Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, 01 ottobre 2024, n. 36460
PRINCIPIO DI DIRITTO
È legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen. in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, a cui il punto non sia stato devoluto con l’impugnazione.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: “se sia legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen. in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, che non sia stato investito sul punto dell’impugnazione del pubblico ministero né, comunque, di formale sollecitazione di questi in ordine all’illegittimità del beneficio.”
- Come messo in evidenza dall’ordinanza di rimessione e dalla requisitoria del Procuratore generale, si è registrato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione indicata. La premessa da cui muovono le sentenze espressive dei due diversi indirizzi è costituita, come già si è detto, da Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381 – 01 che si è pronunciata sul tema del rapporto tra preclusione da giudicato e poteri del giudice dell’esecuzione in punto di revoca della sospensione condizionale illegittimamente concessa.
Le coordinate normative entro cui si inscrive il contrasto sono dettate dall’art. 168, comma terzo, cod. pen., introdotto dall’art. 1, comma 1, legge 26 marzo 2001, n. 128, per il quale la sospensione condizionale della pena va revocata, oltre che nei casi di cui al comma primo, nn. 1) e 2), anche quando sia stata riconosciuta in violazione di quanto disposto dall’art. 164, comma quarto, cod. pen., che fa divieto di applicazione della sospensione condizionale più di una volta, salvo il potere del giudice della nuova condanna di accordare comunque la sospensione condizionale se la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata in precedenza, non superi i limiti di concedibilità di cui all’art. 163 cod. pen.
La stessa legge che ha interpolato l’art. 168 cod. pen. ha aggiunto (art. 1, comma 2) un comma all’art. 674 cod. proc. pen., il comma 1 -bis, che ha attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di revoca della sospensione condizionale ove ricorrano le condizioni di cui al menzionato art. 168, comma terzo, cod. pen.
La ratio legis è stata individuata da Sez. U, Longo nell’esigenza di contrastare il fenomeno delle ripetute e illegittime concessioni della sospensione condizionale causato dal tardivo aggiornamento del casellario giudiziale. L’attribuzione del potere di revoca al giudice dell’esecuzione è apparso strumento efficace ad evitare gli indebiti vantaggi dei condannati determinati dalle disfunzioni organizzative del casellario. Sez. U, Longo ha precisato che tale ipotesi di revoca si differenzia dalle altre prese in considerazione nell’ambito dello stesso art. 168 cod. pen., ove specificamente, ai numeri 1) e 2) del primo comma si annoverano ipotesi di revoca obbligatoria e nel secondo comma si disciplina un’ipotesi di revoca discrezionale, tutte comunque collegate alla sopravvenienza di fatti, commissivi od omissivi, materiali e/o giuridici, che giovano a qualificarle in un’unica categoria, di revoca-decadenza.
La revoca di cui al terzo comma di più recente introduzione trova invece fondamento nella inosservanza della legge penale al momento della concessione del beneficio ed è quindi funzionale alla eliminazione di una condizione patologica originaria. Non v’è alcun fatto o atto nuovo di cui debba tener conto l’istituto della sospensione condizionale che, per sua natura, accorda rilevanza al sopraggiungere di eventi dimostrativi della non meritevolezza del beneficio; si assiste, piuttosto, alla rilevazione di una illegittimità consumata con il provvedimento di concessione dello stesso.
- Le decisioni in maggior numero hanno concluso per l’assenza di preclusioni in capo al giudice dell’esecuzione in conseguenza della omissione del giudice di appello che, pur potendo disporre la revoca, sia rimasto inerte. Sez. 1, n. 30709 del 10/05/2019, Coccia, Rv. 276504 – 01 ha evidenziato che il potere di revoca spettante al giudice di appello al di fuori di una impugnazione che abbia devoluto alla sua cognizione il punto ha carattere facoltativo e surrogatorio rispetto a quello riconosciuto al giudice dell’esecuzione.
La sua statuizione di revoca, del tutto eventuale, non è correlata alla devoluzione e l’omessa pronuncia non è censurabile per mezzo dell’impugnazione, ma rimediabile soltanto in sede esecutiva. L’inerzia del giudice di appello non dà causa ad una preclusione processuale, sia pure debole, e quindi non determina la condizione per l’operatività del principio di diritto di Sez. U, Longo, secondo cui ” il giudice dell’esecuzione può revocare il beneficio della sospensione condizionale della pena concesso in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen. in presenza di cause ostative, a meno che tali cause non fossero documentalmente note al giudice della cognizione.
A tal fine il giudice dell’esecuzione acquisisce, per la doverosa verifica al riguardo, il fascicolo del giudizio”. Allo stesso modo si è pronunciata la coeva decisione Sez. 1, n. 30710 del 10/05/2019, Dinar, Rv. 276408 – 01, per la quale, in ragione della natura e dei limiti della cognizione del giudice di appello e delle caratteristiche del potere di revoca di ufficio, non può dirsi che, in assenza di impugnazione del pubblico ministero o di una sollecitazione a provvedere, l’inerzia del giudice di appello, che non abbia revocato la sospensione pur avendo agli atti il certificato del casellario giudiziale aggiornato, costituisca una forma di acquiescenza idonea ad escludere l’intervento del giudice dell’esecuzione.
