Corte di Cassazione, Sez. II Civile, ordinanza interlocutoria 23 novembre 2022 n. 34460
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo di ricorso (proposto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) Enel Produzione S.p.A. pone la questione della decadenza del Comune di Alfedena dall’azione di accertamento degli usi civici per difetto di dichiarazione nel termine previsto dalla l. n. 1766 del 1927, art. 3.
Con il secondo motivo di ricorso, anch’esso proposto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., Enel Produzione sostiene che «l’interpretazione letterale dell’art. 12 della l. 16 giugno 1927, n. 1766, nel combinato disposto con l’art. 52 della l, 2359/1865, la sua interpretazione sistematica, la sua interpretazione evolutiva rispetto al d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, art. 4, come modificato dalla legge n. 28 dicembre 2015, n. 221, art. 74, dimostrano che prima che le terre di uso civico assumessero valore ambientale era possibile la loro espropriazione per pubblica utilità senza che fosse necessario il preventivo provvedimento di mutamento di destinazione».
Con il terzo motivo Enel Produzione censura la decisione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha riconosciuto che i terreni oggetto di causa costituiscono demanio civico. Si sostiene che tale riconoscimento sarebbe stato operato in base a una consulenza tecnica, che avrebbe recepito atti di verifica dei demani privi di valore giuridico e di definitività, in violazione delle norme indicate nella rubrica.
La Corte di merito non avrebbe poi tenuto conto di fatti decisivi, consistenti nell’avvenuta sdemanializzazione del preteso demanio attraverso le quotizzazioni avvenute nel 1814.
I medesimi motivi sono proposti da Enel Distribuzione S.p.A., che ha proposto autonomamente un primo motivo di ricorso, con il quale ha censurato la decisione nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto tardivo il proprio l’appello incidentale, argomentando in base alla tardiva costituzione della parte.
La ricorrente sostiene che la Corte di merito è giunta a tale conclusione in applicazione delle norme ordinarie del codice di rito, che non sono invece applicabili, dovendosi osservare le norme del rito speciale, che prevedono termini di comparizione incompatibili con l’applicazione degli artt. 166 e 343 c.p.c.
- Il motivo sulla questione processuale, proposto dalla sola Enel Distribuzione S.p.A., riecheggia un principio in effetti condiviso dalla giurisprudenza della Corte (Cass. n. 9373/2020). Comunque sia l’accoglimento o il rigetto del motivo lascerebbero comunque sopravvivere e attuali il complesso delle questioni poste nella presente sede di legittimità, essendo i motivi proposti da Enel Distribuzione S.p.A. identici a quelli proposti da Enel Produzione S.p.A.
A sua volta, la tesi, proposta dalle ricorrenti con motivo riguardante l’ambito di applicazione dell’art. 3 della Legge n. 1766 del 1927 (primo motivo di Enel Produzione e secondo motivo di Enel Distribuzione S.p.A.), si pone in contrasto, come riconoscono le stesse ricorrenti, con l’orientamento consolidato di questa Suprema Corte, secondo cui «la dichiarazione prevista dall’art. 3 della legge 16 giugno 1927 n. 1766, secondo cui chiunque pretenda di esercitare diritti di uso civico di “promiscuo godimento” è tenuto a farne dichiarazione al commissario liquidatore entro sei mesi dalla pubblicazione della legge, pena l’estinzione dei relativi diritti, non riguarda i diritti sui terreni che, appartenendo al demanio universale o comunale, siano propri della stessa collettività degli utenti; infatti, allo scopo di evitare contrasti o incertezze fra le popolazioni agrarie, il legislatore, nel prevedere l’obbligo della denuncia esclusivamente per i diritti di “promiscuo godimento”, ha inteso riferirsi ai diritti di uso civico su beni altrui, non potendosi tale ipotesi configurare nel caso di titolarità dei beni spettanti alla stessa “universitas” di appartenenza degli utenti, anche quando i diritti siano esercitati da collettività residenti in parti limitate del territorio comunale. Tale normativa non è in contrasto con gli art. 3 e 42 Cost., giacché la profonda diversità dei contenuti dei diritti di uso civico, su beni privati o appartenenti ad enti territoriali distinti da quelli di residenza degli utenti, rispetto a quelli aventi ad oggetto beni della propria “universitas”, giustifica la diversa disciplina, senza incontrare alcuna controindicazione nell’esigenza della libera circolazione dei beni; quest’ultima, infatti, non può considerarsi un connotato necessario dei beni oggetto di proprietà pubblica che, ai sensi del primo comma dell’art. 42 Cost., sono tenuti distinti da quelli oggetto di proprietà privata» (Cass. n. 6165/2007).
