Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 17 dicembre 2020 n. 28972
PRINCIPIO DI DIRITTO
La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- – La rinuncia al ricorso accettata comporta dichiarazione di estinzione del processo, senza spese.
- – Ritengono tuttavia queste Sezioni Unite che occorra pronunciarenell’interesse della leggeil principio di cui si dirà, in risposta al quesito posto dall’ordinanza di rimessione (per l’affermazione del principio di diritto in caso di rinuncia v. Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19051).
- – I primi quattro motivi di ricorso, è difatti osservato dall’ordinanza di questa Corte del 2 dicembre 2019, n. 31420, impongono di esaminare una questione di diritto decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e comunque investono una questione di massima di particolare importanza: quella della natura delc.d. “diritto reale di uso esclusivo”di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale.
Si osserva nell’ordinanza di rimessione:
-) a partire da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301 (seguita da Cass. 10 ottobre 2018, n. 24958; Cass. 31 maggio 2019, n. 15021; Cass. 4 luglio 2019, n. 18024; Cass. 3 settembre 2019, n. 22059) è stato affermato che non può ricondursi al diritto di uso previsto dall’art. 1021 c.c., il vincolo reale di “uso esclusivo” su parti comuni dell’edificio, riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di una unità immobiliare di proprietà individuale, in maniera da incidere sulla disciplina del godimento della cosa comune, nel senso di precluderne l’uso collettivo mediante attribuzione a taluno dei partecipanti di una facoltà integrale di servirsi della res e di trarne tutte le utilità compatibili con la sua destinazione economica;
-) la capostipite di tale orientamento, facendo leva sulle nozioni di “uso esclusivo”, contenuta nell’art. 1126 c.c. e di “uso individuale”, prevista dal novellato art. 1122 c.c., ha ritenuto che tali previsioni pattizie di “uso esclusivo”, senza escludere del tutto la fruizione “di una qualche utilità sul bene” in favore degli altri comproprietari, costituiscono deroghe all’art. 1102 c.c., espressione dell’autonomia privata, con effetto di conformazione dei rispettivi godimenti; entro tale inquadramento, l’uso esclusivo sì trasmetterebbe, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, anche ai successivi aventi causa dell’unità cui l’uso stesso accede; l’uso esclusivo in ambito condominiale, così come prospettato, sarebbe, quindi, “tendenzialmente perpetuo e trasferibile”, e non riconducibile al diritto reale d’uso di cui agli artt. 1021 c.c. e segg., sicché non condividerebbe con quest’ultimo istituto nè i limiti di durata, nè i limiti di trasferibilità, e nemmeno le modalità di estinzione; neppure vi sarebbe alcun contrasto con il numerus clausus dei diritti reali, in quanto l’uso esclusivo condominiale sarebbe, piuttosto, una “manifestazione del diritto del condomino sulle parti comuni”;
-) questa configurazione appaga le diffuse esigenze avvertite dalla pratica notarile di dare al cosiddetto “uso esclusivo” di parti condominiali il rango di un diritto perpetuo e trasmissibile, a contenuto, dunque, non strettamente personale, e cioè stabilito a favore del solo usuario, collegando la facoltà di usare il bene non ad un soggetto, ma ad una porzione in proprietà individuale senza limiti temporali;
-) per converso, la qualificazione del diritto di uso esclusivo quale diritto “”quasi” uti dominus”, ma pur sempre con il limite di cui all’art. 1102 c.c., non risolve il problema della trascrivibilità, e quindi dell’opponibilità, dell’uso esclusivo sulla cosa comune, avuto riguardo al rilievo che di modificazioni del diritto di proprietà, di comunione o di condominio non si parla in alcuno dei primi tredici numeri dell’art. 2643 c.c., nè nell’art. 2645 c.c., che prevede la trascrizione di “ogni altro atto o provvedimento che produce… taluni degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643”, mentre solo il n. 14 dell’art. 2643 c.c., parla di sentenze (Le. non di atti negoziali) che operano “la modificazione” di uno dei diritti menzionati nei numeri precedenti;
-) il diritto di uso esclusivo di un bene condominiale, riservato soltanto al proprietario di una delle unità immobiliari, che non può assimilarsi ad una servitù prediale, nè può essere ricostruito in termini di obbligazione propter rem, deve d’altronde confrontarsi con la diffusa considerazione che il godimento concreta una facoltà intrinseca del diritto di comunione, sicché la modifica del contenuto essenziale della comproprietà, consistente nella negazione della facoltà di uso del bene comune ad alcuni condomini, può discendere soltanto dalla costituzione di un diritto reale in favore dell’usuario, il che però appare precluso dall’osservazione che il nostro ordinamento tuttora non consente all’autonomia privata di scavalcare il principio del numero chiuso dei diritti reali.
Invero – osserva tra l’altro l’ordinanza di rimessione – “la questione, cui occorre dare soluzione per decidere i primi quattro motivi di ricorso, circa la natura, i limiti e la opponibilità del diritto di uso esclusivo su beni comuni, involge evidentemente il più classico problema della utilizzabilità delle obbligazioni come espressioni di autonomia privata volte a regolare le modalità di esercizio dei diritti reali, opponendosi dai teorici che la libertà negoziale possa conformare unicamente i rapporti di debito, e non anche le situazioni reali: tale severa conclusione trova il suo fondamento sempre nel tradizionale principio del numerus clausus dei diritti reali, il quale si reputa ispirato da una esigenza di ordine pubblico, restando riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i “tipi” reali normativi”.
Dopodiché, nell’ordinanza che ha rimesso gli atti al Primo Presidente è segnalata sia la non uniformità dei responsi concernenti la natura del diritto di uso esclusivo, sia il suo rilievo di questione di massima di particolare importanza.
Ed in effetti, come si vedrà, Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, più che porsi in diretto contrasto con un formato indirizzo giurisprudenziale precedente, ha prospettato una ricostruzione nuova.
