Corte Costituzionale, sentenza 23 luglio 2021 n. 169
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Salerno.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3.– Nell’affrontare il thema decidendum, occorre muovere da una ricostruzione della genesi dei problemi di legittimità costituzionale sottoposti a questa Corte.
3.1.– Nel sistema delineato dalla legge n. 117 del 1988, in un’ottica di contemperamento dei contrapposti interessi in gioco, chi si reputa ingiustamente danneggiato per effetto di comportamenti, atti o provvedimenti di un magistrato, posti in essere con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per effetto di diniego di giustizia, non può agire per il risarcimento direttamente nei confronti del magistrato (salvo che il fatto costituisca reato: art. 13, comma 1), ma solo contro lo Stato (art. 2, comma 1). Ove resti soccombente, lo Stato eserciterà a sua volta azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7), peraltro con un limite di importo, pari a una frazione (un terzo, oggi la metà) del suo stipendio annuale netto al momento della proposizione della domanda di risarcimento (art. 8, comma 3).
Nell’intento di bloccare, comunque sia, sul nascere iniziative pretestuose o maliziose, atte a turbare il sereno svolgimento delle funzioni giudiziarie, l’art. 5 della legge n. 117 del 1988 assoggettava in origine la domanda risarcitoria nei confronti dello Stato al cosiddetto filtro di ammissibilità. Alla prima udienza, il giudice istruttore doveva rimettere, cioè, le parti al collegio affinché deliberasse in camera di consiglio, nei quaranta giorni successivi, sull’ammissibilità della domanda. Quest’ultima era dichiarata inammissibile quando non risultassero rispettati i termini e i presupposti di proponibilità normativamente stabiliti (artt. 2, 3 e 4 della legge n. 117 del 1988), ovvero quando apparisse manifestamente infondata.
In forza del comma 5 dello stesso art. 5, ove la domanda fosse stata dichiarata viceversa ammissibile, il tribunale, nel disporre la prosecuzione del processo, avrebbe dovuto altresì ordinare la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare.
Correlativamente, l’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 stabiliva che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, per i magistrati ordinari, o il titolare dell’azione disciplinare, negli altri casi, dovessero «esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta, entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’art. 5» (ferma restando la facoltà del Ministro della giustizia – altro titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari – di esercitare l’azione stessa ai sensi dell’art. 107, secondo comma, Cost.).
In sintesi, dunque, se la domanda di risarcimento contro lo Stato superava il vaglio preliminare di ammissibilità, il tribunale adito era tenuto a trasmettere gli atti ai titolari dell’azione disciplinare, i quali dovevano esercitarla, per i fatti posti a base della domanda (salvo quanto previsto riguardo al Ministro della giustizia), entro due mesi dalla trasmissione.
Questo meccanismo era calibrato sulla disciplina vigente al momento del varo della legge n. 117 del 1988. All’epoca, il sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati si imperniava, infatti, sulla previsione di un unico illecito disciplinare “atipico”, descritto, cioè, con formola estremamente generica, la quale poteva prestarsi, almeno astrattamente, a ricomprendere le ipotesi di dolo, colpa grave e denegata giustizia assunte come generatrici di responsabilità civile (art. 18 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, recante «Guarentigie della magistratura»).
Al tempo stesso, l’azione disciplinare era, per regola generale, facoltativa (art. 14, primo comma, numero 1, della legge 24 marzo 1958, n. 195, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura»). La norma censurata aveva, in quest’ottica, una chiara giustificazione: prevedendo l’obbligo di esercitare l’azione nel caso di dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria, essa introduceva una deroga al principio generale.
3.2.– Il quadro normativo di riferimento è, però, radicalmente mutato a seguito del d.lgs. n. 109 del 2006, con il quale è stata introdotta una nuova regolamentazione della responsabilità disciplinare dei magistrati, ispirata a principi esattamente opposti a quelli ora ricordati.
Sul piano sostanziale, il nuovo sistema si impernia, infatti, sulla tipizzazione degli illeciti: le sanzioni disciplinari possono essere inflitte, cioè, solo qualora risulti integrata una delle fattispecie analiticamente descritte negli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, e sempre che non entri in gioco la clausola limitativa di cui all’art. 3-bis, in base alla quale l’illecito disciplinare non è configurabile «quando il fatto è di scarsa rilevanza». Tra le ipotesi di responsabilità civile, delineate dalla legge n. 117 del 1988, e le ipotesi di responsabilità disciplinare, individuate dal d.lgs. n. 109 del 2006, non vi è, peraltro, necessaria coincidenza: nel senso, in particolare, che le prime possono non rientrare tra le seconde.