Quanto al motivo riguardante l’accertamento della qualitas soli (terzo di Enel Distribuzione e quarto di Enel Produzione), le relative censure sembrano investire un apprezzamento di fatto, che debbono fare i conti con i limiti entro i quali simili apprezzamenti sono censurabili in sede di legittimità.
Consegue dai rilievi che precedono che la decisione dei ricorsi richiede una presa di posizione sulla questione di principio posta dal secondo motivo del ricorso di Enel Produzione (terzo di Enel Distribuzione). Con tale motivo le ricorrenti sostengono, in dissenso con la tesi accolta dalla Corte d’appello, che i beni gravati da uso civico sono suscettibili di espropriazione per pubblica utilità.
- Il Commissario ha superato la questione, sia per considerazioni generali, fondate sulla condizione giuridica dei beni di uso civico appartenenti alla collettività, che non sarebbero espropriabili e non previa “sdemanializzazione”, sia per considerazioni particolari, relative alla fattispecie concreta, fra le quali l’inopponibilità dei decreti prefettizi ai cittadini di Alfedena, in quanto diretti nei confronti di meri occupatori delle aree demaniali. La Corte d’appello ha condiviso tali conclusioni.
Le ricorrenti, con gli identici motivi di ricorso, seppure identifichino quale oggetto della censura l’intera affermazione della Corte d’appello sulla “condivisione” delle ragioni del primo giudice, si diffondono poi solo sulla questione di principio e la stessa cosa fa il controricorrente, il quale si limita a rilevare che il decreto «non venne mai notificato al Comune e nulla allo stesso venne corrisposto».
Se ne deduce che l’affermazione del primo giudice, sul difetto di notifica del decreto di esproprio al Comune, è stata intesa dalle parti quale puro passaggio argomentativo, privo di incidenza sulla decisione, il che sembra atteggiamento difensivo coerente con il principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui la supposta anomalia rilevata dal Commissario non incide sulla validità ed efficacia del decreto di esproprio (Cass., S.U., n. 311/1999; n. 18289/2014).
- In relazione alla questione posta con i motivi in esame, il Comune ha replicato che essa attiene a una superfice modesta della estensione totale occupata dal bacino idroelettrico oggetto del decreto di esproprio del Prefetto del 10 settembre 1960. La replica, condivisa anche dalla ricorrente, introduce tuttavia un’obiezione che non elide l’attualità e la rilevanza della stessa questione e la necessarietà del suo esame ai fini della decisione del motivo.
- Il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità — art. 4 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 — dispose che «i beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione» e che «i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici possono essere espropriati per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione».
Con le modifiche apportate dalla l. 28 dicembre 2015, n. 221, fu inserito il comma 1-bis, che recita: «I beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico».
Allo stato, quindi, i beni di demanio pubblico e i beni di uso civico possono essere espropriati solo previa sdemanializzazione, che avviene attraverso il procedimento di cui alla l. 16 giugno 1927, n. 1766.
In precedenza, si perveniva alla stessa conclusione argomentando in base all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 (infra).
- Il tema della espropriazione per pubblica utilità e terreni di uso civico è stato oggetto di Corte Cost. 71 del 2020, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 53 l. reg. Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, che prevede che i diritti di uso civico sono da ritenersi cessati, ai sensi dell’art. 24, comma 1, l. reg. Calabria 1° agosto 2007, n. 18 (Norme in materia di usi civici), quando insistano sulle aree di sviluppo industriale, disciplinate dall’art. 20 l. reg. Calabria 24 dicembre 2001, n. 38 (Nuovo regime giuridico dei Consorzi per le Aree, i Nuclei e le Zone di Sviluppo Industriale).
La Corte costituzionale, ai fini della decisione, ha ritenuto in via preliminare «opportuna una ricognizione dello stato della legislazione e della giurisprudenza in materia» articolata su alcuni nodi, e cioè: a) rapporto tra tutela paesistico-ambientale e garanzie di natura civilistica a favore delle collettività titolari di beni civici; b) regime e limiti della sclassificazione e dei mutamenti di destinazione dei suddetti assetti fondiari collettivi; c) rapporti tra soggetti titolari della pianificazione paesistico-ambientale e soggetti titolari di quella urbanistica; d) caratteri delle tutele in questione in relazione alla natura mutevole e dinamica dei canoni di gestione del territorio.