Tuttavia, se, come osservato, il principio affermato da tale decisione è stato successivamente ribadito, è altrettanto vero che, ancor più di recente, la seconda sezione si è pronunciata in senso opposto, affermando che non può ipotizzarsi la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà e darebbe vita a un diritto reale incompatibile con l’ordinamento (Cass. 9 gennaio 2020, n. 193).
Sicché anche il contrasto è comunque allo stato effettivamente sussistente.
- – La questione si pone in generale nei termini seguenti.
5.1. – Quanto all’origine del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, in ambito condominiale, si trova affermato, in dottrina, che esso sarebbe il frutto di una creazione giurisprudenziale, pur se relativamente tralaticia, di dubbia validità.
In effetti, però, la clausola mediante la quale si concede ad una singola unità immobiliare l’uso esclusivo di un’area, nel nostro caso (e di solito) adibita come si vedrà a cortile, non nasce – come è del resto ovvio – dalla giurisprudenza, ma si è diffusa attraverso la prassi negoziale, in particolare notarile: e si è in particolare ipotizzato che tale diffusione possa aver trovato la sua ragion d’essere, almeno in taluni casi, quale escamotage per risolvere, tramite la qualificazione surrettizia, problemi catastali, ad esempio – è stato detto – per il mancato frazionamento dell’area comune.
Nondimeno, è vero che nella giurisprudenza di questa Corte non è raro imbattersi in decisioni rese nell’ambito di liti in cui si controverteva della pretesa titolarità in capo ad un condomino (o ad alcuni condomini) di un diritto di uso esclusivo su una porzione, perlopiù cortilizia, dunque di una parte comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c..
A mero titolo di esempio possono rammentarsi pronunce concernenti: la compatibilità della funzione naturale di un cortile condominiale con la destinazione di esso all’uso esclusivo di uno o più condomini (Cass. 20 febbraio 1984, n. 1209); il diritto di godere in via esclusiva di un giardino comune conferito in uso al proprietario del piano terreno (Cass. 27 luglio 1984, n. 4451); la legittimità dell’installazione di una tenda su di uno spazio di proprietà comune, da parte del condomino del piano terreno che lo abbia in uso esclusivo e destinato a ristorante (Cass. 25 ottobre 1991, n. 11392); la possibilità di inserimento in un regolamento condominiale contrattuale della previsione dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio definita comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva (Cass. 4 giugno 1992, n. 6892; e v. al riguardo, ancora senza alcuna pretesa di completezza, Cass. 27 giugno 1978, n. 3169; Cass. 10 luglio 1975, n. 2727; Cass. 24 aprile 1975, n. 1600; Cass. 14 marzo 1975, n. 970); la destinazione di un bene, dall’originario proprietario dell’intero immobile, ad un uso esclusivo (Cass. 28 aprile 2004, n. 8119); l’uso esclusivo di un’area esterna al fabbricato, altrimenti idonea a soddisfare le esigenze di accesso all’edificio di tutti i partecipanti (Cass. 4 settembre 2017, n. 20712).
5.2. – Nonostante la diffusione del fenomeno, tuttavia, non risulta che, prima di Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, sulla quale tra breve si tornerà, questa Corte abbia mai chiaramente preso posizione sul fondamento della configurabilità di un c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di una parte comune – formula, varrà subito osservare, dalla forte caratterizzazione di ossimoro, laddove coniuga l’esclusività dell’uso con l’appartenenza della porzione a più condomini – e sulla sua natura: se, cioè, l’attribuzione ad un condomino di un diritto di uso esclusivo altro non sia, almeno in taluni casi, che una formula da intendersi come equivalente dell’attribuzione a lui della proprietà solitaria sulla porzione in discorso; se e come il diritto di uso esclusivo di una parte comune possa armonizzarsi con la regola basilare dettata dall’art. 1102 c.c., senz’altro applicabile al condominio per il rinvio dell’art. 1139 c.c., secondo cui ciascun comunista può servirsi della cosa comune; se il diritto di uso esclusivo abbia natura di diritto reale atipico o sia riconducibile ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento, ovvero se abbia natura non di diritto reale, bensì di diritto di credito.
5.3. – In particolare, non sembra potersi isolare un indirizzo giurisprudenziale che riconduca il c.d. “diritto reale di uso esclusivo” alle servitù prediali.
Si rinviene, difatti, una ormai non recente decisione nella quale si afferma, in generale, in relazione alle formule impiegate nei regolamenti condominiali contrattuali i quali stabiliscano “pesi sulle cose comuni a vantaggio dei piani o delle porzioni di piano”, che le soluzioni oscillerebbero tra le obbligazioni propter rem, gli oneri reali e le servitù reciproche, e che quest’ultima soluzione sarebbe quella preferibile, dal momento che “detti vincoli possono essere trascritti nei registri immobiliari” (Cass. 15 aprile 1999, n. 3749): ma tale pronuncia non si misura con le specifiche caratteristiche del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, il quale consiste non già nella semplice creazione di pesi sulle cose comuni a vantaggio di una o più proprietà solitarie, ma, come si avrà modo di dire, in un sostanziale svuotamento del diritto di proprietà sul fondo servente.
5.4. – Con la pronuncia del 2017 poc’anzi richiamata si è affermato, come ha già rammentato l’ordinanza di rimessione, che l’”uso esclusivo” su parti comuni dell’edificio, riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incide non sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avviene secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c..
Tale diritto non è riconducibile al diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne le modalità di estinzione, è tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accede (Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, che ha confermato la decisione di merito, che aveva respinto la domanda del condominio attore, tesa ad accertare che il diritto d’uso esclusivo su due porzioni del cortile, concesso con il primo atto di vendita dall’originario unico proprietario dell’intero edificio in favore di un’unità immobiliare e menzionato anche nell’allegato regolamento, non era cedibile, nè poteva eccedere i trent’anni).