Al contempo, l’esercizio dell’azione disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione è divenuto, in via generale, obbligatorio (art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 109 del 2006).
Nell’intento di evitare che – a fronte della proliferazione di denunce ed esposti da parte di privati – la nuova regola portasse a un sovraccarico della giustizia disciplinare, sono state peraltro introdotte, oltre alla ricordata clausola sulla scarsa rilevanza del fatto (art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006), specifiche regole procedurali, intese a selezionare le notizie che giustificano il promovimento dell’azione.
Si è richiesto così, anzitutto, che il Procuratore generale venga posto a conoscenza del fatto a mezzo di una «denuncia circostanziata», intendendosi per tale quella che «contiene tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare»; in caso contrario, essa «non costituisce notizia di rilievo disciplinare» (art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006).
Si è prefigurata, poi, una fase cosiddetta predisciplinare, intesa a verificare preventivamente, tramite sommarie indagini (art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 209 del 2006), la notizia di illecito e la plausibilità di una conseguente incolpazione.
Si è stabilito, infine, che il Procuratore generale proceda all’archiviazione diretta della notizia – non soggetta, cioè, a controllo giurisdizionale – se la condotta risulta disciplinarmente irrilevante ai sensi dell’art. 3-bis, se la denuncia non è circostanziata, se il fatto non rientra in alcuna delle ipotesi previste dalla legge, o se dalle indagini espletate il fatto risulta inesistente o non commesso; ciò, salvo diverso avviso del Ministro della giustizia, cui il provvedimento è comunicato (art. 16, comma 5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006).
È sorto, di conseguenza, il problema di come coniugare tale mutato assetto della responsabilità disciplinare con la previsione della legge sulla responsabilità civile – quella, appunto, dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 – che ricollegava, con apparente indefettibile automatismo, il promovimento dell’azione disciplinare alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria contro lo Stato.
3.3.– I problemi di coordinamento tra le due forme di responsabilità si sono, peraltro, acuiti a seguito della successiva riforma della disciplina della responsabilità civile dei magistrati operata dalla legge n. 18 del 2015 (che è quella che dà adito agli odierni incidenti di legittimità costituzionale): riforma alla cui radice si colloca l’esigenza di rimuovere profili di contrasto della normativa previgente con il diritto comunitario posti in evidenza dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa; Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana).
In concreto, la novella legislativa ha operato una serie di interventi espansivi dell’area della responsabilità civile che vanno di là da quanto strettamente necessario a tale fine, con l’effetto, tra l’altro, di ampliare lo iato tra i fatti generatori di responsabilità civile e le ipotesi “tipizzate” di responsabilità disciplinare.
Quel che più conta agli odierni fini è, però, che la legge n. 18 del 2015, con il suo art. 3, comma 2, ha soppresso il filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria contro lo Stato (rivelatosi, a giudizio del legislatore della riforma, troppo selettivo nell’esperienza applicativa), abrogando in toto l’art. 5 della legge n. 117 del 1988: compreso, dunque, il comma 5, che prevedeva la trasmissione degli atti ai titolari dell’azione disciplinare nel caso di dichiarazione di ammissibilità della domanda.
Di riflesso, l’art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015 ha modificato l’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, sopprimendo l’inciso – che definiva il termine (ma anche il presupposto) per l’esercizio obbligatorio dell’azione disciplinare – «entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’art. 5».
Il risultato è che la disposizione censurata recita attualmente, in modo secco, nel suo primo periodo: «[i]l procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta».
4.– È su questo quadro che si innestano gli odierni incidenti di legittimità costituzionale.
Il giudice a quo si trova investito, quale giudice istruttore, di due cause promosse nei confronti dello Stato per il risarcimento dei danni derivati, in assunto, da comportamenti, atti e provvedimenti di alcuni magistrati ordinari. In tale veste, il rimettente è stato sollecitato dal difensore delle parti attrici a trasmettere copia degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, affinché eserciti l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati interessati.
Secondo il giudice a quo, a fronte degli interventi operati dalla legge n. 18 del 2015, l’unica interpretazione possibile dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 sarebbe, in effetti, la seguente: il tribunale adito con l’azione risarcitoria dovrebbe trasmettere immediatamente copia degli atti al Procuratore generale, il quale, a sua volta, sarebbe tenuto – per il solo fatto della proposizione della domanda e a prescindere da ogni valutazione prognostica sulla sua fondatezza – ad esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti posti a base della domanda.