A tal proposito si è precisato che, seppure il potere del giudice di appello sia di regola meramente facoltativo spettando in ogni caso al giudice dell’esecuzione di rimediare all’illegittima concessione della sospensione condizionale, se il pubblico ministero non impugnante abbia comunque sollecitato l’esercizio del potere di revoca del giudice di appello, quest’ultimo ha l’obbligo di pronunciarsi e non può rimettere la decisione al giudice dell’esecuzione (così Sez. 1, n. 12817 del 31/01/2017, Oliveri, Rv. 269516-01).
Per Sez. 1, n. 24103 del 08/04/2021, Fosco, Rv. 281432 – 01, che ha successivamente fatto proprie le argomentazioni delle sentenze appena richiamate, non è dato scorgere una decisione implicita nel mero fatto che il giudice di appello, pur potendolo, non abbia revocato la sospensione condizionale. In assenza di una valutazione decisoria implicita non è pertanto possibile affermare che si formi sul punto un giudicato preclusivo all’intervento del giudice dell’esecuzione (nello stesso senso, successivamente, Sez. 1, n. 39190 del 09/07/2021, Stambazzi, Rv. 282076-01).
3.1. Un diverso e minoritario indirizzo interpretativo ha concluso per la soluzione opposta, e quindi per l’impossibilità che il giudice dell’esecuzione si pronunci sulla domanda di revoca della sospensione condizionale illegittimamente concessa ove il giudice di appello non sia intervenuto, anche ex officio, pur avendo agli atti l’attestazione documentale che la sospensione condizionale non avrebbe potuto essere accordata ai sensi dell’art. 164, comma quarto, cod. pen.
Anche le decisioni che compongono tale orientamento dichiarano di muoversi in continuità con le statuizioni di Sez. U, Longo e ritengono, contrariamente a quelle dell’indirizzo maggioritario, che il caso in esame ricada nell’area interessata dal principio di diritto di questa pronuncia. Come precisato da Sez. 5, n. 23133 del 09/07/2020, Bordonaro, Rv. 279906 – 01, è irrilevante, ai fini della preclusione che si forma per il giudice dell’esecuzione, che il giudice di appello sia stato investito da un’impugnazione del pubblico ministero sul punto o che sia stato dallo stesso espressamente sollecitato alla revoca.
Il fatto che il giudice di appello abbia, comunque, il potere di revoca sulla base degli elementi informativi di cui dispone determina l’inclusione della questione della revocabilità del beneficio nell’area della sua valutazione e quindi crea il presupposto per apprezzare, in caso di omessa pronuncia, una “valutazione implicita” della vicenda. Una più compiuta illustrazione degli argomenti a sostegno della tesi ora prospettata si è avuta con Sez. 5, n. 2144 del 20/12/2023, (dep. 2024), V., Rv. 285781 – 01.
Dopo aver ricordato il principio di diritto di Sez. U, Longo, secondo cui, giova ribadire, il giudice dell’esecuzione può revocare la sospensione condizionale illegittimamente concessa sempre che le cause ostative alla concessione non fossero documentalmente note al giudice della cognizione, la decisione ha ricordato che, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, la preclusione si forma anche nel caso in cui il dato ostativo sia stato oggetto di una “valutazione implicita” in sede di cognizione, come accade quando la causa ostativa sia documentata in atti e risulti pertanto compresa nel perimetro di quel giudizio.
Ha quindi preso in esame gli argomenti spesi dall’orientamento opposto e ha osservato, da un lato, che esso sopravvaluta i poteri del giudice dell’esecuzione, svilendo in termini di mera facoltatività l’intervento del giudice della cognizione, in contrasto con il principio generale della natura doverosa dell’esercizio della funzione giurisdizionale; dall’altro, che non affronta in termini rigorosi la questione del significato dell’espressione “valutazione implicita” utilizzato da Sez. U, Longo per l’individuazione dei nova, ossia degli elementi emersi successivamente al provvedimento definitivo oppure preesistenti ma non valutati, neanche implicitamente, che possano giustificare l’intervento del giudice dell’esecuzione.
In tal modo ha trascurato la considerazione della rilevanza dell’acquiescenza mostrata per mezzo dell’inerzia sia del giudice di appello che del pubblico ministero non impugnante alla concessione del beneficio, che rafforza l’effetto preclusivo in sede esecutiva. Si ha invece che il silenzio serbato dal giudice di appello è un fatto processuale che sì correla all’esistenza in atti del certificato del casellario attestante i precedenti ostativi ed impedisce che detti precedenti possano essere considerati dei nova.
La soluzione prospettata è in linea con la giurisprudenza della Corte EDU secondo cui per il caso di riapertura di una procedura, determinata da errori del pubblico ministero, essi possono essere valorizzati soltanto a favore del condannato, in conformità al significato di garanzia del principio di intangibilità del giudicato affermato in più occasioni dalla Corte costituzionale.
- Ancor prima che il legislatore del 2001 interpolasse la disciplina -sostanziale e processuale – con la nuova ipotesi di revoca, la giurisprudenza della Corte di cassazione aveva messo a fuoco, proprio dalla prospettiva dei poteri di intervento del giudice d’appello, il rapporto tra l’ipotesi di revoca-decadenza e quella per originaria illegittimità del provvedimento concessivo della sospensione condizionale. Il riferimento è a Sez. U, n. 7551 del 08/04/1998, Cerroni, Rv. 210798 – 01 che in ragione della natura provvedimentale ha negato, con riguardo alle ipotesi di revoca-decadenza di cui all’art. 168, comma primo, cod. pen., che il giudice di appello, impugnante soltanto l’imputato, incorra nella violazione del divieto della reformatio in peius revocando la sospensione condizionale in conseguenza delle sopravvenienze considerate ai nn. 1) e 2) di quel comma.
