Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 09 giugno 2021 n. 16080
PRINCIPIO DI DIRITTO
La cessione di cubatura, con la quale il proprietario di un fondo distacca in tutto o in parte la facoltà inerente al suo diritto dominicale di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano regolatore e, formandone un diritto a sé stante, lo trasferisce a titolo oneroso al proprietario di altro fondo urbanisticamente omogeneo, è atto: – immediatamente traslativo di un diritto edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale; – non richiedente la forma scritta ad substantiam ex art.1350 cod.civ.; – trascrivibile ex art.2643, n. 2 bis cod.civ.; – assoggettabile ad imposta proporzionale di registro come atto ‘diverso’ avente ad oggetto prestazione a contenuto patrimoniale ex art.9 Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R.131/86 nonché, in caso di trascrizione e voltura, ad imposta ipotecaria e catastale in misura fissa ex artt.4 Tariffa allegata al d.lvo 347/90 e 10, co. 2″, del medesimo d.lvo.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
5.1 Due quesiti si pongono prima di affrontare il fondo della questione.
Il primo deriva dalla complessità strutturale della fattispecie, insita nella interdipendenza di plurimi piani giuridici, a seconda che la natura e gli effetti della cessione di cubatura rilevino per l’ordinamento civilistico, per quello amministrativo-urbanistico, ovvero ancora (come nella specie) per quello tributario.
La compresenza di vari livelli di interferenza rende legittimo il dubbio se la soluzione al problema debba per forza essere unitaria (nel senso di valevole per ogni ramo interessato dell’ordinamento), o se invece possa o debba essere articolata e molteplice in ragione di quella diversa rilevanza.
Si tratta di un interrogativo che, per quanto concerne la materia impositiva, tocca da vicino il tanto dibattuto terna della autonomia del diritto tributario rispetto agli altri rami dell’ordinamento con i quali esso deve raccordarsi (specialmente proprio rispetto al diritto civile ed a quello amministrativo) ma che a ben vedere si ripropone, anche se in termini differenti, anche all’interno dello stesso ordinamento tributario, a seconda che gli effetti propri dell’atto di cessione di cubatura vengano ad esempio considerati – seppure nella unificante prospettiva della capacità contributiva di cui all’art.53 Cost. – ai fini dell’imposta di registro ed ipocatastale, dell’imposta di successione e donazione, delle imposte di natura patrimoniale quali l’Ici o l’Imu, delle imposte sul reddito (art.9, co. 5^ e 67, co. 1^, lett.b) d.P.R. 917/86).
Del problema vi è traccia anche nel non lineare iter giurisprudenziale di legittimità, nel quale si riscontrano affermazioni di sostanziale irrilevanza della qualificazione civilistica dell’atto una volta che se ne ravvisino i presupposti analogici autosufficienti di imponibilità (questo, per la verità, da parte della giurisprudenza più risalente ed in un contesto normativo diverso dal TUR: Cass.nn.2235/72, 641/73, 802/73, 1231/74, 250/75, 3416/75, 2017/75, 6807/88 cit.), oppure che sembrano fondare il cambio di indirizzo dall’impostazione della ‘realità’ a quella della ‘obbligatorietà’ (così qui drasticamente rievocato, ai soli fini in discorso, un panorama interpretativo pluridecennale in realtà assai più ricco e sfumato) proprio sulle peculiari e non estendibili esigenze di ‘realità’ proprie della sola materia fiscale.
In Cass.n. 1352/96 si legge che: “è vero che nella stessa decisione (Cass.n. 6807/88) si è anche affermato che la cessione di volumetria produce effetti simili a quelli dei trasferimenti dai diritti reali immobiliari, tuttavia, come giustamente si è osservato in dottrina, tale precisazione si spiega con la peculiarità della fattispecie concreta, nell’ambito della quale doveva giustificarsi l’applicazione dell’imposta proporzionale di registro al contratto oggetto della controversia tributaria”.
Questa affermazione riscontra una situazione del tutto oggettiva ed inconfutabile, costituita dal fatto che la tesi della realità si è storicamente radicata, nella evoluzione interpretativa di legittimità, con specifico riguardo a fattispecie tributarie, soprattutto di imposta di registro; e ciò, in molti casi ancora in applicazione della disciplina antecedente a quella poi introdotta dal d.P.R.131/86, e segnata da più ampi margini di imposizione secondo criteri di ‘maggiore analogia’ con istituti civilistici diversi.
E tuttavia, non si ritiene che da essa possano trarsi argomenti a sostegno di una soluzione diversificata al problema, dal momento che l’individuazione della natura giuridica dell’atto si pone necessariamente a monte, non a valle, dell’imposizione di registro, che questa natura giuridica non deve in alcun modo giustificare, restando ad essa soltanto di conformarvisi.
Va del resto considerato che – come di recente ribadito anche dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 158/20 e 39/21 – l’imposta di registro si presenta tutt’oggi come una tipica ‘imposta d’atto’, in quanto applicata all’atto presentato alla registrazione (arti d.P.R.131/86), intendendosi per tale un ben determinato negozio giuridico o un altro atto regolatore di un assetto di interessi che denoti forza economica e capacità patrimoniale.