Tale interpretazione si giustificherebbe, sia per il tenore letterale della norma, che prevede l’esercizio dell’azione disciplinare «per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento», ossia per i fatti come rappresentati nell’atto introduttivo del giudizio, e non per la decisione che lo definisce; sia per ragioni di ordine logico e sistematico, che imporrebbero di valorizzare la portata innovativa della legge n. 18 del 2015. Al fine di assicurare l’obbligatorio esercizio dell’azione disciplinare per i fatti in questione, occorrerebbe, d’altra parte, che il Procuratore generale sia posto a conoscenza dei fatti stessi e, dunque, che il giudice chiamato a conoscere dell’azione risarcitoria gli trasmetta gli atti quale «effetto automatico» della proposizione della domanda.
Siffatti esiti interpretativi genererebbero, peraltro, i dubbi di legittimità costituzionale sottoposti al vaglio di questa Corte, sintetizzati al punto 1 che precede.
5.– Ciò chiarito, occorre prendere preliminarmente in esame le plurime eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
Nessuna di esse si rivela, peraltro, fondata.
5.1.– Non lo è, anzitutto, quella relativa al supposto difetto di legittimazione del giudice a quo, derivante dal fatto che le cause previste dalla legge n. 117 del 1988 sono devolute al tribunale in composizione collegiale (art. 50-bis, primo comma, numero 7, del codice di procedura civile): circostanza che – a parere della difesa dello Stato – non avrebbe consentito al giudice istruttore di sollevare le questioni senza il vaglio del collegio.
In senso contrario, va rilevato che, per costante giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi civili attribuiti al tribunale in composizione collegiale, il giudice istruttore non può sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme da applicare per la definizione della controversia, la cui identificazione e valutazione spetta al collegio, ma può bene sollevare questioni relative a norme che egli stesso debba applicare per adottare provvedimenti attribuiti alla sua competenza (tra le altre, sentenza n. 204 del 1997 e n. 84 del 1996; ordinanze n. 266 del 2014, n. 552 del 2000 e n. 295 del 1996).
La trasmissione degli atti al titolare dell’azione disciplinare – cui l’odierno rimettente è stato sollecitato – è provvedimento che, di per sé, evidentemente non attiene alla definizione della causa risarcitoria promossa nei confronti dello Stato, traducendosi in una semplice comunicazione. È vero che, nel sistema anteriore alla legge n. 18 del 2015, la trasmissione doveva essere ordinata dal collegio; ma ciò solo perché, in quel sistema, essa era configurata come adempimento “appendicolare” alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria: pronuncia, questa, demandata al collegio, in ragione del suo carattere decisorio (art. 5, comma 5, ultimo periodo, della legge n. 117 del 1988).
Non è, dunque, implausibile la tesi del rimettente, secondo la quale – una volta svincolata dal vaglio di ammissibilità e collegata alla semplice proposizione della domanda – la trasmissione dovrebbe essere disposta dal giudice istruttore, in quanto «assegnatario del procedimento»: donde la sua legittimazione a censurare, sul piano della legittimità costituzionale, la norma dalla quale il relativo obbligo deriva. Non si potrebbe, del resto, ipotizzare che il compito in questione gravi piuttosto sul presidente del tribunale in virtù del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, lettera dd), e 14, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, i quali pongono, in via generale, a carico dei dirigenti degli uffici l’obbligo di comunicare alla Procura generale presso la Corte di cassazione i fatti di rilievo disciplinare di cui siano venuti conoscenza. Come emerge dal citato art. 2, comma 1, lettera dd), l’obbligo del dirigente dell’ufficio concerne, infatti, gli illeciti disciplinari posti in essere da magistrati appartenenti all’ufficio da lui diretto: laddove, per converso, il magistrato la cui condotta ha dato luogo alla domanda risarcitoria non può mai prestare servizio presso il tribunale chiamato a decidere sulla domanda stessa, essendo ciò escluso dalla regola di competenza stabilita dall’art. 4, comma 1, della legge n. 117 del 1988.
5.2.– Parimente non fondata è l’ulteriore eccezione dell’Avvocatura dello Stato di inammissibilità per difetto di rilevanza, basata sulla considerazione che, con le questioni sollevate, il rimettente mira, nella sostanza, a contestare l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione disciplinare che deriverebbe dalla norma denunciata: azione rispetto alla quale il giudice a quo non ha, comunque sia, alcuna competenza.