Ha rilevato a tal fine che la revoca ha, negli indicati casi, natura dichiarativa, perché gli effetti di diritto sostanziale si connettono de iure al verificarsi della condizione, prima e indipendentemente da essa. È in buona sostanza un atto soltanto ricognitivo della caducazione del beneficio già avvenuta ope iegis, al momento del passaggio in giudicato della sentenza avente ad oggetto il secondo reato, e quindi non impegna il giudice in una attività discrezionale e valutativa.
Ha aggiunto che una valutazione discrezionale è, di contro, implicata nella revoca pronunciata ai sensi dell’art. 168, comma secondo, cod. pen., per condanna a delitto anteriormente commesso ma con irrogazione di pena che, cumulata a quella in precedenza sospesa, non superi i limiti di concedibilità di cui all’art. 163 cod. pen. In tal caso, infatti, il provvedimento di revoca, in ragione dell’esercizio di un potere discrezionale, ha natura costitutiva. Non può pertanto essere assunto dal giudice di appello ove manchi l’impugnazione sul punto del pubblico ministero, in ragione del principio devolutivo e del favor rei.
Con riguardo alla revoca da originaria illegittimità, per erroneità della concessione del beneficio (che è l’ipotesi che ora interessa), ha evidenziato invece che il provvedimento non è equiparabile a quello che dichiara una caducazione già avvenuta ope legis, e non ha quindi un contenuto meramente ricognitivo. Il giudice, in tale ipotesi, compie infatti una rivisitazione di merito della precedente erronea decisione, assunta in violazione di legge. Sez. U, Cerroni hanno concluso che il giudice di appello non può emettere tale tipo di revoca in assenza di impugnazione del pubblico ministero, perché a ciò è di ostacolo il disposto dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. in punto di divieto della reformatio in peius, e hanno precisato che, se lo avesse fatto, avrebbe contravvenuto, ad un tempo, al principio del favor rei e al principio devolutivo.
- L’impostazione data dalle Sezioni Unite al tema del rapporto tra le varie ipotesi di revoca della sospensione condizionale e i poteri del giudice di appello non è stata mantenuta nella giurisprudenza formatasi all’indomani della novella codicistica che ha tipizzato la revoca per originaria illegittimità del provvedimento di concessione.
Molte pronunce, addirittura richiamando le statuizioni di Sez. U, Cerroni in senso conforme, si sono discostate da quella ricostruzione.
Hanno attribuito anche al provvedimento di revoca ai sensi dell’art. 168, comma terzo, cod. pen. natura dichiarativa, asserendo che esso attiene ad effetti di diritto sostanziale che si producono ope legis e sono rilevabili in ogni momento, sia dal giudice della cognizione che dal giudice dell’esecuzione, per poi concludere che non si consuma alcuna violazione del divieto della reformatio in peius e del principio devolutivo per il caso di revoca disposta dal giudice di appello in assenza di impugnazione del pubblico ministero o di una sua sollecitazione alla revoca (Sez. 3, n. 56279 del 24/10/2017, Principali Rv. 272429-01; Sez. 3, n. 7199 del 23/01/2007, Mango, Rv. 236113-01; Sez. 3, n. 40824 del 06/10/2005, La Rosa, Rv. 232895-01; Sez. 1, n. 13011 del 11/03/2005, Tarisciotti, Rv. 231256-01, che, richiamando espressamente Sez. U, Cerroni, ha argomentato sulla natura dichiarativa in ragione dell’assenza di valutazioni a contenuto discrezionale e dell’automaticità degli effetti di diritto sostanziale; Sez. 1, n. 21872 del 12/02/2003, Savignano, Rv. 224400-01, che ha escluso la illegittimità del provvedimento di revoca ad opera del giudice di appello, in particolare le violazioni del principio devolutivo e del principio della reformatio in peius, per la natura ricognitiva e dichiarativa di una preesistente situazione di illegalità; Sez. 5, n. 40466 del 27/09/2002, Di Ponto, Rv. 225699-01).
La trasposizione nell’ambito della revoca per originaria illegittimità degli argomenti che Sez. U, Cerroni hanno utilizzato per dare conto della natura meramente dichiarativa dell’altro tipo di revoca, regolato all’art. 168, primo comma, nn. 1) e 2), cod. pen., non è stata tematizzata e non ha conseguentemente trovato puntuale giustificazione nella giurisprudenza.
Può ipotizzarsi che, una volta intervenuta la novella del 2001 con l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di revocare la sospensione condizionale illegittimamente accordata, si sia pensato che non avrebbe avuto senso contenere i poteri del giudice dell’impugnazione entro la devoluzione se la revoca, non pronunciata in cognizione, può e deve essere disposta in sede esecutiva.
