggi.
Peraltro, la nuova disciplina, in quanto ius superveniens, costituisce un limite anche al vincolo del giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento (ex plurimis, Sez. 4, n. 35680 del 24/06/2009, Pangallo, Rv. 245777; sez. 2, n. 1635 del 08/05/2003, dep. 2004, stati, Rv. 227797).
- Il legislatore del 2017 si è posto «in una prospettiva di sostanziale continuità rispetto al quadro dei princìpi» stabiliti dalle Sez. U, Dasgupta, tuttavia la ellittica formulazione della norma potrebbe portare a letture divergenti rispetto al sistema creato dalla giurisprudenza.
Infatti, il nuovo art. 603 cod. proc. pen. ha giustificato interpretazioni secondo cui la rinnovazione doverosa in appello avrebbe trasformato il giudizio di secondo grado avverso una pronuncia di proscioglimento in un “secondo primo giudizio” di merito, allontanandosi dal modello della revisio prioris instantiae.
Nel rinnovato quadro inizialmente di origine giurisprudenziale e oggi anche normativo – la tesi dell’eccezionalità della rinnovazione istruttoria in appello è stata comunque messa in dubbio. L’originaria eccezionalità di questo istituto era dovuta ad una esegesi che circoscriveva al giudizio di primo grado la formazione della prova, attribuendo all’appello la costruzione definitiva della motivazione di merito, ma oggi si assiste ad una rinnovazione che in alcuni casi può essere letta a favore di una configurazione dell’appello come un ‘nuovo giudizio”.
Così, si è ritenuto che il nuovo caso di rinnovazione avesse natura obbligatoria, nel senso di precludere al giudice ogni margine di scelta in ordine al se e al quando procedere alla rinnovazione, epilogo questo che prescinderebbe anche dalla richiesta della parte; inoltre, riguardo ai caratteri che deve presentare la prova da riassumere in appello, si è escluso che debba manifestare i tratti della decisività.
Queste prospettive ermeneutiche non appaiono condivisibili. Invero, occorre ribadire che l’istituto dell’appello, come delineato anche a seguito
delle modifiche apportate dalla legge n. 103 del 2017, resta un mezzo di controllo della decisione assunta in primo grado.
Su tali aspetti sono intervenute le Sezioni Unite, che hanno chiarito come, anche dopo l’introduzione del comma 3-bis nell’art. 603, il giudice di appello non è obbligato a disporre una rinnovazione “generale e incondizionata” dell’attività istruttoria svolta in primo grado e hanno precisato che l’attività probatoria va «concentrata solo sulla fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice di appello» (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, Troise). Inoltre, questa stessa giurisprudenza ha circoscritto l’ambito applicativo della nuova rinnovazione, affermando che essa deve consistere nella «previsione di una nuova, mirata, assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice di appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilità» (Sez. U, Troise, cit.), con la conseguenza che il concetto di decisività si ricava in rapporto alla rilevanza e utilità della prova stessa, in vista della decisione.
L’implementazione della rinnovazione finisce per ridefinire gli spazi concessi al contraddittorio, inteso come insieme di oralità e immediatezza, ma non modifica il modello dj impugnazione.
In ogni caso, la valorizzazione della rinnovazione può essere messa in relazione anche con la modifica dell’art. 111 Cost., soprattutto là dove garantisce all’imputato il diritto di acquisire “ogni altro mezzo di prova a suo favore”, non essendovi dubbio che le regole del giusto processo si applichino anche in appello.
Tuttavia, to stesso art. 111, comma 5, Cost. prevede una deroga al principio del contraddittorio stabilendo che «nei casi regolati dalla legge la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».
Occorre allora verificare se tali eccezioni al contraddittorio si riflettano sulla regola della rinnovazione in caso di overturning così come affermato dalla Dasgupta. In altri termini, il problema non è tanto quello di verificare, come sembra chiedere la difesa, se sia consentito utilizzare l’art. 512 cod. proc. pen. in caso di ribaltamento in appello, quanto di accertare se la preclusione tendenzialmente rigida di overturning sfavorevole, posta dalla regola Dasgupta, sia compatibile con il quadro di riferimento costituzionale.
La questione riguarda il contemperamento tra le esigenze di rinnovazione nella prospettiva del ribaltamento in appello del proscioglimento e l’impossibilità di riassunzione del dichiarante, per morte, infermità o irreperibilità.
Se, come si è detto, in appello vale il principio del contraddittorio nella formazione della prova stabilito dall’art. 111 Cost., non possono non trovare applicazione le relative eccezioni previste espressamente nel comma 5 della stessa norma costituzionale. D’altra parte, le disposizioni processuali vigenti non stabiliscono alcun divieto di “ribaltare” l’assoluzione quando vi siano condizioni oggettive che impediscano la rinnovazione della prova, sicché in presenza di disposizioni che non contengano divieti di esclusioni probatorie non può trovare applicazione una regola di origine giurisprudenziale non riprodotta dalla legge.
Infatti, ritenere che l’impossibilità di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva per oggettiva impossibilità impedisca sempre e comunque il ribaltamento del proscioglimento in assenza della rinnovazione, porterebbe alla configurazione di una vera e propria regola di esclusione probatoria, sul tipo di quella prevista dall’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 27918 del 25/11/2010, dep. 2011, D., Rv. 250197). Ma di tale tipo di regola di esclusione non vi è traccia nel codice di rito, né può desumersi dall’art. 111 Cost. che, invece, nel comma 5 consente, come si è visto, la deroga al principio del contraddittorio nei casi di accertata impossibilità di natura oggettiva, tra i quali può rientrare la sopravvenuta morte del dichiarante. Come correttamente evidenziato dall’ordinanza di rimessione, l’impossibilità della riassunzione dell’istruttoria dibattimentale per la morte del dichiarante che ha reso dichiarazioni “decisive” è un’evenienza che va ricondotta «nell’ambito di quella che viene indicata come la “clinica” della giurisprudenza, ossia della definizione degli standards cognitivi e motivazionali del giudice».
- Insomma il dato testuale dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., nel caso in cui la rinnovazione si riveli impossibile, non esclude il ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado e del resto va ribadito che le stesse Sez. U, Dasgupta, sebbene prevedano la preclusione di un overturning ex
actis, nell’ipotesi in cui il dichiarante sia un soggetto vulnerabile, affidano al giudice la valutazione sulla necessità di sottoporlo ad un ulteriore stress per verificare la fondatezza dell’appello contro la sentenza di assoluzione: in questo contesto il giudice viene chiamato a realizzare una sorta di ponderazione degli “interessi” contrapposti.
Questo ruolo di regolatore degli “interessi” in campo, riconosciuto al giudice, lo ritroviamo anche nella giurisprudenza della Corte EDU.
Con la sentenza Dan c. Moldavia la Corte EDU, preso atto che «la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate», ha riconosciuto che «vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perché, per esempio, è deceduto». La stessa decisione che cristallizza la regola della rinnovazione della prova in caso di ribaltamento in appello dell’esito assolutorio, pone, nello stesso tempo, una significativa riduzione della rigidità del principio affermato, riconoscendo casi in cui può ammettersi una deroga e, così, riconducendo la regola nel quadro generale della valutazione globale dell’equità della procedura.
