<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, VI Sezione Penale, sentenza 14 giugno 2021, n. 23239</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>PRINCIPIO DI DIRITTO</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ai fini della qualificazione di un fatto ai sensi del comma 1 o del comma 2 dell’art. 476 c.p., occorre tenere a mente la distinzione tra atti pubblici in generale <em>ex</em> art. 2699 c.c. e atti pubblici facente fede fino a querela di falso <em>ex</em> art. 2700 c.c., giacché è solo a tali atti che fa riferimento l’aggravante a effetto speciale di cui al comma 2 dell’art. 476 citato.</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)</em></strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><em> Il ricorso del procuratore generale è inammissibile.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>1.1. Va considerato innanzitutto se il ricorso sia stato presentato anche nei confronti di J. il quale ha eccepito la mancanza di impugnazione nei suoi confronti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al riguardo, si rileva che, pur essendo stato trasmesso il fascicolo dalla cancelleria della Corte di merito indicando il ricorso del P.G. quale proposto contro tutti gli imputati assolti, effettivamente nella intestazione dell'atto il nome di J.M.O. non è presente mentre, nelle conclusioni, l'ufficio ricorrente formula una richiesta in termini generali di annullamento della sentenza della Corte di appello senza specificare se nei confronti di tutti gli imputati o parte di essi. E', quindi, ragionevole il dubbio che l'impugnazione non sia stata proposta anche nei confronti di J.. In ogni caso, va ritenuto assorbente l'esito di inammissibilità totale del ricorso che rende superfluo ogni ulteriore indagine per accertare gli effettivi destinatari dell'impugnazione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>1.2. Il primo motivo nella prima parte, lì dove deduce la <strong>violazione di legge per la mancata riapertura del dibattimento ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis</strong>, è manifestamente infondato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La interpretazione proposta dalla parte pubblica è nei termini che la disposizione citata introduca un diritto del pubblico ministero appellante alla riapertura del dibattimento con ripetizione delle prove orali per potere (meglio) provare la propria tesi; ciò è ben evidente sulla base degli argomenti svolti nel ricorso.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tale lettura, osserva la Corte, è erronea perché la disposizione, che codifica la precedente giurisprudenza in materia (per tutte Sez. U, Sentenza n. 27620 del 28/04/2016 rv. 267488), introduce un principio a favore della difesa e in nome della regola della assoluta certezza ("al di là di ogni ragionevole dubbio") per disporre la condanna: il giudice di appello deve procedere alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di <strong>un diverso apprezzamento dell'attendibilità di tale prova</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>1.3. Resta fermo, invece, il potere del giudice di confermare la assoluzione disposta in primo grado ritenendo superfluo ogni ulteriore accertamento probatorio perché <strong>non vi è un diritto alla riapertura del dibattimento "a prescindere" a favore della sola parte pubblica</strong>. Del resto, la norma, se interpretata come richiede l'ufficio ricorrente, sarebbe gravemente sbilanciata non prevedendo un corrispondente diritto pieno dell'imputato condannato alla ripetizione dell'istruttoria.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ovviamente non è escluso che potesse esservi il diritto nel caso concreto alla riapertura del dibattimento a fronte della prospettazione di situazioni che la imponessero secondo le regole ordinarie di cui ai primi tre commi l'art. 603 c.p.p., ma il ricorso non deduce nulla al riguardo.</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="2"> <li><em> La seconda parte del motivo, con la esposizione degli "argomenti a sostegno dell'appello", è parimenti inammissibile. Che con questa premessa si intendesse richiamare gli argomenti dell'impugnazione di merito o se, per un lapsus calami, sia stato scritto "appello" anziché "ricorso", tale parte dell'impugnazione è palesemente mirata ad ottenere una nuova valutazione dei fatti che, però, non è consentita in sede di legittimità.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>2.1. Non solo, difatti, la richiesta non è contenuta nei limiti del vizio di motivazione consentito in sede di legittimità ex art. 606 c.p.p., lett. e), ma va considerato che è applicabile la disposizione di cui all'art. 608 c.p.p., comma 1-bis la quale, nella ipotesi di "doppia conforme" di assoluzione, ammette il ricorso del pubblico ministero esclusivamente per violazione di legge, con esclusione, quindi, della deducibilità del vizio di motivazione.</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="3"> <li><em> Il secondo motivo, prosegue la Corte, è inammissibile in quanto non è correlato agli argomenti della sentenza impugnata e, quindi, viola le regole di specificità di cui all'art. 581 c.p.p..