L’assunto, mai esplicitato, ha fatto accantonare quanto chiaramente affermato da Sez. U, Cerroni, ossia che la revoca della sospensione condizionale concessa al di fuori delle condizioni di legge non può essere pronunciata dal giudice di appello se non nel rispetto delle regole della devoluzione e del divieto della reformatio in peius, e ha indotto a valorizzare il profilo dell’assenza di mediazioni valutative a contenuto discrezionale per l’apprezzamento della illegittimità originaria della concessione del beneficio.
Muovendo dall’assenza di discrezionalità valutativa, che si risolve nell’obbligatorietà del provvedimento di revoca, si è dato corpo ad un potere di cognizione e di decisione del tutto svincolato dagli effetti della devoluzione parziale in appello, esercitabile fuori dal devoluto e senza l’ostacolo del divieto della reformatio in peius. È bene precisare subito, e nel prosieguo sarà meglio esplicitato, che dalla natura obbligatoria della revoca consegue soltanto che il giudice, sia di cognizione che di esecuzione, deve pronunciarla senza poter svolgere alcuna valutazione discrezionale; non anche che essa – ed è qui l’equivoco che inficia l’impostazione del tema ad opera di entrambi gli orientamenti in esame – debba essere disposta non avendo riguardo alle ordinarie scansioni processuali che definiscono l’ambito di cognizione e di decisione dei giudici nei vari gradi del giudizio.
- La già più volte citata Sez. U, Longo non ha in alcun modo validato l’idea che il vizio della sentenza che abbia concesso la sospensione condizionale in violazione dei limiti di cui all’art 164, ultimo comma, cod. pen. sia conoscibile in sede di impugnazione oltre i limiti della devoluzione. Dalla sua lettura si ricavano, anzi, elementi a sostegno della tesi secondo cui il giudice di appello, al pari del resto del giudice di legittimità, può intervenire soltanto nel rispetto delle regole che ordinariamente definiscono il suo campo di cognizione.
In essa si è evidenziato (par. 3.1, ultimo capoverso, pag. 8) che l’introduzione di un ultimo comma nell’art. 168 cod. pen. – sulla obbligatorietà della revoca della sospensione concessa in violazione dell’art. 164, quarto comma, in presenza di cause ostative – ha chiamato in gioco il giudice dell’esecuzione e in questa prospettiva ha rinvenuto la sua ragion d’essere – come confermato dal coevo intervento di novella sul già menzionato art. 674 cod. proc. pen. -.
Ciò si è reso necessario perché nel corso del giudizio di cognizione i giudici dei gradi di impugnazione, che possono rimediare all’errore commesso da quello del grado precedente, hanno un ordinario potere di riforma o di annullamento dell’illegittima statuizione entro l’ambito di cognizione devoluta con l’impugnazione, appello o ricorso per cassazione.
Il rilievo di sentenza, secondo cui “… nel corso del giudizio di cognizione il giudice del gravame ovvero quello di legittimità – pur prescindendo dall’art. 168, terzo comma, cod. pen. – ben potrebbero, rispettivamente, riformare o annullare, in accoglimento della impugnazione del pubblico ministero, il punto della sentenza… concernente la sospensione condizionale…”, è servito ad evidenziare il senso della nuova disposizione – non per nulla messa in stretta connessione con la coeva riforma dell’art. 674 cod. proc. pen. – che si coglie interamente nell’attribuzione di un potere di intervento, altrimenti non configurabile, in capo al giudice dell’esecuzione.
Dalle argomentazioni di Sez. U, Longo non può dunque trarsi l’idea che, siccome anche prima della novella i giudici dell’impugnazione potevano correggere l’errore commesso con la concessione della sospensione condizionale, allora il dato di novità dovrebbe esser colto, movendo dalla cogenza della revoca, nel fare di quest’ultima, in quanto assolutamente doverosa, un adempimento sganciato dalla devoluzione.
Il richiamo di Sez. U, Longo ai poteri dei giudici dell’impugnazione è stato infatti arricchito dalla considerazione che il loro intervento è contenuto entro i confini segnati dalla domanda ed è stato allora strettamente funzionale a rafforzare la conclusione che, proprio in ragione dei limiti della devoluzione in cognizione, il legislatore ha attribuito una nuova competenza al giudice dell’esecuzione.
In altro passo della motivazione (par. 6.6., pag. 13), ove si argomenta sulla impossibilità di ricondurre nell’ambito dei nova che legittimano l’intervento del giudice dell’esecuzione quello che risulti documentato in atti e sia quindi compreso nel perimetro dell’oggetto dello scrutinio del giudice, si chiarisce che proprio la previsione di uno specifico mezzo di impugnazione consente di “stabilire con nettezza la linea di confine dei nova nel senso che, laddove si configura la acquiescenza, resta simmetricamente esclusa la possibilità di far valere, per vincere la preclusione, quanto doveva essere dedotto colla impugnazione…”.
Ma è soprattutto nella definizione del principio di diritto che Sez. U, Longo mostrano di aver costruito la soluzione al contrasto senza accordare al vizio in esame una forza tale da imporsi all’attenzione del giudice dell’impugnazione oltre i limiti della sua ordinaria cognizione. Quando, infatti, si afferma che al giudice dell’esecuzione richiesto di revocare la sospensione condizionale illegittimamente concessa compete preliminarmente accertare se i precedenti penali ostativi fossero documentalmente noti in cognizione, si precisa che il riferimento temporale non è all’intero giudizio di cognizione, fino al passaggio in cosa giudicata della sentenza, ma “all’atto della concessione del beneficio” (par. 7, pag. 13).