E’ dunque imprescindibile che l’applicazione dell’imposta implichi la previa esatta individuazione dell’atto da registrare e che questa individuazione, quando relativa all’attività negoziale delle parti contribuenti, muova a sua volta dalle categorie discretive proprie del diritto civile (a cominciare dall’elemento causale).
Il che deve avvenire, come stabilito dall’art.20 d.P.R.131/86, nella valutazione sostanziale della ‘intrinseca natura’ e degli ‘effetti giuridici’ dell’atto presentato.
Di ciò si ha conferma operativa anche nell’impianto prettamente tariffario dell’imposta di registro il quale – nella tassazione proporzionale in termine fisso degli atti negoziali – determina l’aliquota dovuta in relazione all’oggetto ed agli effetti dell’atto stesso, con ciò di nuovo sollecitando la qualificazione giuridica dell’atto negoziale, tipico o atipico, secondo gli istituti e gli schemi propri del diritto civile.
Di questo si ha evidenza proprio nella fattispecie qui in esame che si pone nell’alternativa tra l’aliquota del 9 % prevista per gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili e per gli atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento (art.1 Parte Prima Tariffa all. al d.P.R.131/86), e l’aliquota del 3 % invece residualmente applicabile agli atti diversi aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (art.9).
Va in definitiva escluso che possa pervenirsi ad una soluzione diversificata e fiscalmente orientata del problema della natura giuridica dell’atto di cessione di cubatura.
5.2 II secondo quesito è se la presente questione non debba ritenersi in certo senso ‘già risolta’ (eventualità prospettata sia nella memoria dei R. sia nelle conclusioni del Procuratore Generale) dalla su menzionata sentenza di queste Sezioni Unite (n. 23902/20, sopravvenuta all’ordinanza di rimessione) in materia di diritti edificatori compensativi e di loro circolazione.
In tal caso il dubbio è reso legittimo dal fatto che la cessione di cubatura, pur mantenendosi certamente al di fuori del perimetro dei diritti edificatori direttamente generati dalla PA nell’ambito della c.d. urbanistica consensuale, dà comunque anch’essa luogo ad una forma di distacco e separata negoziazione dello jus aedificandi rispetto alla proprietà del suolo; per giunta, costituisce un dato pacifico di causa che la cubatura oggetto dell’atto di cessione dedotto nel presente giudizio origini in effetti anch’essa da una compensazione urbanistica convenzionalmente intercorsa tra i contribuenti e l’amministrazione comunale di Latina.
Partendo da quest’ultimo aspetto, nitida è però la differenza tra la presente fattispecie e quella decisa con la richiamata sentenza.
Nel caso qui in esame, come si è già notato (v.§.1.1), l’origine compensativa dell’indice di fabbricabilità costituisce un mero antefatto o, se si vuole, un semplice presupposto della cessione di cubatura, rimanendo in quanto tale esterna a quest’ultima.
I R. hanno ceduto la cubatura quando si era ormai esaurita, con l’indíviduazione e l’assegnazione finale da parte del Comune dell’area di destínazione e sfruttamento, la procedura di compensazione urbanistica scaturita dalla pregressa cessione gratuita al Comune stesso di determinate aree già di loro proprietà e ricadenti nel PPE del quartiere E/1 Piccarello in Latina.
Una volta perfezionatasi questa procedura di natura pubblicistica, il diritto edificatorio attribuito a titolo di compensazione è dunque entrato definitivannente a far parte del loro patrimonio e, in quanto componente patrimoniale ormai acquisito e definito in tutti i suoi elementi costitutivi, esso è stato fatto oggetto del trasferimento a favore della Iatros srl.
Altrimenti detto, la cessione di cubatura qui dedotta non manifesta la volatilità caratteristica ed estrema del diritto edificatorio compensativo ancora in fase di assegnazione (oggetto specifico della sentenza n. 23902/20), essendo stata posta in essere dopo il completamento dell’ultimo segmento della fattispecie compensativa (potremmo anche dire, ad ‘atterraggio’ ormai avvenuto), il che rende in pratica ininfluente la provenienza convenzionale della volumetria ceduta.
In ordine all’altro aspetto, della prospettata incidenza in questa sede di quanto affermato nella sentenza in parola, non è in discussione che il problema della natura giuridica della cessione di cubatura debba effettivamente trovare una soluzione – nell’ambito della materia dei diritti edificatori globalmente considerati nella quale essa pur sempre si inscrive – in linea di continuità e coerenza con quella decisione, e tuttavia ciò è cosa ben diversa dall’affermare che esso trovi piana e scontata soluzione in quanto in quella sede già deciso.
Si è appena evidenziata l’oggettiva diversità delle due fattispecie considerate e non sembra inutile ricordare che già nella sentenza in esame – relativa non all’imposta di registro (ma al presupposto della edificabilità dell’area ai fini Ici – si ebbe occasione di osservare, quanto a peculiarità distintive della figura negoziale, che nella cessione di cubatura faceva difetto qualsiasi finalità perequativo-compensativo-indennitaria, e che in essa: “il trasferimento (totale o parziale) della capacità edificatoria del fondo avviene – tra privati – a favore di un’area fin dall’inizio ben determinata, se non necessariamente contigua quantomeno prossima, e di destinazione urbanistica omogenea.
