Corte Costituzionale, sentenza 20 luglio 2021 n. 157
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non consente al cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, in caso di impossibilità a presentare la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79, comma 2, di produrre, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di tale documentazione.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
6.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
6.1.– Con una prima eccezione, l’Avvocatura generale fa presente che i giudizi principali, per i quali gli istanti avevano richiesto l’accesso al patrocinio a spese dello Stato, sono stati decisi con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020, dalla stessa autorità giurisdizionale rimettente. Di conseguenza, secondo la difesa erariale, la rilevanza non sussisterebbe, avendo i ricorrenti ottenuto il bene della vita a cui aspiravano, il che dimostrerebbe un accesso pieno ed effettivo alla tutela giurisdizionale. Inoltre, «se il giudice amministrativo ha deciso il ricorso in relazione al quale era stato chiesto il gratuito patrocinio, non può poi, con successiva ordinanza […] sollevare questione di legittimità costituzionale», in quanto si sarebbe «spogliato del processo».
L’eccezione non è fondata.
La decisione sul patrocinio a spese dello Stato è diversa e indipendente rispetto a quella relativa al merito della controversia, il che rende possibile una sua adozione «in ogni tempo […] e, dunque, sia prima che la causa pervenga alla sentenza sia dopo la pronuncia definitiva» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 febbraio 2020, n. 4315, nello stesso senso anche Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 novembre 2018, n. 29462).
D’altro canto, i giudizi sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato incidono sull’imputazione dei costi relativi al compenso dovuto al difensore per l’opera prestata nell’ambito del processo. Il TAR Piemonte, con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020, con le quali ha deciso le questioni relative all’annullamento del decreto prefettizio di rigetto della domanda di conversione del permesso di soggiorno, si è riservato, non a caso, di pronunciarsi sia sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sia sulle spese di giudizio. Non può, pertanto, ritenersi che si sia «spogliato del processo».
Per le ragioni esposte cade il dubbio sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, norma che trova sicura applicazione nei giudizi a quibus, dal momento che i soggetti istanti sono cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità delle questioni, è sufficiente che la norma impugnata sia applicabile nel giudizio a quo (sentenze n. 253 del 2019, n. 46 e n. 5 del 2014 e n. 294 del 2011) e che la pronuncia di accoglimento possa influire «sull’esercizio della funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010)» (sentenza n. 20 del 2016; in senso conforme sentenza n. 84 del 2021).
6.2.– L’Avvocatura generale ha sollevato, poi, una seconda eccezione di inammissibilità, adducendo che il rimettente avrebbe invocato una sentenza manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia riservata alle scelte discrezionali del legislatore.
Anche questa eccezione non è fondata.
Vero è che questa Corte ha più volte ribadito che le scelte adottate dal legislatore nel regolare l’istituto del patrocinio a spese dello Stato sono connotate da una rilevante discrezionalità, che è doveroso preservare (sentenza n. 47 del 2020; ordinanze n. 3 del 2020 e n. 122 del 2016).
Tuttavia, questo non sottrae tale normazione al giudizio sulla legittimità costituzionale, in presenza di una «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (da ultimo, sentenze n. 97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3 del 2020)» (sentenza n. 47 del 2020), in quanto è necessario «evitare zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale, tanto più ove siano coinvolti i diritti fondamentali e il principio di eguaglianza, che incarna il modo di essere di tali diritti» (sentenza n. 63 del 2021).
Deve poi aggiungersi che la «ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si veda, da ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme le sentenze n. 224 del 2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018; n. 236 del 2016)» (sentenza n. 63 del 2021). In tale prospettiva, onde non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso «“precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” (ex multis, sentenze n. 224 del 2020 e n. 233 e n. 222 del 2018; n. 236 del 2016)». (sentenza n. 63 del 2021).
Nello specifico contesto, il giudice rimettente sollecita un intervento additivo di questa Corte, che in effetti rinviene nell’ordinamento «precisi punti di riferimento» sia nell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia sia nell’art. 16 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), che richiama espressamente il citato art. 94.
7.– Nel merito, occorre, innanzitutto, verificare se l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia contrasti con l’art. 3 Cost., in coordinamento con gli artt. 24 e 113 Cost., nella parte in cui non prevede che i cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea possano presentare «forme sostitutive di certificazione», «comprovando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare», la cui allegazione risulta, pertanto, impossibile.
8.– Le questioni sono fondate.
8.1.– La norma censurata si inquadra nell’ambito della disciplina sul patrocinio a spese dello Stato, vòlto a dare attuazione alla previsione costituzionale, secondo cui devono essere assicurati «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (art. 24, terzo comma, Cost.).