È dunque a quel momento, al momento della concessione del beneficio e non anche al tempo del giudizio di impugnazione, che rileva se fossero documentalmente noti i precedenti ostativi. Ed è con questa precisazione di indubbia importanza che deve intendersi il senso della successiva statuizione, per la quale il giudice dell’esecuzione, anche di ufficio, deve acquisire ” il fascicolo processuale del giudizio deciso colla sentenza di concessione del beneficio”.
Non v’è quindi il riconoscimento di un potere esercitabile extra devolutum ma, in linea con quanto affermato da Sez. U, Cerroni, si ribadisce che il giudice di appello (come anche la Corte di cassazione) possono sì rimediare all’errore commesso dal giudice che ha concesso il beneficio, ma che ciò possono fare a condizione che sia stata a loro devoluta la cognizione sul tema. Nonostante in più passi della sentenza si faccia riferimento al giudice della cognizione per definire l’esatto confine dell’ambito di intervento del giudice dell’esecuzione al riparo dalla forza preclusiva del giudicato, il termine non è mai utilizzato per comprendervi anche i giudici dell’impugnazione che non siano stati chiamati al controllo sul provvedimento di concessione del beneficio.
In questo contesto va allora inteso il senso dell’inciso “valutazione implicita” che compare nel relativo principio di diritto e che è stato impiegato per chiarire che di nova capaci di inibire la preclusione da giudicato può parlarsi a condizione che il dato ostativo non sia stato preso in considerazione né espressamente né, appunto, implicitamente.
- La valutazione, espressa o implicita che sia, per precludere l’esame della questione in sede esecutiva deve sostanziarsi in un apprezzamento delle condizioni ostative alla concessione del beneficio. Apprezzamento che deve essere reale ed effettivo perché, pur quando implicito, deve trovare attestazione in una statuizione che possa far dire che quella valutazione, seppure erronea, sia stata fatta.
Di “valutazione implicita” può dunque dirsi in riguardo al giudice che applica il beneficio, potendo ritenersi che, decidendo sul punto della sospensione condizionale, non può avere ignorato il contenuto del certificato del casellario giudiziale. Lo stesso ragionamento non si adatta, movendo dalla premessa dell’esistenza del potere di rimediare all’errore da altri commesso, al caso del giudice dell’impugnazione che non sia in alcun modo intervenuto e non abbia adottato alcuna decisione da cui trarre fondatamente che abbia conosciuto delle cause legittimanti la revoca.
Non può infatti farsi coincidere la nozione con quella di valutabilità del dato ostativo quale effetto ricollegabile alla titolarità di una generale potestà di controllo sul provvedimento erroneo, anzitutto perché non è configurabile un potere di revoca svincolato dalla necessaria premessa che il punto sia stato devoluto.
Tanto è stato ben messo in evidenza da Sez. 1, n. 11647 del 30/01/2008, Calabro, Rv. 239712 – 01, secondo cui il potere del giudice dell’esecuzione di revocare il provvedimento applicativo dell’indulto erroneamente concesso dal giudice della cognizione nonostante l’esistenza di condanne ostative ben può essere esercitato seppure il giudice di appello, e non quindi il giudice di primo grado che aveva applicato il beneficio, avesse in atti un ordine di esecuzione emesso anni prima e il certificato del casellario giudiziale aggiornato, entrambi contenenti l’indicazione delle condanne ostative.
Ha opportunamente precisato che non può desumersi che il giudice di appello abbia per ciò solo implicitamente valutato l’esistenza delle condanne ostative, dato che “altro è la possibilità di conoscenza altro è la effettiva conoscenza, che dai citati documenti non può essere correttamente dedotta”. Ha quindi meglio illustrato l’affermazione ricordando che il giudice di appello era stato richiesto di una sentenza che prendesse atto del ed. concordato tra le parti sulla pena con rinuncia ai motivi di impugnazione, con la conseguenza che non aveva potuto esercitare “la cognizione del merito delle questioni”.
L’ultima precisazione è di rilievo, perché chiama in causa l’ambito della cognizione devoluta dall’impugnazione e dalle scelte compiute dalle parti, negando che possa parlarsi di “valutazione implicita” ove manchi la cognizione sul punto interessato dall’errore. Non ha senso allora riferirsi a valutazioni implicite del giudice della cognizione, al fine di evocare la preclusione da giudicato, se non si tiene a mente che di esse può parlarsi soltanto se il giudice abbia condotto effettivamente una valutazione di un dato elemento, seppure non ne abbia espressamente dato atto.
Ma occorre porre mente al fatto che, pur quando il potere di decisione rientri nelle concrete attribuzioni del giudice, l’interpretazione della nozione in termini di mera valutabilità impedisce di poter cogliere, nelle singole vicende, se ci si trovi di fronte ad un errore valutativo o ad un errore meramente percettivo del giudice della cognizione.
Distinzione questa di indubbia importanza, dato che l’errore meramente percettivo non crea alcuna preclusione al successivo esame della questione in esecuzione. In tema si è pronunciata Sez. U, n. 26259 del 29/10/2015, dep. 2016, Mraidi, Rv. 266872 – 01 affrontando la questione della rilevabilità in sede esecutiva della (parziale) abrogazione della norma incriminatrice per effetto di un intervento legislativo di modifica della disposizione, antecedente però alla pronuncia della sentenza di condanna divenuta irrevocabile.
