Corte Costituzionale, sentenza 12 luglio 2022 n. 173
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 538 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale, decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile, a norma degli artt. 74 e seguenti cod. proc. pen.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con ordinanza del 27 aprile 2021 (reg. ord. n. 122 del 2021), il Tribunale militare di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 538 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale, il giudice decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile, a norma degli artt. 74 e seguenti cod. proc. pen.
Le censure sono articolate in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
La disposizione censurata violerebbe, anzitutto, il diritto della parte civile all’accesso ad un tribunale e alla celebrazione di un giusto processo entro un termine ragionevole. Sarebbe leso il diritto di difesa della parte civile, di cui rimarrebbe frustrata l’«aspettativa legittima» a che la sua domanda di risarcimento del danno sia debitamente esaminata dal giudicante (art. 24 Cost.).
Inoltre, sarebbe violato l’art. 3 Cost., stante la ingiustificata disparità di trattamento tra la fattispecie contemplata dall’art. 131-bis cod. pen. e altre analoghe, in cui, pur a fronte di una sentenza penale di proscioglimento dell’imputato, è invece consentita la sua condanna civile restitutoria o risarcitoria sul presupposto dell’accertamento pieno dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato e della sua commissione da parte dell’imputato.
La norma censurata, poi, lederebbe l’art. 111 Cost., dal momento che pone a carico della parte civile l’aggravio di dover introdurre un nuovo giudizio dinanzi al giudice civile, per ottenere il risarcimento di un danno «già prontamente liquidabile dal giudice penale», dando così luogo ad una irragionevole dilatazione dei tempi del processo non giustificata da alcuna logica esigenza. Al contrario, l’eventuale (contestuale) decisione del giudice penale sulle questioni civili non comporterebbe alcun vulnus alla sollecita definizione del procedimento penale, le cui finalità prioritarie di natura pubblicistica non sarebbero in alcun modo pregiudicate.
Per la stessa ragione sarebbe violato il diritto a un processo equo, garantito dall’art. 6 CEDU.
2.– Preliminarmente, va osservato, sotto il profilo della rilevanza, che sussiste l’ammissibilità delle questioni.
Il rimettente ha, infatti, evidenziato che, nella fattispecie, pur essendo stato accertato il fatto di diffamazione e la sua commissione da parte dell’imputato, tuttavia l’unicità dell’episodio criminoso contestato, la ridotta offensività della condotta e l’incensuratezza dell’autore (unitamente ai limiti edittali della pena stabilita per il delitto di diffamazione militare e alla non ricorrenza di cause ostative) inducono a ritenere integrati i presupposti previsti dall’art. 131-bis cod. pen. per l’emissione di una pronuncia assolutoria per particolare tenuità del fatto.
Le questioni di legittimità costituzionale devono, allora, ritenersi rilevanti, atteso che, una volta emessa siffatta pronuncia assolutoria, per il disposto dell’art. 538 cod. proc. pen., resterebbe preclusa la possibilità di provvedere sulla domanda di risarcimento del danno proposta dalle parti civili costituite.
Questa disposizione, infatti, consente al giudice penale di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile solo «[q]uando pronuncia sentenza di condanna», mentre gli preclude di provvedere, al riguardo, se emette sentenza di proscioglimento.
Tale preclusione, però, verrebbe meno se la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, riconoscendosi in tal guisa al giudice penale il potere di conoscere della domanda risarcitoria proposta dalle persone offese (costituite parti civili nel processo a quo), anche in mancanza del presupposto (altrimenti necessario) della previa pronuncia di condanna.
Il giudice rimettente ha poi adeguatamente motivato anche la non manifesta infondatezza delle sollevate questioni in riferimento a tutti i suddetti parametri, sicché esse sono sotto ogni profilo ammissibili.
3.– Nel merito, le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
4.– L’art. 131-bis cod. pen., rubricato «Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto», è stato introdotto dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67».
Il legislatore delegato, nel contesto di una più ampia riforma del sistema sanzionatorio, ha anche previsto l’introduzione di nuovi istituti processuali, diretti ad escludere la punibilità della condotta con possibile dichiarazione di estinzione del reato, vuoi per la particolare tenuità dell’offesa, vuoi per l’esito positivo della messa alla prova dell’imputato con sospensione del procedimento.