Il ragionamento posto a base del principio di diritto così massimato si snoda come segue:
-) l’art. 1117 c.c., nell’indicare le parti comuni di un edificio in condominio, “se non risulta il contrario dal titolo”, consente che, al momento di costituzione del condominio, alcune delle parti altrimenti comuni possono essere sottratte alla presunzione di comunione;
-) se ciò è possibile, a fortiori è possibile, nella medesima sede costitutiva del condominio, che le parti convengano l’uso esclusivo di una parte comune in favore di uno o più condomini;
-) sotto la dizione sintetica di “uso esclusivo”, impiegata dall’art. 1126 c.c., contrapposta a quella di “uso comune”, contenuta nell’art. 1122 c.c., nella formulazione risultante dalla L. n. 220 del 2012, ove è precisata una nozione già desumibile dal sistema, si cela la coesistenza, su parti comuni, di facoltà individuali dell’usuario e facoltà degli altri partecipanti (mai in effetti realmente del tutto esclusi dalla fruizione di una qualche utilità sul bene c.d. in uso esclusivo altrui), secondo modalità non paritarie, in funzione del migliore godimento di porzioni di piano in proprietà esclusiva cui detti godimenti individuali accedano;
-) deve riconoscersi nella parte comune, anche se sottoposta ad uso esclusivo, il permanere della sua qualità, appunto, comune, giacché l’attribuzione dell’uso esclusivo costituisce soltanto deroga da parte dell’autonomia privata al disposto dell’art. 1102 c.c., altrimenti applicabile anche al condominio, che consente ai partecipanti di fare uso della cosa comune “secondo il loro diritto”;
-) i partecipanti diversi dall’usuario esclusivo vedono diversamente conformati dal titolo i rispettivi godimenti, con maggiori utilità per l’usuario e minori utilità per gli altri condomini;
-) dalla qualifica della cosa in uso esclusivo nell’ambito del condominio quale parte comune di spettanza di tutti i partecipanti, tutti comproprietari, ma secondo un rapporto di riparto delle facoltà di godimento diverso, in quanto fissato dal titolo, da quello altrimenti presunto ex artt. 1117 e 1102 c.c., derivano i corollari dell’inerenza di tale rapporto a tutte le unità in condominio, con la conseguenza che l’uso esclusivo si trasmette, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, anche ai successivi aventi causa sia dell’unità cui l’uso stesso accede che delle altre correlativamente fruenti di minori utilità;
-) l’uso esclusivo, quale connotazione del diritto di proprietà ex art. 832 c.c., o dell’altro diritto eventualmente spettante sull’unità immobiliare esclusiva cui accede, tendenzialmente perpetuo e trasferibile (nei limiti di trasferibilità delle parti comuni del condominio), non è riconducibile al diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., di cui l’uso esclusivo di parte comune nel condominio non mutua i limiti di durata, trasferibilità e modalità di estinzione;
-) il riconoscimento dell’uso esclusivo non si pone in contrasto con il numerus clausus dei diritti reali.
5.4. – Sulla configurabilità del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” in ambito condominiale la dottrina non sembra aver fornito indicazioni univoche.
5.4.1. – Si suggerisce anzitutto da alcuni di tener distinti i casi in cui la formula “uso esclusivo” sia impiegata al fine di identificare un diritto di contenuto diverso dalla proprietà ed i casi in cui, invece, la formula, ad esempio attraverso la previsione della perpetuità e trasmissibilità del diritto, miri proprio all’attribuzione del diritto di proprietà, con la finalità, come si accennava, di rimediare a problemi catastali.
5.4.2. – Quanto al “diritto reale di uso esclusivo”, inteso in senso proprio, si afferma essere dubbia la validità di un accordo interno fra i comunisti che, in deroga all’art. 1102 c.c., assegni l’uso esclusivo, anche se di una parte del bene comune, solo ad uno o più comunisti. Difatti – si sottolinea – l’art. 1102 c.c., pone in evidenza un aspetto strutturale della comunione, il godimento, aspetto che, secondo un’opinione ampiamente accolta, non sarebbe suscettibile di subire modificazioni, beninteso sostanziali.
5.4.3. – Nel tentativo di supportare sia il dato giurisprudenziale, formatosi anteriormente a Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301, sia la prassi, si indica ancora in dottrina, come più rilevante appiglio, pur senza tacere le controindicazioni, l’art. 1126 c.c..
5.4.4. – È stato affermato, inoltre, che un riconoscimento legislativo degli usi esclusivi, tali da determinare una modificazione del diritto di comproprietà, suscettibile quindi di trascrizione, potrebbe rinvenirsi nel D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, comma 2, lett. b), che impone al costruttore di indicare nel contratto relativo ad una futura costruzione le parti condominiali e le “pertinenze esclusive“.
5.4.5. – Secondo altri, dopo alcune perplessità sull’utilizzazione del termine “uso”, tale da evocare il diritto reale di cui all’art. 1021 c.c., sarebbe stata superata ogni esitazione definendo tali diritti con l’espressione “uso esclusivo”, senza alcuna altra precisazione, ma nella consapevolezza che esso discenderebbe da un rapporto di servitù.
Il fondo servente sarebbe costituito dal cortile, nella parte asservita; il fondo dominante sarebbe l’unità immobiliare a cui favore l’area è asservita; il peso imposto consisterebbe nella facoltà esclusiva per il condomino a cui favore è costituita la servitù di godere del cortile.
Non osterebbe alla configurabilità di una servitù a favore del bene di proprietà esclusiva di un condomino ed a carico del condominio (o viceversa) il principio nemini res sua servit in quanto l’intersoggettività del rapporto sarebbe garantita dal concorso di altri titolari sul bene comune.
5.4.6. – L’”uso esclusivo” di cui si discute, in ogni caso, non potrebbe essere ricondotto alla previsione dell’art. 1021 c.c..