Nessun dubbio che il giudice della cognizione avesse il potere-dovere di prendere atto della abrogazione della norma, ma il nodo è di comprendere se si fosse avveduto dell’esistenza di un profilo problematico, perché dalla mancanza di una qualunque statuizione e valutazione non può trarsi ipso facto la conclusione che abbia valutato e che quindi abbia reso una errata valutazione.
La menzionata pronuncia delle Sezioni Unite ha fatto a tal proposito chiarezza, mettendo in evidenza che “la mancanza nella motivazione della sentenza di condanna di qualunque valutazione circa l’eventualità di una parziale abolitio criminis della norma incriminatrice” fa ritenere, in assenza di altri indici ricavabili dalla sentenza, che il giudice della cognizione “non sia incorso in un errore valutativo…”, ossia che non abbia espresso neanche implicitamente le sue valutazioni in ordine alle conseguenze della successione di leggi sulla fattispecie incriminatrice; e che il silenzio serbato sulla questione sia rivelatore di “un mero errore percettivo, che legittima l’intervento del giudice dell’esecuzione…”.
Quindi, ove il giudice della cognizione, pur avendo il potere di decisione, rimanga in silenzio e nella sentenza non si rinvengano elementi per desumere che almeno implicitamente abbia preso in considerazione una determinata questione, l’errore non è valutativo ma, appunto, di percezione, per non essersi il giudice reso conto della esistenza di un nodo critico su cui intervenire risolutivamente. E questo tipo di errore, per l’assoluta mancanza di contenuto valutativo seppure un potere di decisione vi sia, non impedisce che della questione si occupi il giudice dell’esecuzione.
- Alla configurazione dell’estraneità dell’errore percettivo al novero delle condizioni preclusive dell’intervento in executivis ha dato ancor prima un significativo contributo Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327 – 01, trattando la questione della revocabilità in sede esecutiva di una pena accessoria illegale, a fronte sia della espressa previsione di legge (art. 183 disp. att. cod. proc. pen.) che attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di applicare, su richiesta del pubblico ministero, la pena accessoria che consegua di diritto alla condanna, predeterminata per legge nella specie e nella durata, sempre che, ovviamente, non si sia provveduto con la sentenza di condanna, sia della generale previsione di cui all’art. 676 cod. proc. peri., che annovera tra le competenze del giudice dell’esecuzione anche le pene accessorie.
Nel fissare il principio di diritto per il quale “l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione”, la pronuncia ha stabilito che l’intervento del giudice dell’esecuzione non è impedito dalla forza preclusiva del giudicato, a condizione (tra l’altro) che non si sia già pronunciato in proposito il giudice della cognizione e che non sia per tale via giunto, anche se errando, alla conclusione che quella pena accessoria, invero illegale, andasse applicata.
Nel caso di errore di tipo valutativo – ha specificato la sentenza- non può che porsi rimedio per mezzo degli ordinari mezzi di impugnazione. Si ha allora che, se l’errore nell’applicazione di una pena illegale non è il risultato di una valutazione, non vi sono ostacoli all’intervento in esecuzione e il giudice di questa fase non patisce limiti decisori derivanti dallo svolgimento dei giudizi di impugnazione che, seppure non qualificati dalla devoluzione del tema, avrebbero in ipotesi potuto e dovuto rilevare l’errore in nome di una cognizione extra devolutum.
Questa pronuncia delle Sezioni unite non ha attribuito all’intervento del giudice di appello, a cui non sia stato devoluto il punto, la forza di impedire che la pena accessoria illegale sia eliminata in sede esecutiva, sempre che il giudice che abbia fatto applicazione di quella pena non sia incorso in un errore valutativo. Solo in quest’ultimo caso assume rilievo lo svolgimento del giudizio di impugnazione, perché esso diviene l’esclusivo strumento di rimedio all’errore nell’applicazione di una pena illegale, senza però che il suo ambito cognitivo veda estendersi i confini oltre i limiti della devoluzione di parte.
Si conviene allora con quanto affermato in detta sentenza, e cioè con l’assunto che quel che sbarra la strada ad un intervento del giudice dell’esecuzione, nei casi in cui la legge gli conferisca una potestà decisoria, è l’esistenza di una pregressa valutazione e dunque di una statuizione del giudice della cognizione che ne dia in qualche modo contezza, come si desume dalla regola che è dettata in materia di riconoscimento del concorso formale di reato o della continuazione in sede esecutiva (art. 671 cod. proc. pen.), ma che ha una valenza generale, per tutti i casi di sovrapposizione di attribuzioni tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione.
- Il profilo dirimente è dunque costituito dall’esistenza o meno di un potere di cognizione in capo al giudice di appello in assenza di una devoluzione sul punto della sospensione condizionale. Entrambi gli orientamenti in contrasto ritengono, incorrendo nel medesimo errore, che non operino in materia i limiti della devoluzione e si differenziano perché l’uno, quello maggioritario, risolve il potere di decisione in termini di mera facoltà e l’altro, quello minoritario, lo traduce in termini di obbligo.