In particolare, il Governo era delegato (art. 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili») a «escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale».
Questo specifico criterio di delega aveva, quindi, una duplice direttrice, in quanto concerneva non solo l’imputato, la cui condotta avrebbe potuto essere dichiarata non punibile in ragione della «particolare tenuità dell’offesa», ma anche la parte civile, la quale non avrebbe dovuto subire «pregiudizio» nell’esercizio della sua azione per il risarcimento del danno.
Il legislatore delegato avrebbe, dunque, dovuto bilanciare la rinuncia dello Stato a sanzionare penalmente l’imputato per determinate condotte “minori” con la garanzia, al contempo, che alcun pregiudizio ne derivasse per le pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile.
Ed è ciò che ha fatto il legislatore delegato introducendo rispettivamente due disposizioni, di nuovo conio, in chiaro parallelismo: l’art. 131-bis cod. pen. e l’art. 651-bis cod. proc. pen.
5.– L’art. 131-bis cod. pen. prevede, al primo comma, che «[n]ei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Il fondamento dell’istituto è stato, da ultimo, posto in luce dal giudice della nomofilachia, nel suo massimo consesso, il quale ha evidenziato che «il fatto non è punibile non perché inoffensivo, ma perché il legislatore, pur in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, ritiene che sia inopportuno punirlo, ove ricorrano le condizioni indicate nella richiamata disposizione normativa» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 gennaio-12 maggio 2022, n. 18891).
In proposito anche questa Corte (ordinanza n. 279 del 2017) ha affermato che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione».
L’esimente, dunque, trova fondamento non già nella mancanza di offensività del fatto, ma nel rilievo per cui, in corrispondenza di un giudizio di “lieve” offensività, l’esigenza punitiva diviene recessiva.
In altre parole, l’istituto – che costituisce «innovazione di diritto penale sostanziale» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 febbraio-6 aprile 2016, n. 13681) – si iscrive nella logica dell’extrema ratio della sanzione penale.
Ci sono casi concreti che – pur non essendo privi di offensività e quindi pur in presenza di un «fatto tipico, antigiuridico e colpevole» (Cass., sez. un., n. 18891 del 2022) – possono essere valutati dal giudice come di «particolare tenuità», sì che la irrogazione della sanzione penale sarebbe non opportuna per eccesso del mezzo rispetto a questa logica. L’applicazione della pena, quand’anche nel minimo, sarebbe una reazione non necessaria, giacché l’ordinamento giuridico conosce anche altri rimedi – tra i quali, altresì, in senso lato, il risarcimento del danno quando il fatto è di particolare tenuità – più adatti a “riparare” il vulnus.
Il distinto piano – quello dell’offensività (che permane) e quello della punibilità (che viene meno) – emerge in particolare nelle fattispecie in cui la legge contempla già la particolare tenuità del danno come circostanza attenuante del reato. Anche quando, talora, la «particolare tenuità», come circostanza, riduce la gravità di alcuni reati, ma li lascia sussistere, ciò non esclude che in concreto il giudice possa, comunque, accertare tale «particolare tenuità» che fa venir meno la punibilità (così il quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen.).
Parimenti, se il legislatore stabilisce in generale soglie di punibilità che già configurano condotte non punibili, perché relative a fatti ritenuti di minore gravità, non di meno una condotta “sopra soglia” può essere ritenuta dal giudice come di «particolare tenuità» (Cass., sentenza n. 13681 del 2016).
Si ha finanche che la punibilità – che permane sempre in caso di comportamento abituale, come prevede l’art. 131-bis cod. pen. – può non di meno essere esclusa, in concreto, in caso di plurime condotte legate dal vincolo della continuazione (Cass., sentenza n. 18891 del 2022).
5.1.– Indubbio è, poi, anche l’effetto deflattivo dei processi penali, atteso che l’applicazione dell’istituto riduce la pressione sulla giustizia penale.
Tanto la funzione riparativa quanto la finalità deflattiva sono alla base della recente scelta del legislatore di ampliare il perimetro applicativo dell’istituto.
La legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) prevede, infatti, al riguardo, due criteri di delega: il primo, volto a dare rilievo al minimo edittale, in conformità alla sentenza di questa Corte n. 156 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., nella parte in cui non consentiva l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva; il secondo, volto a dare rilievo alla condotta dell’imputato susseguente al reato, ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa (art. 1, comma 21).
Dunque, le ragioni fondanti dell’istituto hanno anche impresso ad esso una forza espansiva, nella prospettiva di un sempre maggiore contenimento della sanzione penale vera e propria secondo il criterio dell’extrema ratio, pur in un sistema che vede, come canone costituzionale, l’obbligatorietà dell’azione penale.
6.– In simmetria con l’art. 131-bis cod. pen. si colloca l’art. 651-bis cod. proc. pen.
Il legislatore delegato, per evitare il «pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno», come prescriveva il criterio di delega, è intervenuto sulla disciplina sostanziale del giudicato penale introducendo, appunto, l’art. 651-bis cod. proc. pen. In passato, invece, per la simmetrica fattispecie dei reati di competenza del giudice di pace, quando il fatto è di «particolare tenuità», altro legislatore delegato (art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000) ha presidiato la tutela della parte civile prevedendo che essa possa finanche opporsi, precludendo al giudice la possibilità di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale (sentenza n. 120 del 2019).
In particolare, l’art. 651-bis cod. proc. pen. prevede, al primo comma, che «[l]a sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale».
L’esigenza che l’esimente fondata sulla particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento fosse introdotta nell’ordinamento penalistico sostanziale «senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno» era contenuta – come già rilevato – espressamente nel criterio di delega in base al quale il legislatore delegato è stato facoltizzato a prevedere l’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Il legislatore delegato, in attuazione anche di questo criterio, si è preoccupato di approntare una speciale tutela alla parte civile a fronte del beneficio per l’imputato, costituito dall’introdotta non punibilità per particolare tenuità del fatto.
La relazione al Consiglio dei ministri del 12 marzo 2015, di accompagnamento al testo del decreto legislativo, pone in evidenza che «l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto – accertata con sentenza passata in giudicato in esito ad un rituale processo – non è una pronuncia tipicamente assolutoria, ma, al contrario, accerta, in via definitiva, che il reato è stato commesso dalla persona dichiarata non punibile. A questo accertamento penale, passato in giudicato in ordine all’entità del fatto illecito causativo del danno di cui si chiede (con l’azione civile) il risarcimento, deve attribuirsi efficacia nel processo civile, tenuto conto che l’imputato ha avuto ogni possibilità di difesa nel giudizio penale in cui la particolare tenuità del fatto è stata accertata (non con un decreto di archiviazione, ma con una sentenza dibattimentale passata in giudicato)».
Si tratta, quindi, di una sentenza di proscioglimento che presenta una marcata peculiarità: la disciplina dell’efficacia di giudicato di tale pronuncia nel giudizio civile di danno sta non già nell’art. 652 cod. proc. pen. (che riguarda le sentenze di assoluzione), bensì nell’art. 651-bis dello stesso codice, ripetitivo della formulazione dell’art. 651 cod. proc. pen. (che concerne le sentenze di condanna).
Al pari della sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento (art. 651 cod. proc. pen.), anche quella dibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile restitutorio o risarcitorio promosso nei confronti dell’imputato (condannato, nel primo caso; prosciolto nel secondo), nonché del responsabile civile che sia stato citato o sia intervenuto nel processo penale (art. 651-bis cod. proc. pen.).
Il giudicato, in tal modo, è modellato su quello tipico delle sentenze di condanna e non già su quello delle sentenze di assoluzione.
Ed è perciò che, a differenza di ogni altra pronuncia di proscioglimento che accerti la sussistenza di una causa di non punibilità, la sentenza di proscioglimento per non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. va iscritta nel casellario giudiziario, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera f), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti. (Testo A)».
La sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 13681 del 2016) hanno ritenuto in via interpretativa che, con la sentenza di proscioglimento per non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. per il reato di guida in stato di ebbrezza, il giudice possa non di meno applicare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, anche se l’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) richiede testualmente una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, mentre in generale, con una sentenza di proscioglimento, il giudice non applica la sanzione amministrativa.