Difatti, l’”uso” ivi previsto è manifestazione del diritto, per il titolare, di servirsi di una cosa (e, se fruttifera, di raccoglierne i frutti) per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia. Inoltre, secondo l’art. 1024 c.c., il diritto d’uso non si può cedere o dare in locazione, e la durata dello stesso, secondo l’art. 979 c.c., richiamato dall’art. 1026 c.c., non può eccedere la vita del titolare, se persona fisica, o trenta anni, se persona giuridica.
Ne deriva che, per lo più, la locuzione “uso esclusivo” attiene alla destinazione del bene, e non alla qualificazione del diritto, sussumibile entro l’ambito di applicazione dell’art. 1021 c.c..
5.4.7. – Vi è infine da rammentare, più in generale, che parte della dottrina ammette la creazione per contratto di diritti reali atipici, il che, se fosse vero, farebbe cadere ogni ostacolo al sorgere del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”.
- – Ritengono le Sezioni Uniteche il tema del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di parti comuni dell’edificio in ambito condominiale debba essere inquadrato nei termini che seguono.
6.1. – Nell’art. 1102 c.c., rubricato “uso della cosa comune”, dettato per la comunione ma applicabile al condominio per il tramite dell’art. 1139 c.c., il vocabolo “uso” si traduce nel significato del “servirsi della cosa comune“. Nell’art. 1117 c.c., che apre il capo dedicato al condominio, ricorre per tre volte, in ciascuno dei numeri in cui la norma si suddivide, l’espressione “uso comune”, che ripete e sintetizza la previsione dell’art. 1102 c.c..
Nella locuzione “servirsi della cosa comune” si riassumono le facoltà ed i poteri attraverso i quali il partecipante alla comunione, ovvero il condomino, ritrae dalla cosa le utilità di cui essa è capace, entro i limiti oggettivi della sua “destinazione”, cui pure si riferisce l’art. 1102 c.c..
L’”uso”, quale sintesi di facoltà e poteri, costituisce allora parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, come, ovviamente, di quello di proprietà, a tenore del dettato dell’art. 832 c.c.. L’uso è cioè (non diritto, bensì) uno dei modi attraverso i quali può esercitarsi il diritto, e forma parte intrinseca e caratterizzante, nucleo essenziale, del suo contenuto.
L’art. 1102 c.c., ribadisce ulteriormente il carattere intrinseco e caratterizzante dell’”uso della cosa comune” laddove istituisce l’obbligo del partecipante di non impedire agli altri “di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
6.2. – Nella formula “parimenti uso” si riassumono i connotati, per così dire normali, dell’uso della cosa comune nell’ambito della comunione e del condominio, uso in linea di principio, ed almeno in potenza, per l’appunto indistintamente paritario, promiscuo e simultaneo.
Ciò non esclude la possibilità di un “uso” più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri (Cass. 30 maggio 2003, n. 8808; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4617; Cass. 21 ottobre 2009, n. 22341; Cass. 16 aprile 2018, n. 9278), tanto più che l’art. 1123 c.c., comma 2, contempla espressamente la possibile esistenza di cose destinate a servire i condomini “in misura diversa”, regolando il riparto delle spese in proporzione dell’uso, previsione che trova ulteriore specificazione nel successivo art. 1124 c.c., con riguardo alla manutenzione e sostituzione di scale e ascensori.
L’uso della cosa comune può assumere inoltre caratteri differenziati rispetto alla regola della indistinta paritarietà, tuttavia pur sempre mantenuta ferma mediante un congegno di reciprocità: così, entro limiti che qui non occorre approfondire, per l’uso frazionato (Cass. 14 luglio 2015, n. 14694; Cass. 11 aprile 2006, n. 8429; Cass. 14 ottobre 1998, n. 10175; Cass. 28 gennaio 1985, n. 434; Cass. 6 dicembre 1979, n. 6338) e per l’uso turnario (Cass. 12 dicembre 2017, n. 29747; Cass. 19 luglio 2012, n. 12485; Cass. 3 dicembre 2010, n. 24647; Cass. 4 dicembre 1991, n. 13036), ipotesi, quest’ultima, ricorrente nel caso della destinazione di cortili a posti auto in numero insufficiente a soddisfare simultaneamente le esigenze di tutti i condomini.
È inoltre ben vero che l’art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, i cui limiti non possano essere resi più severi dal regolamento condominiale (Cass. 20 luglio 1971, n. 2369). Se, però, i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, resta fermo che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2114; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27233).
6.3. – Questo essendo il quadro, il c.d. “diritto reale di uso esclusivo” va evidentemente a collocarsi al di là dell’osservanza della regola del “farne parimenti uso”, pur declinata nelle forme particolari di cui si è detto: uso frazionato e uso turnario.
Nel caso dell’”uso esclusivo”, proprio perché esclusivo, cioè, si elide – rimanendo da verificare se ed in che limiti ciò sia giuridicamente fattibile – il collegamento tra il diritto ed il suo contenuto, concentrandosi l’uso in capo ad uno o alcuni condomini soltanto: tant’è che si è parlato in proposito, come già accennato, di uso “”quasi”uti dominus”.
6.4. – Qualora l’esegesi dell’atto induca a ritenere che l’attribuzione abbia effettivamente riguardato, secondo la volontà delle parti, non la proprietà, sia pure in veste “mascherata”, ma il c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una parte comune, ferma la titolarità della proprietà di essa in capo al condominio, è da escludere che un simile diritto, con connotazione di realità, possa trovare fondamento sull’art. 1126 c.c..
La norma stabilisce che, quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.
Nella giurisprudenza di questa Corte sembra rinvenirsi un unico precedente in cui l’uso esclusivo ivi menzionato è espressamente qualificato come diritto reale di godimento, come tale usucapibile.