Tale approccio, ispirato ad una applicazione flessibile della regola, rappresenta un vero e proprio orientamento della giurisprudenza europea: lo ritroviamo in una delle prime pronunce che hanno applicato i principi della sentenza Dan c. Moldavia all’Italia, in cui viene ribadito come il decesso del dichiarante costituisca un’ipotesi di deroga alla regola per cui «la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un’attività complessa che, normalmente, non può essere svolta mediante una semplice lettura del contenuto delle dichiarazioni di quest’ultimo, come riportate nei verbali delle audizioni» (Corte EDU, 29/06/2017, Lorefice c. Italia).
Nello stesso senso, in maniera ancor più esplicita, si è espressa la Corte EDU proprio con riferimento al caso di un teste non risentito dal giudice di appello, in quanto nelle more deceduto: in tale fattispecie ha censurato la decisione che aveva statuito il ribaltamento non per il mero utilizzo delle pregresse dichiarazioni, ma solo in quanto l’affidamento su tali dichiarazioni avrebbe dovuto essere accompagnato da adeguate garanzie (Corte EDU, 10/11/2020, Dan c. Moldavia, nota come Dan 2).
Va evidenziato come quest’ultima sentenza abbia richiamato le due note pronunce della Grande Camera della Corte di Strasburgo, ossia la sentenza del 15/12/2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito e la sentenza del 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania, che «hanno ritenuto compatibile con le garanzie convenzionali la condanna fondata su dichiarazioni decisive assunte in via unilaterale, ogni volta che il sacrificio del diritto di difesa (ovvero l’impossibilità di interrogare direttamente il teste fondamentale) sia bilanciato da “adeguate garanzie procedurali”».
Così, la sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito ha affermato che una condanna basata esclusivamente sulla dichiarazione di un testimone assente non comporta automaticamente una violazione dell’art. 6 CEDU, in quanto tale disposizione impone di valutare l’equità complessiva dei giudizi penali.
A sua volta, la sentenza della Grande Camera, 15 dicembre 2015,
Schatschaschwili c. Germania ha rimarcato come l’entità dei fattori di “controbilanciamento” necessari affinché la prova del testimone assente possa essere presa in considerazione dipenda dal “peso” della prova di detto testimone, ribadendo, comunque, la centralità dell’accertamento dell’imprevedibilità del mancato esame nel processo del teste assente. Inoltre, ha indicato tre canoni processuali da verificare: a) l’esistenza di un valido motivo giustificativo dell’assenza del testimone, quale presupposto dell’ammissione delle dichiarazioni precedenti; b) l’accertamento che la dichiarazione cartolare sia stata determinante per la condanna; c) la presenza di sufficienti garanzie procedurali compensative, idonee a bilanciare le difficoltà causate alla difesa in conseguenza dell’ammissione di dette prove, al fine di garantire l’equità del processo.
La più recente giurisprudenza della Corte EDU ha dunque ridimensionato i l rigore interpretativo della regola basata sulla prova determinante, introducendo un elemento di flessibilità rappresentato dal valore della equità complessiva del processo, affidando al giudice di apprezzare la consistenza di tutti quei contrappesi in grado di compensare, globalmente, le restrizioni delle prerogative difensive causate dall’utilizzazione di una prova non verificata in contraddittorio, prova capace di incidere sull’esito del giudizio. Si è, quindi, precisato che i fattori compensativi, funzionali a far apprezzare l’equità del giudizio, sono in relazione con il valore riconosciuto alla prova dichiarativa non assunta, nel senso che più la prova ha carattere di decisività, maggiore deve essere la pregnanza dei fattori compensativi. Inoltre, si è rilevato che per determinare l’equità del processo assume rilievo centrale l’accertamento dell’imprevedibilità del mancato esame del teste (cfr., Corte EDU, 23/06/2016, Ben Moumen c. Italia; nello stesso senso, di recente v., Corte EDU, 16/07/2019, Iélius Pér Sigur P6rsson c. Islanda, e Corte EDU, 09/11/2021, Ignat c. Romania).
E’ evidente come questo orientamento, che punta su una valutazione complessiva dell’equità nel processo, finisce per riconoscere al giudice il delicato compito di accertare quali siano le concrete modalità in grado di riequilibrare la mancanza di contraddittorio.
- Proprio la menzionata giurisprudenza europea ha contribuito a riconsiderare parzialmente l’orientamento delle Sez. U, n. 27918 del 25/11/2010, D. , Rv. 250199, secondo cui le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono fondare in modo esclusivo o significativo l’affermazione della responsabilità penale, perché ciò violerebbe le garanzie convenzionali.
Infatti, le Sez. U, Troise, nel richiamare gli approdi della giurisprudenza della Corte EDU, hanno ribadito che la condanna che si fondi unicamente o in misura determinante su una testimonianza resa in fase di indagini da un soggetto che l’imputato non sia stato in grado di interrogare nel corso del dibattimento integra una violazione dell’art. 6 CEDU, ma solo se il pregiudizio così arrecato ai diritti della difesa non sia stato controbilanciato da elementi sufficienti o da solide garanzie processuali in grado di assicurare l’equità del processo nel suo complesso. Si tratta di un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che da ultimo ha ribadito come «le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. possono costituire, conformemente all’interpretazione espressa dalla Grande Camera della Corte EDU con le sentenze 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito e 15 dicembre 2015, Schatschaachwili c. Germania, la base “esclusiva e determinante” dell’accertamento di responsabilità, purché rese in presenza di “adeguate garanzie procedurali”, individuabili nell’accurato vaglio di credibilità dei contenuti accusatori, effettuato anche attraverso lo scrutinio delle modalità di raccolta, e nella compatibilità della dichiarazione con i dati di contesto, tra i quali possono rientrare anche le dichiarazioni dei testi indiretti, che hanno percepito in ambiente extra-processuale le dichiarazioni accusatorie della fonte primaria, confermandone in dibattimento la portata» (Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148, che in motivazione ha precisato che ciò che rafforza la credibilità della dichiarazione predibattimentale non è il contenuto omologo e derivato della dichiarazione de relato, quanto la circostanza che il dichiarante assente abbia riferito ad altri i contenuti accusatori introdotti nel fascicolo del dibattimento attraverso l’art. 512 cod. proc. pen.; nello stesso senso cfr., Sez. 6, n. 43899 del 28/06/2018, Tropeano, Rv. 274278; Sez.6, n. 50094 del 26/03/2019, D., Rv. 278195; sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531).
- Sul tema delle garanzie procedurali, che devono controbilanciare la mancanza di contraddittorio, si registra, come si è visto, una formidabile convergenza della giurisprudenza nazionale con quella europea. La Corte di cassazione, come la Corte EDU, alla fine giustifica l’oggettiva restrizione subita dalla difesa, a causa dell’utilizzazione di una prova sottratta alla garanzia del confronto, solo in presenza di elementi di riscontro che possano corroborare i contenuti dichiarativi unilateralmente acquisiti: l’obiettivo è l’equità del processo, più precisamente del giusto processo cui si riferisce l’art. 111 Cost.
Sebbene nelle decisioni di legittimità che si sono citate non si ponga il tema dell’overturning, esse tuttavia indicano una linea di azione rilevante anche per la questione in oggetto, nella misura in cui individuano la necessità di un bilanciamento in presenza di decisioni che si fondano su prove unilaterali.