Non vi è incidenza sulla pianificazione generale, attesa l’invarianza della cubatura complessiva, l’omogeneità delle aree coinvolte e l’estraneità alla cessione in sé della PA (per questo la si ritrova talvolta definita come intervento di ‘micropianificazione urbanistica ad iniziativa privata’), alla quale sarà tuttavia demandato di assentire il rilascio, a favore del cessionario, del permesso di costruire maggiorato della quota di cubatura trasferita”.
Anche a questo secondo quesito va dunque data risposta negativa.
- Consistente e diacronico, come si è osservato, è l’indirizzo giurisprudenziale che colloca la cessione di cubaturatra gli atti costitutivi o traslativi di un diritto reale.
Esso si fonda sulla valorizzazione – nell’ambito di una fattispecie che, pur correlandosi al rilascio del titolo edilizio da parte della pubblica amministrazione, si assume a forte connotazione privatistica – del carattere prettamente dominicale ascrivibile allo sfruttamento edilizio del suolo e, per questa via, alla considerazione della edificabilità in termini di utilità intrinseca ed inerente a quest’ultimo (qualitas fundi).
Si tratta di impostazione – avallata da parte della dottrina e sostenuta anche a livello di prassi notarile – storicamente radicatasi con riguardo alla previsione di diritti di rilocalizzazione privata della volumetria da parte di taluni piani regolatori generali di grandi città e, in particolare, al problema della riconoscibilità ad essi delle agevolazioni previste per i trasferimenti immobiliari dalla legge 408 del 1949 (I.Tupini).
L’amministrazione finanziaria ha più volte richiamato e fatto proprio questo orientamento ricostruttivo, rimarcando a sua volta l’inerenza alla proprietà del suolo della cessione di cubatura (ritenuta comportare un effetto in tutto analogo a quello conseguente alla disposizione di un diritto reale), ponendolo a fondamento della maggior imposizione sia di registro sia di plusvalenza reddituale (Ris. n. 250948 del 17 agosto 1976; Circ AE 233/E del 20 agosto 2009).
Va però detto – e già questo induce qualche prima perplessità sulla complessiva tenuta della tesi – che all’interno dell’indirizzo di realità non si sono poi date risposte sempre univoche sul ‘tipo’ di diritto reale che verrebbe a costituirsi o a trasferirsi con l’atto di cessione di cubatura.
Analoga frammentarietà di vedute si ha anche nella dottrina che sostiene questo indirizzo, non essendo in essa neppure mancate ricostruzioni dommatiche che individuano nell’istituto – a superamento del regime di numero chiuso – un diritto reale senz’altro atipico, o anche un diritto reale tipico (almeno in parte regolato dalla disciplina urbanistica), ma ‘nuovo’ rispetto a quelli disciplinati dal codice civile.
Insoddisfacente, in particolare, risulta il richiamo al diritto di superficie, dal momento che nella cessione di cubatura non entrano in gioco gli effetti propri di quest’ultima, la quale presuppone, ex art.952 cod.civ., l’alterità tra proprietà del suolo e proprietà della costruzione; mentre è invece connaturato all’istituto che il cessionario della cubatura eserciti il diritto di costruire (seppure incrementato di una quota parte di volumetria originatasi altrove) sul fondo proprio.
Pur volendo in ipotesi aderire ad un’ottica di atipicità, non sembra che l’ordinamento consenta di basare l’assimilazione alla disciplina del diritto di superficie sulla forzata equiparazione (inevitabile nell’impostazione in esame) tra il diritto di costruire su terreno altrui (il che è connaturato alla superficie) ed il diritto del cessionario di costruire sul terreno proprio anche se (almeno in parte) in virtù di cubatura generata da terreno altrui.
A maggior ragione considerando che, una volta perfezionatasi la cessione di volumetria in capo al cessionario, neppure avrebbe più senso dare risalto all’altruità d’origine della cubatura trasferita.
Certamente più vicino alla realtà della fattispecie, nell’ambito dei diritti reali di godimento, è il richiamo allo schema della servitù prediale e, in particolare, alle figure della servitù non aedificandi (in caso di cessione totale della cubatura assentita) ovvero altius non tollendi (in caso di cessione parziale). Anche in questo caso si è in presenza di una concezione fortemente privatistica dell’istituto, la quale pone l’assenso della pubblica amministrazione all’esterno della fattispecie costitutiva, rispetto alla quale esso fungerebbe da mera condizione di efficacia nelle forme della condicio juris (qualora prevista dal piano regolatore generale o dall’altra disciplina urbanistica), ovvero della condicio facti (se prevista come tale dalle parti nel contratto); neppure mancano, in dottrina, richiami all’assenso della PA quale, non già elemento accidentale del contratto, ma oggetto di presupposizione con incidenza causale sulla volontà negoziale.
Va anche considerato che sul piano teorico la servitù consente, rispetto ad altri diritti reali, più ampi spazi ricostruttivi in ragione del peculiare atteggiarsi in essa del carattere di tipicità. Ciò nel senso che se la servitù è certamente autodeterminata e tipica nella individuazione legale dei suoi elementi costitutivi e portanti (in primo luogo nella essenzialità della relazione di asservimento di un fondo a vantaggio di un fondo contiguo), la determinazione del contenuto pratico di questa relazione e delle sue concrete modalità di svolgimento e manifestazione è poi ampiamente demandata (nelle servitù volontarie) all’autonomia delle parti ed alla finalizzazione e qualificazione della servitù a seconda delle più eterogenee esigenze di asservimento-utilità (agricole, industriali, edilizie ecc…) assegnate dalle parti stesse ai fondi.