Si afferma cioè essere esatto che i lastrici solari, necessari all’uso comune dell’edificio, del quale svolgono la funzione di copertura, non possono in generale essere usucapiti, mentre possono essere ceduti in proprietà ad un solo condomino. Si rammenta, difatti, che l’usucapione non può aver luogo in ordine ai lastrici solari, per i quali sono concettualmente insopprimibili le utilità tratte dagli altri partecipi della comunione, per effetto della connaturata destinazione di tali cose alla copertura ed alla protezione del fabbricato. Ma si aggiunge che l’art. 1126 c.c., prevede espressamente che uno dei condomini possa avere l’uso esclusivo del calpestio del lastrico e dunque possa usucapire il diritto di calpestio esclusivo. E si ricorda che la dottrina definisce tale uso esclusivo di calpestio come diritto reale equivalente ad una servitù, perfettamente usucapibile. Sicché nulla esclude l’acquisto per usucapione non della proprietà del lastrico solare, ma, appunto, del diritto esclusivo di calpestio, che si presenta oggettivamente come autonomo dal diritto di proprietà (così Cass. 17 aprile 1973, n. 1103).
Ciò detto, la previsione dettata dall’art. 1126 c.c., è riferita ad una situazione del tutto peculiare, quale quella dei lastrici solari, che, pur svolgendo una funzione necessaria di copertura dell’edificio, e costituendo come tali parti comuni, possono però essere oggetto di calpestio, per la loro conformazione ed ubicazione, soltanto da uno o alcuni condomini, sicché l’uso esclusivo nel senso sopra descritto non priva gli altri condomini di alcunché, perché essi non vi potrebbero comunque di fatto accedere.
Dalla previsione dell’art. 1126 c.c., allora, può semmai desumersi a contrario che non sono configurabili ulteriori ipotesi di uso esclusivo, le quali, in violazione della regola generale stabilita dal già richiamato art. 1102 c.c., nonché dei principi, di cui si parlerà più avanti, del numerus clausus e di quello di tipicità dei diritti reali (principi secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali nuovi rispetto a quelli riconosciuti dalla legge, nè mutarne il contenuto essenziale), sottraggano a taluni condomini il diritto di godimento della cosa comune loro spettante.
L’art. 1126 c.c., avuto riguardo ai menzionati principi, non si presta dunque a fungere da punto d’appoggio per la costruzione di un più ampio “diritto reale di uso esclusivo” delle parti comuni, ma, tutt’al più, ove ne ricorrano i presupposti, ad una cauta applicazione estensiva, come per le terrazze che fungano da copertura di un edificio, le quali rispetto al lastrico offrono utilità ulteriori, ovverosia il comodo accesso e la possibilità di trattenersi (la distinzione è evidenziata p. es. da Cass. 22 novembre 1996, n. 10323).
6.5. – Neppure rileva che la riforma del condominio del 2012 abbia introdotto talune ipotesi di concessione a singoli condomini di un godimento apparentemente non paritario, giacché, pur volendo tralasciare che tali previsioni, per la loro eccezionalità, non possono concorrere alla costruzione di un principio generale, è da escludere che esse comportino modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni in favore del titolare dell’uso.
L’art. 1122 c.c., comma 1, prevede che nelle parti normalmente destinate all’uso comune che sono state destinate all’”uso individuale” il condomino non può eseguire opere che determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio.
Al riguardo, è agevole osservare che la norma neppure fa riferimento univoco ad un ipotetico “diritto reale di uso esclusivo”, mentre essa ben può essere riferita al caso, già ricordato, dell’uso frazionato delle parti comuni.
L’art. 1120 c.c., comma 2, n. 2, poi, consente, tra l’altro, che i condomini, con una maggioranza meno rigorosa di quella prevista per le innovazione in genere, possono disporre opere ed interventi per la realizzazione di parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari. E tuttavia la norma non chiarisce se i posti auto realizzati debbano essere attribuiti in proprietà esclusiva, costituendo in tal caso pertinenze delle singole unità immobiliari, o in godimento frazionato in favore dei proprietari di tali unità immobiliari:
-) nel primo caso si tratterebbe di attribuzione in proprietà (la qual cosa si è già accennato essere pienamente compatibile con la regola generale dettata dall’art. 1117 c.c., che, riferendosi al “titolo diverso”, consente di assegnare in proprietà esclusiva porzioni dell’edificio che altrimenti ricadrebbero nelle parti comuni) e non del c.d. “diritto reale di uso esclusivo”;
-) nel secondo caso si rientrerebbe nell’ipotesi di uso frazionato già considerata.
L’art. 1122 bis c.c., comma 2, ancora, consente la installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità immobiliari del condominio sul lastrico solare e su ogni altra idonea superficie comune. In base al comma 3 l’assemblea provvede, su richiesta degli interessati, a ripartire l’uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto.
Anche qui non emerge la configurabilità di un “diritto reale di uso esclusivo”. Ed anzi, il fatto che il godimento venga concesso a maggioranza dall’assemblea esclude che possa ricorrere una ipotesi di modificazione del contenuto del diritto di comproprietà.
6.6. – È parimenti priva di fondamento la tesi, talora affermata, secondo cui un riconoscimento legislativo degli usi esclusivi, tali da determinare una modificazione del diritto di comproprietà, potrebbe desumersi dal D.Lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, comma 2, lett. b), che obbliga il costruttore a indicare nel contratto relativo a futura costruzione le parti condominiali e le “pertinenze esclusive“.
È già risolutivo osservare che si tratta di una norma eccezionale, dalla quale non potrebbe in ogni caso desumersi l’istituzione di un generale “diritto reale di uso esclusivo”.
Ma, al di là di questo, la norma parla di pertinenze, e dunque ancora una volta di attribuzione in proprietà, secondo quanto si è già visto compatibile con l’assetto condominiale.
6.7.- Posto che l’art. 1102 c.c., come si diceva applicabile al condominio, stabilisce che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, è da escludere che, così come talune parti altrimenti comuni, alla stregua dell’art. 1117 c.c., possono essere attribuite in proprietà esclusiva ad un singolo condomino, a maggior ragione esse possano essere attribuite, con caratteri di realità, ad un singolo condomino, in uso esclusivo.