Invero, la presente fattispecie, rispetto ai casi cui si riferisce la giurisprudenza citata, si connota per il fatto che, oltre alla carenza del contraddittorio, dipendente dalla impossibilità di ripetizione della prova dichiarativa già assunta in primo grado nel contraddittorio fra le parti, vi è la presenza di una decisione assolutoria intervenuta in primo grado che ingenera il dubbio sul reale fondamento dell’accusa. In questa situazione l’assoluzione di primo grado, che si fonda non solo sulla mancanza della prova della colpevolezza, ma sul ragionevole dubbio dell’innocenza dell’imputato, opera un rafforzamento della presunzione di non colpevolezza in appello che, secondo quanto prevede oggi l’art. 603, comma 3-bis, può essere superata solo attraverso l’instaurazione del contraddittorio come metodo di costruzione della prova orale. Tuttavia, nella impossibilità oggettiva di dar luogo alla rinnovazione istruttoria, il ribaltamento dell’esito assolutorio può avvenire, ma solo in presenza di idonee e rafforzate garanzie procedurali.
Innanzitutto, rafforzata deve essere la motivazione che deve colmare il deficit del mancato riascolto (in questo senso già, Sez. U, Troise).
In questo caso il “rafforzamento” delle argomentazioni motivazionali deve essere particolarmente incisivo e, in primo luogo, avere ad oggetto la dichiarazione “decisiva”, resa in primo grado e non potuta replicare, attraverso un esame e una valutazione di tutti gli elementi riguardanti la credibilità del soggetto e l’attendibilità del suo narrato, per poi procedere alla falsificazione della stessa prova dichiarativa per verificarne le disarmonie logiche e argomentative, nonché per evidenziare il fondamento erroneo dei fatti e rapporti valorizzati dal primo giudice sulla base di un eventuale travisamento probatorio.
Ma, soprattutto, il rafforzamento deve avvenire non solo su basi ‘argomentative”, bensì sulla base di ulteriori elementi che siano idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, elementi che i l giudice ha l’onere di ricercare e acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.
In questa opera di riqualificazione del quadro probatorio devono essere cercati e verificati gli elementi di riscontro in grado di corroborare la prova dichiarativa non “ripetibile” per ragioni oggettive, elementi di riscontro con sicura valenza confermativa, in modo da riconoscere alla dichiarazione stessa una capacità conoscitiva tale da giustificare il ribaltamento; ove necessario possono essere disposte d’ufficio dal giudice, attivando i poteri ex art. 603, comma 3, cit., prove in origine ritenute superflue che, invece, nella situazione particolare che si è determinata, si rivelino ora necessarie; così come non può escludersi che possa rendersi necessaria una perizia finalizzata ad accertare, sul piano tecnico scientifico, fatti oggetto della dichiarazione non rinnovabile per cause oggettive.
Insomma, il deficit probatorio che si verifica per effetto della impossibilità di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa “decisiva” e in presenza di una sentenza assolutoria di primo grado determina la necessità di
prevedere tutte quelle garanzie procedimentali in grado di reintegrare il quadro probatorio, al fine di dimostrare la illogicità della originaria valutazione che di quelle prove ha fatto il primo giudice.
Nell’ambito dei poteri officiosi del giudice di appello, attivabili nella oggettiva impossibilità di riascoltare il dichiarante, rientra anche la possibilità di lettura degli atti assunti nel procedimento, come del resto ha fatto, nel caso in esame, la Corte di appello di Bologna nel giudizio di rinvio, al fine di accertare la credibilità della coimputata deceduta e saggiare l’attendibilità e la coerenza del suo narrato attraverso la ricostruzione dei suoi apporti conoscitivi. In questo caso, il ricorso alle letture si giustifica in base al combinato disposto degli artt. 598 e 603, comma 3, cod. proc. pen., e quindi, come si è anticipato, si è fuori dall’ambito applicativo proprio dell’art. 512 cod. proc. pen.
Le garanzie procedimentali che possono giustificare sia il superamento della presunzione di innocenza rafforzata legata all’intervenuta assoluzione, sia la mancanza del contraddittorio, possono anche non operare cumulativamente, nel senso che spetta alla discrezionalità del giudice, in rapporto alle necessità di integrazione probatoria, valutare se sia necessario o meno ricorrere ad una rinnovazione anche officiosa dell’istruzione dibattimentale, oppure sia sufficiente una motivazione rafforzata con gli opportuni riscontri.
Nel caso di rinnovazione istruttoria, soprattutto quando particolarmente estesa in funzione della necessità di ricomporre il quadro probatorio, il giudizio di appello fatalmente si avvicina ad una forma di novum iudicium: quanto più vasta è l’istruttoria dibattimentale in appello, tanto maggiore è la trasfigurazione del giudizio d’appello in novum iudicium, che trova la sua ragione di essere nella necessità di dover superare la mancanza del contraddittorio insieme alla presunzione rafforzata di innocenza per effetto della preesistente pronuncia assolutoria.
- Può quindi formularsi il seguente principio di diritto:
La riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso de/ dichiarante; tuttavia, la motivazione della sentenza che si fondi sulla prova non rinnovata deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, che il giudice ha l’onere di ricercare ed eventualmente acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.
- Sulla base del principio di diritto formulato – che può essere esteso anche ai casi di irreperibilità o infermità del dichiarante – devono ritenersi infondati i motivi con cui il ricorso censura la sentenza per aver operato il ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado e affermato la responsabilità dell’imputato ex actis, attraverso il recupero delle precedenti dichiarazioni rese da Monica Sanchi, una volta constatata l’impossibilità di risentirla perché nel frattempo deceduta.
Infatti, la Corte di assise di appello ha posto in essere proprio quelle garanzie procedurali alle quali sopra si è fatto riferimento, garanzie rappresentate, nella specie, dalla rinnovazione parziale dell’istruttoria con il recupero, attraverso le letture, delle dichiarazioni acquisite nelle indagini preliminari, sottoposte poi ai necessari riscontri nell’ambito di una rafforzata motivazione che ha preso in considerazione in maniera puntuale e completa le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, nonché quelle delle parti, per giungere a ritenere l’attendibilità della coimputata, attendibilità confermata attraverso l’individuazione dei necessari riscontri.
- Il primo giudice ha ritenuto inattendibile Monica Sanchi, interessata ad accusare Sadik Dine per distogliere da sé ogni responsabilità o meglio per limitare il ruolo svolto nell’omicidio di Mannina: a riprova di questa lettura è stato evidenziato che le sue prime dichiarazioni autoaccusatorie risalgono al 29 aprile 2014, rese dopo che Demiraj, qualche giorno prima (23 aprile
2014), aveva reso un’ampia confessione anche in relazione all’omicidio di
Mannina, coinvolgendo anche Sanchi, che a questo punto si sarebbe decisa a «parlare solo perché stavano per schiudersi a lei le porte del carcere e non per sincero pentimento».
Questa ricostruzione è stata sottoposta ad attenta critica dal giudice del rinvio che ha dimostrato l’erroneità e l’illogicità della prospettiva contenuta nella sentenza di primo grado proprio attraverso l’acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni rese da Sanchi nel corso delle indagini, collocate in una corretta sequenza temporale rispetto ai fatti e alle stesse deposizioni di Demiraj.
Attraverso la rinnovazione parziale dell’istruttoria ai sensi degli artt. 603, commi 3 e 3-bis cod. proc. pen., il giudice del rinvio ha ricostruito la successione cronologica delle diverse deposizioni della fonte d’accusa, ne ha verificato l’attendibilità e la coerenza intrinseca e valutato, infine, la genesi della chiamata in correità, tema questo oggetto di specifiche doglianze, di opposto tenore, sia da parte del pubblico ministero appellante, che della difesa dell’imputato.