</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>La parte, difatti, non esamina la correttezza o meno degli argomenti delle due sentenze di merito e non coglie la ragione della loro decisione. Le ragioni del ricorso partono dal presupposto che il M. avesse operato su incarico della struttura sanitaria nonostante le sentenze abbiano affermato il contrario e, in ogni caso, non si preoccupa affatto di smentire tale ricostruzione.</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="4"> <li><em> I ricorsi di M., G. e M., condannati per i reati di falso, sono fondati.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>4.1. Sono fondati innanzitutto, osserva la Corte, i motivi che deducono la <strong>intervenuta prescrizione</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ai fini del computo della prescrizione, va considerato che i fatti vanno qualificati ai sensi dell'<strong>art. 476 c.p., comma 1</strong>, dovendo essere esclusa la aggravante a effetto speciale di cui al comma 2 del medesimo articolo (natura fidefacente dell'atto).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2. Innanzitutto, va considerato che l'aggravante dell'essere falsificato un atto pubblico facente stato sino a querela di falso non è stata contestata formalmente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si premette il principio, ormai pacifico, secondo cui "non può ritenersi legittimamente contestata, sì che non può essere ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all'art. 476 c.p., comma 2, qualora nel capo d'imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell'atto, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma. (In applicazione del principio le Sezioni unite hanno escluso che la mera indicazione dell'atto, in relazione al quale la condotta di falso è contestata, sia sufficiente a tal fine in quanto l'attribuzione ad esso della qualità di documento fidefacente costituisce il risultato di una valutazione). Sez. U -, Sentenza n. 24906 del 18/04/2019, rv. 275436".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nelle imputazioni di cui ai capi M e N manca, difatti, la contestazione espressa che invece per altri reati di falso nello stesso processo vi è stata (con indicazione dell'art. 476 c.p., comma 2 e il richiamo all'art. 2700 c.c.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La generica affermazione della Corte che vi è stata una chiara contestazione in fatto "mediante la specificazione "fatti dei quali l'atto era destinato a provare la verità" è erronea facendo riferimento ad una caratteristica essenziale di qualsiasi atto pubblico, a fede privilegiata o semplice.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.3. Oltre al dato formale della <strong>mancata contestazione</strong>, vi è il più significativo dato che <strong>non si è in presenza di atti fidefacenti</strong> (almeno per la parte che si assume falsificata).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La falsità, come detto, riguarderebbe la individuazione della patologia e la urgenza del suo trattamento.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Invero, soggiunge la Corte, è di palmare evidenza che non possa qualificarsi come "facente prova sino a querela di falso" ai sensi dell'art. 2700 c.c. la "<strong>valutazione" sulla patologia</strong>. Considerando che la fede privilegiata riguarda l'uso delle prove nei processi civili, amministrativi e tributari, se fosse vera la tesi della Corte di appello, si dovrebbe affermare che in un processo civile non sarebbe sindacabile la valutazione sulla correttezza della diagnosi se non previo esperimento della querela di falso.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se quest'ultimo giudizio venisse proposto, poi, avrebbe ad oggetto la correttezza dell'attività medica, di fatto duplicando il processo originario.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4. Va quindi considerato quando l'atto abbia la caratteristica della <strong>fede privilegiata</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>E' noto, precisa la Corte, che la <strong>nozione di "atto pubblico" del diritto penale</strong>, in particolare dei reati di falso, è più ampia di quella dell'atto pubblico di cui all'art. 2699 c.c. (che lo definisce ai fini di introdurlo tra le "prove" civili), come dimostrato anche dalla semplice lettura comparativa con le varie ipotesi di falso in atti pubblici del codice penale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Invece, per quanto riguarda l'ipotesi <strong>dell'art. 476 c.p., comma 2</strong>, l'inequivoco riferimento ai soli atti facenti fede sino a "querela di falso" del comma citato comporta che tali atti siano solo quelli disciplinati dall'art. 2700 c.c..</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si osserva, quindi, che l'<strong>art. 2699 c.c</strong>. individua la categoria generale dell'<strong>atto pubblico quale comunque dotato della caratteristica della "pubblica fede"</strong> e che, poi, l'<strong>art. 2700 c.c.