Non va invece trascurato quel che le decisioni delle Sezioni semplici mettono da canto, ossia che il giudice di appello si pronuncia ordinariamente nell’ambito della materia devoluta con l’atto di impugnazione e conosce fuori dei punti della decisione a cui si riferiscono i motivi proposti a condizione che la legge estenda specificamente il suo ambito cognitivo oltre i confini segnati dalla parte impugnante.
Una volontà legislativa di attribuire in questa materia una cognizione extra devolutum non è desumibile dalle peculiarità degli aspetti che possono essere a tal fine valorizzati, ossia la pretesa natura meramente dichiarativa del provvedimento che rilevi l’esistenza di cause ostative alla concessione, e revochi pertanto il beneficio, e la concorrente competenza provvedimentale del giudice dell’esecuzione.
9.1. La natura dichiarativa del provvedimento di revoca non è carattere così significativo, perché molti sono i casi in cui la violazione di legge rileva sulla base di una mera constatazione dell’assenza dei presupposti di legge o della presenza di condizioni impeditive, senza che si debbano operare valutazioni di particolare complessità.
Per restare al tema della sospensione condizionale, un regime particolare delle impugnazioni dovrebbe essere riservato, seguendo l’impostazione che qui si critica, anche alle statuizioni di sentenza che applicano la sospensione condizionale in violazione dei limiti di pena irrogata, secondo le previsioni dell’art. 163 cod. pen.; e lo stesso regime in deroga dovrebbe estendersi, come detto, ai più vari provvedimenti soggetti alla ricorrenza di presupposti e condizioni passibili di immediata apprensione.
9.2. Il fatto poi che l’errore da violazione di legge sia rimediabile in sede esecutiva non implica il superamento dei limiti della devoluzione in appello. Su questo, che è il nodo centrale della questione, si è già detto e ora occorre farsi carico di una obiezione non priva di forza suggestiva. Alla tesi che fa leva sui confini cognitivi del giudice dell’impugnazione si oppone che, una volta attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di rimediare all’errore, sarebbe irragionevole, per evidente diseconomia, negare quello stesso potere al giudice di appello per il solo fatto che il punto non sia stato a lui devoluto.
Sarebbe fortemente incoerente – questa la critica – restare ancorati all’assunto che si debba attendere la fase esecutiva per correggere un errore rilevabile agevolmente dal giudice di appello, a poco o nulla importando che il pubblico ministero non abbia proposto impugnazione sul punto. Ad una riflessione appena un po’ più approfondita, l’argomento però si rivela un paralogismo, nella misura in cui ribalta ingiustificatamente i termini del corretto ragionamento.
Anzitutto, trascura l’eventualità che, proprio movendo dalla premessa della devoluzione parziale- con la conseguente possibilità che la parte interessata resti inerte e non interpelli il giudice del controllo -, il legislatore abbia avvertito la necessità di apprestare un rimedio in sede esecutiva, capace di recuperare eventuali carenze del giudizio di cognizione.
Quindi, tende ad assegnare all’art. 168, terzo comma, cod. pen. una natura anche processuale, in funzione dell’affrancamento del giudice delle impugnazioni dai limiti della devoluzione, e non si avvede, da un lato, che nessuna disposizione di legge giustifica una tale manipolazione interpretativa e che, dall’altro, l’ampiezza della disposizione dell’art. 674, comma 1 -bis, cod. proc. pen. in tema di intervento del giudice dell’esecuzione orienta decisamente per l’insostenibilità di una restrizione del suo ambito applicativo in conseguenza di una rimodulazione dei poteri in cognizione.
A ciò si aggiunga, sulla falsariga di quanto già evidenziato (par. 5, ultimo periodo) in ordine all’impossibilità di desumere l’irrilevanza del devoluto in appello dal profilo della doverosità della revoca della sospensione condizionale, che per l’attribuzione al giudice dell’impugnazione di un potere svincolato dalla devoluzione la legge processuale fa sempre riferimento espresso alla rilevabilità d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento o del processo, della relativa questione (v., in tal senso, artt. 20, comma 1, 21, comma 1, 129, 191, comma 2, 179, comma 1, 591, comma 2, 597, comma 5, 609, comma 2, cod. proc. pen.), e che di simili incisi non vi è traccia nelle disposizioni qui di interesse.
Non resta allora che concludere nel senso che, ove avesse inteso tradurre la doverosità dell’intervento di revoca in un potere officioso extra devolutum, il legislatore della novella del 2001 non si sarebbe limitato a interpolare l’art. 674 del codice di rito in tema di attribuzioni del giudice dell’esecuzione e avrebbe esteso la predisposizione dei raccordi della nuova disposizione di natura sostanziale alla disciplina dei poteri del giudice delle impugnazioni.
9.3. Si consideri inoltre che, se la sovrapposizione di attribuzioni tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione fosse così rilevante per scardinare gli ordinari limiti della devoluzione in appello, si dovrebbe concludere, nel caso inverso di potere di riconoscimento di istituti di favore come continuazione e concorso formale, che il giudice di appello potrebbe o dovrebbe conoscere e decidere, a seconda della impostazione in termini di facoltà o in termini di obbligo, al di fuori del devoluto e quindi con assoluta indifferenza per il diritto dell’imputato di scegliere se interpellare sul tema il giudice dell’esecuzione.
Questo diritto invece è stato da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216238 – 01) come di esclusiva spettanza dell’imputato al quale è rimessa la scelta, non altrimenti comprimibile, sul se ” invocare il riconoscimento della continuazione nel processo di cognizione ancora in corso ovvero se, dopo la conclusione di questo, attivare un procedimento di esecuzione diretto all’applicazione della disciplina del reato continuato”.
E questa scelta viene esercitata formulando uno specifico motivo di impugnazione per lamentare la mancata applicazione della continuazione ad opera del giudice di primo grado: in tal modo si obbliga il giudice di appello a pronunciarsi “sul tema di indagine devolutogli, per l’evidente ragione che al principio devolutivo, espresso dal brocardo tantum devolutum quantum appellatum, è coessenziale il potere-dovere del giudice del gravame di esaminare e decidere sulle richieste dell’impugnante”.
È proprio dalla correlazione tra motivi di impugnazione ed ambito della cognizione e della decisione che si trae la conclusione della impossibilità che il giudice di appello possa omettere di pronunciarsi confidando nell’intervento postumo del giudice dell’esecuzione, e così mettere in non cale la domanda impugnatoria. Il vero è, ha proseguito Sez. U, Tuzzolino, che il giudice dell’esecuzione ha rispetto al giudice della cognizione – il cui potere di cognizione è modulato dall’effetto devolutivo dell’impugnazione e il cui esercizio non può disattendere per l’obbligo, una volta interpellato, di dare risposta – “una mera funzione sussidiaria e suppletiva, subordinata all’inesistenza di un preesistente giudicato negativo…”.
9.4. In materia di benefici, sospensione condizionale e non menzione e di attenuanti, il giudice di appello ha un potere di concessione al di là del devoluto, per espressa previsione di legge contenuta nell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. La disposizione, però, è di stretta interpretazione nella misura in cui comporta una eccezione alla regola generale dell’effetto devolutivo e, come tale, non può essere applicata oltre i casi in essa considerati, come compiutamente argomentato da ultimo da Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125 – 01.
Non può dunque farsi leva su questa disposizione per argomentare che, come il giudice di appello può concedere la sospensione, pur quando la cognizione sul punto non gli sia stata devoluta, così può revocarla oltre il devoluto quando sia stata illegittimamente applicata.
- Secondo quanto sin qui esposto deve anzitutto correggersi l’affermazione, propria dell’orientamento maggioritario, del potere del giudice della cognizione di revoca della sospensione illegittimamente concessa in termini di mera facoltà, di potere meramente surrogatorio rispetto alle attribuzioni del giudice dell’esecuzione.
È piuttosto il potere di quest’ultimo, come sottolineato da Sez. U, Tuzzolino, a dover essere qualificato in termini di complementarità in riferimento alle attribuzioni del giudice della cognizione, che si esercitano, fuori dei casi in cui la legge conferisca un’attribuzione sganciata dai confini della domanda impugnatoria, nel rispetto del principio della devoluzione parziale. Impostata la questione in questi termini, non viene in rilievo il nodo della possibile interferenza con il divieto della reformatio in peius, perché esso è limite al potere decisorio del giudice di appello che presuppone logicamente l’attribuzione del potere di cognizione per mezzo della devoluzione.
Se il punto della sospensione condizionale è devoluto al giudice di appello, a fronte di una illegittimità della concessione operata con la sentenza di primo grado, non può che esser conseguenza di una impugnazione del pubblico ministero, non potendosi ravvisare un interesse all’impugnazione dell’imputato che abbia beneficiato, al difuori delle condizioni di legge, della sospensione condizionale. In tale ipotesi non v’è naturalmente spazio per l’operatività del divieto, appunto perché impugnante è il pubblico ministero.
Ove mai si volesse ipotizzare una devoluzione per iniziativa dell’imputato condannato in primo grado, magari interessato a non avere la sospensione condizionale della pena pecuniaria- come ritenuto ammissibile da un orientamento della giurisprudenza di legittimità (v., tra le altre, Sez. 1, n. 35315 del 25/03/2022, Terranova, Rv. 283475 – 01; Sez. 3, n. 17384 del 28/01/2021, Bianco, Rv. 281539 – 01) -, la domanda di revoca dell’imputato porrebbe all’evidenza nel nulla il divieto della reformatio in peius. Deve allora affermarsi il principio di diritto per il quale “è legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’articolo 164, quarto comma, cod. pen. in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, a cui il punto non sia stato devoluto con l’impugnazione”.
- Alla luce dell’appena indicato principio di diritto si rileva l’infondatezza del ricorso. Nell’ordinanza impugnata è ben messo in evidenza che al giudice di appello non è stata devoluta la cognizione del punto relativo alla sospensione condizionale della pena e lo stesso ricorrente nell’esposizione del motivo ha ricordato che il pubblico ministero non aveva proposto impugnazione contro la sentenza di primo grado che aveva illegittimamente concesso il beneficio.
Se, pertanto, il punto della sospensione condizionale non ha formato l’oggetto della devoluzione, il fatto che agli atti del fascicolo del giudice di appello vi fosse attestazione documentale dei precedenti ostativi alla concessione non ha determinato alcuna preclusione all’intervento revocatorio del giudice dell’esecuzione, perché il giudice di appello non aveva cognizione del punto e non ha espresso conseguentemente alcuna valutazione, nemmeno implicita.
- Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.