La parte di pronuncia che interessa è quella in cui la Corte costituzionale riconosce che «[…] la cessazione dell’uso civico – che la norma denunciata ricollega alla sola insistenza del bene sull’area ricompresa nel piano in questione – appare avere priorità logicogiuridica rispetto a un eventuale decreto d’esproprio. Quest’ultimo, infatti, secondo la consolidata giurisprudenza del giudice della nomofilachia sarebbe nullo perché in contrasto con la natura demaniale del bene (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 30 giugno 1999, n. 375)».
- Il richiamo giurisprudenziale che, secondo Corte cost. n. 71 del 2020 in esame, dovrebbe fondare la «consolidata giurisprudenza» non è del tutto convincente.
Con la decisione di Cass. S.U., n. 375 del 1999, la Suprema corte si limitò a pronunziare sulla giurisdizione del Commissariato per gli usi civici in base all’argomento che «la declaratoria di nullità del decreto di esproprio, perché in contrasto con la natura demaniale del bene, è, infatti, un provvedimento meramente accessorio e conseguenziale alla declaratoria di esistenza degli usi civici e, pertanto, è anch’esso rimesso alla giurisdizione commissariale».
In realtà, una compiuta esposizione della tesi secondo cui i beni gravati da uso civico non sono espropriabili per pubblica utilità se non “previa sdemanializzazione” si ritrova in Cass. n. 1671 del 1971, che è opportuno trascrivere interamente: «Alla stregua della legislazione vigente in materia (principalmente legge 16 giugno 1927, n. 1766) gli usi civici possono raggrupparsi in due categorie generali: quelli che si esercitano su beni appartenenti a privati e quelli che si esercitano su beni appartenenti alla collettività degli utenti (demani comunali, terre comuni ecc.). Gli usi civici appartenenti alla prima categoria sono destinati, dalla detta legislazione, alla liquidazione, vale a dire alla soppressione mediante apporzionamento dei terreni stessi ed assegnazione di una porzione al Comune, quale ente esponenziale della collettività titolare dell’uso civico (a titolo di “compenso per la liquidazione”) (art. 5 legge n. 1766/1927). Ad essi si si riferisce la prescritta denuncia (art. 3 della legge); in relazione ad essi è previsto lo speciale procedimento di liquidazione; rispetto ad essi ha senso sostenere che, qualora i beni che ne sono oggetto siano espropriati per causa di pubblica utilità prima della liquidazione, il diritto d’uso civico si trasferisce sull’indennità di espropriazione (legge n. 230 del 1950, art. 9; Corte Cost. n. 78/1961). Gli usi civici del secondo tipo sono indicati dalla legge (art. 1) come quelli che sono esercitati su “terre possedute da comuni, frazioni di Comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie”, e cioè si configurano come diritti di una collettività (secondo l’opinione prevalente il Comune stesso è qui considerato quale ente esponenziale della collettività degli utenti) su beni propri. A tali beni originariamente appartenenti alla collettività (o ad essa pervenuta per effetto della liquidazione) si riferiscono le disposizioni concernenti l’accertamento delle arbitrarie occupazioni (od illegittimi possessi) da parte di privato al fine alternativo della legittimazione a favore dell’occupatore o della reintegra per la destinazione dei terreni al soddisfacimento di pubbliche finalità nei modi previsti dalla legge: vale a dire, a seconda del tipo di sfruttamento cui sono obiettivamente idonei i terreni stessi, alla ripartizione ovvero alla persistente assoggettamento agli usi civici. Ed in vista di tale destinazione i beni in parola sono sottoposti ad un regime di indisponibilità analogo a quello dei beni demaniali (Cass. n. 3690/1953). L’inalienabilità permane per i beni ripartiti ed assegnati in enfiteusi, fino all’eventuale affrancazione e per i beni conservati all’uso civico fino all’eventuale provvedimento del Ministero dell’agricoltura e foreste che ne autorizza l’alienazione (o la sottrazione, peraltro non definitiva, alla loro attuale destinazione), provvedimento nel quale (e nel quale soltanto) può ravvisarsi un atto di “sdemanializzazione” (art. 12 della legge, artt. 39 e 41 del regolamento di attuazione approvato con r.d. 25 febbraio 1928, n. 332). Egualmente i beni stessi non sono neppure espropriabili per causa di pubblica utilità (Cass. n. 68/1961) se non previa “sdemanializzazione” (Conf. Cass., S.U, n. 2073/1969)».
- A tale orientamento sembra doversi contrapporre Cass., 26 aprile 2007, n. 9986, intervenuta in una fattispecie nella quale la Corte d’appello aveva dichiarato estinti i diritti di uso civico sui terreni oggetto della controversia a seguito di espropriazione e realizzazione di opera pubblica. La Corte d’appello, nella sentenza in quella sede impugnata, riconobbe essere «principio generale che i decreti di espropriazione determinino l’estinzione dei diritti di uso civico eventualmente gravanti sui beni espropriati ex l. n. 2359 del 1865, art. 52, comma 2. Tale norma è da ritenere applicabile anche ai diritti di uso civico, come statuito dalla Corte costituzionale (sent. 19 maggio 1995, n. 156) sulla base di vari riferimenti sparsi nella legislazione ordinaria, come ad esempio […] Diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, i terreni di uso civico — che, al contrario di quanto ritenuto dal Commissario (…), non sono assolutamente inalienabili, ma solo soggetti a regime di alienabilità controllata — sono comunque suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità (Corte cost., 11 luglio 1989, n. 391)»
La Corte di cassazione, con la decisione n. 9986 del 2007 in esame, ha condiviso tale impostazione, sulla base dei seguenti rilievi: «Anche volendo aderire alla tesi (prospettata dal ricorrente n.d.r.) secondo la quale la L. n. 2359 del 1865, art. 52 si riferirebbe soltanto agli usi civici gravanti su proprietà private e non anche alle c.d. proprietà collettive, correttamente la sentenza impugnata, in mancanza di una norma espressa la quale equipari tali proprietà collettive ai beni demaniali, sulla base di una interpretazione sistematica di singole disposizioni ha desunto il principio (la cui esistenza è stata confermata anche dalla Corte costituzionale che, con la sentenza 391/89 ha testualmente affermato che “diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, al regime di inalienabilità dei beni di uso civico . . . non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità”) della soggezione ad espropriazione per pubblica utilità».
- In effetti, come sostenuto in Cass. n. 9986 del 2007 in esame, Corte Cost., 11 luglio 1989, n. 391, sembra propendere per l’espropriabilità dei terreni di uso civico — in re propria come in re aliena — là dove afferma che «al regime di inalienabilità dei beni di uso civico (che, più esattamente, dovrebbe definirsi di alienabilità controllata) non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità, né può essere citata in contrario la sent. n. 67 del 1957 di questa Corte».
La medesima propensione sembra trasparire da Corte cost. n. 156 del 1995, con la quale si ammette la sdemanializzazione del bene civico per effetto del solo decreto di esproprio, senza necessità né della preventiva assegnazione a categoria dei beni né della autorizzazione regionale, requisiti che sarebbero richiesti dalla l. quadro solo ai fini della procedura di sdemanializzazione per atto volontario della Pubblica Amministrazione.
- A sostegno della tesi secondo cui i beni gravati da uso civico non sono suscettibili di espropriazione forzata è sovente menzionata anche Cass. n. 19792 del 2011, la quale è tuttavia riferita all’espropriazione forzata.
Secondo tale pronuncia l’incommerciabilità che caratterizza i beni gravati da uso civico «comporta come inevitabile conseguenza che, al di fuori dei più o meno rigorosi procedimenti di liquidazione dell’uso civico e prima del loro formale completamento, la preminenza di quel pubblico interesse che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso ne vieti qualunque circolazione, compresa quella derivante dal processo esecutivo, quest’ultimo essendo posto a tutela (se non altro prevalente) dell’interesse del singolo creditore e dovendo quest’ultimo recedere dinanzi al carattere superindividuale e lato sensu pubblicistico dell’interesse legittimante l’imposizione dell’uso civico; e tale divieto comporta la non assoggettabilità del bene gravato da uso civico ad alcuno degli atti del processo esecutivo, a partire dal pignoramento, che ne è quello iniziale». Pertanto, nessuna indicazione risolutiva è ricavabile da tale pronuncia.
- Neanche risulta decisiva ai fini della soluzione della lite Cass., S.U., n. 7021 del 2016. Questa ha riconosciuto che «i beni oggetto di proprietà regoliera – ovvero, facenti parte del patrimonio agrosilvo-pastorale collettivo, inalienabile, indivisibile ed inusucapibile, di gruppi familiari stanziati in territori montani del Veneto – possono essere assoggettati ad espropriazione per pubblica utilità anche a prescindere dall’autorizzazione o dal consenso della Regola stessa, della quale, peraltro, è necessario il preventivo parere, di modo che l’amministrazione espropriante possa procedere ad una valutazione comparativa dell’interesse pubblico alla cui realizzazione è preordinato il provvedimento ablatorio e di quello, costituzionalmente rilevante ai sensi degli artt. 9 e 44 Cost., al mantenimento dell’originaria destinazione dei beni regolieri, quale mezzo di salvaguardia dell’ambiente». I beni considerati nella pronuncia, infatti, come chiarito espressamente in motivazione, sono beni di proprietà privata.