Infatti, è risultato che a rivelare particolari essenziali e determinanti per le indagini è stata proprio Monica Sanchi, prima delle dichiarazioni rese da Demiraj: nell’interrogatorio reso al pubblico ministero nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 ha raccontato della presenza del minorenne, Roki Rohani, appositamente giunto a Rimini per partecipare ai delitti, circostanza omessa da Demiraj nelle precedenti dichiarazioni confessorie dell’omicidio di Lidia Nusdorfi. Il 14 aprile 2014 Sanchi ha rivelato, nell’interrogatorio davanti al pubblico ministero, le modalità con cui Mannina è stato attirato da lei e da Demiraj a Rimini per ottenere informazioni su Lidia Nusdorfi. Nello stesso interrogatorio ha indicato la zona della cava del Lago Azzurro, dove venne trasportato il corpo di Mannina. Sempre Sanchi ha rivelato come, d’accordo con Demiraj, utilizzò il cellulare di Mannina inviando messaggi per allacciare i contatti con Lidia Nusdorfi e fissare l’appuntamento alla stazione di Mozzate, dove poi quest’ultima venne uccisa. Il giorno successivo all’interrogatorio accompagnerà gli investigatori nelle adiacenze della cava abbandonata del Lago Azzurro dove poi è stato ritrovato il cadavere di Mannina.
Si tratta di circostanze che, secondo la Corte di assise di appello, non erano note agli investigatori e che contraddicono quanto sostenuto nella prima sentenza laddove si nega la spontaneità delle dichiarazioni e l’intento collaborativo da parte di Sanchi.
Solo dopo le dichiarazioni di quest’ultima e il sopralluogo presso la cava sopralluogo che aveva avuto un’eco mediatica – Demiraj, consapevole che ormai gli inquirenti hanno collegato la scomparsa di Mannina con l’omicidio di Nusdorfi, già oggetto di confessione, chiede di essere interrogato e confessa anche l’omicidio di Mannina, ma lo riconduce ad una reazione impulsiva, determinata da gelosia, senza rivelare una serie di circostanze rilevanti, tra cui l’acquisto di un coltello, delle manette, del nastro adesivo e dei guanti, tutti oggetti strumentali alla consumazione dell’omicidio, nonché la partecipazione di Dine Sadik e del minorenne ai delitti e infine il luogo in cui avvenne l’uccisione, che colloca nei pressi del “Lago Azzurro” anziché all’interno dell’appartamento di via dell’Abete, dove effettivamente venne uccisa la vittima.
La Corte di assise di appello evidenzia come sia stata ancora Monica Sanchi, nell’interrogatorio del 29 aprile 2014, a fornire la dettagliata descrizione dei preparativi e delle modalità cruente poste in essere per uccidere Mannina, confessando la propria partecipazione e quella degli altri imputati, compreso Dine, inoltre riferendo, per la prima volta, dell’acquisto del coltello, delle manette e degli altri oggetti da parte di tutti i concorrenti nel delitto, dell’appartamento in cui sarebbe avvenuto l’omicidio, del trasporto del cadavere fino alla cava mediante l’utilizzo di due auto.
La sentenza impugnata ha offerto una logica risposta alle obiezioni sulla attendibilità di Sanchi, obiezioni basate sul fatto che avrebbe mentito nell’indicare Dine Sadik come colui che mise le manette a Mannina, essendo risultato dalle intercettazioni e dalla sentenza emessa nei confronti del minorenne Rohani, che invece fu lei a compiere tale operazione. La Corte non ha recepito le argomentazioni contenute nella sentenza citata e ha spiegato, con coerenza logica, che la conversazione intercettata tra Sanchi e Demiraj in data 12 maggio 2014, valorizzata a sostegno della tesi dell’inattendibilità, altro non era se non una raccomandazione di Demiraj a non rivelare l’acquisto delle manette e del restante materiale per scongiurare la contestazione della premeditazione. La sentenza impugnata ha, inoltre, spiegato le ragioni per le quali il contenuto della citata conversazione non smentisce quanto affermato dalla Sanchi, che infatti ammette che Demiraj le consegnò le manette intimandole di metterle a Mannina, precisando però che lei «era rimasta ferma, impalata sulla porta», sicché era intervenuto Dine Sadik che, prese le manette, le applicava a Mannina.
In base al riposizionamento, confronto e approfondimento critico delle dichiarazioni predibattimentali di Monica Sanchi e alla analisi puntuale delle conversazioni intercettate che hanno consentito di superare anche la ricostruzione che di tali dichiarazioni ha fatto il Maresciallo Casertano all’udienza del 21 settembre 2015 – il giudice del rinvio evidenzia l’illogicità degli argomenti utilizzati dalla Corte di assise di Rimini nel sostenere l’intrinseca inattendibilità di Monica Sanchi e del suo presunto interesse a coinvolgere Dine Sadik, attribuendogli condotte che sarebbe stata lei a porre in essere, per distogliere da sé ogni responsabilità. Alla data del 29 aprile 2014, rispetto al quadro probatorio emerso fino a quel momento, non vi era alcuna necessità né utilità per chiamare in causa falsamente Dine, dal momento che nessuno prima di lei aveva fatto riferimento alle modalità di uccisione di Mannina, all’uso di manette e al trasporto del cadavere. Ed in effetti, attraverso la corretta sequenza temporale delle dichiarazioni, appaiono logiche e coerenti le conclusioni cui approda il giudice del rinvio che esclude ogni strategia difensiva nel comportamento di Sanchi, la quale con le dichiarazioni rese nell’aprile del 2014, in cui fornisce una ricostruzione dettagliata dei fatti e delle fasi preparatorie dei due omicidi, vede aggravarsi pesantemente la sua posizione nella misura in cui descrive un disegno premeditato, di cui ella è partecipe sin dalle prime fasi; ricostruzione profondamente diversa da quella iniziale di Demiraj che, come si è detto, riconduceva entrambi gli omicidi a sue improvvise reazioni d’impeto determinate da attacchi di gelosia.
Una volta fatto cadere l’argomento principale sostenuto nella prima sentenza circa l’inattendibilità di Monica Sanchi e il suo interesse ad accusare Sadik Dine per limitare la sua responsabilità nell’omicidio Mannina e verificato che dalle sue confessioni rese il 14 e il 29 aprile 2014 non poteva trarne alcun vantaggio processuale, correttamente la Corte di appello l’ha ritenuta intrinsecamente credibile, anche considerando che tale confessione è stata confermata nel corso dell’esame dibattimentale del 24 luglio 2015, reso quando Monica Sanchi era ricoverata a causa di una grave malattia che l’avrebbe di lì a poco condotta alla morte, in una situazione, dunque, in cui, secondo i giudici, non avrebbe potuto trarre alcuna utilità ad accusare falsamente Dine.
Questo giudizio finale di credibilità non può essere intaccato, secondo la sentenza, dagli atteggiamenti tenuti all’inizio delle indagini, quando cioè la coimputata ha tentato una linea difensiva diversa, seguendo le indicazioni di Demiraj.