L’impiego dell’argomento a fortiori è difatti in tal caso un artificio retorico volto a dare per dimostrato ciò che doveva invece dimostrarsi: ossia che possa configurarsi una sostanzialmente totale compressione del godimento spettante ai condomini sulla cosa comune, con la speculare creazione di un atipico diritto reale di godimento, il diritto di uso esclusivo, in favore di uno o alcuni, di essi. Ed è parimenti un artificio retorico quello insito nell’affermazione secondo cui il c.d. “diritto di uso esclusivo” non sarebbe in realtà davvero esclusivo, poiché agli altri condomini rimarrebbe (nient’altro che) la possibilità di prendere aria e luce, nonché di esercitare la veduta in appiombo.
Un diritto reale di godimento di uso esclusivo, in capo ad un condomino, di una parte comune dell’edificio, privando gli altri condomini del relativo godimento, e cioè riservando ad essi un diritto di comproprietà svuotato del suo nucleo fondamentale, determinerebbe, invece, un radicale, strutturale snaturamento di tale diritto, non potendosi dubitare che il godimento sia un aspetto intrinseco della proprietà, come della comproprietà: salvo, naturalmente, che la separazione del godimento dalla proprietà non sia il frutto della creazione di un diritto reale di godimento normativamente previsto.
6.8. – Siffatto c.d. “diritto reale di uso esclusivo” non è inquadrabile tra le servitù prediali.
Si è già visto che non esiste un orientamento giurisprudenziale in tal senso.
All’inquadramento non osta il principio nemini res sua servit, il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell’altro, giacché in tal caso l’intersoggettività del rapporto è data dal concorso di altri titolari del bene comune (Cass. 6 agosto 2019, n. 21020, e già Cass. 27 luglio 1984, n. 4457; Cass. 24 giugno 1967, n. 1560; Cass. 22 luglio 1966, n. 2003).
Vi osta la conformazione della servitù, che può sì essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, pur riguardate dall’angolo visuale dell’obbiettivo rapporto di servizio tra i fondi e non dell’utilità del proprietario del fondo dominante, ma non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale.
Ed è perciò che questa Corte ha da lungo tempo affermato, ad esempio, che, essendo requisiti essenziali della nozione di servitù il carattere di peso e l’utilità del rapporto di dipendenza tra i due fondi, deve ritenersi contraria all’ordine pubblico, ove non rientri negli schemi dell’uso, dell’usufrutto o dell’abitazione, la convenzione, con la quale il proprietario del c.d. fondo servente si riserva la sola utilizzazione del legname per uso di carbonizzazione e la facoltà di compiere soltanto lavori attinenti alla sua industria di produzione di energia elettrica, e concede al proprietario del c.d. fondo dominante il diritto di far proprio ogni altro prodotto (Cass. 31 maggio 1950, n. 1343); ed ha ribadito che la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente.
Al proprietario, pertanto, del fondo gravato da una servitù di passaggio, non può essere inibito di chiudere il fondo, purché lasci libero e comodo l’ingresso a chi esercita la servitù di passaggio o lasci, comunque, al di fuori della recinzione la zona del fondo, sulla quale, a tenore del titolo, la servitù deve esercitarsi (Cass. 22 aprile 1966, n. 1037).
Ora, è del tutto evidente che, se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l’”uso esclusivo” di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro.
6.9. – Resta da chiedersi se la creazione di un atipico “diritto reale di uso esclusivo”, tale da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale.
Il che è da escludere, essendovi di ostacolo il principio, o i principi, sovente in dottrina tenuti distinti, sebbene in gran parte sovrapponibili, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi: in forza del primo solo la legge può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito.
Parte della dottrina, certo minoritaria, predica, non solo in Italia, il vanificarsi del dogma – così talora definito, in alternativa ad altre qualificazioni in termini di mistero od enigma – del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali.
Contro di esso si invoca, in breve, una sorta di pari dignità dei diritti reali e dei diritti di credito, riguardati nella prospettiva dell’autonomia privata, che, dall’uno e dall’altro versante, non incontrerebbe altro limite, se non quello derivante dalla contrarietà all’ordine pubblico, dall’illiceità del contratto e dalla meritevolezza dell’interesse perseguito.
Di guisa che i privati potrebbero così dar vita per contratto ad ogni genere di diritto, di natura reale od obbligatoria, purché nel rispetto dei principi inderogabili dell’ordinamento giuridico. Si è osservato, sotto altro aspetto, che nessuno meglio delle parti stesse potrebbe rispondere, tempestivamente, alle sempre nuove esigenze che il traffico giuridico pone, mentre il legislatore non riuscirebbe a garantire eguale tempestività, nè completezza di strumenti. Dall’angolo visuale dell’analisi economica del diritto si è detto che i principi in discorso determinerebbero diseconomie, sulle quali non è per vero il caso qui di soffermarsi. E può aggiungersi che l’atteggiamento di disfavore verso i menzionati principi ha avuto qualche riscontro in giurisprudenza, a partire dal 2012, con l’arret Maison de poesie, proprio laddove essi si sono riaffermati con la codificazione ottocentesca, dopo una parentesi – come è stato detto – di oltre otto secoli.
Ora, ad evidenziare quanto fallace sia l’idea di diritti reali creati per contratto, dovrebbe essere sufficiente osservare che le situazioni reali si caratterizzano per la sequela, per l’opponibilità ai terzi: i diritti reali, cioè, si impongono per forza propria ai successivi acquirenti della cosa alla quale essi sono inerenti, che tali acquirenti lo vogliano o non lo vogliano: creare diritti reali atipici per contratto vorrebbe dire perciò incidere non solo sulle parti, ma, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, anche sugli acquirenti della cosa: ed in definitiva, paradossalmente, vincolare terzi estranei, in nome dell’autonomia contrattuale, ad un regolamento eteronimo.
Quando si afferma, allora, che i principi in discorso non sarebbero espressione di una norma positivamente codificata, ma tutt’al più si radicherebbero semplicemente nella tradizione, in vista di un generico scopo di certezza dei traffici giuridici – scopo, occorre aggiungere, che peraltro basterebbe da solo a rendere ragione dei principi medesimi -, sicché nulla osterebbe a far sorgere dall’autonomia contrattuale diritti reali atipici, non si tiene nella necessaria considerazione che una espressa disposizione in tal senso sarebbe stata superflua, in un sistema che, dopo aver minuziosamente tipizzato e regolato gli iura in re aliena (cosa già di per sé scarsamente comprensibile, ove potessero crearsene di atipici in numero infinito), pone al centro della disciplina del contratto, come la dottrina ha da assai lungo tempo evidenziato, l’art. 1372 c.c., che limita gli effetti di esso alle parti, con la precisazione che solo la legge può contemplare la produzione di effetti rispetto ai terzi: escludendo così in radice che il contratto, se non sia la legge a stabilirlo, possa produrre effetti destinati a riflettersi nella sfera di soggetti estranei alla negoziazione.
Tale impianto del codice civile, di per sé autosufficiente, si rafforza poi nel quadro costituzionale, in applicazione dell’art. 42 Cost., laddove esso pone una riserva di legge in ordine ai modi di acquisto e, per l’appunto, di godimento, oltre che ai limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, senza che la funzionalizzazione della proprietà offra alcun sensato argomento che spinga nel senso della configurabilità di diritti reali limitati creati per contratto.
Il principio del numerus clausus e della tipicità, infine, non incontra ostacoli nell’ordinamento Eurounitario, giacché l’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea lascia “del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”.
A rincalzo delle raggiunte conclusioni, può ulteriormente osservarsi:
-) che l’art. 1322 c.c., colloca nel comparto contrattuale il principio dell’autonomia;
-) che l’ordinamento mostra di guardare sotto ogni aspetto con sfavore a limitazioni particolarmente incisive del diritto di proprietà, in particolare connotate da perpetuità, finanche tra le stesse parti, come si desume dalla disposizione dell’art. 1379 c.c., con riguardo alle condizioni di validità del divieto convenzionale di alienare (v. per la portata generale della regola Cass. 17 novembre 1999, n. 12769; Cass. 11 aprile 1990, n. 3082; e da ult. Cass. 20 giugno 2017, n. 15240, in relazione al vincolo perpetuo di destinazione imposto dal testatore con clausola modale);
-) che l’art. 2643 c.c., contiene un’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione, il che ineluttabilmente conferma trattarsi di numerus clausus.
Quanto all’adempimento della formalità della trascrizione, del resto, essa vale a risolvere i conflitti tra successivi acquirenti a titolo derivativo (sugli acquisti a titolo originario, in relazione al rilievo della trascrizione, v. ex multis Cass. 3 febbraio 2005, n. 2161; Cass. 10 luglio 2008, n. 18888, con riguardo alla servitù acquistata per usucapione), ma, essendo dotata di efficacia meramente dichiarativa (Cass. 19 agosto 2002, n. 12236), non incide sulla validità ed efficacia di essi, ed è quindi priva di efficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l’atto negoziale, ed inidonea ad attribuirgli la validità di cui esso sia altrimenti privo (Cass. 14 novembre 2016, n. 23127).
E dunque, ammesso e non concesso che una simile trascrizione sia oggi tecnicamente possibile, non ha cittadinanza nel diritto vigente una regola generale che faccia discendere dalla trascrizione – se non sia il legislatore, ovviamente, a stabilirlo – l’efficacia erga omnes di un diritto che non abbia già in sé il carattere della realità. Ciò – sia detto per inciso – a tacere del rilievo, rimanendo alla trascrizione, che il c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, ove inteso come prodotto della atipica modificazione negoziale del diritto di comproprietà, non sarebbe comunque trascrivibile, dal momento che l’art. 2643 c.c., contempla al numero 14 la trascrizione delle sentenze, non degli atti negoziali, che operano la modificazione di uno dei diritti precedentemente elencati dalla norma.
6.10. – Ecco, dunque, che nella giurisprudenza di questa Corte il principio della tipicità del diritti reali, con quello sovrapponibile del numerus clausus, è fermo.
E cioè, non è configurabile la costituzione di diritti reali al di fuori dei tipi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 26 marzo 1968, n. 944). Difatti, “la proprietà non deve essere asservita per ragioni privatistiche in modo tale da rendersi quasi illusoria e priva di contenuto, inetta quindi a realizzare i propri fini essenziali, convergenti da un lato alla integrazione e allo sviluppo della personalità individuale e dall’altro al benessere e al progresso della comunità attraverso l’incremento della produzione e l’attivazione degli scambi. Di qui la necessità di non abbandonare all’autonomia privata la materia dei diritti reali (iura in re aliena) e di mantenere la loro creazione entro schemi inderogabili fissati da esigenze di ordine pubblico” (Cass. 31 maggio 1950, n. 1343).
È stata così rimarcata la differenza dal punto di vista sostanziale e contenutistico, del diritto reale d’uso e del diritto personale di godimento, che va colta proprio nella ampiezza ed illimitatezza del primo, conformemente al canone di tipicità dei diritti reali delineato dalla legge, rispetto alla multiforme atteggiabilità del secondo, che proprio in ragione della natura obbligatoria e non reale del rapporto giuridico prodotto, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto.
Sicché, è da tener fermo che “il principio di tipicità legale necessaria dei diritti reali… si traduce nella regola secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle previste dalla legge, nè possono modificarne il regime. Ciò comporta che i poteri che scaturiscono dal singolo diritto reale in favore del suo titolare sono quelli determinati dalla legge e non possono essere validamente modificati dagli interessati” (Cass. 26 febbraio 2008, n. 5034; richiamata da ultimo da Cass. 3 settembre 2019, n. 21965).
Nello stesso senso si osservato che la potenziale estensione delle facoltà dell’usuario a tutte le possibilità di uso diretto della cosa è connotato distintivo del diritto di uso, e se, quindi, può ammettersi che il titolo costitutivo restringa il contenuto del diritto con l’esclusione di talune facoltà in esso naturalmente comprese, deve, al contrario, ritenersi che l’attribuzione di una soltanto tra le facoltà di uso consentite dalla natura del bene – tanto più se trattisi di un’utilità del tutto speciale ed estranea alla destinazione fondamentale della cosa – possa dar vita ad un rapporto obbligatorio, ma non possa configurarsi come costitutiva di un diritto reale di uso, che sarebbe essenzialmente diverso da quello previsto dalla legge e come tale inammissibile nel nostro ordinamento nel quale e mantenuto il principio della tipicità dei diritti reali (Cass. 12 novembre 1966, n. 2755).
In applicazione del principio di tipicità dei diritti reali di godimento è stato stabilito che non è configurabile un rapporto di così detto dominio utile, corrispondente a uno ius in re aliena, cioè un diritto di godere di un fondo altrui in perpetuo, non essendo consentiti, al di fuori dei casi previsti alla legge, rapporti di natura perpetua, in quanto contrari a interessi di natura pubblicistica (Cass. 26 settembre 2000, n. 12765).
E si è ripetuto che le obbligazioni propter rem, come pure gli oneri reali, sono caratterizzati dal requisito della tipicità, con la conseguenza che possono sorgere per contratto solo nei casi e col contenuto espressamente previsti dalla legge (Cass. 4 dicembre 2007, n. 25289; Cass. 11 marzo 2010, n. 5888; Cass. 26 febbraio 2014, n. 4572; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25673; Cass. 2 gennaio 1997, n. 8; Cass. 22 luglio 1966, n. 2003; contra isolatamente e senza specifici argomenti Cass. 6 marzo 2003, n. 3341, ove tuttavia si riconosce che “al principio di tipicità sono vincolati i diritti reali”).
Ciò sulla scia di Cass. 18 gennaio 1951, n. 141, secondo cui oneri reali e obbligazioni propter rem “non possono avere un’applicazione generale e illimitata, ma costituiscono figure ammissibili soltanto nei casi previsti dalla legge“.
La qual cosa, a parte l’obbliettiva difficoltà di guardare al c.d. “diritto di uso esclusivo” come ad una obbligazione propter rem, esclude anche la possiblità di tale ricostruzione.
Atteso il principio di tipicità dei diritti reali la trascrizione della donazione modale non fa acquisire all’onere carattere reale (Cass. 9 giugno 2014, n. 12959). Nè, “stante il principio di tipicità dei diritti reali, è possibile rimettere tout court alla scelta dei privati la creazione di figure di proprietà che presentino uno sdoppiamento tra la titolarità formale e quella sostanziale dei beni o forme di dissociazione tra titolarità e legittimazione” (Cass. 10 febbraio 2020, n. 3128).
D’altronde, la tematica delle c.d. servitù irregolari muove proprio dal principio di tipicità dei diritti reali, potendo così esse dar vita esclusivamente a rapporti obbligatori, nel quadro di applicazione del principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. (Cass. 11 marzo 1981, n. 1387; Cass. 4 febbraio 2010, n. 2651, e, da ult. Cass. 9 ottobre 2018, n. 24919).
6.11. – In definitiva, va affermato il principio che segue: “La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi“. Restando ovviamente riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i tipi reali normativi.
- – Esclusa la validità della la costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, in ambito condominiale, sorge il problema dellasorte del titolo negozialeche, invece, tale costituzione abbia contemplato.
7.1. – Una volta ricordato che l’art. 1117 c.c., nel porre una presunzione di condominialità, consente l’attribuzione ad un solo condomino della proprietà esclusiva di una parte altrimenti comune, occorre anzitutto approfonditamente verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se le parti, al momento della costituzione del condominio, abbiano effettivamente inteso limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante, e non abbiano invece voluto trasferire la proprietà.
Vero è che l’art. 1362 c.c., richiama al comma 1, il senso letterale delle parole, senso che, nel caso dell’impiego della formula “diritto di uso esclusivo”, depone senz’altro contro l’interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà; ma anche vero è che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (p. es. Cass. 1 dicembre 2016, n. 24560; Cass. 11 gennaio 2006, n. 261).
7.2. – In tale prospettiva può leggersi, a esempio, la decisione di questa Corte in un caso in cui il regolamento condominiale richiamato in un preliminare di vendita contemplava “l’uso esclusivo dei balconcini esistenti nei ripiani intermedi a favore dei condomini proprietari di alloggi non aventi prospicenza diretta verso il cortile”: è stato in tal caso affermato che il regolamento condominiale contrattuale può contenere la previsione dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio altrimenti comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva, ed in tal caso il rapporto ha natura pertinenziale, essendo stato posto in essere dall’originario unico proprietario dell’edificio, con l’ulteriore conseguenza che, attenendo siffatto rapporto alla consistenza della frazione di proprietà esclusiva, il richiamo puro e semplice del regolamento condominiale in un successivo atto di vendita (o promessa di vendita) da parte del titolare della frazione di proprietà esclusiva, a cui favore sia previsto l’uso esclusivo di una parte comune, può essere considerato sufficiente ai fini dell’indicazione della consistenza della frazione stessa venduta o promessa in vendita (Cass. 4 giugno 1992, n. 6892, sulla scia di Cass. 29 marzo 1982, n. 1947; nella stessa linea più di recente, Cass. 4 settembre 2017, n. 20712).
7.3. – Non è escluso che il diritto di uso esclusivo, sussistendone i presupposti normativamente previsti, possa altresì essere in realtà da ricondurre nel diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., se del caso attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., comma 1.
7.4. – Rimane poi aperta la verifica della sussistenza dei presupposti per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo, in applicazione art. 1424 c.c., in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (perpetuo inter partes, ovviamente) di natura obbligatoria.
Ciò sia dal versante della meritevolezza, sia quanto all’accertamento se, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, queste avrebbero voluto il diverso contratto.