Ed infatti l’adozione, in materia, dello schema della servitù, ovvero – come anche si legge – dell’ asservimento del terreno per scopi edificatori’, scaturisce dall’assunto, più volte ribadito in giurisprudenza, secondo cui: “le pattuizioni con le quali vengono imposte, a carico di un fondo ed a favore del fondo confinante, limitazioni di edificabilità restringono permanentemente i poteri connessi al proprietario dell’area gravata e mirano ad assicurare, correlativamente, particolari utilità a vantaggio del proprietario dell’area contigua. Pattuizioni siffatte si atteggiano, rispetto ai terreni che ne sono colpiti, a permanente minorazione della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario ed attribuiscono ai terreni contigui un corrispondente vantaggio che inerisce ai terreni stessi come qualitas fundi, cioè con carattere di realità cosi da inquadrarsi nello schema delle servitù” (Cass.nn.2743/73,1317/80, 4624/84, 4770/96, 3937/01, 14580/12).
E tuttavia, quando si tratti di raccordare la servitù con la peculiarità del ‘diritto edificatorio’ in quanto tale, e con le connessioni pubblicistiche che per ciò soltanto ne derivano, anche questa – pur accreditata – tesi qualificatoria mostra vari ed insuperabili profili di inadeguatezza.
Un primo aspetto concerne l’incidenza esplicata dal ruolo della PA nel rilascio del permesso di costruire maggiorato; incidenza che comporta, se non il formale innesto dell’accordo negoziale tra i privati nell’ambito del procedimento amministrativo di rilascio del titolo edilizio, quantomeno la dipendenza degli effetti pratici dell’atto di cessione di cubatura da un elemento estraneo, ma tutt’altro che secondario ed accidentale, all’atto costitutivo o traslativo in sé.
Ciò pone evidentemente in crisi, nella dialettica ‘pubblico-privato’, i requisiti di immediatezza e di assolutezza che contraddistinguono i diritti reali e, tra questi, la servitù.
Un secondo e correlato aspetto attiene al fatto che alla cessione di cubatura si associa normalmente l’assunzione da parte del cedente di un obbligo specifico, rappresentato dalla prestazione di consenso al rilascio, da parte dell’amministrazione comunale, del permesso di costruire per cubatura maggiorata. Sennonchè, questo contenuto di ‘fare’ si pone di per sé in conflitto con la natura della servitù la quale, nel caso di specie, verrebbe in pratica a connotarsi per il cumulo sia di una componente negativa o passiva in essa strutturale (di ‘non facere’ relativamente alla inedificabilità del fondo servente, e di ‘patii relativamente all’accettazione della edificazione in esubero sul fondo dominante), sia di una componente positiva del tutto incompatibile (di attivazione personale in sede amministrativa).
Non varrebbe obiettare che il brocardo ‘servitus in faciendo consistere nequit’ non trova nell’ordinamento attuazione assoluta e totalizzante, dal momento che l’articolo 1030 del codice civile, dopo aver affermato la regola generale secondo cui il proprietario del fondo servente non è tenuto a compiere alcun atto per rendere possibile l’esercizio della servitù da parte del titolare, fa però sempre salvo “che la legge o il titolo disponga altrimenti”, e qui la diversa disposizione sarebbe appunto data dal titolo (o addirittura dalla disciplina urbanistica).
Va infatti considerato che la prestazione di ‘fare’ da parte del proprietario del fondo servente non è incompatibile con la servitù solo a condizione che non comporti l’erogazione di una utilità diretta (nella specie, l’incremento di volumetria sul fondo di dominio) e che abbia natura meramente accessoria; e tale certo non può considerarsi un’attività essenziale al raggiungimento dello scopo pratico perseguito dalle parti qual è appunto la partecipazione del cedente al procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire.
Si è dunque lontani dall’imposizione di un ‘fare’ strumentale a rendere semplicemente più comoda od efficace la fruizione dell’utilità, venendo piuttosto in considerazione una prestazione positiva e centrale dal cui adempimento deriva l’esistenza stessa dell’utilità.
Un terzo elemento di criticità riguarda il requisito della vicinanza tra i fondi. Nel caso della cessione di cubatura non è detto che i fondi debbano essere confinanti, essendo invece essenziale che essi siano ricompresi all’interno della medesima zona urbanistica, così da partecipare della medesima destinazione e degli stessi standard edificatori (prossimità di zona). E’ proprio il collegamento di entrambi i fondi interessati con la stessa zona di intervento e pianificazione che rende legittimo e meritevole di tutela l’istituto (difatti sviluppatosi nella prassi proprio a seguito dell’introduzione delle tecniche di standardizzazione ex I. 765/67) facendo sì, per un verso, che l’alterazione privatistica della volumetria fruibile risulti sostanzialmente indifferente, visto il rispetto complessivo della densità edilizia programmata, per le scelte distributive e di governo del territorio; e che, per altro verso, sia evitato ogni fenomeno di migrazione delle cubature verso zone diverse del territorio cittadino, con conseguenti patologici effetti tanto di svuotamento quanto di affollamento del carico edilizio urbano.
E’ vero che il requisito della vicinanza tra i fondi va inteso in senso non strettamente fisico o topografico, ma dinamico e funzionale all’utilità; già Cass.n. 914/62 (innumerevoli volte ripresa) ebbe ad osservare che: “perchè possa configurarsi un diritto di servitù non è richiesto il requisito della contiguità tra i fondi, o della loro Vicinitas’, ma è sufficiente che, di fatto, il fondo dominante e quello servente si trovino in posizione tale tra loro per cui sia attuabile ed esercitabile, per l’utilità del primo, l’imposizione di un peso sul secondo”.
E tuttavia, il riferimento alla nozione di zona – salvo che non si voglia imboccare la strada, impervia perché priva di base legale, del diritto reale nuovo o atipico (nel senso della insuperabilità del principio del numero chiuso e di tipicità dei diritti reali, di recente, Cass. SSUU n.28972/20) – trascende questo concetto di vicinanza quand’anche recepito nella sua più estesa accezione di vicinanza o utilità urbanistica, ben potendo concepirsi che la cessione di cubatura coinvolga terreni non contigui, anche se appartenenti ad un’area morfologicamente comune e, in ipotesi, dipendenti dagli stessi strumenti regolatori e dalle stesse strutture di urbanizzazione.
Vi è ancora da chiedersi se la tesi della realità possa essere in certo senso recuperata individuando nella cessione di cubatura non un atto costitutivo o traslativo di una prerogativa proprietaria, ovvero di un diritto reale immobiliare, bensì un atto di rinuncia pura e semplice ad essi.
Evenienza, questa, che basterebbe ad integrare il presupposto dell’imposizione proporzionale di registro ex art.1 tariffa TUR, cit.. Neppure la soluzione della realità per abdicazione appare però praticabile.
La cessione della volumetria – di regola – avviene a favore di un soggetto ben individuato in quanto proprietario di un fondo avente i requisiti di accoglienza della maggiore edificabilità. Per quanto non inconcepibile in astratto, esula dal fenomeno qui in esame la rinuncia pura e semplice (dunque non traslativa) alla cubatura, intesa quale cessione ‘ad incertam personam’ ovvero quale restituzione al Comune dell’indice di fabbricabilità già assegnato. Si tratta di situazioni prive di riscontro pratico – anche in considerazione della rilevanza economica rivestita dall’operazione – nelle quali ogni altro proprietario di fondi ricompresi nella stessa zona urbanistica sarebbe in ipotesi legittimato a chiedere ed ottenere dal Comune l’assegnazione del surplus edificatorio rappresentato dalla cubatura relitta.
Se poi si volesse ravvisare anche nella stessa cessione corrispettiva di cubatura – oggetto precipuo della questione – una natura indirettamente abdicativa della facoltà di utilizzare ‘per sé’ la cubatura trasferita – con rinuncia da notificare al Comune in vista del rilascio del maggior titolo edilizio a favore del cessionario – la tesi apparirebbe finanche sostanzialmente inutile ai fini che interessano, trattandosi pur sempre di qualificare la natura (reale o meno) del diritto dismesso, il che riporterebbe alla tematica generale della qualificazione giuridica dell’atto (v. Cass.nn. 4245/81; 9081/98 cit.).
- L’opposto filone interpretativo, ancora recentemente ribadito,escludeche la cessione di cubatura consista in un atto traslativo, ed ancor meno costitutivo, di un diritto reale.
Si afferma in esso (Cass.n. 18291/20, con ulteriori richiami) che “la cosiddetta cessione di cubatura presuppone il perfezionamento di un accordo con il quale una parte (il proprietario cedente) si impegna a prestare il proprio consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario), compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe avuto altrimenti diritto (Cass. n. 20623 del 2009; Cass. n. 12631 del 2016)”.
Si aggiunge che il trasferimento della cubatura – nei confronti dei terzi, così come tra le parti – deriva però “esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia all’utilizzazione della volumetria manifestata al Comune dal cedente, aderendo al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato dall’ente pubblico a favore del cessionario (Cass. n. 1352 del 1996, in motiv.; Cass. n. 20623 del 2009 in motiv.)”; e che, pertanto, l’accordo tra le parti “ha un’efficacia meramente obbligatoria tra i suoi sottoscrittori e non è quindi, configurabile come un contratto traslativo (e, tanto meno, costitutivo) di un diritto reale opponibile ai terzi (Cass. n. 24948 del 2018)”.
Come osservato da Cass.n. 20623/09, cit., “nella cessione di cubatura si è in presenza di una fattispecie a formazione progressiva in cui confluiscono, sul piano dei presupposti, dichiarazioni private nel contesto di un procedimento di carattere amministrativo; a determinare il trasferimento di cubatura, tra le parti e nei confronti dei terzi, é esclusivamente il provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia del cedente, può essere emanato dall’ente pubblico a favore del cessionario, non essendo configurabile tra le parti un contratto traslativo”.
Dalla natura, non traslativa né costitutiva di un diritto reale bensì meramente obbligatoria e vincolata all’assenso della PA, vengono poi tratte varie importanti conseguenze, quali:
l’atto non richiede la forma scritta ad substantiam ex art.1350 cod.civ.;
l’interpretazione della reale volontà delle parti può anche desumersi, per facta concludentia, dal comportamento complessivo dei contraenti successivo alla stipulazione (come nell’ipotesi in cui la volontà di cedere la cubatura venga desunta dalla dichiarazione di adesione resa dal cedente direttamente alla PA);
il mancato rilascio del permesso di costruire nonostante la conforme attivazione del cedente presso la PA determina l’inefficacia del negozio, non la sua risoluzione per inadempimento.
Anche la giurisprudenza amministrativa – premessa la piena legittimità del titolo edilizio autorizzativo che venga rilasciato con riguardo ad una cessione di cubatura assistita dai già richiamati requisiti quali-quantitativi di omogeneità urbanistica – colloca l’atto in questione in un contesto di tipo meramente obbligatorio.
Essa si spinge anzi anche più in là, osservando come un atto negoziale vero e proprio (ad effetti obbligatori o reali) non sia in realtà neppure necessario al fine di ottenere il rilascio del permesso di costruire maggiorato, “essendo sufficiente l’adesione del cedente, che può esser manifestata o sottoscrivendo l’istanza e/o il progetto del cessionario, o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi o notificando al Comune tale sua volontà, mentre il c.d. vincolo di asservimento, rispettivamente a carico e a favore del fondo, si costituisce, sia per le parti che per i terzi, per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario sul suolo attiguo” (Cons.Stato 3636/00; v. anche, tra le molte, Cons. Stato nn. 15767/20; 4861/16; 530/91).
Va detto che neppure l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità qui in esame può dirsi del tutto indenne da critiche e perplessità.
Come osservato dalla dottrina, si tratta di un indirizzo che sposta eccessivamente il baricentro della fattispecie sul suo lato pubblicistico, attribuendo all’accordo tra i privati una funzione meramente preparatoria o preliminare in vista della realizzazione del nucleo sostanziale di interesse comune posto all’esterno della volontà negoziale, e costituito dal rilascio del permesso di costruire per cubatura aumentata. In quest’ottica si leggono quelle decisioni che – peraltro in linea con la richiamata giurisprudenza amministrativa – hanno marginalizzato l’accordo privatistico, ravvisandolo anche solo sul piano comportamentale dell’adesione del cedente alla pratica amministrativa introdotta dal cessionario (ad esempio mediante la nnera sottoscrizione da parte del primo del progetto edificatorio sottoposto dal secondo all’approvazione della PA).
Sotto questo profilo, la volontà delle parti rileva essenzialmente nel momento in cui essa, venendo comunicata all’amministrazione comunale, viene a costituire un elemento interno al procedimento amministrativo.
Il che sembra non dare compiutamente contezza di un atto di disposizione patrimoniale di estremo rilievo sul piano privatistico, nel suo risvolto sia giuridico (trattandosi pur sempre di comprimere ovvero incrementare la potestà edificatoria insita nel diritto di proprietà) sia economico (posto che non di rado il valore della cubatura assorbe ed esaurisce la massima parte del valore di mercato del suolo).
Soprattutto, l’affermazione secondo cui il trasferimento di cubatura non dipenderebbe dall’accordo tra le parti, ma solo ed esclusivamente dal rilascio del permesso di costruire da parte della PA, pare non tenere in debito conto il fatto che, nell’attuale ordinamento, il diritto di edificare è insito nella proprietà del suolo, essendo dato all’Amministrazione soltanto di regolarne l’esercizio conformemente ai piani ed agli strumenti urbanistici di governo territoriale, non già di discrezionalmente ‘costituirlo’ e neppure di ‘trasferirlo’ da un privato all’altro.
Emblematica, in tal senso, è l’evoluzione normativa, interpretativa e terminologica che ha segnato il passaggio dalla concessione edilizia di cui alla I. n.10/77 sulla edificabilità dei suoli al vigente regime autorizzatorio del permesso di costruire ex art.10 d.P.R. 380/11 (TUE).
Già nella sentenza SSUU n. 23902/20 cit. si osservava – intorno ai diritti edificatori scorporabili dal suolo di origine – come essi non neghino ma anzi presuppongano, consentendone variamente l’esercizio delocalizzato, che lo jus aedificandi costituisca una naturale estrinsecazione del diritto di proprietà del suolo, sebbene sottoposto alle condizioni conformative e di utilità sociale previste dalla legge e dagli strumenti urbanistici; il che trova conferma in quanto già affermato, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, dalla Corte Costituzionale con la fondamentale sentenza n. 5/1980, ed ancora in quanto recentemente ribadito da queste stesse Sezioni Unite con la sentenza n.7454/20.
- Stabilisce l’articolo 2643 del codice civile che devono rendersi pubblici col mezzo della trascrizione (n.2 bis): “i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano idiritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”.
La disposizione, introdotta dal decreto sviluppo 2011 (d.l. 70/11 convertito con modificazioni nella I. 106/11), rappresenta un primo ed embrionale momento di tipizzazione codicistica dei diritti edificatori, anche se segnata da evidenti limiti (già segnalati da Cass.SSUU 23902/20 cit.) nell’assenza:
– di una definizione contenutistica e di sostanza, avendo il legislatore scelto di fare richiamo generico ed onnicomprensivo ai diritti edificatori ‘comunque denominati’, senza neppure tentare di delinearne gli elementi caratteristici essenziali;
– di una disciplina fondamentale uniforme (se non per quanto concerne la trascrivibilità), essendosi per il resto preferito rinviare alle eterogenee regolamentazioni che, a diverso titolo, risultano applicabili ai diritti edificatori in applicazione di normative speciali di matrice, soprattutto, regionale e di pianificazione territoriale.
Ciò non toglie che dalla previsione in esame, dettata da esigenze di certezza ed opponibilità circolatorie, possano e debbano trarsi importanti contributi interpretativi circa la qualificazione giuridica della cessione di cubatura; appunto considerata – una volta riconosciuto in essa il tratto saliente costituito, al contempo, dal distacco del diritto di costruire dal fondo di generazione e dalla sua autonoma e separata negoziabilità – quale specie del genere ‘diritti edificatori’.
Un primo elemento ricostruttivo è dato dal definitivo allontanamento dell’istituto dall’ambito di realità nel quale secondo alcuni si collocava. In proposito, va rilevato non solo che l’elenco degli atti soggetti a trascrizione ex articolo 2643 non presuppone necessariamente il carattere ‘reale’ dell’atto, posto che la legge ammette la trascrizione anche di atti relativi a beni immobili che rivestono pacifica natura obbligatoria, come i contratti di locazione ultranovennale (art.2643 n.8) ovvero i contratti preliminari (art.2645 bis), ma anche che una specifica ed autonoma previsione di trascrivibilità dei ‘diritti edificatori’ in quanto tali non avrebbe avuto ragion d’essere, né logica né pratica, qualora questi ultimi, partecipando di natura reale, risultassero comunque già prima trascrivibili in base alla disciplina generale (per le servitù, in particolare, ai sensi del n.4).
Da questo punto di vista, l’introduzione nell’ordinamento del n.2 bis costituisce un pesante argomento sistematico a sostegno dell’indirizzo della non realità dell’atto di cessione di cubatura, là dove si rimproverava a quest’ultimo (per ragioni uguali e contrarie a quelle per le quali si dava invece credito all’indirizzo opposto) di inficiare, precludendone la pubblicità, proprio le esigenze di certezza ed opponibilità coessenziali ad uno strumento negoziale così rilevante e diffuso.
A ciò si aggiunge, non ultimo, che l’esplicito riconoscimento del ruolo di normazione assegnato in materia alla legislazione regionale, ed addirittura agli strumenti urbanistici distribuiti sul territorio, mal si concilia con l’esigenza che le restrizioni ‘reali’ al diritto di proprietà rinvenienti dall’ordinamento civile vengano dettate in maniera uniforme e centralizzata, ex articolo 117 lett. l) Cost., dal legislatore statale.
Un secondo elemento è dato dal fatto che quest’ultimo qualifica i diritti edificatori – appunto – come ‘diritti’. Si tratta di una presa di posizione che non è solo semantica e che se, per un verso, rimarca la derivazione proprietaria del diritto di costruire, si discosta, per altro, da tutte quelle – pur argomentate ed accreditate – impostazioni dottrinarie che individuano, nella figura in esame, ora una posizione giuridica soggettiva meno piena (perché di interesse legittimo pretensivo sul piano pubblicistico e di semplice chance o aspettativa edificatoria su quello negoziale), ora il prodotto ultimo di un processo di oggettivazione ex art.810 cod.civ., che renderebbe il ‘benecubatura’ più simile ad una cosa oggetto di diritti (salvo poi disputarne l’essenza immobiliare, mobiliare, virtuale, immateriale o di frutto del fondo) che ad un diritto in sè.
Così come ancora più distante appare la scelta del legislatore da quelle concezioni secondo cui la cubatura non sarebbe, in verità, né un diritto né una cosa, ma soltanto un numero-indice espressivo, nel rapporto tra metri quadrati e metri cubi, della misura della risorsa edificatoria disponibile in capo al proprietario sulla ‘colonna d’aria’ sovrastante il suo fondo.
Un terzo elemento è dato dalla collocazione dell’istituto all’interno del sistema di tutela dei diritti per mezzo della trascrizione, a sua volta intrinsecamente connesso alla vicenda traslativa, costitutiva o modificativa (n.2 bis: “i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori …”). E’ dunque chiara l’opzione legislativa secondo cui i diritti edificatori, non solo sono genericamente disponibili per contratto, ma tra le parti vengono costituiti, trasferiti e modificati direttamente per effetto di questo, e non di altro. Il che comporta la netta rivalutazione del sostrato privatistico della cessione di cubatura, ricollocando l’effetto traslativo suo proprio nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, non già del procedimento amministrativo.
Da qui l’estendibilità alla materia del principio consensualistico di cui all’articolo 1376 del codice civile, secondo il quale nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento di un diritto (anche diverso dalla proprietà di cosa determinata o da un diritto reale) questo si trasmette e si acquista per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato.
Resta naturalmente, una volta che alla cessione di cubatura consegua la presentazione da parte del cessionario di un progetto edificatorio su di essa basato, il ruolo autorizzativo e regolatorio del permesso di costruire, per il cui rilascio il cedente è tenuto ad operare secondo il dovere generale di solidarietà, cooperazione, correttezza e buona fede. Si tratta appunto di un elemento che concorre non al trasferimento in sé tra i privati della cubatura, quanto alla sua fruibilità in conformità alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, alle quali il cessionario dovrà ispirarsi mediante la presentazione di un progetto edificatorio assentibile perché ad esse rispondente.
In quanto elemento esterno di regolazione pubblicistica di un diritto di origine privatistica, il permesso di costruire – seppure per certi versi anomalo perché chiesto e rilasciato per una volumetria aumentata – continua ad operare su un piano non dissimile da quello ‘normale’ dei provvedimenti genericamente ampliativi della sfera giuridica del privato e, segnatamente, da quello che regola ordinariamente l’esercizio diretto dello jus aedificandi da parte del proprietario.
Va ancora osservato come tutte le implicazioni di non-realità che si sono qui individuate non comportino la negazione dell’inerenza al fondo del diritto sulla cubatura ceduta, quanto l’attribuzione ad essa di un’incidenza più identitaria e funzionale (di necessario collegamento con un determinato suolo tanto di origine quanto di destinazione) che coessenziale alla natura dell’istituto; ciò sul presupposto fondante del fenomeno stesso dei ‘diritti edificatori’, sempre insito – anche se con connotati di varia intensità – nel loro scorporo dal fondo di produzione e nella ritenuta meritevolezza della loro circolazione separata.
- Tornando all’imposta di registro – oggetto precipuo della questione rimessa alle Sezioni Unite – non può dunque fondatamente concludersi che nel caso di cessione di cubatura vi siano i presuppostiper l’applicazione dell’aliquota proporzionaleprevista dalla tariffa per gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà immobiliare ovvero traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari. Analogamente è a dire, per il caso di trascrizione e voltura, con riguardo all’imposta ipotecaria e catastale la quale dovrà essere applicata nella misura fissa propria degli atti diversi da quelli traslativi o costitutivi di un diritto reale immobiliare.
Non si disconosce che questa soluzione può apparire per certi versi incongrua nell’emersione (richiamata dall’Amministrazione Finanziaria) di un diverso trattamento fiscale a seconda che l’atto presentato alla registrazione sia una cessione di cubatura, piuttosto che un trasferimento della proprietà di un fondo edificabile; ciò perché, come si è già ad altro fine osservato, non è raro che il valore venale del terreno edificabile venga di fatto a praticamente identificarsi con quello della cubatura su di esso esercitabile.
In questa situazione l’incoerenza di sistema sarebbe data, in particolare, dal fatto che atti dispositivi realizzativi di un medesimo scopo pratico e rivelatori di una capacità contributiva sostanzialmente sovrapponibile siano fiscalmente colpiti in maniera differente, e solo in funzione del tipo di strumento negoziale prescelto dalle parti.
Va però considerato che – ferma restando l’insindacabile autonomia del legislatore, con l’unico limite dell’arbitrio e della irragionevolezza, nel modulare il principio di capacità contributiva ex art.53 Cost. selezionando le varie fattispecie imponibili ed il trattamento a ciascuna spettante (da ultimo, C.Cost. sent. 201/20) – la denunciata disparità si evidenzierebbe nel solo ritorno di mercato dell’operazione, cioè nella ricchezza generata dalla alienazione dell’asset, mentre l’imposizione di registro (art.20 TUR) presuppone che l’atto venga qualificato e sottoposto a tariffa in ragione dei suoi effetti giuridici, non economici (v. C. Cost. 158/20 cit. che ha ritenuto costituzionalmente compatibile questa opzione legislativa).
E sul piano degli effetti giuridici, trasferire la proprietà di un fondo edificabile e cederne, seppure totalmente, la cubatura – come si è fin qui argomentato – sono cose sotto molti aspetti differenti.
- Indefinitiva, il ricorso dei contribuenti – unificati e ritenuti fondati i motivi da loro proposti ex art.360, 1^ co. n. 3 cod.proc.civ. – va accolto in forza del seguente principio di diritto: “la cessione di cubatura, con la quale il proprietario di un fondo distacca in tutto o in parte la facoltà inerente al suo diritto dominicale di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano regolatore e, formandone un diritto a sé stante, lo trasferisce a titolo oneroso al proprietario di altro fondo urbanisticamente omogeneo, è atto: – immediatamente traslativo di un diritto edifica tono di natura non reale a contenuto patrimoniale; – non richiedente la forma scritta ad substantiam ex art.1350 cod.civ.; – trascrivibile ex art.2643, n. 2 bis cod.civ.; – assoggettabile ad imposta proporzionale di registro come atto ‘diverso’avente ad oggetto prestazione a contenuto patrimoniale ex art.9 Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R.131/86 nonché, in caso di trascrizione e voltura, ad imposta ipotecaria e catastale in misura fissa ex artt.4 Tariffa allegata al d.lvo 347/90 e 10, co. 2″, del medesimo d.lvo.
Ne segue la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 677/11/18 del 6 febbraio 2018.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sussistono i presupposti per la decisione nel merito, ex articolo 384 cod.proc.civ., mediante accoglimento del ricorso originario dei contribuenti ed annullamento dell’avviso di liquidazione opposto.
Le spese dell’intero giudizio vanno compensate per l’evidente controvertibilità della questione.