In sostanza, il giudice del rinvio, attraverso la lettura dei verbali acquisiti, rivalutati anche in relazione al contenuto delle conversazioni intercettate e alle dichiarazioni rese da Demiraj, ha escluso l’esistenza di “scaltre strategie difensive” da parte della Sanchi, pervenendo ad una ricostruzione della genesi della “testimonianza” della coimputata che appare logica e coerente: infatti, in sentenza si prende atto che inizialmente Sanchi ha seguito le indicazioni frutto degli accordi presi con Demiraj, secondo cui la sua partecipazione ai delitti doveva apparire come del tutto passiva, una conseguenza delle minacce di Demiraj – per consentire che la donna, evitando il carcere, potesse prendersi cura dei minori Samuel e Cristopher Demiraj -, ma allo stesso tempo si spiega che la donna, anche in considerazione degli sviluppi delle indagini, matura la convinzione di dover rivelare circostanze fondamentali per la completa ricostruzione dei fatti, confessando la sua piena partecipazione e il suo ruolo attivo sia nell’omicidio di Mannina, sia in quello di Nusdorfi. Le prime dichiarazioni sono considerate dai giudici il «frutto di un ordinario atteggiamento difensivo iniziale di prudenza», assolutamente non in grado di svalutare le successive deposizioni. Del resto, in materia di valutazione probatoria della chiamata in correità, l’esclusione dell’attendibilità limitata ad una parte del racconto non implica, per il principio di frazionabilità della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti che risultano intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrabili (Sez. 6, n. 35327 del 18/07/2013, Arena, Rv. 256097; Sez. 1, n. 40000 del 10/07/2013, Pompita, Rv. 256917; Sez. 6, n. 25266 del 03/04/2017, Polimeni, Rv. 270153). Insomma, l’atteggiamento iniziale di Monica Sanchi non ha compromesso la sua credibilità e l’attendibilità delle sue successive dichiarazioni che risultano adeguatamente riscontrate.
- La Corte di assise di appello ha, infatti, individuato i necessari riscontri alla chiamata in correità di Monica Sanchi.
Innanzitutto, il coinvolgimento di Dine nei due delitti di sangue viene spiegato ricostruendo la ragione del progetto omicidiario di Demiraj: il tradimento di Lidia Nusdorfi con il cugino, Klodian Dine, durante il soggiorno in Albania nell’estate del 2013, aveva disonorato Demiraj e la sua famiglia, compresa quella dello zio Sadik Dine, sicché l’offesa doveva essere vendicata con l’uccisione di colei che aveva tradito, disonorando tutto il “clan”. La sentenza riporta la testimonianza di Kraj Arban, responsabile dell’associazione nazionale degli albanesi in Italia, il quale ha riferito che il tradimento del marito da parte della moglie, secondo antiche e ataviche tradizioni che si riferiscono ad un codice consuetudinario albanese (C.d. codice Kanun), costituisce un’offesa di tale gravità da legittimare l’uccisione della donna, precisando che, se commesso con un familiare, ha ripercussioni sull’intera famiglia: ebbene, secondo i giudici del rinvio la condotta di Lidia Nusdorfi, in quel contesto familiare ancorato ad ancestrali e inconcepibili codici di onore, aveva provocato la reazione dell’intera famiglia di Demiraj, tra cui lo zio, Sadik Dine, che dopo quell’episodio ha interrotto ogni rapporto con il fratello, cioè con il padre di Klodian, rimproverandogli di non aver preso provvedimenti nei confronti del figlio (interrogatorio del 30.4.2014). Del resto, risulta che Demiraj, una volta appreso del tradimento, si recò in Albania per effettuare una “spedizione punitiva” nei confronti del cugino, che venne aggredito, con l’aiuto di- fratello di che poi parteciperà agli omicidi commessi in Italia aggressione che determinò l’arresto in Albania di Demiraj.
In questa ricostruzione la Corte di assise di appello individua una reazione vendicativa che coinvolge la famiglia di Demiraj, reazione a cui partecipa anche Sadik Dine, cioè lo zio che viveva anch’egli in Italia; in questo progetto vendicativo partecipano i fratelli anch’essi pienamente coinvolti, ed infatti la sentenza riferisce che Demiraj venne fermato per un controllo alla stazione di Rimini l’Il settembre 2013 in compagnia di Sadik Dine e di il 26 febbraio 2014 venne sottoposto ad un controllo di polizia mentre si trovava, assieme a Monica Sanchi, presso la stazione di Rimini in attesa di … .
Numerosi sono i riscontri presi in considerazione dalla sentenza di appello circa il pieno coinvolgimento di Dine.
Dai tabulati acquisiti risulta che il cellulare di Dine “agganciò” le celle della zona in cui si trovava il negozio ove vennero acquistati coltello, manette, guanti e nastro adesivo, in concomitanza con i cellulari degli altri concorrenti, a dimostrazione della loro contestuale presenza nel predetto posto.
I giudici del rinvio menzionano la conversazione intercettata tra Demiraj e Dine sulla linea difensiva da seguire, soprattutto in relazione al cellulare che quest’ultimo aveva lasciato a bordo dell’auto di Sanchi, ulteriore grave indizio sul suo pieno coinvolgimento all’intero progetto criminoso.
A conferma del coinvolgimento di Sadik Dine nella intera programmazione dei delitti, la sentenza cita la sua partecipazione, accertata, all’occultamento del cadavere di Mannina.
Del resto, è lo stesso imputato ad aver ammesso la partecipazione al trasporto del cadavere del Mannina, avvolto in un tappeto, dall’abitazione in cui venne ucciso al lago azzurro, dove poi venne occultato.
Riscontri sono ritenuti anche due conversazioni oggetto di intercettazione: la prima nel carcere di Rimini tra Demiraj e Dine (17.5.2014), in cui il primo fa presente che Monica Sanchi ha raccontato tutto, anche di quanto accaduto nella spedizione a Mozzate; la seconda, sempre nel carcere, in cui Demiraj, parlando con il compagno di cella, gli confida che Monica Sanchi «ha detto tutto, punto per punto, tutto» (28.7.2014).
Una valenza di riscontro viene attribuita alla missiva inviata da Demiraj ai suoi genitori (26 agosto 2014) in cui li rassicura di aver mantenuto il silenzio su Dine e su rammaricandosi del fatto che, invece, Monica Sanchi aveva parlato («io non ho detto niente dello zio e di ma l’ha detto quella donna, Monica. Quella che è in carcere con me»): evidente la preoccupazione di comunicare alla famiglia che non era stato lui ad accusare il parente e gli amici che avevano partecipato con lui alle azioni criminose.
Sempre a conferma del pieno inserimento di Dine nel progetto delittuoso, la sentenza ha dato rilievo anche ad una conversazione intercettata nel carcere di Como, in data 18 aprile 2014, tra Dine e Demiraj, in cui i due si scambiano informazioni circa la pulizia delle tracce lasciate nella casa di via dell’Abete – sul letto, sui muri e sul tappeto – dopo l’omicidio di Mannina.
Tuttavia, l’elemento di riscontro davvero significativo alla chiamata in correità è costituito dalla partecipazione dell’imputato alla fase immediatamente precedente l’omicidio di Mannina, quando vennero acquistate le manette e il nastro adesivo, utilizzati per infierire contro Mannina, nonché il coltello, con cui sarà uccisa Nusdorfi.
Secondo la ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata tali acquisti vennero fatti nel pomeriggio del 28 febbraio 2014 dal gruppo composto da Demiraj, Sanchi, e Dine che, a bordo della Lancia Y 10 di quest’ultimo, si erano recati nel centro di Rimini, nel negozio situato nei pressi di Piazzale Kennedy. Monica Sanchi ha riferito della fermata nei pressi del negozio e dell’acquisto fatto da Demiraj che, tornato in auto, mostrò a Dine il sacchetto con il suo contenuto e tale circostanza, che dimostra la presenza di Dine, è stata confermata da nel corso dell’esame eseguito all’udienza del 15 marzo 2017 nell’ambito del primo giudizio di appello; peraltro, lo stesso Demiraj ha affermato di aver acquistato, quello stesso pomeriggio, il coltello.
Che nel pomeriggio del 28 febbraio Dine si trovasse in compagnia di Demiraj e degli altri due complici la Corte di assise di appello lo desume anche da un ulteriore riscontro, costituito dall’analisi dei tabulati telefonici da cui risulta che Demiraj e Dine, verso le 17, si trovavano nella stessa zona.
La sentenza si preoccupa di rispondere alle obiezioni difensive che, per smentire una tale ricostruzione, hanno richiamato le dichiarazioni rese dal maresciallo Casertano, dichiarazioni motivatamente ritenute imprecise, frutto di una errata lettura dei tabulati.
Allo stesso modo, la sentenza fornisce una compiuta e logica indicazione in ordine alla inattendibilità della dichiarazione resa da Cristopher Mura, figlio di Monica Sanchi, secondo cui Dine sarebbe rimasto l’intero pomeriggio del 28 febbraio nella sua abitazione di via Campana, assieme ai suoi figli, Nicola, Sandra e Alex, in quanto è risultato accertato che quel giorno Alex si trovava in Albania.
Le obiezioni difensive con cui si sottolinea che Dine non partecipò ai sopralluoghi per individuare dove occultare il corpo di Mannina, né fu coinvolto negli stratagemmi ideati da Demiraj per attirare Mannina nell’appartamento attraverso il contatto telefonico con Sanchi sono state ritenute inidonee a indebolire il quadro probatorio su indicato con motivazione ampia e logica.
Infondate sono anche le doglianze contenute nel ricorso e nei motivi aggiunti con cui si sostiene la mancata considerazione in sentenza di una serie di conversazioni intercettate tra Dine e Demiraj ovvero tra quest’ultimo e il suo compagno di cella contenenti affermazioni che dimostrerebbero l’estraneità di Dine ai fatti contestati. Infatti, la sentenza, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, ha preso in considerazione le conversazioni oggetto di intercettazione – ad esclusione di quella espunta dalla sentenza della Prima Sezione della Corte di cassazione – evidenziando che “si trattava di versioni difensive” concordate con lo zio e inoltre sottolineando che Demiraj, consapevole di essere intercettato, inseriva «nelle proprie conversazioni riferimenti palesemente falsi a favore dello zio».
Peraltro, ottemperando a quanto indicato dalla sentenza di annullamento, la Corte di assise di appello ha individuato le conversazioni intercettate da cui desumere la consapevolezza di Demiraj di essere intercettato e la sua scelta strategica di introdurre nelle conversazioni argomenti tendenti a favorire la posizione dello zio, che sin dall’inizio ha cercato di non coinvolgere nella vicenda (la sentenza impugnata, nella pagine 30 e 31, si riferisce alle conversazioni del 28 luglio 2014 e del 20 settembre 2014). Inoltre, sempre al fine di ottemperare alle indicazioni della sentenza di annullamento, i giudici hanno fissato nel colloquio del 17 maggio 2014, tra Demiraj e Dine, il momento in cui tra i due è intervenuta l’intesa sulla versione da rendere per escludere la partecipazione dello zio al primo omicidio; in una successiva conversazione (n. 23039) Demiraj racconta al compagno di cella che dopo l’uccisione di Mannina aveva chiamato lo zio al telefono «senza ottenere risposta perché lui era a casa che dormiva»: circostanza che è risultata del tutto falsa, in quanto i giudici hanno potuto accertare che dai tabulati telefonici non risulta che vi sia mai stato un tale contatto e che, quindi, conferma la strategia di Demiraj volta ad inserire nelle conversazioni elementi di fatto inveritieri per favorire la posizione dello zio.
D’altra parte, va tenuto presente che il giudice del rinvio ha proceduto a riconsiderare i contenuti di alcuni brani di conversazioni oggetto di intercettazioni sulla base di un quadro probatorio in cui Monica Sanchi è ritenuta intrinsecamente credibile e del tutto attendibili le sue accuse nei confronti di Dine, del quale ha fornito, come si è visto, dettagliate indicazioni sul ruolo svolto.
- Gli elementi probatori suindicati forniscono un puntuale riscontro alla chiamata in correità di Monica Sanchi e comunque dimostrano, in maniera autonoma, il coinvolgimento di Dine nel programma omicidiario del nipote: la sua partecipazione alla fase preparatoria dell’omicidio di Mannina, nonché l’accertato contributo dato da Dine nella fase finale dell’omicidio, conclusasi con l’occultamento del cadavere di Mannina, giustificano la ritenuta attendibilità della ricostruzione dei fatti così come offerta da Monica Sanchi, che ha ribadito, in tutte le sue dichiarazioni, che Dine prese parte anche alla fase centrale dell’eliminazione di Mannina.
In questo modo la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi in materia di chiamata in correità, rinvenendo i necessari riscontri, sia rappresentativi sia logici che, pur non avendo lo spessore di una prova autosufficiente, conferiscono dignità di prova alle dichiarazioni accusatorie della coimputata attraverso un percorso dimostrativo che ha accertato che quella dichiarazione resa da un soggetto attendibile è a sua volta attendibile (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina, Rv. 255145; Sez. U, n. 15653 del 21/10/1992, Marino, Rv. 192465).
La sentenza ha dimostrato che nell’appartamento di via dell’Abete, dove Sanchi condusse con l’inganno Mannina, era presente anche Sadik Dine, assieme a Demiraj e al minorenne e tutti (muniti di guanti di lattice, di manette, di nastro adesivo e di oggetti atti ad offendere), presero parte prima alle violenze e poi all’uccisione, secondo la dettagliata descrizione di Sanchi: Mannina venne ammanettato, denudato, minacciato e costretto a chiamare con il proprio cellulare Lidia Nusdorfi per prendere con lei un appuntamento per il giorno dopo; dopodiché gli fu messo il nastro adesivo sulla bocca, strangolato con un cavo della televisione tirato da una parte e dall’altra da Demiraj e dal minorenne, mentre Dine gli teneva ferme le gambe; venne poi rivestito, avvolto in un tappeto e trasportato nel bagagliaio della Y 10 di proprietà di Dine, con cui venne portato alla cava ispezionata qualche giorno prima; il gruppetto si mosse con due automobili, la Lancia Y 10 condotta da Demiraj, con a bordo Sanchi, seguita dalla Fiat Punto guidata da Dine con a fianco il minorenne; l’occultamento del cadavere nella cava fu eseguito dai tre uomini, mentre Monica Sanchi rimaneva fuori in attesa; infine, sotto la supervisione di Dine venne “ripulito” l’appartamento per far sparire le tracce del delitto.
- Correttamente la sentenza, una volta riconosciuta la partecipazione all’omicidio di Mannina, ha attribuito a Dine anche la responsabilità a titolo di concorso delle altre condotte delittuose contestate che hanno accompagnato l’azione, tra cui la rapina aggravata del telefono cellulare (capo A) e la violenza privata (capo B), poste in essere materialmente da Demiraj che si è impossessato con volenza e minaccia del cellulare di Mannina, costringendolo poi a telefonare a Lidia Nusdorfi.
Peraltro, in relazione a questi reati non sono stati proposti motivi specifici.