</strong> individua il più particolare ambito in cui gli atti pubblici fanno "... <strong>piena prova, fino a querela di falso</strong>"; ovvero:</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato;</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- le dichiarazioni delle parti che il pubblico ufficiale attesta di aver ricevuto (ovviamente il fatto che vi sia stata la dichiarazione e non certo l'esattezza di quanto gli sia stato riferito);</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- gli "altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al di fuori di questi casi, ferma restante la natura di atto pubblico e della relativa presunzione di veridicità, non ricorre la condizione di "... prova, fino a querela di falso" e, quindi, l'ipotesi criminosa della norma citata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Pertanto, conclude la Corte, la distinzione non è certo nella semplice possibilità dell'atto di fare fede: questa, si ripete, è comunque caratteristica dell'atto pubblico ex art. 2699 c.c..</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ne consegue che la implicita affermazione dei giudici di merito quanto ad esservi una norma che attribuisce al pubblico ufficiale il potere di emettere l'atto fidefacente non risolve di per sé il tema del ricorrere della ipotesi dell'art. 476 c.p., comma 2; occorre anche che la falsità dell'atto investa il dato contenuto di cui all'art. 2700 c.c..</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Del resto, il comma in questione non disciplina l'"atto" ma anche la "parte di atto" che fa prova sino a querela di falso. Ovvero, come si comprende dall'art. 2700 c.c., non è questione di categoria di atti ma del suo contenuto; quindi <strong>uno stesso atto falso può rientrare nel falso penale "semplice" o in quello "aggravato" a seconda di quale sia il contenuto falso</strong>.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.5. La semplice lettura delle varie disposizioni del codice penale in tema di falsi in atto pubblico dimostra come sia ben chiara la distinzione tra la semplice attribuzione di "pubblica fede" e la fede privilegiata: ad esempio, nella ipotesi di cui all'art. 483 c.p., falso in certificati ed autorizzazioni amministrative, si fa riferimento alla attestazione di "fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità" e, quindi, è chiaro che la generale forza probatoria dell'atto pubblico non comporta che lo stesso debba rientrare per ciò solo nell'ambito dell'art. 476 c.p., comma 2.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.6. In definitiva, chiosa ancora la Corte, non è sufficiente, perché ricorra il reato come qualificato, che l'atto sia formato "da un pubblico ufficiale nell'esercizio legittimo di una speciale funzione pubblica di attestazione, munita cioè di una particolare capacità probatoria rispetto ai fatti da lui compiuti o in sua presenza avvenuti" ma <strong>è anche necessario che la falsità investa fatti che il pubblico ufficiale riferisca "come visti, uditi o direttamente da lui compiuti"</strong> (Sez. 5, n. 2837 del 09/02/1983, Andronaco, Rv. 158265).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Degli esempi ben chiari per comprendere che solo determinati contenuti dell'atto hanno fede privilegiata e non basta, quindi, fare riferimento ai poteri del soggetto che lo emette o alla tipologia dell'atto, si possono leggere in recenti decisioni della giurisprudenza civile "Gli accertamenti ispettivi condotti dalla banca d'Italia fanno piena prova ex art. 2700 c.c., fino a querela di falso, unicamente con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale nella relazione ispettiva come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti o conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, nonché con riguardo alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti; la fede privilegiata di detti accertamenti non è , per converso, estesa agli apprezzamenti in essi contenuti, né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno notizia da altre persone o a quelli che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche; ne consegue che le valutazioni conclusive rese nelle relazioni ispettive costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi, non potendoli recepire aprioristicamente. Cass. civ., sez. I, 30-05-2018, n. 13679" e "L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti o degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza, ma non prova la veridicità e l'esattezza delle dichiarazioni rese dalle parti, le quali possono essere contrastate ed accertate con tutti i mezzi di prova consentiti dalla legge, senza ricorrere alla querela di falso (nella specie la suprema corte ha escluso che l'attestazione, contenuta nell'atto notarile di compravendita, dell'avvenuto pagamento del prezzo nelle mani della parte venditrice contestualmente alla stipula, fosse dotata di fede privilegiata - e superabile, pertanto, solo con la proposizione di querela di falso - in difetto di indicazione, nel medesimo atto, della presenza del notaio al momento del pagamento, nonché delle modalità di sua esecuzione)." Cass. civ. (ord.), sez. II, 29-09-2017, n. 22903".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quale notazione finale, si noti, del resto, che la previsione della pena edittale per il caso aggravato ex art. 476 c.p., comma 2, è estremamente più elevata in quanto riferita ad atti che, in sede processuale, inseriscono delle <strong>presunzioni che non sono superabili neanche con prova contraria, ma solo con separato giudizio (appunto, la "querela di falso")</strong>. Palese, si ripete, che una tale "forza" probatoria non spetti alla valutazione sommaria della presumibile patologia in sede di accettazione in ospedale.