La sentenza che dichiara la non punibilità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., pur integrando una decisione di proscioglimento, contiene, dunque, già l’accertamento, con efficacia di giudicato, delle circostanze che possono essere poste a fondamento di una pretesa risarcitoria.
Si ha, in sintesi, che «[l]a perdurante illiceità penale della condotta, anche quando il fatto è di lieve entità, risulta inequivocabilmente dall’art. 651-bis cod. proc. pen.» (sentenza n. 120 del 2019).
La pronuncia di proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. si atteggia, pertanto, come una vera e propria sentenza di accertamento dell’illecito penale, che, in quanto avente efficacia di giudicato, può costituire presupposto di una domanda di risarcimento del danno nel successivo giudizio civile, rimanendo al giudice adito il compito della determinazione, di norma, del danno risarcibile, sempre che ne sussistano sussistano i presupposti nella specificità dell’illecito civile, avente comunque carattere di ontologica autonomia rispetto all’illecito penale.
7.– Questo parallelismo di cui si è finora detto (sopra ai punti 5 e 6) – tra la regola dell’estinzione del reato per la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) e quella dell’efficacia della relativa sentenza di proscioglimento nel giudizio civile o amministrativo di danno (art. 651-bis cod. proc. pen.) – disvela, però, un deficit di tutela per la parte civile, quando si viene a ragionare della prescrizione processuale dettata dalla disposizione censurata (art. 538 cod. proc. pen.), secondo cui il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta dalla parte civile, «[q]uando pronuncia sentenza di condanna».
L’idoneità dell’istituto ad adempiere pienamente alla sua funzione riparativa «senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno» trova un limite nella impossibilità, derivante dalla norma suddetta, per il giudice penale di conoscere della domanda restitutoria o risarcitoria formulata dalla parte civile quando, con sentenza resa all’esito del dibattimento, dichiara la non punibilità dell’imputato per la particolare tenuità del fatto; impossibilità che discende dalla qualificazione formale della sentenza, la quale è pur sempre di proscioglimento per estinzione del reato, anche se – come si è già osservato – ha un contenuto positivo di accertamento dei presupposti di tale reato.
Una volta che nel processo si è accertato, con pronuncia idonea ad acquisire efficacia di giudicato (ex art. 651-bis cod. proc. pen.), che sussiste il fatto ascritto all’imputato e che egli lo ha commesso e, altresì, che tale fatto integra una fattispecie di illecito penale, sussistendo il relativo elemento soggettivo del dolo o della colpa, risulta irragionevole l’impossibilità di una pronuncia sulla pretesa risarcitoria (o restitutoria) della parte civile, ad opera dello stesso giudice penale che contestualmente adotti una sentenza di proscioglimento dell’imputato per non punibilità ex art. 131-bis cod. pen.
La mancanza di una pronuncia sulla pretesa risarcitoria o restitutoria della parte civile comporta che quest’ultima debba promuovere ex novo un distinto giudizio civile in cui azionare la medesima pretesa, nonostante il giudicato che si forma già nella sede penale in senso favorevole alla possibile fondatezza della sua domanda (ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen.).
Inoltre, la parte civile soffre anche il pregiudizio che, nell’immediato, le spese da essa sostenute nel processo penale restino a suo carico, non potendo il giudice penale porle a carico dell’imputato in mancanza di una formale soccombenza (così, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 13 novembre 2020-11 febbraio 2021, n. 5423).
8.– È ben vero che – come ribadito da questa Corte (sentenza n. 176 del 2019) – nel processo penale l’azione civile «assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi». L’assetto generale del nuovo processo penale è, infatti, ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo.
Si è anche sottolineato che l’esercizio, nel giudizio penale, del diritto della parte civile alla restituzione o al risarcimento del danno, avendo carattere accessorio, ha un orizzonte più limitato, di cui quest’ultima non può non essere consapevole nel momento in cui opta per far valere le sue pretese civilistiche nella sede penale piuttosto che in quella civile. Nel fare questa opzione, l’eventuale «impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578 cod. proc. pen.) costituisce […] uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte» (sentenza n. 12 del 2016).