In ogni caso, il delitto di violenza privata non risulta prescritto, in quanto al termine ordinario di sette anni e sei mesi va aggiunto il periodo di sospensione, pari a sessanta giorni, conseguente al rinvio dell’udienza del 3 giugno 2021 per legittimo impedimento del difensore.
- Infondato è il motivo con cui si contesta la ritenuta aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 4 cod. pen., richiamato dall’art. 577, primo comma, n. 4 cod. pen.: secondo la difesa, l’autopsia ha riscontrato la rottura dell’osso ioide, il che presuppone l’esercizio di una notevole forza, che dimostrerebbe che la determinazione di uccidere Mannina non sarebbe compatibile con l’intenzione di infliggergli sofferenze ulteriori.
Come è noto la giurisprudenza ritiene che la circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, avente natura soggettiva, è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive, che esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole, precisando che l’atteggiamento interiore va accertato considerando le modalità della condotta posta in essere nonché tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle riguardanti le note impulsive del dolo (così, Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267629).
Il giudice del rinvio ha sottolineato le modalità dello strangolamento e la durata dell’esecuzione, che si è protratta per circa dieci minuti, causando sofferenze indicibili alla vittima, che ha perduto sangue dalla bocca, desumendo da tali modalità delle condotte la volontà comune dei coimputati, tutti con un ruolo attivo nell’azione omicidiaria, di infliggere sofferenze esorbitanti rispetto al normale processo di causazione dell’evento. La sentenza, per evidenziare l’agonia inflitta a Mannina, riporta un colloquio di Demiraj con il compagno di cella al quale racconta che la vittima «faticava a morire e che si era messo a piangere quando gli avevamo messo lo scotch sulla bocca».
Si ritiene che correttamente, nel rispetto dei principi indicati dalla giurisprudenza citata, i giudici di merito hanno considerato sussistente l’aggravante in questione.
- Per quanto riguarda l’omicidio di Lidia Nusdorfi la partecipazione dell’imputato viene dimostrata dalla Corte di appello innanzitutto sulla base di un ragionamento logico induttivo.
Viene infatti richiamato il contesto familiare in cui si sono consumati i delitti, originati dal “tradimento” della donna, compagna e madre dei figli di Demiraj, e dalla reazione alla “offesa” che, come si è visto, ha coinvolto la famiglia di Demiraj e, in primo luogo, lo zio Dine, cioè il parente che viveva anch’egli in Italia, nonché i fratelli individuando il movente, condiviso da Dine, nella necessità di punizione, offrendo il suo aiuto all’azione del nipote.
Inoltre, la sentenza impugnata ha posto in relazione strumentale l’eliminazione di Silvio Mannina e l’uccisione di Lidia Nusdorfi, nel senso che il primo omicidio costituisce l’antecedente necessario per portare a compimento la punizione nei confronti della donna: i giudici hanno evidenziato come la “cattura” di Mannina è servita per stabilire un contatto con Lidia Nusdorfi, ottenuto il quale Mannina è stato eliminato per evitare che potesse avvisare la donna del pericolo e, soprattutto, fornire elementi di prova agli inquirenti. Ne consegue, nel ragionamento contenuto nella sentenza, che il pieno coinvolgimento di Dine nei piani del nipote e la sua accertata partecipazione all’omicidio Mannina sono funzionali e si spiegano con l’obiettivo finale, condiviso dall’imputato, di rintracciare e punire Lidia Nusdorfi.
Attraverso l’esame dei tabulati è emerso che Demiraj, subito dopo aver ucciso Nusdorfi, appena salito sull’automobile condotta da Sanchi per allontanarsi dal luogo dell’omicidio, telefonò per due volte a Dine per brevi conversazioni e subito dopo a (la persona con cui aveva compiuto l’aggressione nei confronti di Klodian Dine), che si trovava in Albania: con queste telefonate, valorizzate dai giudici di merito, Demiraj ha comunicato al parente e all’amico in Albania la compiuta vendetta.
Il ragionamento induttivo compiuto dai giudici, logico e fondato su solidi argomenti, viene completato, correttamente, da precisi elementi di carattere storico che contribuiscono a confermare il pieno coinvolgimento, non solo morale, di Dine nell’uccisione di Nusdorfi.
Infatti, l’elemento più significativo a sostegno del contributo, anche materiale, offerto da Dine nell’omicidio in esame è rappresentato dall’aver
messo a disposizione del nipote la propria autovettura Lancia Y 10, con cui Demiraj, accompagnato da Sanchi e dal minorenne, si recò all’appuntamento con Lidia Nusdorfi, a Mozzate, per ucciderla. La sentenza supera le obiezioni difensive secondo cui l’auto era già nella disponibilità di Demiraj, precisando che si tratta della stessa autovettura utilizzata la sera prima dell’omicidio per recarsi alla cava del Lago Azzurro dove venne occultato il cadavere di Mannina, sicché deve ritenersi che Dine anziché riprendere il possesso del mezzo, come avveniva ogni fine settimana, «la lasciò consapevolmente e deliberatamente al Demiraj, che il giorno seguente l’avrebbe utilizzata per il viaggio a Mozzate».
La sentenza si preoccupa di esaminare anche l’argomento in base al quale il primo giudice ha ritenuto insussistente l’elemento soggettivo nel concorso di Dine nell’omicidio di Nusdorfi, fondato su uno stralcio di una conversazione intercettata nel carcere di Como in data 18 aprile 2014, da cui viene desunto che l’imputato non sapeva che il nipote sarebbe andato a Mozzate con la sua auto. La Corte di assise di appello demolisce la valenza dimostrativa di tale colloquio, sottolineando come dalla completa lettura dell’intercettazione emerge in realtà che i due si stavano scambiando informazioni per organizzare una linea difensiva, in un momento in cui non ancora si conosceva il luogo in cui Mannina era stato ucciso: in quell’occasione Demiraj chiedeva a Dine se avesse ripulito l’abitazione dalle tracce lasciate dopo l’esecuzione brutale – pulizia del letto e del materasso, dei muri e del tappeto – e suggeriva allo zio la versione da riferire agli inquirenti qualora gli avessero chiesto di riferire come mai il suo telefono cellulare era stato rinvenuto nella Lancia Y 10 all’atto del sequestro, circostanza questa che avrebbe potuto significare la consapevolezza di Dine circa l’utilizzo della sua autovettura da parte del nipote per recarsi a Mezzate.
- Anche il motivo sulla aggravante della premeditazione deve ritenersi infondato alla luce della complessiva ricostruzione dei fatti operata nella sentenza impugnata.
La giurisprudenza è consolidata nella definizione degli elementi costitutivi di questa aggravante soggettiva, che vengono individuati in un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso e la ferma risoluzione criminosa perdurante, senza soluzioni di continuità, nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine, dovendosi escludere la premeditazione solo quando l’occasionalità del momento di consumazione del reato appaia preponderante, tale cioè da neutralizzare la sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione del reato (in questi termini, Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, Antonucci, Rv. 241575; sez. 5, n. 42576 del 03/06/2015, Procacci, Rv. 265149). La sua sussistenza è assoggettata alle normali regole di valutazione stabilite nel codice di rito e può essere dimostrata anche con il ricorso alla prova logica, in base ad esempio agli indizi ricavabili dalle modalità del fatto, dalle circostanze di tempo e luogo, dal concorso di più persone con ripartizione dei ruoli e dalla natura del movente, mentre si esclude che sia necessario stabilire con assoluta precisione il momento in cui è sorto il proposito criminoso o quello in cui l’accordo è stato raggiunto, essendo sufficiente che gli elementi indiziari siano gravi, precisi e concordanti e che, globalmente valutati, consentano di risalire, in termini di certezza processuale, al requisito di natura cronologica e a quello di natura ideologica, in cui si sostanzia la premeditazione (cfr., Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, Esposito, Rv. 275415).