</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="5"> <li><em> Come noto, prosegue la Corte, accertate le condizioni per dichiarare il reato estinto per prescrizione, l'art. 129 c.p.p. impone il proscioglimento immediato, salva la possibilità di assolvere nel merito lì dove ve ne siano le condizioni allo stato degli atti; con riferimento al giudizio di cassazione, significa che deve essere possibile disporre l'annullamento senza rinvio nel merito, essendo invece precluso l'annullamento con rinvio per l'eventuale assoluzione a seguito di nuovo processo.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>Nel caso di specie, va esclusa la valutabilità dei profili relativi alla violazione della regola di riapertura del dibattimento ex art. 603 c.p.p., comma 3-bis e della assenza di una "motivazione rafforzata" essendo stata ribaltata una decisione di assoluzione in primo grado; tali motivi, difatti, comporterebbero la necessità di un nuovo giudizio.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.1. Risulta, però, ictu oculi non solo che la sentenza impugnata presenta, per la decisione di condanna, una <strong>motivazione gravemente carente e contraddittoria</strong> (questione posta dai ricorrenti) ma anche che va esclusa la possibilità di giungere ad una conclusione diversa da quella di assoluzione cui era giunto il Tribunale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sono in particolare fondati i motivi terzo, quarto, quinto e sesto del ricorso M., il terzo del ricorso G. e il secondo del ricorso M. nella parte in cui segnalano vizi di motivazione carente, contraddittoria e non conseguente agli esiti dell'istruttoria dibattimentale riferita dalla stessa sentenza impugnata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.2. Come riportato, la Corte di appello ritiene che i ricorrenti si sarebbero impegnati a falsificare gli atti in questione per far risultare una inesistente urgenza degli interventi medici favore del paziente C. con la peculiare finalità di consentirgli il risparmio di circa 270 Euro di costo della prestazione che avrebbe dovuto pagare avendo dimenticato il documento che gli riconosceva la gratuità quale cittadino della unione Europea.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il Tribunale, invero, era giunto alla conclusione della infondatezza dell'accusa con questi argomenti di sintesi:</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- " C. era intestatario della "tarjeta sanitaria Europea" e la trasmise all'amministrazione su richiesta del 15 marzo 2011... la lettera di dimissioni (OMISSIS) non fu occultata, tanto che venne consegnata alla moglie di C. e archiviata nella memoria di un computer; la scheda di accettazione in pari data non fu scritta da G. e, pure a supporre una qualche forma di condizionamento di M. nei confronti di M.... si può pensare al prospettato eccesso di zelo da parte dell'infermiere... la prova dell'inesistenza della dispnea acuta è ancor più debole di quella dei casi presunti non urgenti esaminati sub 2, condividendosi poi, quanto alle telefonate sospette commentate in requisitoria... la valutazione del PM; C. aveva diritto all'assistenza sanitaria garantita ai cittadini dell'UE e quindi, comunque conclamata l'estraneità di J. il quale si limitò a eseguire la broncoscopia, si deve escludere la violazione contestata al capo O, osservandosi, per di più, che non solo M., in epoca non sospetta, si diceva in buona fede... ma anche C. e M. ne erano convinti".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.3. A fronte di questa ricostruzione, secondo la quale la prima scheda di accettazione era stata redatta in modo erroneo tanto da essere formalmente annullata mentre la seconda riportava l'effettiva attività a praticarsi, la motivazione appare certamente alquanto confusa.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Innanzitutto, partendo dal dato essenziale di quale potesse essere la ragione di <strong>falsificare la diagnosi</strong>, la Corte non affronta direttamente le questioni in ordine a potere il C. fruire dell'assistenza sanitaria e, anzi, riconosce che "pacificamente il C. è soggetto facoltoso" e che su ciò poggiava la logica valutazione del primo giudice che un così minimo risparmio di spesa certamente non giustificava la articolata e rischiosa condotta degli imputati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tale rilevante dato fattuale, che incideva sulla ricostruzione del tutto indiziaria della presunta falsità della diagnosi che senza la finalità del risparmio era insostenibile, viene superato con una mera congettura: secondo la Corte di merito sarebbe "del tutto presumibile che il M. abbia ritenuto il cliente, proprio perché facoltoso e dunque importante, meritevole di massima attenzione, così volendo evitargli qualsivoglia minima incombenza, compreso quindi il pagamento della broncoscopia e ciò indipendentemente dallo specifico costo della prestazione".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>A ciò la sentenza aggiunge che è inverosimile che C. non abbia mai pagato M. per le sue prestazioni e da tale ipotesi giunge ad affermare che diventa plausibile l'ulteriore passaggio che in tanto C. non avrebbe portato la tessera sanitaria in quanto convinto di avere già pagato. Affermazione che rafforza con la notazione che, anzi, la "mera dimenticanza" della tessera sarebbe "improbabilissima".