Di qui la regola posta dalla disposizione censurata (art. 538 cod. proc. pen.): il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno «[q]uando pronuncia sentenza di condanna» dell’imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili.
9.– Questa regola, però, non è assoluta, ma deflette in varie fattispecie in cui si giustifica, all’opposto, che possa esservi una decisione sui capi civili, vuoi dello stesso giudice penale, vuoi in prosecuzione dell’originario giudizio penale in cui è stata azionata, dalla parte civile, la domanda risarcitoria (o restitutoria).
La prima e più vistosa eccezione è quella dell’art. 578 cod. proc. pen., che, al comma 1, prescrive: «Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili». In queste due fattispecie (quella più frequente della prescrizione, ma anche quella dell’amnistia) ci può essere, al contempo, la condanna al risarcimento del danno, nella misura in cui il giudice penale accerta che l’imputato ha commesso l’atto illecito e che la parte civile ha diritto al risarcimento del danno, e contestualmente il proscioglimento dall’accusa penale per prescrizione o amnistia, laddove dalle risultanze processuali, valutate dal giudice, non risulti che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (art. 129 cod. proc. pen.).
Il proscioglimento penale convive con la condanna civile da parte dello stesso giudice penale, senza che venga in sofferenza – come già ritenuto da questa Corte (sentenza n. 182 del 2021) – il canone della presunzione di innocenza di cui all’art. 6, paragrafo 2, CEDU e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).
Una ulteriore eccezione alla regola dell’art. 538 cod. proc. pen. è quella posta dall’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui la parte civile può proporre impugnazione, oltre che contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile, anche, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. È noto che, dopo la legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), che, mediante il suo art. 6, comma 1, lettera a), ha eliminato dal comma 1 dell’art. 576 cod. proc. pen. l’espressione «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», la giurisprudenza della Corte di cassazione (sezioni unite penali, sentenze 29 marzo-12 luglio 2007, n. 27614 e 28 marzo-3 luglio 2019, n. 28911) ha ritenuto che la parte civile possa impugnare la sentenza di proscioglimento, che reca anche il rigetto della domanda di risarcimento del danno, sì che il giudice dell’impugnazione (quale la corte d’appello) può riformare la pronuncia impugnata e – se non c’è impugnazione del pubblico ministero – accogliere solo la domanda di risarcimento del danno anche in presenza del proscioglimento dell’imputato dall’accusa penale.
Pertanto, in questo caso, il processo penale si può concludere con un giudicato penale assolutorio e uno civile di condanna senza che siano in sofferenza il principio di eguaglianza e quello del giusto processo.
Questa Corte (sentenza n. 176 del 2019) – nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 cod. proc. pen., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. – ha ritenuto che anche tale eccezione sia compatibile con la regola dell’art. 538 cod. proc. pen.: essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processualpenalistiche, è ragionevole che anche il giudizio d’appello sia devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito.
Sulla scia di queste eccezioni si colloca, altresì, la previsione dell’art. 622 cod. proc. pen., secondo la quale, fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile, ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. Pure in questo caso il giudizio sui capi civili prosegue e la parte civile non deve promuovere un nuovo giudizio. Trovano applicazione le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e l’accertamento richiesto al giudice del “rinvio” ha ad oggetto gli elementi costitutivi dell’illecito civile, prescindendosi da ogni apprezzamento, sia pure incidentale, sulla responsabilità penale dell’imputato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio-4 giugno 2021, n. 22065).
Una ulteriore ipotesi di continuità tra accertamento penale e accertamento civile è disegnata dall’art. 578, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 2, comma 3, della recente legge n. 134 del 2021, che, nel contesto della nuova disciplina della prescrizione dei reati, ha previsto (per i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020) che «[q]uando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale». Sarà il giudice civile in grado d’appello, investito della «prosecuzione» del giudizio (non già di un “nuovo” giudizio), a confermare o riformare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile.
In tutti questi casi è ben possibile che la pronuncia di accoglimento della domanda di risarcimento del danno non si accompagni a una pronuncia di condanna penale, per esserci stata, invece, una pronuncia di proscioglimento, o che vi sia, in prosecuzione dello stesso giudizio, una pronuncia in ordine alla pretesa restitutoria o risarcitoria della parte civile.