L’istituto serve, dunque, a rimuovere, in armonia con l’art. 3, secondo comma, Cost. (sentenza n. 80 del 2020), «le difficoltà di ordine economico che possono opporsi al concreto esercizio del diritto di difesa» (sentenza n. 46 del 1957, di seguito citata dalla sentenza n. 149 del 1983; in senso analogo, le sentenze n. 35 del 2019, n. 175 del 1996 e n. 127 del 1979), assicurando l’effettività del diritto ad agire e a difendersi in giudizio, che il secondo comma del medesimo art. 24 Cost. espressamente qualifica come diritto inviolabile (sentenze n. 80 del 2020, n. 178 del 2017, n. 101 del 2012 e n. 139 del 2010; ordinanza n. 458 del 2002).
«L’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti», ha osservato questa Corte, «è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 della Costituzione […] e caratterizzanti lo stato democratico di diritto» (sentenza n. 26 del 1999; in senso conforme sentenze n. 238 del 2014, n. 120 del 2014 e ordinanza n. 386 del 2004). Esso è riconosciuto a tutti, dal primo comma dell’art. 24 Cost., e a tutti spetta, com’è proprio dei diritti ascrivibili all’alveo dell’art. 2 Cost., riferito in maniera cristallina all’uomo.
8.2.– D’altro canto, la natura inviolabile del diritto ad accedere ad una tutela effettiva, ai sensi dell’art. 24, terzo comma, Cost., non lo sottrae al bilanciamento di interessi che, per effetto della scarsità delle risorse, si rende necessario rispetto alla molteplicità dei diritti che ambiscono alla medesima tutela.
Questa Corte «ha sottolineato che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia (sentenza n. 16 del 2018)» (sentenza n. 47 del 2020).
In tale «prospettiva si spiega», prosegue la sentenza n. 47 del 2020, «che per tutti i processi diversi da quello penale (civile, amministrativo, contabile, tributario e di volontaria giurisdizione) per il riconoscimento del beneficio è richiesto […] che le ragioni di chi agisce o resiste “risultino non manifestamente infondate”», onde evitare che i non abbienti siano indotti «a intentare cause palesemente infondate senza dover tener conto del loro peso economico». Diversamente, «[a]ppare giustificato [che, nel caso del processo penale, in cui l’azione viene subita da chi aspira al patrocinio a spese dello Stato], venga assicurata […] una più intensa protezione, sganciando l’ammissione al beneficio de quo da qualsiasi filtro di non manifesta infondatezza delle ragioni del soggetto interessato» (ancora sentenza n. 47 del 2020).
Appare allora evidente la motivazione che può rendere non irragionevole il variare di talune regole in funzione dei processi interessati dalla richiesta di accesso al patrocinio a spese dello Stato (si vedano, in senso analogo, anche le ordinanze n. 270 del 2012, n. 201 del 2006 e 350 del 2005, con riferimento alla liquidazione degli onorari e dei compensi ai difensori, di cui all’art. 130, t.u. spese di giustizia, e la sentenza n. 237 del 2015, relativa alla quantificazione dei limiti di reddito, di cui all’art. 92, t.u. spese di giustizia). Non viene in considerazione un presunto diverso rango assiologico del diritto alla tutela giurisdizionale, associato ai differenti processi, quanto piuttosto sono le caratteristiche di questi ultimi a poter condizionare il bilanciamento di interessi rispetto a specifiche disposizioni.
«Va da sé», ha rilevato sempre questa Corte, «che [la] diversità fra “gli interessi civili” e le “situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della azione penale” implica non già la determinazione di una improbabile gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma soltanto l’affermazione dell’indubbia loro distinzione, tale da escludere una valida comparabilità fra istituti che concernano ora gli uni ora le altre (in particolare, le ordinanze n. 270 del 2012; n. 201 del 2006 e n. 350 del 2005)» (sentenza n. 237 del 2015).
8.3.– Tanto premesso, il testo unico in materia di spese di giustizia introduce, nell’art. 119, con riferimento al patrocinio a spese dello Stato nei processi civile, amministrativo, contabile e tributario, una equiparazione al trattamento previsto per il cittadino italiano di quello relativo allo «straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare».
Sennonché, a fronte di tale equiparazione, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia stabilisce che, per i soli cittadini di Paesi non aderenti all’Unione europea, «i redditi prodotti all’estero [debbano essere certificati dalla] autorità consolare competente, che attest[i] la veridicità di quanto in essa indicato», senza contemplare alcun rimedio all’eventuale condotta non collaborativa di tale autorità e, dunque, all’impossibilità di produrre la relativa certificazione.