- Si deve infine menzionare Cass. n. 17595 del 2020, così massimata: «Non sussiste alcun rapporto di specialità – e, dunque, di prevalenza – tra la disciplina dettata dal r.d. n. 1775 del 1933 (recante Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) e quella sul riordino degli usi civici “ex lege” n. 1766 del 1927, non rilevando che l’una sia successiva all’altra, giacché si tratta di normative con finalità diverse e non contrastanti tra loro, né essendo presenti nel r.d. n. 1775 cit. previsioni – quale, ad esempio, l’art. 12, comma 2, della l. n. 97 del 1994 in tema di cessazione degli usi civici gravanti sui beni oggetto di espropriazione per pubblica utilità – che consentano una diversa interpretazione».
Secondo tale pronuncia «la comparazione tra i contrapposti interessi oggetto di tutela, al fine di stabilire la prevalenza degli uni rispetto agli altri, è compito del legislatore e nel R.D. n. 1775 del 1933 non vi è alcuna norma che possa essere interpretata nel senso indicato dalla ricorrente. Laddove, invece, il legislatore ha voluto affermare l’estinzione dei diritti di uso civico lo ha fatto espressamente basti pensare, a solo titolo esemplificativo e con riferimento all’espropriazione per pubblica utilità, alla L. 31 gennaio 1994, n. 97, art. 12, comma 2, che ha previsto che “nei comuni montani i decreti di espropriazione per opere pubbliche o di pubblica utilità, per i quali i soggetti espropriati abbiano ottenuto, ove necessario, l’autorizzazione di cui alla L. 29 giugno 1939, n. 1497, art. 7, e quella del Ministero dell’ambiente, determinano la cessazione degli usi civici eventualmente gravanti sui beni oggetto di espropriazione”».
- In conclusione il principio, fatto proprio dalla sentenza impugnata, secondo il quale, anche prima del 2015, i terreni di uso civico in re propria non potrebbero essere espropriati per pubblica utilità se non siano stati preventivamente ‘sdemanializzati’ nei modi previsti dalla legge, è stato posto in dubbio da Cass. 9987 del 2007, la quale ha riconosciuto che tali terreni sono suscettibili di espropriazione per pubblica utilità, e tanto ha fatto sulla base degli stessi argomenti spesi dalle ricorrenti in questa sede. La giurisprudenza precedente si era espressa a favore dell’espropriabilità dei soli terreni di uso civico in re aliena.
Bisogna poi considerare i precedenti della Corte costituzionale, che, apparentemente, propendono per la soluzione fatta propria da Cass. n. 9987 del 2007. A sua volta, la soluzione del conflitto non sembra poter prescindere dalla scelta fatta dal legislatore 2015, nel senso della non espropriabilità dei beni gravati da uso civico.
Occorre chiedersi, allora, se e in che misura tale scelta sia da considerare nella valutazione della legittimità di interventi ablatori assunti in precedenza e, per quanto riguarda il caso in esame, precedenti anche alla l. 8 agosto 1985, n. 431, che ha incluso le terre di uso tra i beni a rilevanza ambientale.
Per completezza di esame, si ricorda che «attualmente la materia degli assetti fondiari collettivi trova la sua regolamentazione nella l. n. 168 del 2017, la quale ha introdotto nell’ordinamento la nuova figura dei «dei domini collettivi», senza eliminare la tradizionale categoria degli «usi civici», né abrogare la fonte normativa (la l. 16 giugno 1927 n. 1766 […] (Corte cost. n. 228 del 2021, secondo la quale «Nel contesto del riformato Titolo V della Parte II della Costituzione, coniugato alla progressiva evoluzione degli assetti fondiari collettivi, la disciplina di questi ultimi appartiene ormai interamente alla materia “ordinamento civile” ed è tutta ricompresa nell’area della potestà legislativa esclusiva dello Stato».
In considerazione della evidenziata incertezza della giurisprudenza e della particolare importanza delle questioni di diritto sottoposte, il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente di questa Corte, ai sensi dell’art. 374, comma secondo, c.p.c., ai fini dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.