10.– Diversa – va peraltro precisato – è, invece, la fattispecie oggetto della sentenza n. 12 del 2016. Questa Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 538 cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non consente al giudice di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta dalla parte civile, quando pronuncia sentenza di assoluzione dell’imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente. Ciò si giustifica perché l’accertamento penale, che in tale evenienza ha il diverso effetto di giudicato previsto dall’art. 652 cod. proc. pen. e non certo quello di cui all’art. 651-bis cod. proc. pen., comporta il mutamento della prospettiva e dei presupposti della pretesa risarcitoria della parte civile: per il danno cagionato dall’incapace risponde chi è tenuto alla sua sorveglianza (art. 2047, primo comma, del codice civile). Invece, nel caso della non punibilità per «particolare tenuità» dell’offesa, vengono accertate la sussistenza del fatto e la sua illiceità penale, e si afferma che l’imputato lo ha commesso. Su tutto ciò si forma il ben più pregnante giudicato di cui all’art. 651-bis cod. proc. pen., per cui l’accertamento necessario per il proscioglimento per difetto di punibilità ex art. 131-bis cod. pen. ridonda anche in accertamento utile al fine dell’an della pretesa risarcitoria civile.
11.– La logica di fondo, che complessivamente emerge da queste fattispecie, è quella di evitare, finché possibile e compatibile con l’esito del giudizio in ordine all’azione penale, una situazione di absolutio ab instantia in riferimento alla domanda della parte civile e di salvare il procedimento in cui quest’ultima ha promosso la pretesa risarcitoria o restitutoria, senza che la stessa sia gravata dell’onere di promuovere un nuovo giudizio.
Nelle fattispecie sopra esaminate, sia quelle che vedono lo stesso giudice penale pronunciarsi nel merito della pretesa civile risarcitoria (o restitutoria), pur senza che contestualmente emetta una condanna penale (ciò in deroga alla regola dell’art. 538 cod. proc. pen.), sia quelle connotate comunque dalla distinta prosecuzione del giudizio solo sui capi civili, c’è una risposta di giustizia alla domanda della parte civile, anche in mancanza dell’accertamento, da parte del giudice penale, con effetto di giudicato, quanto «[a]lla sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso».
Invece, una risposta di giustizia manca proprio quando tale accertamento sussiste, ex art. 651-bis cod. proc. pen., allorché il giudice penale prosciolga l’imputato per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
In questo caso la regola generale, posta dall’art. 538 cod. proc. pen., non deflette, non consentendo al giudice penale di pronunciarsi anche sulla pretesa risarcitoria o restitutoria della parte civile.
Ciò rende la norma censurata contrastante con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), per l’argomento a fortiori che può trarsi dalla comparazione con le fattispecie in cui non c’è l’absolutio ab instantia pur in mancanza di siffatto accertamento, vuoi perché il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria (o restitutoria) civile anche se non vi è una condanna penale, vuoi perché il giudizio prosegue comunque per la definizione anche solo delle pretese civilistiche; essa inoltre si pone in violazione del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, secondo comma, Cost.), nella specie della parte civile, la quale subisce la mancata decisione in ordine alla sua pretesa risarcitoria (o restitutoria) anche quando essa appare fondata e meritevole di accoglimento proprio in ragione del contestuale accertamento, ad opera del giudice penale, della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della riferibilità della condotta illecita all’imputato nel contesto del proscioglimento di quest’ultimo ex art. 131-bis cod. pen. Infine, essa collide con il canone della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) a causa dell’arresto del giudizio che ne deriva, quanto alla domanda risarcitoria (o restitutoria), con soluzione di continuità rispetto a un nuovo giudizio civile, del cui promovimento è onerata la parte civile, anche solo per recuperare le spese sostenute nel processo penale.
12.– La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata richiede, dunque, di riconoscere al giudice penale, come necessaria deroga alla regola posta dalla disposizione stessa, la possibilità di pronunciarsi anche sulla domanda di risarcimento del danno quando accerti che sussistono i presupposti per dichiarare la non punibilità dell’imputato in ragione della particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
13.– L’accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. comporta l’assorbimento dell’altro parametro evocato dal giudice rimettente (art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU).