Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 06 aprile 2023, n. 9479
PRINCIPI DI DIRITTO
– Fase monitoria
Il giudice del monitorio:
a) deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;
b) a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione:
b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;
b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;
c) all’esito del controllo:
c.1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;
c.2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione;
c.3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.
– Fase esecutiva
Il giudice dell’esecuzione:
a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito – di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;
b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;
c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo – informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;
d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;
(ulteriori evenienze)
e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);
f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva – se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.
– Fase di cognizione
Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:
a) una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;
b) procederà, quindi, secondo le forme di rito.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
L’estinzione del giudizio.
1. – Alla rituale rinuncia al ricorso per cassazione (ex art. 390 c.p.c.) da parte di Norina Tugnolo, che non richiede l’accettazione delle controparti per essere produttiva di effetti processuali, segue l’estinzione del giudizio di legittimità (ex art. 391 c.p.c.) introdotto con il medesimo atto di impugnazione.
In assenza di attività difensiva delle parti intimate non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità. L’estinzione del giudizio di legittimità per rinuncia al ricorso esclude la sussistenza dei presupposti per il pagamento del c.d. “doppio contributo unificato”, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.
L’esercizio del potere conferito alla Corte di cassazione dall’art. 363 c.p.c.
2. – Il Collegio reputa, tuttavia, di doversi soffermare su una questione di particolare importanza che trova origine proprio dalla proposizione del ricorso e di utilizzare, così, il potere, che l’art. 363, terzo comma, c.p.c., assegna alla Corte di Cassazione, di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge; ciò che la declaratoria di estinzione conseguente alla rinuncia al ricorso non impedisce (Cass., S.U., 6 settembre 2010, n. 19051; Cass. S.U., 24 settembre 2018, n. 22438).
2.1. – Si tratta della questione che – come evidenziato sia dalla ricorrente, che dal pubblico ministero – è sorta a seguito di quattro coeve pronunce della CGUE, emesse dal Collegio della Grande Sezione in data 17 maggio 2022 (sentenza in C-600/19, Ibercaja Banco; sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza; sentenza in C-725/19, Impuls Leasing Romania; sentenza in C-869/19, Unicaja Banco), una delle quali (sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza) a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Milano con ordinanze del 10 agosto 2019 e del 31 ottobre 2019.
2.2. – La questione di diritto che scaturisce dalle citate sentenze del Giudice di Lussemburgo – e, segnatamente, dalla pronuncia da ultimo citata (di seguito anche soltanto: sentenza “SPV/Banco di Desio”) – riveste una rilevanza davvero peculiare, pari alla complessità dei temi che essa intercetta, così da fornire evidente giustificazione all’intervento nomofilattico che queste Sezioni Unite intendono assumere ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
2.3. – Essa, per i connotati che la caratterizzano e per le implicazioni che ne discendono, si presta, altresì, ad essere esempio paradigmatico di come possa trovare virtuosa applicazione l’istituto, di nuovo conio, del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363 bis c.p.c. (introdotto dall’art. 3, comma 27, lett. c, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con decorrenza dal 1° gennaio 2023 per effetto dell’art. 35, comma 7, del citato d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall’art. 1, comma 380, lett. a), della legge 29 dicembre 2022, n. 197), rimesso alla valutazione del giudice di merito in base a concorrenti presupposti (questione di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio non ancora risolta da questa Corte di cassazione, che presenta gravi difficoltà interpretativa e che è suscettibile di porsi in numerosi giudizi), tutti ricorrenti nel caso in esame.
Il perimetro della pronuncia di queste Sezioni Unite ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
3. – L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, ex art. 363 c.p.c., non ha “un carattere meramente esplorativo o preventivo”, ma si lega necessariamente alla fattispecie concreta oggetto di cognizione (Cass., S.U., n. 404/2011 e Cass., S.U., n. 23469/2016). E ciò anche là dove la norma anzidetta intesta tale potere direttamente in capo alla Corte di cassazione (terzo comma dell’art. 363 c.p.c.) e ne attiva, dunque, la funzione nomofilattica pur a prescindere, eccezionalmente, dalla decisione sul fondo delle censure con effetti sul concreto diritto dedotto in giudizio.
Dunque, anche nell’applicazione dell’istituto del principio di diritto nell’interesse della legge rimane viva e vitale quella necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e i “fatti della vita” portati dalle parti dinanzi al giudice. Ciò dà fondamento alle ragioni di una disciplina che, a fronte di questioni di diritto e di fatto rivestenti particolare importanza, consente di pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente sulla concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili (tra le altre, Cass., S.U., n. 27187/2007 e Cass., S.U., n. 19051/2010).
3.1. – La fattispecie che qui rileva ha riguardo – in estrema sintesi – all’emissione di un decreto ingiuntivo in favore di un professionista che il consumatore non ha opposto, lamentando, però, in sede di procedura esecutiva per il soddisfo del credito ingiunto, l’omesso rilievo officioso del giudice del procedimento monitorio su una clausola abusiva (nella specie, di deroga del foro del consumatore) presente nel contratto fonte di quel credito e, quindi, chiedendo al giudice dell’esecuzione di farsi carico del controllo sull’abusività della clausola contrattuale.
Le strette coordinate della pronuncia da adottare ai sensi dell’art. 363 c.p.c. sono, dunque, quelle, soltanto, della tutela consumeristica di cui alla direttiva 93/13/CEE, concernente l’abusività di clausole presenti in contratto concluso con professionista, nel contesto dell’anzidetta specifica scansione processuale di diritto nazionale.
La sentenza della CGUE in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza.
4. – Così circoscritti i confini della presente pronuncia nomofilattica, è affatto palese la peculiare rilevanza che per essa assume, nel novero delle quattro decisioni adottate dalla CGUE il 17 maggio 2022, la sentenza “SPV/Banco di Desio”, in quanto resa all’esito di un rinvio pregiudiziale disposto da un giudice italiano nel contesto di controversie similari alla presente e, dunque, della comune disciplina, segnatamente processuale, di diritto interno.
4.1. – È – beninteso – una rilevanza che si colloca armonicamente nel contesto del tradizionale perimetro entro il quale, in conformità a quanto disposto dagli artt. 19, § 1, TUE e 267 TFUE, si svolge, al fine di garantire un’interpretazione unitaria delle norme dell’ordinamento dell’Unione (quale obiettivo imprescindibile per la stessa sopravvivenza di tale ordinamento), l’esercizio della competenza attribuita alla Corte di Lussemburgo e si assegna valore di ulteriori e vincolanti fonti del diritto eurounitario (ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.: così, segnatamente, Corte cost., sentenza n. 263 del 2022) alle sentenze della medesima Corte, la cui interpretazione, avente efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione, chiarisce e fissa il significato, nonché i limiti di applicazione, delle norme di quel diritto nel senso in cui deve o avrebbe dovuto essere inteso e applicato sin dalla data della sua entrata in vigore (tra le altre, CGUE, sentenza 22.11.2017, in C-251/16, Cussens; CGUE, sentenza 7.8.2018, in C-300/17, Hochtief; CGUE, sentenza 10.3.2022, in C-177/20, Grossmania; così anche Corte cost., sentenze n. 113 del 1985, n. 285 del 1993, n. 227 del 2010, n. 54 del 2022, n. 263 del 2022, citata; Cass., 11 dicembre 2012, n. 22577 e Cass., 3 marzo 2017, n. 5381).
Ai nostri fini, quindi, rendendosi cogente l’interpretazione fornita dalla CGUE (ovviamente, non soltanto con la sentenza “SPV/Banco di Desio”) degli artt. 6 e 7 della citata direttiva 93/13/CEE.
4.2. – E’, dunque, da ribadirsi quel rapporto di complementarietà – messo in risalto da Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107 (con estesi richiami alla giurisprudenza eurounitaria) – che si instaura, in funzione cooperativa, tra la Corte di Giustizia dell’Unione europea e il giudice nazionale, tale da costituire quest’ultimo non solo quale “giudice comunitario di diritto comune”, ma anche di riservagli, in via esclusiva, il potere sia di interpretare il diritto interno – rendendolo, però, conforme al diritto dell’Unione o anche di disapplicarlo, ove ciò sia consentito -, sia di applicare, nel caso concreto, il diritto unionale come interpretato dalla Corte di Giustizia (CGUE, sentenza 5.4.2016, in C-689/13, PFE; CGUE, sentenza 24.9.2019, in C-573/17, Popławski; CGUE, Grossmania, cit.).
4.3. – Giova, dunque, rammentare quale è stata la risposta della CGUE alle questioni pregiudiziali sollevate con le già menzionate ordinanze del Tribunale di Milano e, in sintesi, quali argomentazioni sorreggono quella risposta.
4.3.1. – La CGUE, con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, ha, dapprima, riformulato (cfr. § 50) la richiesta pregiudiziale del Tribunale di Milano nei seguenti termini: “(…) se l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. Nella causa C-831/19, esso chiede altresì se la circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva abbia una qualsivoglia rilevanza al riguardo”.
4.3.2. – In coerenza con il complessivo quesito come sopra riformulato, la Corte di giustizia ha, poi, dato la seguente risposta: «L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come “consumatore” ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo».
4.3.3. – Così si snoda, nella sua essenzialità, l’iter giustificativo della decisione:
– al fine di ovviare allo squilibrio esistente tra consumatore e professionista, il giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 (clausola abusiva che, ai sensi della norma imperativa di cui all’art. 6, par. 1, non vincola il consumatore), laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto a tal riguardo necessari (§§ 51-53);
– l’art. 7, par. 1, della direttiva 93/13 impone agli Stati membri di “fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori” e, tuttavia, in assenza di armonizzazione delle procedure applicabili a tal fine, tali procedure, in forza del principio dell’autonomia processuale, rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, “a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività)” (§§ 53-54);
– il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste importanza sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali (§ 57) e la stessa tutela del consumatore “non è assoluta”, non imponendo il diritto dell’Unione “di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione di una disposizione, di qualsiasi natura essa sia, contenuta nella direttiva 93/13 … fatto salvo tuttavia … il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività” (§ 58);
– il principio di equivalenza è nella specie rispettato, poiché “il diritto nazionale non consente al giudice dell’esecuzione di riesaminare un decreto ingiuntivo avente autorità di cosa giudicata, anche in presenza di un’eventuale violazione delle norme nazionali di ordine pubblico” (§ 59);
– quanto al principio di effettività: a) esso, pur non potendo “supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato”, impone di garantire l’effettività dei diritti spettanti ai singoli, nella specie, in base alla direttiva 93/13 ed implica “un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva”, secondo quanto previsto dal citato art. 7, par. 1, nonché dall’art. 47 CDFUE, “che si applica, tra l’altro, alla definizione delle modalità procedurali relative alle azioni giudiziarie fondate su tali diritti”; b) “in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito”; c) “le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali, alle quali si riferisce l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, non possono pregiudicare la sostanza del diritto spettante ai consumatori in forza di tale disposizione … di non essere vincolati da una clausola reputata abusiva” (§§ 60-63);
– “una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali” (§ 65);
– “in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione” (§ 66).
Le premesse al “seguito” da assicurare alla sentenza “SPV/Banco di Desio”.
5. – E’ opportuno, osserva la Corte, muovere dal principio di autonomia procedurale degli Stati membri (ribadito dalla sentenza “SPV/Banco di Desio” ai §§ 53-54) che, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza di Lussemburgo (dalle sentenze del 16.12.1976 – in C-33/76, Rewe e in C-45/76, Comet – in poi), va letto sotto la lente di quella interrelazione necessaria che l’ordinamento dell’Unione viene a comporre tra situazioni giuridiche soggettive da esso stabilite e la disciplina processuale degli Stati membri, quest’ultima – in assenza di misure di armonizzazione assunte da quell’ordinamento – deputata ad assicurare, alle prime, i rimedi atti a garantire una tutela giurisdizionale effettiva (art. 19, § 1, secondo comma, TUE), quale principio generale di diritto dell’Unione derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che, attualmente, trova affermazione nell’art. 47 CDFUE (tra le altre, CGUE, sentenza 5.11.2019, in C-192/18, Commissione c. Polonia).
Ha, quindi, preso corpo, nel contesto di un assetto complessivo che vede primeggiare l’ordinamento sovranazionale, un meccanismo di complementarietà funzionale delle norme processuali nazionali rispetto al diritto europeo sostanziale che, orientato dai principi di equivalenza ed effettività – nella calibrazione data ad essi, di volta in volta, dall’interpretazione della Corte di giustizia -, trova svolgimento in un processo dinamico e complesso di integrazione, tale che la disciplina interna sul processo, ove necessario, si debba flettere sino al punto di mostrarsi adeguata e congruente rispetto agli standard di garanzia richiesti dal diritto eurounitario.
L’autonomia procedurale degli Stati membri, in materia di armonizzazione minima come quella regolata dalla direttiva 93/13/CEE, è, dunque, un valore che la stessa CGUE si preoccupa di tenere ben fermo, configurandolo come recessivo solo a certe condizioni, ossia per dare piena espansione ai principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale. Ciò sta a significare che le categorie e gli istituti di diritto processuale interno potranno mantenere intatto il proprio fisiologico spazio applicativo là dove sia possibile rinvenire nel sistema, e fintanto che lo sia, l’apparato di tutela giurisdizionale che garantisca appieno l’effettività del diritto eurounitario, per come interpretato dalla CGUE nel suo ruolo di fonte del diritto e, dunque, nell’esercizio della sua funzione nomogenetica.
E’ una prospettiva, quindi, che porta ad individuare nell’ordinamento processuale interno la disciplina adeguata a quello scopo, nel rispetto della struttura e funzione degli istituti che essa configura (e, dunque, delle categorie giuridiche in tanto implicate), operando, però, su di essa, ove necessario, quegli adattamenti che sono imposti dal diritto unionale in funzione della tutela della posizione soggettiva da esso regolata.
Di qui, come detto, il compito, cruciale, affidato al giudice nazionale/giudice comune europeo, che, in siffatta opera di coordinamento ed integrazione attraverso gli strumenti (ormai istituzionali) dell’interpretazione conforme (sin dalla sentenza 10.4.1984, in C-14/83, Von Colson, e proprio in riferimento all’interpretazione di una direttiva, da intendersi alla luce della lettera e dello scopo di quest’ultima, al fine di conseguire il risultato indicato dall’art. 189 CEE e ora dall’art. 288 TFUE) e, se del caso (poiché la relativa attivazione si pone come sussidiaria rispetto all’interpretazione conforme: CGUE, sentenza 24.1.2012, in C282/10, Dominguez), della disapplicazione, dà, alfine, concretezza al principio di leale collaborazione di cui all’art. 4 TUE, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad assicurare la conformità dell’ordinamento interno al diritto dell’Unione.
5.1. – E’, dunque, questo il terreno, giuridico e culturale, su cui deve misurarsi il seguito che occorre assicurare alla sentenza della CGUE del 17 maggio 2022 in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza, la quale – in estrema sintesi – ha affermato che, ove il consumatore non abbia fatto opposizione avverso un decreto ingiuntivo non sorretto da alcuna motivazione in ordine alla vessatorietà delle clausole presenti nel contratto concluso con il professionista e posto a fondamento del credito azionato da quest’ultimo, la “valutazione” (il “controllo”) sull’eventuale carattere abusivo di dette clausole deve poter essere effettuata dal giudice dell’esecuzione dinanzi al quale si procede per la soddisfazione di quel credito.
5.2. – Il dictum della CGUE, per la sua portata incidente – nella specifica materia implicata – sull’efficacia di giudicato che, alla luce del diritto vivente (tra le molte: Cass., 7 ottobre 1967, n. 2326; Cass., 7 luglio 1969, n. 2508; Cass., 20 aprile 1996, n. 3757; Cass., 11 giugno 1998, n. 5801; Cass., S.U., 16 novembre 1998, n. 11549; Cass., 24 novembre 2000, n. 15178; Cass., 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., 6 settembre 2007, n. 18725; Cass., 28 agosto 2009, n. 18791; Cass., 11 maggio 2010, n. 11360; Cass., 25 ottobre 2017, n. 25317; Cass., 28 novembre 2017, n. 28318; Cass., 18 luglio 2018, n. 19113; Cass., 24 settembre 2018, n. 22465; Cass., 4 novembre 2021, n. 31636), si viene a determinare, in conseguenza della mancata opposizione al decreto ingiuntivo, non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sugli accertamenti che ne costituiscono i necessari e inscindibili antecedenti o presupposti logico-giuridici, non pone affatto in crisi gli equilibri di quel rapporto, stabile e fecondo, tra ordinamenti, i quali – soprattutto a partire dal Trattato di Maastricht e con l’avvento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e, quindi, del Trattato di Lisbona – mirano ad una integrazione sempre più profonda, i cui orizzonti si aprono ad un territorio più vasto di quello, tradizionale, in cui rivestiva centralità assorbente l’efficienza del mercato, per annettervi, non soltanto in via mediata, le esigenze di tutela della persona e, quindi, per costruire una “comunità di diritti”.
5.2.1. – Un siffatto contesto, sempre più maturo, ha alimentato una declinazione anche in termini personalistici della figura del consumatore, alla quale i Trattati assegnano un ruolo centrale “nella definizione e nell’attuazione di altre politiche o attività dell’Unione” (art. 12 TFUE), tale da garantirne un elevato livello di protezione che va oltre gli interessi strettamente economici (pur presenti e rilevanti), per estendersi alla salute e alla sicurezza (art. 169 TFUE), in un’ottica che la Carta di Nizza complessivamente ascrive al principio di solidarietà (art. 38 CDFUE), ossia a quel paradigma comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri che, come malta preziosa, fa da collante tra i diritti e i doveri del singolo nell’ambito di una collettività.
E’ una prospettiva alla cui concretezza cooperano anche gli obiettivi e l’economia generale della direttiva 93/13/CEE, la quale, in armonia con le previsioni dei Trattati e della CDFUE, “nel suo complesso, costituisce un provvedimento indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati all’Unione e, in particolare, per l’innalzamento del livello e della qualità della vita all’interno di quest’ultima” (CGUE, sentenze: del 26.10.2006, in C-168/05, Mostaza Claro; del 4.6.2009, in C-243/08, Pannon GSM; del 6.10.2009, in C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones; del 14.6.2012, in C-618/10, Banco Español de Crédito).
Trattasi, quindi, di obiettivi valoriali comuni ai Paesi dell’Unione e che, in ambito nazionale, possono rinvenirsi in quella correlazione – cui dà risalto, segnatamente, la giurisprudenza costituzionale in sintonia con le coordinate dell’ordinamento sovranazionale – tra protezione degli interessi dei consumatori e utilità sociale, nonché sicurezza, libertà, dignità umana (alle quali la legge costituzionale n. 1 del 2022 ha aggiunto salute ed ambiente), che il secondo comma dell’art. 41 Cost. ha assunto a limiti generali della libertà di iniziativa economica garantita dal primo comma della stessa norma della Carta fondamentale (tra le altre: Corte cost., sentenze n. 270 del 2010 e n. 210 del 2015 e, in precedenza, la sentenza n. 241 del 1990; cfr. anche, per la giurisprudenza di legittimità, Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243).
5.2.2. – Pertanto, è proprio tramite gli artt. 6 e 7 della citata direttiva, alla stregua della lettura che ne ha dato la CGUE con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, nel solco dei propri precedenti in materia (oltre a quelli citati al § 5.1., cfr. CGUE: sentenza 14.3.2013, in C-415/11, Aziz; sentenza 13.9.2018, in C-176/17, Profi Credit Polska; sentenza 20.9.2018, in C-448/17, EOS KSI; inoltre, successivamente al 17 maggio 2022, v. anche: CGUE, sentenza 30.6.2022, in C-170/21, Profi Credit Bulgaria), che si impone, nel contesto del rapporto contrattuale instauratosi tra professionista e consumatore, il riequilibrio della posizione strutturalmente minorata di quest’ultimo sia sotto il profilo del potere negoziale, che per il livello di informazione, così da esserne vulnerata la scelta, consapevole e razionale, volta a soddisfare, attraverso quel contratto, le esigenze quotidiane della vita.
Ciò che può ottenersi “solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale” (così già CGUE, sentenza 27.6.2000, in cause riunite C-240/98 e C-244/98, Ocèano; successivamente, tra le altre, le citate sentenze Mostaza Claro e Asturcom Telecomunicaciones, nonché CGUE: sentenza 9.11.2010, in C-137/08, VB Pénzügyi Lízing e sentenza 14.6.2012, C-618/10, Banco Español de Crédito), ossia, nella sede processuale, tramite il dovere del giudice investito dell’istanza di ingiunzione di esaminare d’ufficio il carattere abusivo della clausola contrattuale e di dare conto degli esiti di siffatto controllo. Sicché, l’inattività del giudice del procedimento monitorio, ove non rimediabile in una sede successiva (si veda anche la citata sentenza EOS KSI e, segnatamente, la sentenza in C-600/19, Ibercaja Banco, del 17.5.2022), impedirebbe definitivamente di colmare proprio nel processo quel dislivello sostanziale esistente tra i contraenti, facendo gravare la violazione dell’obbligo del rilievo officioso della abusività della clausola negoziale sul consumatore, sebbene questi sia rimasto privo di tutte le “informazioni” che gli sono dovute per porlo in condizione di determinare la portata dei suoi diritti (cfr. le citate sentenze Banco Español de Crédito ed EOS KSI, nonché CGUE, sentenza 18.2.2016, in C-49/14, Finanmadrid) al fine di poter esercitare, per la prima volta, la propria difesa in sede di opposizione al decreto ingiuntivo “con piena cognizione di causa” (così la citata sentenza Ibercaja Banco).
E, tuttavia, è proprio la carente attivazione del giudice del monitorio – mancato rilievo officioso e omessa motivazione, imposti da norma imperativa (art. 6, par. 1, della direttiva 93/13/CEE) – che comporta, secondo il diritto dell’Unione (nell’interpretazione vincolante della CGUE: cfr. anche sentenza Ibercaja Banco), che la decisione adottata, sebbene non fatta oggetto di opposizione, è comunque insuscettibile di dar luogo alla formazione, stabile e intangibile, di un giudicato, così da consentire anche nella contigua sede esecutiva, dove si procede per l’attuazione del diritto accertato, una riattivazione del contraddittorio impedito sulla questione pregiudiziale pretermessa (concernente, per l’appunto, l’assenza di vessatorietà delle clausole del contratto) e, quindi, di un meccanismo processuale (come si vedrà nel prosieguo) che possa rimettere in discussione anche l’accertamento sul bene della vita implicato dal decreto ingiuntivo, ossia il credito riconosciuto giudizialmente.
In altri termini – ove si legga una tale vicenda attraverso la lente di una tradizionale e icastica descrizione della scansione processuale del procedimento monitorio -, sarebbe monca la provocatio ad opponendum (ossia la “provocazione a contraddire”: Cass., S.U., 1° marzo 2006, n. 4510) che il decreto ingiuntivo innesca, richiedendo che il debitore si attivi entro un certo termine per evitare altrimenti la c.d. impositio silentii (il giudicato o la c.d. “preclusione da giudicato”: la citata Cass., S.U., n. 4510/2006) sul provvedimento d’ingiunzione emesso.
Dunque, precisa la Corte, nel nostro caso (ma analogamente in quello di cui alla coeva sentenza Ibercaja Banco), è proprio l’impedimento al contraddittorio, differito, sulla pregiudiziale dell’abusività delle clausole, conseguente all’omissione del giudice, che frustra il diritto di azione e difesa del consumatore, vulnerandone in modo insostenibile la tutela giurisdizionale effettiva, così da rendere vuota prescrizione anche quella, dettata dall’art. 7, par. 1, della direttiva 93/13/CEE (in ragione del 24° Considerando), che impone agli Stati membri di predisporre “mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori”.
5.3. – Come già in precedenza nella materia in esame (le citate sentenze Finanmadrid e Ibercaja Banco; inoltre, CGUE, sentenza 26.1.2017, in C-421/14, Banco Primus), tale esito è frutto di un bilanciamento che la Corte di Lussemburgo ha effettuato, anche nel caso specifico, secondo una visione scevra da concettualizzazioni e orientata dal c.d. “canone di adeguatezza tra esigenze di tutela e forme di tutela disponibili”, saggiando il punto di rottura tra le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, presidiate dal principio di immutabilità della decisione, e quelle di effettività della tutela del consumatore imposte dalla direttiva 93/13/CEE, assegnando, per le ragioni anzidette, prevalenza a quest’ultime.
Né un siffatto bilanciamento è tale da elidere, alla luce della prospettiva che ha ispirato la giurisprudenza della CGUE, l’importanza dell’istituto processuale del giudicato nazionale, nella sua ambivalente declinazione sostanziale (art. 2909 c.c.) e processuale (art. 324 c.p.c.), che si rinviene anche nel diritto dell’Unione in consonanza con le tradizioni giuridiche degli Stati membri, dalle cui fondamenta, tuttavia, trova con vigore emersione la profondità di senso che permea la funzione servente del processo rispetto all’attuazione dei diritti, il suo essere mezzo e non fine.
La tutela effettiva rimediale configurata, nella specie, dalla CGUE a fronte della violazione di una disciplina dal carattere imperativo specificamente dettata dal diritto dell’Unione (direttiva 93/13/CEE), che quella tutela intende assicurare appieno, trova, infatti, radicamento in principi – del contraddittorio e del pieno dispiegamento del diritto di azione e di difesa in giudizio – che rappresentano, insieme all’imparzialità e terzietà del giudice, nonché alla motivazione dei provvedimenti giudiziari, i cardini del “giusto processo” di cui agli artt. 47 CDFUE e 6 CEDU e che, del pari, costituiscono il nucleo indefettibile delle garanzie fondamentali somministrate anche dagli artt. 24 e 111 Cost., quali “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano” (Corte cost., sentenza n. 238 del 2014) che attengono all’esercizio della giurisdizione.
Il “seguito” alla sentenza “SPV/Banco di Desio”.
6. – Al fine di dare il necessario seguito ai dicta della CGUE, la comunità degli interpreti – dai giudici territoriali (con le loro prime pronunce in medias res) all’avvocatura (e con essa la difesa della ricorrente), dall’accademia (con i contributi, numerosi, al dibattito giuridico) alla procura generale (nella sua funzione istituzionale di compartecipe alla costruzione della nomofilachia), cui le Sezioni Unite di questa Corte hanno posto attento ascolto prima di adottare la presente pronuncia nomofilattica ex art. 363-bis c.p.c. – ha individuato una pluralità di soluzioni, pur rimarcando che nessuna di esse si presenta piana e che ciascuna sconta un margine differenziale rispetto all’assetto del nostro ordinamento processuale, nel suo proporsi come diritto vivente frutto della attuale compenetrazione tra formante legislativo e quello giurisprudenziale.
La via che questa Corte intende percorrere nel dettare i principi nell’interesse della legge è quella – già illustrata in precedenza (cfr. § 5) – che si presta, anzitutto, ad operare, con convinzione, la necessaria saldatura tra ordinamenti, sovranazionale e interno, che è la cifra, anche culturale, attraverso la quale rendere concretamente operante il principio di effettività della tutela nella sua duplice declinazione, presente nelle pieghe della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, negativa (volta a superare gli ostacoli che, in ambito nazionale, si frappongono alla piena realizzazioni delle libertà e dei diritti riconosciuti dall’Unione) e pro-attiva (diretta ad individuare le misure e i rimedi idonei alla piena espansione della tutela di quelle libertà e di quei diritti).
Una via, che, al tempo stesso, sia però tale da preservare, sin dove il principio preminente anzidetto lo renda possibile, i doverosi margini di autonomia procedurale, ambito nel quale è dato tradurre, nei termini cooperativi innanzi evidenziati (sempre al § 5), il valore persistente dell’ordinamento processuale nazionale.
A) la fase monitoria (ovvero il c.d. “seguito pro futuro”).
7. – Secondo la giurisprudenza della CGUE (tra le altre: le citate sentenze Pannon, Banco Espanol de Credito, Aziz, Profi Credit Polska; inoltre, le sentenze: 9.11.2010, in C-137/08, VB Pénzügyi Lízing; 11.3.2020, in C-511/17, Lintner; 4.6.2020, in C-495/19, Kancelaria Medius; 30.6.2022, in C-170/21, Profi Credit Bulgaria), il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, connessa all’oggetto della controversia, purché gli elementi di diritto e di fatto già in suo possesso suscitino seri dubbi al riguardo, dovendo, quindi, adottare d’ufficio misure istruttorie necessarie per completare il fascicolo, chiedendo alle parti di fornirgli informazioni aggiuntive a tale scopo.
Sono principi enunciati anche in riferimento al procedimento d’ingiunzione e, del resto, avuto riguardo proprio all’ingiunzione di pagamento europea (IPE), disciplinata dal regolamento n. 1896/2006, la Corte di Lussemburgo ha affermato che il giudice investito della domanda del creditore può richiedere, anche d’ufficio, ed al fine di procedere all’esame del carattere eventualmente abusivo di alcune clausole, informazioni complementari ovvero la produzione di ulteriori documenti dalla parte interessata e che, pertanto, va considerata contraria al diritto dell’UE una normativa nazionale che qualifichi come irricevibili tali documenti aggiuntivi (sentenza 19.12.2019, in cause riunite C-453/18 e C-494/18, Bondora AS).
Sempre nel contesto del procedimento d’ingiunzione, nel quale, per l’appunto la partecipazione del debitore consumatore è consentita solo nella fase dell’opposizione al decreto monitorio, la CGUE ha affermato che il dovere del giudice di disapplicazione una clausola contrattuale abusiva può riguardare anche soltanto “una parte del credito fatto valere” e, in tale ipotesi, “il giudice dispone della facoltà di respingere parzialmente detta domanda, a condizione che il contratto possa sussistere senza nessun’altra modifica o revisione o integrazione, circostanza che spetta a detto giudice verificare” (così la citata sentenza Profi Credit Bulgaria).
7.1. – Gli approdi della giurisprudenza eurounitaria – come anche messo in risalto dal pubblico ministero, nelle sue conclusioni scritte, e dalla stessa dottrina – non pongono soverchi problemi di compatibilità con l’assetto processuale interno, delineato dagli artt. 633-644 c.p.c., il quale rende certamente praticabile il doveroso controllo, da parte del giudice, sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore, così, in ragione degli esiti del rilievo d’ufficio (sussistenza o meno della vessatorietà incidente, in tutto o in parte, sull’oggetto della domanda monitoria), da addivenire al rigetto del ricorso (che non preclude la riproposizione della domanda: art. 640, ultimo comma, c.p.c.), ovvero al suo consentito accoglimento parziale (per tutte, Cass., S.U., n. 4510/2006, citata; in armonia, quindi, con la surrichiamata sentenza della CGUE Profi Credit Bulgaria).
7.1.1. – Non può, infatti, seguirsi la diversa tesi secondo la quale il c.d. “diritto all’interpello” del consumatore imporrebbe al giudice di emettere il decreto ingiuntivo, evidenziando la presenza di uno o più profili di abusività delle clausole contrattuale, per invitare, poi, il consumatore stesso a prendere posizione sul punto mediante la proposizione dell’opposizione. Si tratta, anzitutto, di orientamento che non collima, in linea più generale, con l’indirizzo della CGUE (cfr. le citate sentenze Pannon e Lintner; inoltre, le sentenze: 21.2.2013, in C-472/11, Banif Plus; 21.12.2016, in cause riunite C-154/15, C- 307/15, C-308/15, Guterriez Naranjo; 3.10.2019, C-260/18, Dziubak) per cui, sebbene il giudice nazionale non sia tenuto, in forza della direttiva 93/13/CEE, a disapplicare le clausole contrattuali qualora il consumatore, dopo essere stato avvisato, non intenda invocarne la natura abusiva e non vincolante, tuttavia, una volta che abbia accertato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola, può trarre tutte le conseguenze derivanti da tale accertamento, senza attendere che il consumatore, informato dei suoi diritti, presenti una dichiarazione diretta ad ottenere l’annullamento di detta clausola.
Ma ancor prima, soggiunge la Corte, nel costringere il consumatore a proporre l’opposizione per far valere i propri diritti, si pone in contrasto con lo stesso principio del rilievo d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali che anche nell’ambito del procedimento monitorio è funzionale all’effettività della tutela del consumatore sotto il profilo della non vincolatività delle clausole medesime, ai sensi dell’art. 6, par. 1, della anzidetta direttiva.
7.2. – Strumentali rispetto all’esercizio del controllo officioso cui è tenuto il giudice del monitorio sono i poteri istruttori consentiti dall’art. 640, primo comma, c.p.c. (poteri, del resto, già valorizzati, sebbene in un diverso ambito, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 410 del 2005); ciò, dunque, al fine di risolvere i seri dubbi, sorti in base agli elementi già in suo possesso, sulla presenza di clausole vessatorie (ovviamente anche in punto di competenza territoriale in violazione del foro, inderogabile, del consumatore di cui all’art. 33, comma 2, lett. u, del d.lgs. n. 206 del 2005), che rendono “insufficientemente giustificata la domanda”, impedendone l’accoglimento in tutto o in parte.
Il giudice dovrà, quindi, sollecitare il ricorrente a “provvedere alla prova” del credito anche sotto il profilo che la relativa spettanza, in parte o per l’intero, non sia esclusa dai profili di abusività negoziale rilevati, a tal fine richiedendo che sia prodotta pertinente documentazione (anzitutto, il contratto su cui si basa il credito azionato) e/o che siano forniti i chiarimenti necessari.
7.2.1. – Tuttavia, l’obbligo del rilievo officioso del giudice del monitorio in funzione dell’effettività della tutela del consumatore non si spinge sino a richiedere che l’esercizio dei poteri istruttori, in capo al medesimo giudice, sia tale da rendersi esorbitante rispetto alla struttura, funzione e finalità della fase inaudita altera parte come configurata dal legislatore nazionale, in cui condizione di ammissibilità della domanda d’ingiunzione è pur sempre la “prova scritta” (artt. 633, primo comma, n. 1, e 634 c.p.c.).
Sicché, ove l’accertamento sulla vessatorietà imponga, per la sua complessità, un’istruzione probatoria non coerente con detta configurazione (ad es., richiedendosi l’assunzione di testimonianze o l’espletamento di c.t.u.), il giudice dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione, che il ricorrente, se riterrà, potrà comunque riproporre (evidentemente sulla scorta di ulteriori e più congruenti elementi probanti), o, invece, affidarsi alla “via ordinaria” (art. 640, ultimo comma, c.p.c.).
Così letto il sistema, l’istanza di tutela che il diritto dell’Unione impone di soddisfare non trova ostacoli nel modello processuale di diritto interno, il quale con detta istanza verrebbe, invece, a confliggere ove interpretato nel senso che il controllo sull’abusività delle clausole non possa compiersi nel procedimento d’ingiunzione, poiché esso implicherebbe necessariamente il contraddittorio delle parti, sia in ragione delle circostanze di fatto su cui si basa (art. 34, comma 1, del codice del consumo), sia in ragione della perdita di celerità propria del rito che tale valutazione richiederebbe, con la conseguenza che il decreto dovrebbe essere comunque emesso e quel controllo rinviato in sede di giudizio di opposizione.
7.3. – L’art. 641 c.p.c. richiede che il decreto ingiuntivo sia “motivato”.
Tale previsione è, in riferimento a credito vantato da professionista in forza di contratto stipulato con un consumatore, da leggersi in conformità al diritto dell’Unione e dunque – secondo l’interpretazione fornita dalla CGUE proprio nella sentenza “SPV/Banco di Desio” e in quella, coeva, Ibercaja Banco (dalla quale sentenza sono tratte le citazioni che seguono) – necessitando il provvedimento che accoglie la domanda di ingiunzione di una motivazione che, pur “sommariamente, … dia atto della sussistenza dell’esame” in base al quale il giudice “ha ritenuto che le clausole in discussione non avessero carattere abusivo”, in modo da consentire al debitore consumatore di “valutare con piena cognizione di causa” (così la citata sentenza Ibercaja Banco) se occorra proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo.
Si tratta, dunque, di un obbligo di motivazione funzionale a dare al consumatore l’informazione circa l’assolvimento, da parte del giudice adito in via monitoria, del controllo officioso sulla presenza di clausole vessatorie a fondamento del contratto fonte del credito azionato dal professionista e che siano rilevanti rispetto all’oggetto della domanda di ingiunzione.
In quanto strumentale rispetto all’esercizio del diritto di difesa del consumatore nella fase processuale a contraddittorio pieno, una tale motivazione esige che nel decreto sia individuata, con chiarezza, la clausola del contratto (o le clausole) che abbia(no) incidenza sull’accoglimento, integrale o parziale, della domanda del creditore e che se ne escluda, quindi, il carattere vessatorio.
E’, dunque, la chiara individuazione dei profili di abusività rilevanti rispetto all’oggetto dell’ingiunzione che assume centralità nell’assolvimento di detto obbligo motivazionale, questo ben potendo esprimersi in un apparato argomentativo estremamente sintetico (ad una sommaria motivazione, come detto, fa riferimento la CGUE), semmai strutturato anche per relationem al ricorso monitorio ove questo si presti allo scopo.
7.4. – L’art. 641, primo comma, c.p.c., inoltre, rende necessario che il decreto ingiuntivo contenga l’avvertimento che, nel termine di quaranta giorni, può essere fatta opposizione al decreto ingiuntivo “e che, in mancanza di opposizione, si procederà ad esecuzione forzata”. La disposizione, in parte qua, deve essere interpretata in senso conforme al diritto eurounitario di cui alla direttiva 93/13/CEE e, dunque, quell’avvertimento dovrà, altresì, rendere edotto il consumatore che, in assenza di opposizione, “decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo” delle clausole del contratto (così la citata sentenza Ibercaja Banco).
Si tratta di una specificazione armonica rispetto alla ratio della norma, della quale è estesa la virtualità di significato già in nuce, che è nel senso di mettere sull’avviso il debitore circa l’immutabilità della decisione che troverà soddisfazione come tale.
7.5. – Come anche rilevato dallo stesso pubblico ministero tramite un puntuale riferimento alla sentenza Ibercaja Banco, una volta che il decreto ingiuntivo presenti la motivazione e l’avvertimento anzidetti, la tutela del consumatore è da reputarsi rispettosa del canone dell’effettività e la maturazione del termine di cui all’art. 641 c.p.c., senza che sia stata proposta opposizione, non consentirà più successive contestazioni sulla questione di abusività delle clausole contrattuali.
B) il c.d. “seguito per il passato” (ovvero anche “per il futuro” ove il giudice del monitorio non osservi quanto indicato al punto A).
8. – La portata retroattiva delle sentenze interpretative della CGUE (rammentata al § 4.1., che precede) impone di rinvenire anche per il “passato” – ossia a fronte di decreti ingiuntivi in precedenza emessi in difetto di quanto indicato sub A) e divenuti irrevocabili, nonché di conseguenti procedimenti esecutivi ancora in corso (rispetto ai quali, dunque, il bene staggito o il credito pignorato non sia stato, rispettivamente, trasferito o assegnato, giacché in tal caso il consumatore potrà soltanto attivare, in altro giudizio, il rimedio risarcitorio: così la sentenza Ibercaja Banco) – la soluzione che, nell’ambito dell’ordinamento processuale interno, assicuri al consumatore stesso tutela effettiva alla luce dei dicta della Corte di Lussemburgo.
Soluzione che, del pari, s’impone nell’ipotesi in cui il decreto ingiuntivo venga ancora emesso senza rispettare le indicazioni di cui al precedente punto A) e, come tale, divenga irrevocabile.
Si tratta, all’evidenza, della scelta ermeneutica maggiormente problematica, rispetto alla quale le proposte che la comunità degli interpreti ha individuato sono davvero plurime e articolate: da quelle che fanno appello essenzialmente a rimedi tipici della cognizione piena, lasciando al giudice dell’esecuzione soltanto il potere di rilevazione dei profili di abusività delle clausole contrattuali al fine esclusivo di sanare il difetto di controllo determinatosi nella fase monitoria; a quelle che, invece, prediligono un ruolo attivo del giudice dell’esecuzione anche nell’accertamento della vessatorietà, sebbene con efficacia circoscritta al processo esecutivo in corso.
8.1. – La risposta che queste Sezioni Unite ritengono di dover privilegiare e, quindi, declinare in principio nomofilattico è quella che, a valle del rilievo sui profili di abusività della clausola contrattuale ad opera del giudice dell’esecuzione, fa applicazione della disciplina dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo dettata dall’art. 650 c.p.c., con gli adeguamenti che per essa si rendono necessari in ragione di una piena conformazione al diritto unionale di cui alla direttiva 93/13/CEE, secondo l’interpretazione della CGUE.
L’opzione interpretativa dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., osserva la Corte, si fa preferire perché – in armonia con la prospettiva in precedenza evidenziata (§§ 5 e 6) – è capace di coniugare, meglio di altre (come si darà ragione più avanti), l’esigenza preminente della tutela effettiva del consumatore con l’esigenza, pur garantita dall’ordinamento sovranazionale, di rendere operante nella maggiore espansione possibile il principio di autonomia procedurale.
8.2. – Queste le relative scansioni processuali.
8.2.1. – In assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, il giudice dell’esecuzione (G.E.), sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito, ha il potere/dovere di rilevare d’ufficio l’esistenza di una clausola abusiva che incida sulla sussistenza o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo. A tal fine, il G.E., nelle forme proprie del processo esecutivo – ossia secondo un modello strutturalmente deformalizzato (artt. 484- 487 c.p.c.) –, dovrà, nel contraddittorio delle parti, provvedere, ove detto rilievo non sia possibile solo in base agli elementi di diritto e di fatto già in atti, ad una sommaria istruttoria, rispetto alla quale si presenterà, sovente, la necessità di acquisire anzitutto il contratto fonte del credito ingiunto.
In particolare, ove non sia adito prima dalle parti, il G.E. potrà dare atto, nel provvedimento di fissazione, rispettivamente, dell’udienza ex art. 530 c.p.c. (nel caso di vendita o assegnazione dei beni pignorati) o ex art. 543 c.p.c. (nel caso di espropriazione presso terzi), che il decreto ingiuntivo non è motivato e invitare il creditore procedente o intervenuto a produrre, in un certo termine prima dell’udienza, il contratto fonte del credito azionato in via monitoria, così da instaurare, nell’udienza stessa, il contraddittorio delle parti sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto.
All’esito, il G.E., se rileva il possibile carattere abusivo di una clausola contrattuale, ma anche se ritenga che ciò non sussista, ne informa le parti e avvisa il debitore consumatore (ciò che varrà come interpello sull’intenzione di avvalersi o meno della nullità di protezione) che entro 40 giorni da tale informazione – che nel caso di esecutato non comparso è da rendersi con comunicazione di cancelleria – può proporre opposizione a decreto ingiuntivo e così far valere (soltanto ed esclusivamente) il carattere abusivo delle clausole contrattuali incidenti sul riconoscimento del credito oggetto di ingiunzione. Prima della maturazione del predetto termine, il G.E. si asterrà dal procedere alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito.
8.2.1.1. – Va, peraltro, evidenziato che potrebbero porsi casi in cui il debitore consumatore abbia già proposto un’opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c. – dunque, prima dell’inizio dell’esecuzione, a seguito della notificazione del precetto – intendendo elidere il titolo esecutivo costituito dal decreto ingiuntivo divenuto irrevocabile proprio a motivo dell’abusività delle clausole contrattuali incidenti sul riconoscimento del credito del professionista. In tale evenienza (possibile soprattutto dopo la pubblicazione delle sentenze della CGUE del 17 maggio 2022), il giudice adito riqualificherà l’opposizione come opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa, fissando un termine non inferiore a 40 giorni per la riassunzione (in applicazione dell’art. 50 c.p.c., in forza di interpretazione adeguatrice).
8.2.1.2. – Se, poi, sia, allo stato, già in corso un’opposizione esecutiva ed emerga un problema di abusività delle clausole del contratto concluso tra consumatore e professionista, il giudice dell’opposizione rileverà d’ufficio la questione e interpellerà il consumatore se intende avvalersi della nullità di protezione. Ove il consumatore voglia avvalersene, il giudice darà al consumatore termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e, nel frattempo, il G.E. si asterrà dal disporre la vendita o l’assegnazione del bene o del credito.
8.2.2. – Il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, una volta investito, avrà il potere, ex art. 649 c.p.c. (quale disposizione richiamata dal secondo comma dell’art. 650 c.p.c.), di sospendere l’esecutorietà del decreto ingiuntivo in modo totale o parziale, a seconda degli effetti che potrebbe comportare l’accertamento sulla abusività clausola che viene in rilievo. Sicché, in via meramente esemplificativa, se si tratta di clausola derogatoria del foro del consumatore la sospensione sarà totale; se, invece, si discute unicamente di una clausola determinativa di interessi moratori eccessivi, la sospensione ben può essere parziale, mantenendo intatta l’esecutorietà del titolo per la sorte capitale, rispetto alla quale proseguirà l’esecuzione forzata già intrapresa dal creditore professionista.
Il giudizio di opposizione procederà, quindi, secondo il rito.
8.3. – Come si evince chiaramente dalle illustrate scansioni processuali, chiosa ancora la Corte, la soluzione dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, per poter operare nei termini anzidetti, presuppone taluni adeguamenti del diritto processuale interno, che si rendono possibili attraverso gli strumenti, in precedenza richiamati (cfr. § 5), dell’interpretazione conforme e della disapplicazione.
8.3.1. – In primo luogo, attraverso un’interpretazione conforme del primo comma dell’art. 650 c.p.c., è dato ritenere che l’assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in punto di valutazione della vessatorietà delle clausole e (specialmente) il mancato avvertimento circa la possibilità di far valere detta abusività solo entro un certo termine configurino un’ipotesi riconducibile alla previsione normativa del “caso fortuito o forza maggiore”, la quale dà facoltà al debitore consumatore, sebbene destinatario della notificazione del decreto ingiuntivo, di fare opposizione tardiva pur avendo avuto conoscenza del decreto ingiuntivo della cui rituale notificazione è stato destinatario (e ciò secondo l’addizione alla disposizione originaria resa dalla sentenza n. 120 del 1976 della Corte costituzionale).
Operazione ermeneutica che non è inibita dall’enunciato legislativo ed è sorretta dalle ragioni, già evidenziate, di effettività della tutela del consumatore per la sua strutturale posizione di debolezza dovuta – non solo, ma in modo significativo – per un deficit informativo superabile solo grazie ad un intervento esterno: quello del rilievo officioso del giudice. In tale specifica prospettiva, quindi, le indicate carenze formali del decreto monitorio vengono a configurare per il consumatore, privo della necessaria informazione per esercitare con piena consapevolezza i propri diritti, una causa non imputabile impeditiva della proposizione tempestiva dell’opposizione sul profilo della abusività delle clausole contrattuali e, dunque, il requisito richiesto dall’art. 650 c.p.c. per accedere all’opposizione tardiva.
E’ una lettura che, nel conformare al diritto dell’Unione la disposizione di legge nazionale che contempla le anzidette clausole generali, non decampa, tuttavia, dalla portata prescrittiva ascrivibile plausibilmente allo stesso primo comma dell’art. 650 c.p.c., poiché il “caso fortuito” o la “forza maggiore” ivi previsti sono stati assunti dalla citata sentenza n. 120 del 1976 proprio nel significato di “causa … non imputabile” o di “circostanze non dipendenti dalla … volontà” impeditive dell’esercizio del diritto di azione e difesa in giudizio (e nell’interpretazione, non confliggente, di questa Corte come “forza esterna ostativa” e “fatto di carattere oggettivo avulso dall’umana volontà”: tra le altre, Cass., 20 novembre 1996, n. 10170 e Cass., 4 luglio 2019, n. 17922), in contrapposizione ad una condotta (quella, per l’appunto, di far “decorrere inutilmente il termine per proporre opposizione”) posta in essere “volontariamente o colposamente”.
8.3.2. – L’ulteriore adeguamento del diritto processuale interno riguarda il termine entro il quale proporre l’opposizione tardiva, poiché l’ultimo comma dell’art. 650 c.p.c., nello stabilire che l’“opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione”, reca una disposizione che, diversamente da quella del primo comma della stessa norma, non consente – secondo i criteri ermeneutici utilizzabili anche per dare ingresso ad una lettura conforme al diritto sovranazionale – un’interpretazione che si possa discostare dal tenore dell’enunciato che definisce strettamente il perimetro nel quale è possibile proporre l’opposizione, tale da pregiudicarne la facoltà di esercizio in ogni diversa ipotesi.
A tal fine è, pertanto, necessario procedere alla disapplicazione dell’ultimo comma dell’art. 650 c.p.c. e rinvenire il termine di 40 giorni dall’art. 641 c.p.c., ossia un termine che è pur sempre tratto dall’interno della disciplina dettata per l’opposizione a decreto ingiuntivo e della cui rispondenza al criterio di effettività non è dato dubitare.
B.1) le ragioni della scelta dettata per il c.d. “seguito per il passato” (ovvero anche “per il futuro” come indicato sub B).
9. – Le ragioni che hanno concorso a determinare il Collegio per la soluzione prescelta, e a preferirla ad altre pur autorevolmente proposte, sono plurime e possono essere sintetizzate nei termini seguenti.
9.1. – Anzitutto, esse riguardano il profilo – come detto, preminente – della tutela effettiva del consumatore.
– L’opposizione ex art. 650 c.p.c. è rimedio idoneo a garantirla anzitutto perché è esperibile non solo dopo, ma anche anteriormente all’inizio dell’esecuzione e, segnatamente, pure in momento antecedente alla stessa notificazione del precetto, così da evitare al consumatore di trovarsi nell’eventualità – non remota – di subire l’esecuzione e, quindi, il vincolo del pignoramento sui propri beni, ancor prima di poter dare ingresso ad un controllo sulla vessatorietà delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto.
– Inoltre, prosegue la Corte, assume una valenza pregnante il potere del giudice dell’opposizione tardiva di sospendere l’esecutorietà del titolo giudiziale (art. 649 e 650, secondo comma, c.p.c.), che concreta l’ipotesi di sospensione di cui all’art. 623 c.p.c. (tra le altre, Cass., 16 gennaio 2006, n. 709 e Cass., 22 dicembre 2022, n. 37558; sospensione che ha effetti favorevoli anche rispetto alla comunque pregiudizievole iscrizione di ipoteca ex art. 655 c.p.c.), così da evitare al debitore consumatore di dover ottenere la sospensione di ciascuna procedura esecutiva nella quale il creditore professionista (in forza di una facoltà che può ben esercitare: tra le altre, Cass, 18 settembre 2008, n. 23847) lo coinvolga sulla base del medesimo titolo esecutivo costituito dal decreto ingiuntivo non opposto. In tal modo, per il consumatore esecutato verrebbe meno anche il rischio che il bene sia venduto o il credito assegnato da uno (o più) dei GG.EE. aditi che rigettino l’istanza di sospensione della procedura, con la conseguenza che al consumatore stesso rimarrebbe, semmai, la possibilità di attivare rimedi non altrettanto effettivi, come quello risarcitorio.
– Ed ancora, l’opposizione ex art. 650 c.p.c. è attivabile entro uno spatium deliberandi di 40 giorni e, dunque, entro un termine certo, ciò che, invece, non sarebbe possibile per l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., alla quale, in mancanza di un termine per la sua proposizione, si potrebbe fare ricorso durante tutto lo svolgimento della fase di liquidazione giudiziale e fino alla apertura della fase distributiva. Ed analogo rilievo, ossia l’assenza di un termine per la proposizione, vale a maggior ragione per il rimedio dell’actio nullitatis.
– L’opposizione tardiva consente al debitore consumatore di recuperare la tutela, piena ed effettiva, di cui non ha potuto usufruire e permette al giudice di svolgere, in una sede di cognizione piena e nel pieno rispetto del principio del contraddittorio, quella delibazione integrale non effettuata in precedenza, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo, totale o parziale, sia quando la nullità riguardi una clausola che inficia solo il quantum debeatur, sia quando essa incida integralmente sull’an debeatur, sempre che a tale declaratoria il consumatore non si opponga, giacché trattasi comunque di nullità relativa e “a vantaggio” (cfr. Cass., S.U., 4 novembre 2019, n. 28314; analogamente, Cass., S.U., n. 26242 e n. 26243 del 2014, citate).
– E’ proprio quel principio del pieno contradditorio, quale nucleo essenziale della tutela giurisdizionale, che non potrebbe trovare adeguata garanzia dinanzi ad un G.E. al quale venga affidato anche l’accertamento e la declaratoria di abusività delle clausole contrattuali, poiché, come detto, il rito è essenzialmente deformalizzato e i poteri cognitivi ad esso attribuiti, sebbene arricchiti dalle più recenti riforme legislative rispetto all’assetto originario, sono pur sempre funzionali allo svolgimento della procedura esecutiva.
– Del resto, in questa stessa prospettiva, il rilievo officioso del G.E. avrebbe un valore soltanto endoprocedimentale e anche l’eventuale ordinanza di chiusura della procedura in caso di accertata abusività della clausola non potrebbe essere idonea alla formazione di un giudicato, per cui il consumatore sarebbe ancora esposto al rischio di nuove procedure esecutive (anche sullo stesso bene), senza poter far valere la precedente decisione a lui favorevole.
– Peraltro, anche in caso di sentenza emessa all’esito di opposizione ex art. 617 c.p.c., essendo un tale provvedimento ricorribile soltanto per cassazione, il debitore consumatore non avrebbe a disposizione un grado di giudizio per far valere le proprie ragioni e, pertanto, sebbene il rimedio del “doppio grado” non sia necessario presidio di effettività della tutela anche alla luce dell’art. 47 CDFUE (tra le altre, CGUE, sentenza 26.9.2018, in C-180/17) e neppure oggetto, di per sé, di copertura costituzionale (tra le molte, Corte cost., ord. n. 190 del 2013), si verrebbe, comunque, a determinare un vulnus del criterio, eurounitario, di equivalenza, poiché l’ordinamento interno disciplina rimedi – e ciò anche in riferimento all’opposizione ex art. 650 c.p.c. – che di quel doppio grado di giudizio fanno beneficiare.
– E’ pur vero, invece, che nel caso in cui il rilievo officioso riguardi la clausola abusiva di deroga del foro del consumatore, l’opposizione tardiva imporrebbe a quest’ultimo di difendersi in giudizio in una sede diversa da quella del suo domicilio. Tuttavia, l’opposizione ex art. 650 c.p.c. è rimedio che, per le già evidenziate caratteristiche, è tale da prevalere, tra varie opzioni possibili, in un bilanciamento il quale ha come obiettivo il più ampio livello di tutela effettiva del consumatore, là dove, del resto, neppure le prospettate soluzioni endoesecutive potrebbero, sempre e comunque, ovviare all’anzidetta situazione, che avrebbe modo di proporsi in forza di quanto dettato, in materia di competenza territoriale, dagli artt. 26 e 27 c.p.c. per l’espropriazione forzata di bene immobile e per l’espropriazione presso terzi, allorquando, rispettivamente, il bene e il terzo pignorato non si trovino nel domicilio del debitore.
– Nondimeno, chiosa ancora la Corte, sul piano della garanzia fondamentale della ragionevole durata del processo, anch’essa principio funzionale (e, dunque, mezzo) rispetto al fine dell’effettività della tutela giurisdizionale, occorre che i meccanismi procedurali delineati dal legislatore nazionale siano coerenti in vista dello scopo. L’obbligatorietà del processo telematico, di recente ribadita a regime dalla riforma recata dal d.lgs. n. 149 del 2022, cospira in tale direzione e rende sicuramente più agevole e celere la difesa in giudizio anche del consumatore quanto alla prima fase di opposizione, del deposito del ricorso e al rilievo circa il foro del consumatore, che ben può essere supportato, almeno per l’istanza di sospensione, da idonea documentazione (certificato anagrafico/residenza);
– Né può dirsi che l’opposizione ex art. 650 c.p.c. sia rimedio non aderente ai principi espressi dalla giurisprudenza della CGUE (anche con le sentenze del 17 maggio 2022), adducendo che esso, pur garantendo il necessario controllo officioso sul carattere abusivo delle clausole contrattuali ad opera del giudice dell’esecuzione, demanda, però, ad una sede giudiziale distinta la declaratoria di nullità di esse.
La Corte di Lussemburgo, infatti, non impone di tenere insieme, nella stessa sede processuale esecutiva, il rilievo d’ufficio e la dichiarazione di abusività delle clausole contrattuali, con i relativi effetti sull’azione monitoria intrapresa dal professionista.
Come in precedenza evidenziato, nella materia disciplinata dalla direttiva 93/13/CEE rimane intatto il principio di autonomia procedurale se gli istituti di diritto nazionale assicurino l’effettività della tutela del consumatore.
Con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, nonostante che il quesito interpretativo avesse di mira (cfr. § 24 della sentenza, dove si auspica che il G.E. posa “superare gli effetti del giudicato implicito”) anche una soluzione di una concentrazione dei poteri (di rilevazione e dichiarazione) nel G.E., la CGUE si è arrestata al potere di rilievo – di “valutazione”, di “controllo” -, senza affermare che lo stesso G.E. debba, altresì, accertare e dichiarare l’abusività (o meno) della clausola.
Nella sentenza Impuls Leasing Romania (del 17 maggio 2022, in C-725/19: cfr. §§ 51-58) – come anche messo in rilievo nelle conclusioni scritte del pubblico ministero – la contrarietà della normativa processuale nazionale alla direttiva 93/13/CEE è stata valutata in ragione del fatto che, in assenza del rilievo officioso dell’abusività della clausola contrattuale ad opera del G.E., la declaratoria di nullità della stessa rimessa successivamente ad altro giudice di merito non consente di garantire al consumatore tutela effettiva (tale non essendo quella soltanto risarcitoria a posteriori) in quanto quest’ultimo giudice ha il potere di sospendere il procedimento di esecuzione, ma soltanto “su cauzione calcolata sulla base del valore dell’oggetto del ricorso”.
Un elemento, quest’ultimo, che, dunque, è risultato decisivo per la delibazione sulla mancanza di una tutela effettiva, poiché tale da scoraggiare il consumatore stesso dall’adire quel giudice di merito; elemento che, però, nel nostro caso, non sussiste, giacché la sospensione ex art. 649 c.p.c. non è condizionata da alcuna cauzione.
9.2. – Viene, poi, in rilievo – nei termini in precedenza delineati (§§ 5, 6 e 8.1.) – il piano che intercetta il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri.
– Sotto questo profilo, l’opposizione tardiva si lascia preferire perché è rimedio che l’ordinamento stesso appresta contro il giudicato (cfr. Cass., S.U., 16 novembre 1998, n. 11549; Cass., 6 ottobre 2005, n. 19429; Cass., 24 marzo 2021, n. 8299) e, quindi, consente, anzitutto, di mantenere ferma la configurazione del decreto ingiuntivo non opposto quale provvedimento idoneo a passare in giudicato formale e a produrre effetti di giudicato sostanziale.
– Inoltre, in quanto rimedio di sistema contro il giudicato, tale soluzione permette, anche nel limitato campo del decreto ingiuntivo non opposto in materia consumeristica, di fare salvo il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
– Al tempo stesso, l’opposizione ex art. 650 c.p.c. si presenta come risposta coerente rispetto ai dicta della CGUE, giacché è idonea a rimettere in discussione il risultato di condanna conseguito dal creditore con il decreto ingiuntivo non opposto proprio in ragione del carattere abusivo della clausola del contratto fonte del diritto azionato in via monitoria, così da poter determinare la caducazione di quel decreto ovvero la riduzione del suo importo quale conseguenza della dichiarazione della natura abusiva di una o più clausole, con sentenza – come detto – suscettibile di passare in giudicato formale e con attitudine al giudicato sostanziale.
– Ed ancora, tale soluzione consente di non derogare alla regola (tra le tante, Cass., 18 febbraio 2015, n. 3277 e Cass., 14 febbraio 2020, n. 3716) secondo cui in sede di opposizione all’esecuzione, ove alla base dell’opposizione sia posto un titolo esecutivo giudiziale, non possono farsi valere fatti impeditivi anteriori alla formazione del titolo, così da non mettere in discussione la natura di titolo esecutivo giudiziale del decreto ingiuntivo non opposto.
– Nondimeno, soggiunge la Corte, l’individuazione di una tipica sede di cognizione permette di circoscrivere nei limiti consentiti dal diritto dell’Unione la deroga alla distinzione, propria della tradizione del nostro ordinamento processuale, tra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione (tra le molte, Cass., 24 febbraio 2011, n. 4505), di cui – come già evidenziato (§ 9.1.) – rimane tuttora espressione il fatto che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione siano, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa.
– Non essendo la soluzione della revocazione ex art. 395 c.p.c. (disposizione richiamata dall’art. 656 c.p.c. in materia di decreto d’ingiunzione) praticabile in via interpretativa, per essere riservato al legislatore il potere di ampliare il catalogo delle ipotesi (numeri da 1 a 5) ad ulteriori casi che ne consentano l’attivazione (Corte cost., n. 123 del 2017; Cass., 27 ottobre 2015, n. 21912; cfr. la recente introduzione dell’art. 391-quater c.p.c., ad opera del d.lgs. n. 149 del 2022, dell’ipotesi di revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo), l’opposizione tardiva si fa preferire anche alla soluzione, pur pertinente alla sede della cognizione piena, dell’“actio nullitatis”.
Opzione, questa, auspicata dallo stesso pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte, dove le complessive argomentazioni spese si sono fatte carico, comunque, e pur a prescindere dalla soluzione privilegiata, di salvaguardare la duplice esigenza, coltivata dal Collegio, di preservare, al contempo, l’effettività della tutela del consumatore e, fin dove possibile, il principio di autonomia procedurale.
L’actio nullitatis non solo – come detto (§ 9.1.) – è priva di un termine per la sua proposizione e, altresì, impone, per ottenere il necessario risultato della sospensione dell’esecutorietà del titolo giudiziale, di attivare il percorso, non così agevole e diretto (soprattutto ad esecuzione non iniziata), dello strumento cautelare disciplinato dall’art. 700 c.p.c., il quale, comunque, contempla anche la possibilità di disporre una cauzione, che la CGUE intende come fattore idoneo ad ostacolare il pieno dispiegamento della tutela del consumatore.
Ma ancor più rileva il fatto che si tratta di uno strumento di creazione pretoria – peraltro legato a presupposti (la cd. inesistenza giuridica o la nullità radicale di un provvedimento decisorio dal contenuto abnorme: tra le altre, più di recente, Cass., 15 aprile 2021, n. 9910 e Cass., 7 febbraio 2022, n. 3810) non riscontrabili nella fattispecie – il quale, nel collocarsi al di fuori del sistema della disciplina processuale dettata dall’ordinamento interno, si atteggia, come tale, a risposta che tradisce, nelle pieghe, il suo ergersi ad “extrema ratio” e, dunque, di non essere in grado, sino in fondo, di mettersi in sintonia con quel contesto, richiamato più volte in precedenza, di complementarietà funzionale tra ordinamenti, nel quale deve svolgersi l’opera, cruciale, affidata al giudice nazionale/giudice comune europeo.
I principi di diritto da enunciarsi ai sensi dell’art. 363, terzo comma, c.p.c.
10. – Alla luce delle considerazioni che precedono vanno enunciati, nell’interesse della legge, i principi dettagliatamente riportati nel dispositivo della presente sentenza.
– Fase monitoria
Il giudice del monitorio:
a) deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;
b) a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione:
b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;
b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;
c) all’esito del controllo:
c.1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;
c.2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione;
c.3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.
– Fase esecutiva
Il giudice dell’esecuzione:
a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito – di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;
b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;
c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo – informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;
d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;
(ulteriori evenienze)
e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);
f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva – se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.
– Fase di cognizione
Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:
a) una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;
b) procederà, quindi, secondo le forme di rito.