Nella prospettiva ermeneutica del rimettente, la rimozione dell’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento travolgerebbe automaticamente anche l’obbligo – ad esso “servente” – di trasmissione degli atti al Procuratore generale, posto altrimenti a carico del rimettente stesso. Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni (per una ipotesi strutturalmente analoga, sentenze n. 96 del 2020 e n. 109 del 2017).
5.3.– Insussistente si palesa, infine, l’eccepita equivocità e inadeguatezza del petitum.
Contrariamente a quanto ventila l’Avvocatura generale dello Stato, gli incidenti di legittimità costituzionale non sono finalizzati a conseguire il ripristino del testo della norma denunciata anteriore alla novella legislativa del 2015, in base al quale il titolare dell’azione disciplinare doveva esercitarla entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’art. 5 della legge n. 117 del 1988 (operazione che richiederebbe anche la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’abrogazione del citato art. 5, rimasta estranea al petitum).
Sia dal dispositivo, sia dal tenore complessivo delle ordinanze di rimessione, emerge con chiarezza come il giudice a quo non intenda affatto riesumare il vecchio istituto del filtro di ammissibilità (la cui soppressione è già stata ritenuta non costituzionalmente illegittima da questa Corte con la sentenza n. 164 del 2017). Quel che il rimettente chiede è l’ablazione pura e semplice dell’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare delineato dalla norma censurata e, conseguentemente, dell’obbligo di trasmissione degli atti ad esso strumentale.
6.– Se pure, dunque, ammissibili, le questioni non sono però nel merito fondate.
Il presupposto ermeneutico su cui poggiano i quesiti risulta, infatti, non corretto, nella parte che rileva ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale.
6.1.– Pur nell’attuale assenza di una espressa indicazione in tal senso, il rimettente ricava non implausibilmente dal disposto della norma censurata l’obbligo, per il giudice investito dell’azione di risarcimento di danni cagionati da magistrati ordinari nell’esercizio delle loro funzioni, di rimettere copia degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
La perdurante previsione dell’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento presuppone, in effetti, l’esistenza di adeguati canali informativi del titolare dell’azione disciplinare riguardo alle vicende atte a rendere operante l’obbligo stesso. La trasmissione degli atti dei giudizi risarcitori assicura, per l’appunto, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione una “finestra conoscitiva” – non lasciata alla sola iniziativa, meramente eventuale, delle parti interessate – riguardo alle condotte dei magistrati che si assumono aver prodotto danni ingiusti con dolo o colpa grave, ovvero per effetto di denegata giustizia.
6.2.– Il giudice a quo non può essere seguito, per converso, allorché ulteriormente suppone – ed è questo, in effetti, il profilo su cui si focalizzano le sue censure – che il Procuratore generale sia tenuto immancabilmente ad esercitare l’azione disciplinare non appena abbia notizia della pendenza di un giudizio risarcitorio.
Benché supportata, in apparenza, dalla lettera della disposizione censurata, tale conclusione è da escludere sulla base di un’interpretazione sistematica che tenga conto della ratio della riforma di cui alla legge n. 18 del 2015. Del resto essa è scartata in modo pressoché corale dai suoi interpreti, e non risponde, in fatto, alla consolidata prassi operativa della Procura generale presso la Corte di cassazione.
Già prima di tale riforma – allorquando la disposizione denunciata collegava l’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria – si era ritenuto, in effetti, necessario coordinare tale previsione con il nuovo assetto della responsabilità disciplinare dei magistrati introdotto dal d.lgs. n. 109 del 2006: traendosi da ciò la conclusione per cui la comunicazione dell’avvenuto superamento del filtro di ammissibilità non imponeva, per ciò solo, di avviare l’azione disciplinare, in difetto di una condotta classificabile nel catalogo degli illeciti stabilito dal citato decreto legislativo. Ciò, sia per una ragione procedurale, legata al fatto che il nuovo sistema – caratterizzato in termini di regola, e non di eccezione, dalla obbligatorietà dell’iniziativa del Procuratore generale – contempla appunto per questo una fase cosiddetta predisciplinare di valutazione (anche con acquisizioni “istruttorie” in senso lato) della natura «circostanziata» dell’addebito disciplinare e della plausibilità dell’incolpazione, in difetto della quale è prevista l’archiviazione diretta del caso da parte del Procuratore generale, salva diversa determinazione del Ministro della giustizia (art. 16, comma 5-bis); sia per una ragione sostanziale, connessa alla circostanza che il principio di legalità e tassatività dell’illecito disciplinare, che si esprime nel catalogo chiuso degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, impedisce che si possa promuovere un’azione disciplinare per un fatto – quale che ne sia la fonte di informazione – che non vi rientra.
Tale indirizzo appare a maggior ragione giustificato dopo la caduta del filtro di ammissibilità, conseguente alla legge n. 18 del 2015.
Per quanto può desumersi dai lavori parlamentari, la soppressione, nell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, dell’inciso «entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’articolo 5» è stata suggerita da una mera esigenza di coordinamento con l’avvenuta abrogazione dell’intero art. 5, senza che essa sia stata accompagnata da alcuna volontà di innovare al sistema della responsabilità disciplinare, e senza neppure che il legislatore si sia posto il problema di coordinare, nel resto, la disciplina dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, come concepita nel 1988, con la successiva ridefinizione sostanziale e procedurale del sistema disciplinare, realizzata nel 2006. La soppressione dell’inciso trae, infatti, origine da una proposta di emendamento al disegno di legge A.S. n. 1070, presentata nella seduta della Commissione giustizia del Senato della Repubblica del 5 novembre 2014 in sede di coordinamento e approvata senza alcuna discussione.
Nemmeno consta alcun indice di una eventuale volontà legislativa di innovare al principio di autonomia dell’azione disciplinare rispetto all’azione civile di danno, stabilito dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006 (in forza del quale «[l]’azione disciplinare è promossa indipendentemente dall’azione civile di risarcimento del danno […]»): principio che riflette le differenze tra le due forme di responsabilità (la responsabilità civile attiene ai rapporti del magistrato con le parti processuali o altri soggetti a causa di eventuali errori o inosservanze nell’esercizio delle funzioni, mentre la responsabilità disciplinare consegue alla violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato-datore di lavoro), e che trova altresì riscontro nella previsione dell’art. 6, comma 2, della legge n. 117 del 1988 – non incisa dalla riforma del 2015 – secondo cui la decisione pronunciata nel giudizio risarcitorio non fa stato nel procedimento disciplinare.
In quest’ottica, va escluso che la legge di riforma della responsabilità civile dei magistrati abbia mutato, anche solo pro parte, la struttura del sistema di giustizia disciplinare: sicché, in sostanza, per quanto attiene a tale sistema, è la legge n. 117 del 1988 a dover essere armonizzata con l’assetto del d.lgs. n. 109 del 2006, e non viceversa.
È giocoforza, di conseguenza, concludere che i presupposti per l’esercizio, sia pure obbligatorio, dell’azione disciplinare non sono stati rivisitati dalla modifica della legge n. 117 del 1988. Da un lato, dunque, il promovimento di tale azione richiede, comunque sia, l’acquisizione della notizia circostanziata di un fatto riconducibile ad una delle ipotesi tipiche previste dalla legge, e non può fondarsi sulla semplice notizia della pendenza di una causa risarcitoria, la quale, di per sé, non è sussumibile in alcuna fattispecie; dall’altro lato, ove pure la domanda risarcitoria presenti le caratteristiche di una «notizia circostanziata» di illecito disciplinare, ciò non esclude la necessità di svolgere accertamenti predisciplinari, intesi a verificare che quella notizia abbia una qualche consistenza (e non attenga, altresì, a un fatto di scarsa rilevanza, ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006).
6.3.– Alla luce di quanto precede, le discrasie della norma in esame con la disciplina del d.lgs. n. 109 del 2006, denunciate dal rimettente come lesive dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, si palesano insussistenti; cadono, al tempo stesso, i sospetti di violazione dei principi di soggezione del giudice solo alla legge e di autonomia, indipendenza, terzietà e imparzialità della magistratura.
Una volta escluso l’ipotizzato indefettibile esercizio dell’azione disciplinare per la mera proposizione della domanda risarcitoria – come assumono le ordinanze di rimessione in ragione di una non corretta interpretazione della disposizione censurata e della disciplina di riferimento – l’obbligo di trasmissione degli atti alla Procura generale, che il rimettente plausibilmente reputa insito nel disposto della norma censurata, si rivela “innocuo” per i valori costituzionali evocati, lasciando ferma l’esigenza della verifica circa l’effettiva ricorrenza dei presupposti per l’esercizio – sia pur obbligatorio – dell’azione disciplinare, nei termini dianzi indicati. Viene meno, di conseguenza, il timore che il meccanismo possa essere maliziosamente utilizzato da soggetti interessati al fine di incidere sull’indipendenza e sulla serenità di giudizio del magistrato.
7.– Sulla base delle considerazioni esposte, le questioni vanno dichiarate non fondate.