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.4. Questa lunga catena di congetture per giungere ad affermare che non sia, invece, altamente significativo in una ricostruzione indiziaria la assoluta assenza di un ragionevole movente (la scarsità del risparmio di spesa per un soggetto "facoltoso" che aveva intrapreso un viaggio in due dalla Spagna esclusivamente per le attività mediche, peraltro in grado di presentare anche ex post la documentazione per non pagare la prestazione, come era suo diritto) dimostra che, in realtà, la Corte di appello non aveva argomento alcuno per superare la valutazione del primo giudice: <strong>non vi era alcun interesse alla falsità della attestazione di "urgenza"</strong> (e, tra le righe, sembra riconoscere tale urgenza lì dove rappresenta che si trattava di un paziente con attuali disturbi respiratori, privo di un polmone e di un pezzo di trachea e con "il polmone residuo sinistro riattaccato alla parte finale della trachea", con sospetto di recidiva tumorale).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.5. La stessa ricostruzione della presunta falsità delle diagnosi (quanto alla "urgenza") è contraddittoria e formulata genericamente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- La sentenza a pagina 19 afferma che "... C. è stato sottoposto a broncoscopia cd. flessibile" e, dopo vari argomenti, alla pagina successiva conclude che "In presenza di dispnea, era urgente verificare se ci fosse stenosi tracheale, perché in quel caso sarebbe stato necessario un immediato intervento chirurgico". Quindi questa prima parte della sentenza non dubita che l'attività fosse urgente e, anzi, supera l'argomento del procuratore generale appellante (evidentemente congetturale) che appariva improbabile che il paziente si fosse imbarcato in aereo da (OMISSIS) a Firenze nonostante tale dispnea acuta. La Corte di appello smentiva agevolmente questo argomento: proprio perché C. rischiava di essere sottoposto ad una operazione chirurgica immediata, aveva tutto l'interesse a mettersi nelle mani del M. che risulta un professionista assai qualificato e al quale, del resto, il C. si era affidato per la soluzione chirurgica della sua patologia tumorale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- A fronte di questo argomento che di per sé solo era esiziale rispetto alla idea della falsità dei documenti per occultare una urgenza inesistente, la Corte nelle pagine successive passa a sostenere una tesi diametralmente opposta, ovvero che "pare essersi trattato, piuttosto, di un controllo periodico, o meglio soltanto prudenziale".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- Tali diversi argomenti, invero, oltre alla radicale contraddizione con la diversa versione affermata nella stessa sentenza, <strong>non poggiano su alcun elemento concreto</strong> (e, soprattutto, sono improbabili per l'assenza di qualsiasi ragionevole movente per falsificare gli atti) non essendo indicato alcun reale dato fattuale. Non era certo sufficiente dare atto che un soggetto reduce da chirurgia oncologica facesse anche controlli di routine che non escludono una particolare urgenza (appunto, si segnavalano difficoltà respiratorie).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- Peraltro, mentre in qualche modo la sentenza riporta la redazione degli atti a G. e M., si attribuisce un ruolo di istigazione al M. solo in via "logica" senza indicare alcun elemento concreto, anche in questo caso risultando la conclusione raggiunta meramente congetturale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>- In definitiva, a fronte di una decisione in primo grado che sulla base dei medesimi atti rilevava come nulla escludesse la correttezza della diagnosi di "urgenza" riportata nelle schede di accettazione e che non fu "occultata" la scheda di dimissione, ostandovi anche la inconsistenza dell'ipotetico movente (il risparmio di spesa del tutto irrilevante nel contesto complessivo), la Corte di appello offre due motivazioni, la prima di conferma della ricostruzione del Tribunale e la seconda, del tutto contraddittoria rispetto alla prima, di acritica adesione alla tesi di accusa senza elementi concreti e sulla scorta una ricostruzione illogica e congetturale del movente per procedere ad una rischiosa attività di alterazione degli atti del ricovero.</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="6"> <li><em> Quindi, osserva la Corte, i motivi sulla assoluta carenza della motivazione di condanna sono fondati ed è palese la impossibilità di giungere anche in sede di giudizio di rinvio a una diversa ricostruzione dei fatti. La Corte ha dimostrato che <strong>non vi è alcun plausibile movente per falsificare gli atti in questione</strong>, dovendo ricorrere a congetture poco plausibili rispetto ad una logica ricostruzione del Tribunale sulla insussistenza della ragione "economica", e che non è possibile smentire le condizioni mediche che giustificano l'urgenza, tanto da giungere a riconoscerla nella prima parte della decisione per poi dire il contrario sulla scorta di vaghi indizi.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>Si impone, quindi, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con la assoluzione con la medesima formula già adottata dal primo giudice.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p>