Per converso, nella disciplina riservata al processo penale, l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia prevede che «in caso di impossibilità a produrre la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79, comma 2, il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, la sostituisce, a pena di inammissibilità, con una dichiarazione sostitutiva di certificazione».
8.4.– Orbene, deve rilevarsi, innanzitutto, che l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia palesa rilevanti distonie, posto che, avvalendosi del mero criterio della cittadinanza, richiede, stando alla sua lettera, la certificazione dell’autorità consolare competente per i redditi prodotti all’estero solo ai cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea e non anche a quelli italiani o ai cittadini europei, che pure possano aver prodotto redditi in Paesi terzi rispetto all’Unione europea; al contempo, la medesima disposizione sembra pretendere dai cittadini degli Stati non aderenti all’Unione europea la certificazione consolare per qualsivoglia reddito prodotto all’estero, compresi quelli realizzati in Paesi dell’Unione.
Ma soprattutto, anche a voler prescindere da tali anomalie, non può tacersi la manifesta irragionevolezza che deriva dalla mancata previsione, nell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, per i processi civile, amministrativo, contabile e tributario, di un meccanismo che – come, viceversa, stabilisce per il processo penale l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia – consenta di reagire alla mancata collaborazione dell’autorità consolare, così bilanciando la necessità di richiedere un più rigoroso accertamento dei redditi prodotti in Paesi non aderenti all’Unione europea, per i quali è più complesso accertare la veridicità di quanto dichiarato dall’istante, con l’esigenza di non addebitare al medesimo richiedente anche il rischio dell’impossibilità di procurarsi la specifica certificazione richiesta.
8.5.– La distinzione tra processo penale e altri processi (civile, amministrativo, contabile e tributario) può giustificare, dunque, – come sopra illustrato – che vengano ritenute non irragionevoli, se correlate alle diverse caratteristiche e implicazioni dei vari processi, talune differenziazioni nella disciplina del patrocinio a spese dello Stato. Tuttavia, tale dicotomia non può in alcun modo legittimare, rispetto ai parametri costituzionali invocati, la mancata previsione di un correttivo, nell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, che permetta di superare l’ostacolo creato dalla condotta omissiva, o in generale non collaborativa, dell’autorità consolare.
8.5.1.– La disposizione censurata, infatti, in contrasto con la ragionevolezza e con il principio di autoresponsabilità, inficia la possibilità di un accesso effettivo alla tutela giurisdizionale, facendo gravare sullo straniero proveniente da un Paese non aderente all’Unione europea il rischio dell’impossibilità di produrre la sola documentazione ritenuta necessaria, a pena di inammissibilità, per comprovare i redditi prodotti all’estero.
Più precisamente, la norma censurata sottende, secondo il diritto vivente, una presunzione che lo straniero abbia redditi all’estero (si vedano Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione di Napoli, sentenze 3 maggio 2021, n. 2913, 30 aprile 2021, n. 2887, 28 aprile 2021, n. 2777; Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione di Roma, sentenza 13 gennaio 2020, n. 298, decreti 22 ottobre 2018, n. 10237 e 19 luglio 2018, n. 8135; Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sentenza 11 ottobre 2019, n. 1350; Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 30 luglio 2020, n. 16424; con la sola eccezione della sentenza della Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 9 febbraio 2018, n. 6529). Tale presunzione implica un onere gravoso, specie quando la prova abbia un contenuto negativo, poiché tali redditi in effetti non sussistono, il che può ritenersi ipotesi non rara, se è vero che spesso è proprio lo stato di indigenza ad indurre le persone ad emigrare. Inoltre, sempre la norma censurata consente di vincere la presunzione solo con le forme documentali da essa previste, vale a dire con la certificazione dell’autorità consolare competente, prescindendo dall’eventuale esistenza di altre prove circa l’effettiva consistenza dei propri redditi all’estero. Ma soprattutto, e questo è il profilo che palesa nella maniera più evidente il vulnus costituzionale, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia fa gravare sull’istante il rischio del fatto del terzo (ossia l’autorità consolare), la cui eventuale inerzia o inadeguata collaborazione rendano impossibile produrre tempestivamente la corretta certificazione richiesta.
Questa Corte, viceversa, anche di recente ha ribadito, relativamente alla documentazione necessaria ad accedere ai benefici dell’edilizia residenziale pubblica, che non possono «gravare sul richiedente le conseguenze del ritardo o delle difficoltà nell’acquisire la documentazione in parola, ciò che la renderebbe costituzionalmente illegittima in quanto irragionevolmente discriminatoria» (sentenza n. 9 del 2021).
Gli stessi principi sono stati, del resto, affermati in materia di notifiche, là dove la Corte ha ritenuto «palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere […] dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi […] e che, perciò resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo» (sentenza n. 447 del 2002, che estende a tutte le notifiche quanto già previsto per le notifiche all’estero dalla sentenza n. 69 del 1994. Il principio generale è stato poi ripreso dalle sentenze n. 3 del 2010, n. 318 del 2009, n. 28 del 2004 e dalle ordinanze n. 154 del 2005, n. 118 del 2005 e n. 153, n. 132 e n. 97 del 2004).
In definitiva, contrasta con gli artt. 3, 24 e 113 Cost. una previsione, come quella della norma censurata, che fa gravare sull’istante il rischio della impossibilità di produrre una specifica prova documentale richiesta per ottenere il godimento del patrocinio a spese dello Stato; essa, infatti, impedisce – a chi è in una condizione di non abbienza – l’effettività dell’accesso alla giustizia, con conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla tutela giurisdizionale.
8.5.2.– Tanto considerato, risulta meritevole di accoglimento la richiesta del rimettente di una pronuncia additiva, che eviti il contrasto con il principio di autoresponsabilità, tramite l’aggiunta di una previsione che già trova riscontro nella disciplina dettata dall’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia, per il processo penale, nonché dall’art. 16 del d.lgs. n. 25 del 2008, per l’impugnazione in sede giurisdizionale delle decisioni sullo status di rifugiato, che al medesimo art. 94 si richiama. Il problema relativo alla documentazione dei redditi prodotti in Paesi non aderenti all’Unione europea non presenta, infatti, a ben vedere, alcuna ragionevole correlazione con la natura dei processi, nei quali si richiede il beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
In linea, dunque, con le citate disposizioni, la legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia può essere ricostituita, integrando la previsione sull’onere probatorio, con la possibilità per l’istante di produrre, a pena di inammissibilità, una «dichiarazione sostitutiva di certificazione» relativa ai redditi prodotti all’estero, una volta dimostrata l’impossibilità di presentare la richiesta certificazione.
In tal modo, analogamente a quanto previsto per il processo penale e per l’impugnazione in sede giurisdizionale dello status di rifugiato, la disposizione censurata può essere resa conforme alla disciplina generale che concretizza il principio di autoresponsabilità.
Tale principio, che implica quale corollario quello secondo cui ad impossibilia nemo tenetur, non solo esclude che si possa far gravare sull’istante il rischio dell’impossibilità di procurarsi la documentazione consolare, ma oltretutto impedisce di pretendere la probatio spesso diabolica del fatto oggettivo costitutivo di un’impossibilità in termini assoluti. Questo sposta la categoria dell’impossibilità verso una accezione relativa, che si desume in controluce rispetto al comportamento esigibile, suscettibile cioè di essere preteso in base alla regola di correttezza, nella misura dell’impegno derivante dal canone di diligenza: l’impossibilità relativa inizia (ed è implicitamente dimostrata) là dove finisce il comportamento esigibile (ex fide bona e) secondo diligenza (in termini simili sentenza n. 9 del 2021).
Non a caso, anche nell’interpretazione che dell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia offre la Corte di cassazione, il cittadino di Paesi non aderenti all’Unione europea non deve provare un’impossibilità in senso assoluto di avvalersi dell’autocertificazione, ma è sufficiente che dimostri un’impossibilità in senso relativo, desumibile in via presuntiva dalla circostanza che «il richiedente si sia utilmente e tempestivamente attivato per ottenere le previste certificazioni» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 26 maggio 2009, n. 21999). La prova dell’impossibilità assoluta viene, infatti, ritenuta «di per sé incompatibile con un procedimento teso ad assicurare la difesa al non abbiente» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 22 febbraio 2018, n. 8617).
A fronte, dunque, dell’impossibilità di ottemperare all’onere di esibire la documentazione consolare, deve riespandersi, a favore dell’istante, l’opportunità di avvalersi della dichiarazione sostitutiva di certificazione.
9.– In conclusione, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia risulta costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente al cittadino di uno Stato non aderente all’Unione europea di presentare, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di certificazione sui redditi prodotti all’estero, qualora dimostri – nei termini sopra illustrati, ossia provando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo correttezza e diligenza – l’impossibilità di produrre la richiesta documentazione.
10.– Restano assorbite le questioni di legittimità costituzionale poste in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra stranieri di Paesi non appartenenti all’Unione europea, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente all’art. 47 CDFUE, nonché relativamente alle convenzioni internazionali, che prevedano l’estensione degli istituti della decertificazione amministrativa.