Nel caso in esame la sentenza impugnata ha correttamente applicato la fattispecie di cui all’art. 577, primo comma, n. 3 cod. pen., nel rispetto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, in relazione ad entrambi gli elementi, quello cronologico e quello ideologico, che caratterizzano la premeditazione come azione ispirata da una particolare intensità del dolo, che si traduce in una fredda e perdurante determinazione a commettere il reato senza ripensamenti e senza soluzione di continuità.
La volontà premeditata di uccidere Lidia Nusdorfi appartiene inizialmente al solo Demiraj che, non appena venuto a conoscenza del tradimento, medita la vendetta, ma questo stato soggettivo si estende anche a Sadik Dine, sebbene non abbia partecipato all’originaria deliberazione volitiva, in quanto ne acquista immediata consapevolezza, apprezzandone la valenza proiettata a riparare l’offesa che riguarda l’intera famiglia, consapevolezza che precede il suo contributo all’evento e che matura in un tempo tale da consentire che lo sviluppo del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori, così come prescrive la giurisprudenza, che ammette esplicitamente che la
premeditazione possa estendersi anche al concorrente nel reato quando risulti provata la conoscenza effettiva e la volontà adesiva al progetto da parte di costui, cosicché egli faccia propria la particolare intensità dell’altrui dolo (cfr., sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, Argentieri, Rv. 271952; Sez. 5, n. 4977 del 08/1072009, Finocchiaro, R”. 245581).
Che la premeditazione per entrambi i delitti riguardi anche Dine, il giudice del rinvio lo desume anche dalle condotte materiali poste in essere, individuate nella partecipazione all’acquisto delle manette durante il pomeriggio del 28 febbraio 2014, che serviranno nel corso dell’esecuzione di Silvio Mannina, e nella messa a disposizione della propria autovettura utilizzata per raggiungere Lidia Nusdorfi a Mezzate, circostanze indicative della piena condivisione da parte dell’imputato dell’intero piano progettato da Demiraj, che aveva come obiettivo ultimo l’uccisione di Nusdorfi, per la cui realizzazione si doveva attrarre Mannina in una trappola per poi eliminarlo.
Rispetto a questi elementi la circostanza della mancata partecipazione di Dine ai sopralluoghi per individuare dove occultare il cadavere di Mannina, su cui insiste la difesa per escludere l’aggravante, non viene ritenuta significativa dalla sentenza impugnata che motiva correttamente la sussistenza della premeditazione prendendo in esame la complessiva condotta dell’imputato.
La difesa per escludere l’aggravante in esame utilizza l’ulteriore argomento secondo cui Demiraj non avrebbe mai ucciso Lidia Nusdorfi – di cui era innamorato – se questa avesse deciso di ritornare a casa con lui. Invero, si tratta di affermazione che non trova alcun riscontro nelle condotte di Demiraj e del suo clan familiare, anzi risulta smentita dalla contrapposta ricostruzione fornita dalla sentenza impugnata, secondo cui tutto viene organizzato per arrivare alla eliminazione fisica della donna.
Né può assumere significato, per escludere la premeditazione, il fatto che, sempre secondo la difesa, Demiraj non si sarebbe dimostrato particolarmente scaltro e accorto nelle sue azioni, avendo disseminato una serie di tracce che hanno consentito di risalire a lui e a Sanchi come gli autori delle telefonate fatte a Mannina, in quanto tali défaillance non possono certo valere ad annullare l’aggravante in questione.
Infine, la tesi secondo cui non può parlarsi di premeditazione, perché le reazioni violente di Demiraj sarebbero state determinate dalla inaspettata visione di foto e video di Lidia Nusdorfi in atteggiamenti intimi con il Mannina, trova una puntuale smentita secondo quanto sottolineato più volte dalla
Corte di assise di appello – nell’acquisto che il gruppo fece nel pomeriggio del 28 febbraio 2014 delle manette e, soprattutto, nel sopralluogo eseguito qualche giorno prima presso la cava del Lago Azzurro, dove poi il corpo di Mannina venne effettivamente occultato.
Per quanto riguarda la ritenuta predeterminazione dell’omicidio di Nusdorfi, oltre quanto si è già detto, la sentenza mette in evidenza l’acquisto del coltello con cui poi la donna verrà uccisa.
Infine, il tentativo difensivo con cui si nega la volontà predeterminata di uccidere solo perché Demiraj, prima di scendere dall’auto per recarsi all’appuntamento-trabochetto, disse a Sanchi e acome si sarebbero dovuti disporre sui sedili della Lancia Y IO una volta tornato con Lidia, non consente di escludere affatto la determinazione di uccidere la donna, che rimane l’obiettivo finale sia di Demiraj che di Dine.
- Anche riguardo alla sussistenza dell’aggravante del nesso teleologico la sentenza è immune da censure.
Le deduzioni difensive contenute nel ricorso, secondo cui l’uccisione di Mannina non era necessaria al fine di commettere l’omicidio di Lidia Nusdorfi, non tengono conto della motivazione che, come si è detto, sottolinea da un lato l’utilizzo strumentale di Mannina per arrivare a Nusdorfi, dall’altro la premeditazione e la successiva uccisione dell’uomo per evitare che potesse avvisare la donna e allo stesso tempo fornire informazioni agli inquirenti. Sul punto il motivo si limita ad una mera e apodittica contestazione.
- Infine, infondato è anche il motivo con cui si censura la sentenza per non aver concesso le circostanze attenuanti generiche.
Sul punto la motivazione, con argomenti logici, spiega le ragioni per cui non si è ritenuto di applicare l’attenuante: condividendo il giudizio che il primo giudice ha dato alla condotta di Demiraj, la Corte di appello lo estende anche a Dine, con riferimento alla estrema gravità e disumanità dei fatti commessi e alla sua partecipazione materiale all’omicidio di Mannina, eliminato con indicibili sofferenze e con una estrema indifferenza, considerato «uno strumento necessario per rintracciare Nusdorfi, da eliminare subito dopo l’uso, al fine di evitare intralci alla realizzazione dell’obiettivo primario».
Viene preso in considerazione anche l’atteggiamento processuale dell’imputato, improntato a reticenza ed ambiguità, valutazione che deve ritenersi legittima ai fini del giudizio sull’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto, fermo restando che il pieno esercizio del diritto di difesa giustifica sia il silenzio che la menzogna dell’imputato, ciò non autorizza a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento (Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, Biondi, Rv. 253152).
Si tratta di una valutazione di merito che ha portato la Corte di rinvio a negare le circostanze attenuanti generiche sulla base di un giudizio che in questa sede non merita le censure dedotte nel ricorso, in quanto adeguatamente motivato sulla base di differenti profili, nel rispetto dei parametri legislativi come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità.
- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e la conferma delle statuizioni civili.
Inoltre, Sadik Dine va condannato anche al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, Benedetto Mannina, Simona Mannina e Emma Rizzo, ammesse al patrocinio a spese dello Stato e assistite dall’avvocato Alessandro Buzzoni, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di assise d’appello di Bologna con separato decreto di pagamento, ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.