<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il potere dell’Amministrazione - che è fondamentalmente “</em>servizio<em>” di un debitore collettivo (lo Stato Apparato) nell’interesse pubblico di un creditore collettivo (lo Stato Comunità) – appartiene </em>pro quota<em> a soggetti pubblici e, nell’ambito dei singoli soggetti pubblici, ai diversi organi di questi, secondo una distribuzione che trova nella Legge il proprio referente ultimo; problemi peculiari sorgono in caso di sconfinamenti rispetto a tale distribuzione del potere pubblico siccome staticamente intesa, con effetti che – sul crinale dinamico - si rifrangono su validità ed effetti degli atti di chi, soggetto od organo, risulti per l’appunto “</em>incompetente<em>” ad adottarli. </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Fattispecie particolare di “</em>incompetenza<em>” è poi quella di chi operi come PA “</em>apparendo<em>” quale organo di un determinato soggetto pubblico senza tuttavia esserlo realmente (c.d. funzionario di fatto), con necessità in questi casi di verificare in che modo coniugare le esigenze di continuità nell’esercizio del potere appannaggio del ridetto soggetto pubblico con quelle di tutela dell’affidamento ingenerato in terzi ragionevolmente (ma erroneamente) convinti della natura pubblica del proprio interlocutore; quest’ultimo potendo peraltro, in determinati casi, financo vantare pretese nei confronti del soggetto pubblico del quale sia “</em>apparso<em>” organo ed a vantaggio del quale abbia utilmente operato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.347 chiunque <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4808.html">usurpa</a> una <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/235.html">funzione pubblica</a> o le attribuzioni inerenti a un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4726.html">pubblico impiego</a> è punito con la reclusione fino a 2 anni; alla stessa pena soggiace il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3153.html">pubblico ufficiale</a> o impiegato il quale, avendo ricevuto partecipazione del provvedimento che fa cessare o sospendere le relative funzioni o attribuzioni, continua ad esercitarle. La condanna importa, in entrambi i casi, la pubblicazione della pertinente sentenza.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1931</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 giugno viene varato il R.D. n.773, recante approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, secondo il cui art.6, comma 4, il provvedimento del Prefetto, anche se definitivo, può essere annullato di ufficio dal Ministro per l'interno. Si tratta di norma che, attraverso il potere di annullamento “<em>centrale</em>” ministeriale, incide sostanzialmente sulla competenza del Prefetto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1940</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 maggio viene varato il R.D. n.635, recante approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, in tema di leggi di pubblica sicurezza, secondo il cui art.10 il Ministro dell'interno può, in qualunque tempo, sia sopra denuncia, sia per propria iniziativa, dichiarare, con decreto, la nullità degli atti e dei provvedimenti delle autorità di pubblica sicurezza che contengano violazioni di legge o di regolamenti generali o speciali o che ritenga non fondati sopra una causa di pubblico interesse. Si tratta di una norma che nella sostanza conferma un potere del Ministro dell’Interno che “dal centro” incide sulla competenza degli organi ad esso subordinati.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, secondo il cui art.113 si considera celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile il matrimonio che sia stato celebrato dinanzi a persona la quale, senza avere la qualità di ufficiale dello stato civile, ne esercitava pubblicamente le funzioni, a meno che entrambi gli sposi, al momento della celebrazione, abbiano saputo che la detta persona non aveva tale qualità.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che prevede all’art.97 una riserva di legge in tema di attribuzioni delle Amministrazioni e di competenze nelle Amministrazioni. Secondo il comma 1 di questa importante disposizione i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'Amministrazione; stando poi al comma 2 nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. La riserva di legge – in ogni caso relativa, con conseguenti spazi di dettaglio per fonti secondarie - riguarda in particolare le competenze “<em>esterne</em>” di ciascuna Amministrazione e dei relativi organi, e dunque gli effetti nei confronti dei terzi, le competenze interne potendo al contrario essere disciplinate anche da fonti secondarie rispetto alla legge. Importante anche l’art.118 alla cui stregua lo Stato può con legge delegare alla Regione l'esercizio di altre funzioni amministrative (comma 1); la Regione esercita poi normalmente le relative funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici (comma 2): si tratta dunque di due fattispecie di delega previste direttamente dalla Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1972</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno viene varato il D.p.R. n.748, recante disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. Il provvedimento costituisce un significativo esempio di competenza per valore, dacché – proprio nel delimitare le attribuzioni da riconoscersi ai dirigenti dello Stato e a taluni organi di persone giuridiche pubbliche e di aziende autonome (come i relativi direttori generali o i presidenti) – fissa loro dei tetti di spesa al di sotto dei quali essi possono stipulare contratti anche in difetto di delibera adottata dal pertinente organo collegiale, rendendo dunque – a seconda del valore – solo monocratica (e non anche collegiale) la competenza alla stipula di tali contratti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1973</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 29 settembre viene varato il D.p.R. n.600, recante disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, secondo il cui art.42 gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio (atti impositivi) sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato (ancorché non dirigente) della carriera direttiva da lui delegato, configurando dunque una fattispecie, molto frequente, di c.d. “<em>delega di firma</em>”. Peraltro il difetto di sottoscrizione rende nullo l’atto impositivo emesso dal capo dell’ufficio o dal relativo delegato, ai sensi del comma 3 del ridetto art.42.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1975</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.2157 onde, in tema di arricchimento senza causa e di indennizzo conseguentemente preteso da parte di chi ha operato a vantaggio della PA, è sufficiente verificare oggettivamente la sussistenza di tale arricchimento, senza che ne sia richiesto un riconoscimento “<em>soggettivo</em>” (espresso o implicito) da parte del competente organo dell’Ente che ne ha beneficiato. Si tratta di un orientamento che è tuttavia destinato a rimanere minoritario rispetto all’altro, di stampo per l’appunto “<em>soggettivo</em>”, onde occorre appunto il riconoscimento della percetta <em>utilitas</em> (che tuttavia può essere anche implicito) da parte del competente organo della PA beneficiata, che gode del corrispondente potere di spesa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1982</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 19 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4198 onde, in tema di arricchimento senza causa e di indennizzo conseguentemente preteso dalla PA, è sufficiente verificare oggettivamente la sussistenza di tale arricchimento, senza che ne sia richiesto un riconoscimento “<em>soggettivo</em>” (espresso o implicito) da parte del competente organo dell’Ente che ne ha beneficiato. Si tratta di un orientamento che è tuttavia destinato a rimanere minoritario rispetto all’altro, di stampo per l’appunto “<em>soggettivo</em>”, onde occorre appunto il riconoscimento della percetta <em>utilitas</em> (che tuttavia può essere anche implicito) da parte del competente organo della PA beneficiata, che gode del corrispondente potere di spesa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1983</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1890, che si occupa del caso in cui un professionista lamenti l’ingiustificato arricchimento della PA per prestazioni ad essa rese, concentrandosi in particolare sul tema della quantificazione dell’indennizzo ex art.2041 c.c. Per la Corte occorre fare riferimento alla tariffa professionale, quale parametro tecnico in grado di commisurare in particolare il mancato guadagno (lucro cessante) del professionista in parola, onde spetta al giudice determinare l’indennizzo assumendo quale limite massimo di quantificazione, per l’appunto, quel che è previsto nella tariffa professionale. La Corte non manca tuttavia di rappresentare i rischi che questo orientamento implica, capace come esso si rivela di privare di conseguenze la nullità del sottostante contratto tra PA e professionista; quest’ultimo potrebbe infatti, a rigore, financo giungere ad essere avvantaggiato dalla ridetta nullità contrattuale, giusta conseguimento della rivalutazione monetaria (con riguardo proprio al lucro cessante).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1988</strong></p> <p style="text-align: justify;">L 23 agosto viene varata la legge n.400, recante disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, secondo il cui art.2, comma 3, lettera p), sono sottoposte alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, tra le altre, le determinazioni concernenti l'annullamento straordinario “<em>centralizzato</em>”, a tutela dell'unita' dell'ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi, previo parere del Consiglio di Stato e, nei soli casi di annullamento di atti amministrativi delle Regioni e delle Provincie autonome, anche della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Importanti anche gli articoli 9 e 10 che - nell’imporre la forma scritta per la delega di funzioni, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri senza portafoglio, ed per la delega di funzioni, da parte dei singoli Ministri, ai Sottosegretari di Stato - sembra prescrivere in via di principio la ridetta forma scritta per ogni atto di delega.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.170 che chiarisce come il potere di avocazione può assumersi legittimamente esercitato solo se attribuito dalla legge e dunque da una fonte primaria; si tratta infatti di uno spostamento di competenza sul piano tanto statico che dinamico (titolarità ed esercizio del pertinente potere), con conseguente necessaria conformità al principio della riserva di legge di cui all’art.97 Cost.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 febbraio viene varato il decreto legislativo n.29, recante razionalizzazione dell'organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421. Tale provvedimento elimina, nella sostanza, i c.d. tetti di spesa per i dirigenti (quale criterio di attribuzione della competenza per valore), vincolando questi ultimi – per quanto concerne la stipula dei pertinenti contratti – ai limiti di cui allo stanziamento di bilancio connesso. Importante anche l’art.14, secondo il cui comma 3 gli atti di competenza dirigenziale non sono soggetti ad avocazione da parte del Ministro, se non per particolari motivi di necessità ed urgenza, specificamente indicati nel provvedimento di avocazione; viene dunque abolito il tradizionale potere “<em>ordinario</em>” del Ministro di avocare a sé atti di competenza dei propri dirigenti, nell’ottica della progressiva separazione tra la politica e l’Amministrazione, che residua solo per i casi di necessità ed urgenza specificamente indicati e motivati nel provvedimento di avocazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 aprile esce la deliberazione della Corte dei Conti, sezione enti locali, n.2 secondo la quale una delega amministrativa è legittima nei soli cais previsti dalla legge,e tuttavia la ridetta previsione di legge può anche atteggiarsi a meramente implicita.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1994</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio viene varato il decreto legge n.293, recante disciplina della proroga degli organi amministrativi, secondo il cui art.3 gli organi amministrativi non ricostituiti nel termine di scadenza sono prorogati per non più di 45 giorni, decorrenti dal giorno della scadenza del termine medesimo (comma 1); nel periodo in cui sono prorogati, gli organi scaduti possono adottare esclusivamente gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti urgenti e indifferibili con indicazione specifica dei motivi di urgenza e indifferibilità (comma 2); gli atti non rientranti fra quelli indicati nel comma 2, e dunque gli atti di straordinaria amministrazione, adottati nel periodo di proroga, sono nulli (comma 3). Più in generale, alla stregua dell’art.6, comma 2, tutti gli atti adottati dagli organi decaduti sono nulli.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 luglio viene varata la legge n.444 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.293.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1995</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4192 che torna ad occuparsi del tema della quantificazione dell’indennizzo per ingiustificato arricchimento da liquidarsi al privato nei confronti della PA “<em>arricchita</em>”, con particolare riguardo al lucro cessante o mancato guadagno del privato medesimo, quale “<em>impoverito</em>” che ha subito una diminuzione patrimoniale in conseguenza dell’esecuzione della prestazione nei confronti della PA. Per la Corte, tale “<em>diminuzione patrimoniale</em>” consiste in ciò cui avrebbe avuto diritto l’esecutore della prestazione ove il pertinente contratto fosse stato valido, dovendosi avere riguardo all’intero pregiudizio subito dall’impoverito e dunque anche al mancato guadagno.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.9348 alla cui stregua per la configurabilità del reato di cui all'art. 347 c.p. (usurpazione di pubbliche funzioni) è necessario che le pubbliche funzioni vengano svolte — senza legittima investitura e per fini esclusivamente propri e in contrasto con quelli della pubblica amministrazione — da persona che non può esercitarle in modo assoluto (carenza di potere in astratto). Si verte, invece, in tema di abuso di ufficio nell'ipotesi di violazione delle condizioni o dei limiti posti all'esercizio di una funzione pubblica da chi abbia la capacità di esercitarla e sia in concreto investito della relativa potestà (carenza di potere in concreto).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.1025 in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c. che – collocandosi nel solco dell’orientamento minoritario – afferma l’apprezzamento circa la sussistenza di un vantaggio per l’Ente pubblico dover essere effettuato su un piano oggettivo e non già soggettivo, onde tale valutazione (riconoscimento di <em>utilitas</em>) può essere svolta non solo dal soggetto pubblico beneficiato, ma anche dal GO, il quale ultimo non deve tuttavia limitarsi ad accertare se la PA abbia riconosciuto come utile la prestazione del depauperato, dovendo piuttosto verificare se da essa abbia tratto un effettivo (ed oggettivo) vantaggio. Per la Corte, il fondamento equitativo dell’azione di ingiustificato arricchimento può tuttavia far assumere integrata l’<em>utilitas</em> per la PA sulla base della mera utilizzazione della prestazione ricevuta, in disparte gli scopi cui la prestazione è stata in concreto orientata.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 febbraio esce l’importante sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.232 che si occupa della fattispecie in cui l’investitura “<em>a monte</em>” del funzionario sia illegittima e tuttavia non sia stata tempestivamente impugnata; in questi casi, laddove il funzionario formalmente “<em>di diritto</em>” (ma sostanzialmente “<em>di fatto</em>”) adotti un provvedimento sfavorevole per il terzo, questo atto non può per il Collegio assumersi inficiato dalla invalidità dell’investitura a monte, non impugnata nei termini, salvo il solo caso in cui l’investitura a monte non sia stata specifica e dunque non abbia avuto luogo per il compimento, da parte del funzionario investito, di specifici atti a valle, come nel caso della commissione aggiudicatrice in relazione agli atti della pertinente gara d’appalto, giacché in queste ipotesi affiora una invalidità derivata che può essere fatta valere dal terzo destinatario dell’atto “<em>a valle</em>” sfavorevole. Per il Collegio, detto altrimenti, impugnare insieme l’atto di investitura illegittimo (ed ormai inoppugnabile) “<em>a monte</em>” e l’atto sfavorevole “<em>a valle</em>” è consentito solo laddove si configuri uno specifico nesso procedimentale tra i due atti, ovvero comunque tra i due procedimenti che hanno prodotto gli atti da impugnare congiuntamente; in tale fattispecie può infatti assumersi integrata una ipotesi di invalidità derivata con effetto viziante sul provvedimento lesivo “<em>a valle</em>” adottato dal funzionario, poiché l’atto di nomina viziante si atteggia in realtà ad atto infraprocedimentale di per sé non lesivo, mentre lesivo è proprio l’atto finale sfavorevole che vi fa seguito. Ciò perché, in queste fattispecie, la nomina o comunque l’investitura del funzionario è disposta all’esito di un sub-procedimento finalizzato a dare poi la stura ad uno specifico procedimento (strettamente avvinto al sub-procedimento di nomina), che si conclude appunto con l’atto finale gravabile ove sfavorevole. Negli altri e diversi casi di difetto di un nesso funzionale tra sub-procedimento di nomina e successivo procedimento orientato ad atti specifici del nominato, deve prevalere il principio di certezza delle situazioni giuridiche: diversamente opinando infatti sarebbe messa a dura prova la stabilità dei provvedimenti adottati da chi sia stato illegittimamente nominato, con atto di investitura rimasto tuttavia valido ed efficace per difetto di tempestiva impugnazione da parte degli interessati.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7136, che si occupa della determinazione dell’indennizzo da ingiustificato arricchimento della PA, siccome vantato dal privato ex art.2041 c.c.. Per la Corte - i cui principi vengono espressi con riguardo all’appaltatore, ma che verranno in seguito estesi anche al professionista - è mancato guadagno indennizzabile quello che il privato avrebbe ritratto dal normale svolgimento della propria attività professionale durante il tempo in cui si è dedicato ad eseguire la prestazione nei confronti della PA da essa utilizzata, senza tuttavia poter fare riferimento a parametri contrattuali perché un contratto non vi è mai stato, e senza limitarsi semplicemente a commisurare la perdita patrimoniale subita alla <em>utilitas</em> che l’Ente pubblico ne ha ritratto in termini di spesa risparmiata. Con riguardo all’entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal privato “<em>impoverito</em>”, per la Corte essa va accertata tenendo a tal fine conto delle spese anticipate dal privato per l’esecuzione dell’opera, in termini di danno emergente, e del mancato guadagno (lucro cessante) da determinarsi eventualmente anche in via equitativa ex art.1226 c.c. tenendo conto di ciò che il privato avrebbe ritratto dalla propria attività professionale nel periodo di tempo dedicato all’esecuzione dell’opera poi utilizzata dall’Ente pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.9531 che si occupa del privato che, pur in difetto di un formale atto di nomina, abbia prestato la propria attività lavorativa in favore della PA; laddove ciò sia accaduto con continuità ed in posizione di subordinazione, per la Corte il privato – che si atteggia a “<em>funzionario di fatto</em>” - ha in questi casi comunque diritto alla retribuzione, dacché si è in presenza dei c.d. indici rivelatori di un rapporto di pubblico impiego – in particolare, inserimento nell’organizzazione dell’ente pubblico, continuità delle prestazioni lavorative erogate, vincolo di subordinazione gerarchica - seppure ai soli fini retributivi (e dunque di pretesa alla retribuzione per il lavoro svolto) e non anche di inquadramento (che presuppone un concorso pubblico).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 dicembre escono i pareri della Commissione Speciale del Consiglio di Stato n.462 e 463 che, distinguono tra delega di firma e delega di funzioni; nel caso di delega di (mera) firma, il pertinente atto è riferibile direttamente al titolare del potere (delegante) ed è quindi definitivo (atto adottato “<em>d’ordine di</em>…”), come tale non gravabile con ricorso gerarchico; nel caso in cui il dirigente titolare del potere deleghi invece parte della propria funzione ad un funzionario subordinato gerarchicamente, si configura un atto non definitivo del delegato, prendendo corpo la struttura gerarchica tipica, con conseguente possibilità di impugnare il pertinente atto del delegato, assunto non definitivo, con ricorso gerarchico al delegante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 marzo viene varato il decreto legislativo n.80, il cui art.9, comma 1, modifica l’art.14, comma 3, del decreto legislativo n.29 del 1993 in tema di potere di avocazione, da parte del Ministro, della competenza a compiere atti dei dirigenti. Secondo il nuovo testo, il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti; tuttavia in caso di inerzia o ritardo il Ministro può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti e, qualora l’inerzia permanga, o in caso di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, che determinino pregiudizio per l’interesse pubblico, il Ministro può nominare (salvi i casi di urgenza, previa contestazione) un commissario <em>ad acta</em>, dando comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri del relativo provvedimento. Resta tuttavia salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma 3, lett. p) della legge 23 agosto 1988, n. 400 (in tema di annullamento straordinario degli atti illegittimi), nonché quanto previsto dall’articolo 6 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (in particolare l’annullamento da parte del Ministro dell’Interno degli atti del Prefetto, ai sensi del comma 4), e successive modificazioni ed integrazioni, e dall’articolo 10 del relativo regolamento emanato con regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (si tratta ancora una volta del potere del Ministro dell’Interno di dichiarare la nullità di atti delle autorità di pubblica sicurezza ad esso subordinate). Resta altresì salvo il potere di annullamento ministeriale per motivi di legittimità.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.6191 onde la decadenza del pubblico ufficiale dalla carica quale effetto della condanna ad un delitto commesso con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti ad una pubblica funzione, pur operando di diritto dal passaggio in giudicato della pertinente sentenza — ai sensi del comma 4 quinquies dell'art. 15 della legge 55/90 — non esime dall'osservanza della procedura prevista dal comma 4 ter dello stesso art. 15, il quale fa obbligo alla cancelleria del tribunale o alla segreteria del P.M. di comunicare al Prefetto i provvedimenti di sospensione dalla carica adottati dall'autorità giudiziaria. Conseguentemente, in difetto di detta comunicazione, non è per la Corte configurabile il reato di cui all'art. 347, comma 2, c.p. a carico del pubblico ufficiale (nel caso di specie, un Sindaco) il quale, pur avendo avuto notizia della condanna divenuta irrevocabile, abbia continuato ad esercitare le proprie funzioni.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 marzo viene varato il decreto legislativo n.165, c.d. testo unico del pubblico impiego, che conferma la abolizione dei c.d. tetti di spesa per i dirigenti (quale criterio di attribuzione della competenza per valore), vincolando questi ultimi – per quanto concerne la stipula dei pertinenti contratti – ai limiti di cui allo stanziamento di bilancio connesso. Il decreto richiama poi espressamente il codice civile all’<em>incipit</em> dell’art.2, comma 2, onde i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel decreto medesimo che costituiscono disposizioni a carattere imperativo; tra le norme del codice civile richiamate, particolarmente importante l’art.2126 sulle c.d. prestazioni di fatto del lavoratore al cospetto di un contratto nullo.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 ottobre viene varata la nota legge costituzionale n.3, di riforma del Titolo V della Costituzione, che modifica tra gli altri l’art.120 della Carta: secondo il comma 2 del nuovo testo, il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unita` giuridica o dell’unita` economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La norma – che configura dunque un potere sostitutivo dello Stato rispetto a competenze proprie degli Enti locali - demanda poi alla legge di definire le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. Importante anche l’art.118, che viene modificato con abolizione dei poteri di delega, rispettivamente, dello Stato alle Regioni e delle Regioni agli Enti locali, venendo ormai tali soggetti pubblici (ed in particolare le Regioni) dotati di competenze proprie.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 febbraio viene varato il decreto legge n.8, secondo il cui art.5, comma 1, in deroga all'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 293, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 1994, n. 444, recante disciplina della proroga degli organi amministrativi, i consigli dei comitati provinciali ed i consigli dei comitati regionali, nonché il comitato centrale dell'Associazione italiana della Croce Rossa, restano in carica fino all'approvazione del nuovo statuto dell'Associazione e, comunque, non oltre il 30 giugno 2002.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.9331 onde – giudicando su un caso in cui il soggetto agente ha continuato ad esercitare le funzioni di presidente di una commissione speciale istituita dal consiglio comunale, nonostante abbia assunto servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con funzioni di consigliere – per il Collegio commette il delitto di usurpazione di pubbliche funzioni chiunque per l’appunto continui ad esercitare funzioni che non gli competono per essere stato trasferito in altro pubblico ufficio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 aprile viene varata la legge n.56 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.8.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5900 che, uniformandosi al prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c., afferma unico soggetto legittimato a riconoscere l’utilità essere il soggetto pubblico beneficiato, in quanto esso è il solo che può valutare la rispondenza della prestazione o della cosa al pubblico interesse dalla legge demandatogli; si tratta di una manifestazione di volontà che corrisponde ad una valutazione discrezionale e soggettiva della PA – come tale non surrogabile dal GO – e che è espressione del principio costituzionale di buona amministrazione ex art. 97 Cost., laddove tale norma impone il divieto di spese non deliberate nei modi di legge e senza la previsione di un’apposita copertura finanziaria.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 novembre esce la sentenza della sezione I del Tar Puglia n.5068 onde - con riguardo ad un organo collegiale imperfetto (<em>quorum</em> strutturale: non occorre la presenza di tutti i componenti per una valida deliberazione) e virtuale (<em>quorum</em> deliberativo: non occorre il voto unanime di tutti i componenti, essendo sufficiente che si formi la prescritta maggioranza) – va abbracciata la tesi più moderna e sostanzialistica alla cui stregua, al fine di inficiare la pertinente deliberazione, non occorre necessariamente che venga superata la c.d. prova di resistenza essendo sufficiente (pur al cospetto delle prescritte maggioranze) che taluno dei componenti non legittimato (perché in conflitto di interessi e dunque incompatibile, con obbligo di astenersi dalla votazione) abbia spiegato sul collegio una influenza effettiva. Per il Collegio, in proposito è sufficiente che – pur senza partecipare alla votazione – il componente non legittimato o persino un estraneo non votante, con la relativa semplice presenza, abbia comunque influenzato la discussione alterando gli equilibri valutativi del collegio in parola.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">*L’11 gennaio esce la sentenza del Tar Piemonte n.7 onde - con riguardo ad un organo collegiale imperfetto (<em>quorum</em> strutturale: non occorre la presenza di tutti i componenti per una valida deliberazione) e virtuale (<em>quorum</em> deliberativo: non occorre il voto unanime di tutti i componenti, essendo sufficiente che si formi la prescritta maggioranza) – va abbracciata la tesi più moderna e sostanzialistica alla cui stregua, al fine di inficiare la pertinente deliberazione, non occorre necessariamente che venga superata la c.d. prova di resistenza essendo sufficiente (pur al cospetto delle prescritte maggioranze) che taluno dei componenti non legittimato (perché in conflitto di interessi e dunque incompatibile, con obbligo di astenersi dalla votazione) abbia spiegato sul collegio una influenza effettiva. Per il Collegio, in proposito è sufficiente che – pur senza partecipare alla votazione – il componente non legittimato o persino un estraneo non votante, con la relativa semplice presenza, abbia comunque influenzato la discussione alterando gli equilibri valutativi del collegio in parola.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.11454 che, in tema di ingiustificato arricchimento della PA ex art.2041 c.c., esclude dalla determinazione dell’indennizzo dovuto al privato il c.d. lucro cessante (quanto egli avrebbe ritratto dalla propria opera o attività professionale nel tempo dedicato ad eseguire la prestazione nei confronti della PA “<em>arricchita</em>”); per la Corte il ridetto art.2041 non prende in considerazione infatti l’intero arricchimento di chi ha ottenuto la prestazione, ma solo quello corrispondente al danno o pregiudizio subito dall’impoverito; né del resto è l’intero pregiudizio dell’impoverito che va indennizzato, ma solo quello corrispondente ad un profitto o vantaggio dell’arricchito.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 20 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.16348 che, uniformandosi al prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c., afferma unico soggetto legittimato a riconoscere l’utilità essere il soggetto pubblico beneficiato, in quanto esso è il solo che può valutare la rispondenza della prestazione o della cosa al pubblico interesse dalla legge demandatogli; si tratta di una manifestazione di volontà che corrisponde ad una valutazione discrezionale e soggettiva della PA – come tale non surrogabile dal GO – e che è espressione del principio costituzionale di buona amministrazione ex art. 97 Cost., laddove tale norma impone il divieto di spese non deliberate nei modi di legge e senza la previsione di un’apposita copertura finanziaria.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 febbraio viene varata la legge n.15 che introduce nel corpo della legge 241 del 1990, tra gli altri, l’art.21.septies: viene prevista esplicitamente la nullità dell’atto amministrativo, in un quadro più generale che vede di nuovo spostato il baricentro disciplinare dal procedimento al provvedimento amministrativo. In questa cornice di fondo, il provvedimento viene dichiarato nullo quando manca degli elementi essenziali, è viziato da difetto assoluto di attribuzione, è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge (c.d. tipicità della nullità). Si tratta di una disposizione ricognitiva rispetto alla precedente giurisprudenza, della quale accoglie la soluzione mediana (tra la teoria negoziale, limitrofa al diritto privato, e quella autonomistica) intesa a riconoscere la nullità nei casi di vizi particolarmente gravi del provvedimento amministrativo, tali da non poter essere ricondotti nella più generale ed onnicomprensiva categoria della annullabilità. Il difetto assoluto di attribuzione costituisce una ipotesi di sostanziale carenza di potere in astratto, con conseguente giurisdizione del GO e possibilità di invocare da sempre anche il risarcimento del danno (come conferma il comma 2 dell’art.21 septies onde le sole questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato, e non anche dunque quelle concernenti il c.d. difetto di attribuzione, sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del GA). Viene introdotto nel corpo della legge 241.90 anche l’art.21 octies, alla cui stregua (comma 1) è annullabile – e dunque non nullo - il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 29 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.6570, che si occupa della determinazione dell’indennizzo da ingiustificato arricchimento della PA, siccome vantato dal privato ex art.2041 c.c.. Per la Corte - i cui principi vengono espressi con riguardo all’appaltatore, ma che verranno in seguito estesi anche al professionista - è mancato guadagno indennizzabile quello che il privato avrebbe ritratto dal normale svolgimento della propria attività professionale durante il tempo in cui si è dedicato ad eseguire la prestazione nei confronti della PA da essa utilizzata, senza tuttavia poter fare riferimento a parametri contrattuali perché un contratto non vi è mai stato, e senza limitarsi semplicemente a commisurare la perdita patrimoniale subita alla <em>utilitas</em> che l’Ente pubblico ne ha ritratto in termini di spesa risparmiata. Con riguardo all’entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal privato “<em>impoverito</em>”, per la Corte essa va accertata tenendo a tal fine conto delle spese anticipate dal privato per l’esecuzione dell’opera, in termini di danno emergente, e del mancato guadagno (lucro cessante) da determinarsi eventualmente anche in via equitativa ex art.1226 c.c. tenendo conto di ciò che il privato avrebbe ritratto dalla propria attività professionale nel periodo di tempo dedicato all’esecuzione dell’opera poi utilizzata dall’Ente pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.17703 in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c. che – collocandosi nel solco dell’orientamento minoritario – afferma l’apprezzamento circa la sussistenza di un vantaggio per l’Ente pubblico dover essere effettuato su un piano oggettivo e non già soggettivo, onde tale valutazione (riconoscimento di <em>utilitas</em>) può essere svolta non solo dal soggetto pubblico ma anche dal GO, il quale non si limita ad accertare se la PA abbia “<em>soggettivamente</em>” riconosciuto come utile la prestazione del depauperato, ma deve piuttosto verificare se da essa abbia tratto un effettivo ed “<em>oggettivo</em>” vantaggio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 settembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.18329 che, in tema di ingiustificato arricchimento ex art.2014 c.c. nei confronti della PA, abbraccia l’orientamento oggettivo – minoritario – alla cui stregua quello che conta è appunto l’arricchimento dell’Ente pubblico oggettivamente inteso, dovendo essere dequotata la necessaria provenienza del riconoscimento di una <em>utilitas</em>, sul crinale soggettivo, da parte degli organi dell’Ente competenti per l’appunto a riconoscere tale <em>utilitas</em>.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 26 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.18785 che, in tema di ingiustificato arricchimento della PA ex art.2041 c.c., esclude dalla determinazione dell’indennizzo dovuto al privato il c.d. lucro cessante (quanto egli avrebbe ritratto dalla propria opera o attività professionale nel tempo dedicato ad eseguire la prestazione nei confronti della PA “<em>arricchita</em>”); per la Corte il ridetto art.2041 non prende in considerazione infatti l’intero arricchimento di chi ha ottenuto la prestazione, ma solo quello corrispondente al danno o pregiudizio subito dall’impoverito; né del resto è l’intero pregiudizio dell’impoverito che va indennizzato, ma solo quello corrispondente ad un profitto o vantaggio dell’arricchito.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 ottobre esce la sentenza della Sezione giurisdizionale regionale della Puglia della Corte dei Conti n.788 alla cui stregua la necessità impellente può essere un <em>quid</em> che giuridicizza – in determinate evenienze – l’azione di un funzionario “<em>di fatto</em>” che, come tale, sarebbe privo <em>ab origine</em> dell’investitura ad esercitare pubbliche funzioni; è il caso della assunzione spontanea delle ridette pubbliche funzioni al verificarsi di calamità naturali o conflitti bellici, allorché l’azione di tale soggetto “<em>incompetente</em>” supplisce alle inefficienze delle autorità pubbliche competenti, al cospetto di eccezionali circostanze siccome verificatesi.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 28 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.21079, che si occupa della determinazione dell’indennizzo da ingiustificato arricchimento della PA, siccome vantato dal privato ex art.2041 c.c.. Per la Corte - i cui principi vengono espressi con riguardo all’appaltatore, ma che verranno in seguito estesi anche al professionista - è mancato guadagno indennizzabile quello che il privato avrebbe ritratto dal normale svolgimento della propria attività professionale durante il tempo in cui si è dedicato ad eseguire la prestazione nei confronti della PA da essa utilizzata, senza tuttavia poter fare riferimento a parametri contrattuali perché un contratto non vi è mai stato, e senza limitarsi semplicemente a commisurare la perdita patrimoniale subita alla <em>utilitas</em> che l’Ente pubblico ne ha ritratto in termini di spesa risparmiata. Con riguardo all’entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal privato “<em>impoverito</em>”, per la Corte essa va accertata tenendo a tal fine conto delle spese anticipate dal privato per l’esecuzione dell’opera, in termini di danno emergente, e del mancato guadagno (lucro cessante) da determinarsi eventualmente anche in via equitativa ex art.1226 c.c. tenendo conto di ciò che il privato avrebbe ritratto dalla propria attività professionale nel periodo di tempo dedicato all’esecuzione dell’opera poi utilizzata dall’Ente pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.46826 alla cui stregua è da assumersi configurabile il reato di usurpazione di funzioni pubbliche, concorrente con quello di truffa, nel caso di soggetto il quale, presentandosi presso esercizi commerciali con la falsa qualifica di appartenente al corpo della Guardia di Finanza e mostrando di dover effettuare controlli fiscali, ottenga, gratuitamente o a prezzo ridotto, la consegna di merci, a nulla rilevando, ai fini di una possibile esclusione del primo di detti reati, la circostanza che l'agente non abbia in realtà svolto alcun atto tipico della funzione corrispondente alla suindicata qualifica, ma si sia limitato, al solo fine di rendere maggiormente credibile l'autoattribuzione della medesima, alla fugace esibizione di un tesserino e ad una rapida scorsa ai registri fiscali.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.11368 che, in tema di ingiustificato arricchimento ex art.2014 c.c. nei confronti della PA, abbraccia l’orientamento oggettivo – minoritario – alla cui stregua quello che conta è appunto l’arricchimento dell’ente pubblico, dovendo essere dequotata la necessaria provenienza del riconoscimento di una <em>utilitas</em>, sul crinale soggettivo, da parte degli organi dell’Ente competenti per l’appunto a riconoscerla. In sostanza, l’utilità in capo all’Ente pubblico, necessaria al fine di ottenere l’indennizzo da parte del privato che la invoca, non può essere incentrata su di un principio di relatività soggettiva onde essa va riconosciuta dall’organo competente dell’ente pubblico considerato, dovendosi piuttosto concentrare l’attenzione sull’arricchimento in sé e dal punto di vista oggettivo, con conseguente possibilità di operare il pertinente accertamento anche dal GO, e non necessariamente e “<em>discrezionalmente</em>” dall’organo competente della PA “<em>arricchita</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">*L’11 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10884 che, uniformandosi al prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c., afferma unico soggetto legittimato a riconoscere l’utilità essere il soggetto pubblico beneficiato, in quanto esso è il solo che può valutare la rispondenza della prestazione o della cosa al pubblico interesse dalla legge demandatogli; si tratta di una manifestazione di volontà che corrisponde ad una valutazione discrezionale e soggettiva della PA – come tale non surrogabile dal GO – e che è espressione del principio costituzionale di buona amministrazione ex art. 97 Cost., laddove tale norma impone il divieto di spese non deliberate nei modi di legge e senza la previsione di un’apposita copertura finanziaria.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 maggio esce la sentenza della VII sezione del Tar Campania n.4816 alla cui stregua – inserendosi nel solco della pertinente giurisprudenza in materia - deve escludersi in assoluto che sia prospettabile, con riferimento alla complessiva fattispecie oggetto di scandaglio, un’autonoma questione di incompetenza, essendovi stata non già una delega di funzioni, bensì una mera delega di firma la quale, senza alterare l’ordine delle competenze, attribuisce al soggetto delegato il potere di sottoscrivere atti che, però, continuano ad essere sostanzialmente imputabili all’Autorità delegante (cfr. Consiglio Giustizia Amministrativa Regione Siciliana n° 182 del 30.5.1995; T.A.R. Toscana n° 3372 del 18.12.2002; T.A.R. Puglia-Lecce n° 2189 dell’11.5.2001; T.A.R. Piemonte n° 309 del 17.3.2000).</p> <p style="text-align: justify;">*Il 18 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.16577, che si occupa della determinazione dell’indennizzo da ingiustificato arricchimento della PA, siccome vantato dal privato ex art.2041 c.c.. Per la Corte - i cui principi vengono espressi con riguardo all’appaltatore, ma che verranno in seguito estesi anche al professionista - è mancato guadagno indennizzabile quello che il privato avrebbe ritratto dal normale svolgimento della propria attività professionale durante il tempo in cui si è dedicato ad eseguire la prestazione nei confronti della PA da essa utilizzata, senza tuttavia poter fare riferimento a parametri contrattuali perché un contratto non vi è mai stato, e senza limitarsi semplicemente a commisurare la perdita patrimoniale subita alla <em>utilitas</em> che l’Ente pubblico ne ha ritratto in termini di spesa risparmiata. Con riguardo all’entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal privato “<em>impoverito</em>”, per la Corte essa va accertata tenendo a tal fine conto delle spese anticipate dal privato per l’esecuzione dell’opera, in termini di danno emergente, e del mancato guadagno (lucro cessante) da determinarsi eventualmente anche in via equitativa ex art.1226 c.c. tenendo conto di ciò che il privato avrebbe ritratto dalla propria attività professionale nel periodo di tempo dedicato all’esecuzione dell’opera poi utilizzata dall’Ente pubblico.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.23385 che, in tema di quantificazione dell’indennizzo da ingiustificato arricchimento della PA che abbia ottenuto una prestazione da un privato, abbraccia l’orientamento più restrittivo onde, in tema di lavori effettuati appunto da un privato a vantaggio di un Ente pubblico in difetto di un valido contratto, la diminuzione patrimoniale del primo si compendia in ogni genere di spese da lui effettuate per eseguire le opere richieste (danno emergente), con esclusione tuttavia del lucro cessante, che è componente del danno patrimoniale di cui all’art.2043 c.c., ma non anche dell’indennizzo ex art.2041 c.c.. Per la Corte il ridetto art.2041 non prende in considerazione infatti l’intero arricchimento di chi ha ottenuto la prestazione, ma solo quello corrispondente al danno o pregiudizio subito dall’impoverito; né del resto è l’intero pregiudizio dell’impoverito che va indennizzato, ma solo quello corrispondente ad un profitto o vantaggio dell’arricchito. La Corte, sul crinale sistematico, rammenta che nel codice del 1942, accanto al principio del <em>neminem laedere</em> in tema di responsabilità civile e del canone <em>pacta sunt servanda</em> in materia contrattuale, il legislatore ha previsto il rimedio generale di cui all’art.2041 c.c., qualificando la Relazione al codice l’ art.2041 c.c. in parola come uno dei precetti ampi ed elastici orientati ad abbracciare un gran numero di casi non prevedibili nella relativa concretezza, con riguardo a situazioni via via riconosciute meritevoli di una tutela giuridica. Ciò non autorizza tuttavia per le SSUU il sostanziale equivoco che è alla base dell’orientamento prevalente e che finisce con l’annullare, di tale rimedio, l’autonoma funzione recuperatoria onde inglobarlo, per imprecisati motivi di giustizia sostanziale, nell’ottica “<em>pan-aquiliana</em>” propria dell’art.2043 c.c. Proprio per questo motivo, l’azione spiccata ex art.2041 c.c. da un privato nei confronti di una PA non ha il ruolo – che invece l’orientamento maggioritario finisce con l’attribuirle – di assicurare all’autore di una prestazione eseguita malgrado l’invalidità di un contratto il medesimo profitto che avrebbe ricavato nello stesso periodo di tempo da altre attività remunerate. Ciò considerando anche le specifiche limitazioni ed i precipui condizionamenti, previsti <em>ex lege</em>, che campeggiano in tema di attività negoziale della PA, a cominciare dal sistema rigido e vincolante dell’evidenza pubblica, espressione di regole assunte dalla giurisprudenza e dalla dottrina tutt’affatto inderogabili e la cui forza è talmente cogente da invalidare e travolgere qualsiasi convenzione con esse in frizione; onde, appare alla Corte per lo meno illogico utilizzare l’art.2041 c.c. per rendere tali disposizioni inderogabili sostanzialmente inoperanti e per alfine ricollocare l’autore della prestazione nella situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo proprio quel contratto che la legge considera assolutamente invalido o financo giuridicamente inesistente, consentendone la neutralizzazione in nome di imprecisate esigenze equitative.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 febbraio esce la sentenza delle SSUU n.4463 che – seppure resa in materia di revisione dei prezzi negli appalti - indirettamente lambisce la questione dei presupposti utili ad esperire l’azione di ingiustificato arricchimento ex art.2041 c.c. nei confronti della PA (sul crinale specifico del riconoscimento dell’<em>utilitas</em> di quanto ricevuto dal terzo); è configurabile infatti per la Corte, un riconoscimento implicito da parte della PA, allorché esso sia imputabile agli organi rappresentativi dell’ente pubblico considerato. Per la Corte, più in specie, con riguardo alla revisione del prezzo degli appalti di opere pubbliche, la posizione dell'appaltatore - che è di norma tutelabile davanti al Giudice amministrativo, configurandosi come interesse legittimo acquista natura e consistenza di diritto soggettivo, tutelabile davanti al giudice ordinario, solo quando l'Amministrazione abbia già adottato un espresso provvedimento attributivo o abbia comunque tenuto un comportamento tale da comportare implicito riconoscimento del relativo diritto. A tale ultimo fine è necessario un comportamento dell'organo deliberativo competente ad esprimere la volontà dell'ente che sia stato preceduto dall'esercizio positivo del potere discrezionale in ordine alla concessione della revisione; per cui il riconoscimento implicito non è ravvisabile in presenza dell'adozione da parte dell'amministrazione committente di atti dovuti in adempimento di obblighi di legge, quale il pagamento degli acconti per revisione prezzi imposto dalla L. n. 1 del 1978, art. 14, e della L. n. 741 del 1981, art. 3.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 luglio viene varato il codice del processo amministrativo, decreto legislativo n.104, il cui articolo 31, comma 4, prevede che la domanda volta all'accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di 180 giorni, e che la nullità dell'atto medesimo può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice; soggiunge altresì che tali disposizioni non si applicano alle nullità di cui all'articolo 114, comma 4, lettera b), ovvero agli atti nulli per violazione o elusione del giudicato, per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV (giudizio di ottemperanza). In particolare il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per ottemperanza, dichiara nulli gli atti adottati in violazione o elusione del giudicato. Il nuovo codice, all’art.4 dell’allegato 4, abroga il comma 2 dell’art.21.septies della legge 241.90 laddove (ambiguamente) prevede la giurisdizione esclusiva del GA per le ipotesi di nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato, ma riproprone la medesima disposizione all’art.133, comma 1, lettera a.5): resta dunque fermo che la giurisdizione del GA in tema di nullità degli atti amministrativi concerne solo la specifica ipotesi della violazione o elusione del giudicato, e non anche il c.d. difetto di attribuzione (o carenza di potere, o incompetenza assoluta), che continua ad essere appannaggio giurisdizionale del GO.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 febbraio esce la sentenza della sezione III bis del Tar Lazio n.1379, alla cui stregua, in adesione al principio del funzionario di fatto, allorquando la nomina di un soggetto ad organo della PA si appalesi illegittima e venga pertanto annullata, cionondimeno gli atti <em>medio tempore</em> adottati dal funzionario “<em>di fatto</em>” restano efficaci, essendo di norma irrilevante verso i terzi il rapporto in essere tra la PA e la persona fisica dell’organo che agisce.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9141 in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c. che – collocandosi nel solco dell’orientamento minoritario – afferma l’apprezzamento circa la sussistenza di un vantaggio per l’Ente pubblico dover essere effettuato su un piano oggettivo e non già soggettivo, onde tale valutazione (riconoscimento di <em>utilitas</em>) può essere svolta non solo dall’Ente pubblico ma anche dal GO, il quale non si limita ad accertare se la PA abbia riconosciuto come utile la prestazione del depauperato, ma deve verificare se da essa abbia tratto un effettivo vantaggio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 novembre esce la sentenza della I sezione del Tar Campania n.5126 alla cui stregua il problema della esperibilità dell’azione ex art.2028 c.c. (c.d. <em>negotiorum gestio</em>) da parte di un agente privato nei confronti della PA va risolto tenendo conto della differenza tra attività di carattere pubblicistico, nello svolgimento delle quali non sono ammesse ingerenze da parte di privati (ancorché spontanee ed utilmente intraprese), ed attività di carattere privatistico, nell’espletamento delle quali la giurisprudenza tende, entro certi limiti, ad ammettere che il privato si possa sostituire all’Amministrazione, così acquisendo il diritto ad essere rimborsato delle spese sostenute.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.48745 onde, per la configurabilità del reato di usurpazione di funzioni pubbliche è richiesto il dolo generico, che consiste nella volontà di assumere ed esercitare la funzione pubblica sapendo di non esserne autorizzato, mentre lo scopo e i motivi che hanno indotto l'agente ad usurpare la pubblica funzione possono essere considerati solo ai fini della determinazione della pena.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 febbraio viene varato il decreto legge n.5, recante disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo, il cui art.1 incide sull’art.2 della legge 241 del 1990 in tema di termine procedimentale, inserendo nella disposizione anche dei nuovi comma, da 9 bis a 9 quinquies, con l’intento di disciplinare dei poteri sostitutivi che vengono attivati, alla scadenza appunto del termine procedimentale ordinario, su sollecitazione del privato interessato, al fine di far provvedere il pertinente titolare in sostituzione appunto del funzionario inadempiente. Più nel dettaglio, ai sensi del comma 9 bis, l'organo di governo individua, nell'ambito delle figure apicali dell'Amministrazione pertinente, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia; nell'ipotesi di omessa individuazione, il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'Amministrazione. Ai sensi del nuovo comma 9 ter, decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento (o quello superiore di cui al precedente comma 7), il privato può rivolgersi al responsabile di cui al comma 9-bis perché, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 marzo esce la sentenza della sezione II bis del Tar Lazio n.2550, che si occupa della figura del funzionario di fatto con particolare riguardo alla materia elettorale. Per il Tar, più in specie, non può invocarsi la figura generale del funzionario di fatto allorché manchi l’investitura della persona fisica a Presidente di ufficio elettorale di sezione, dacché l’istituto del funzionario di fatto incontra due precisi ordini di limiti, il primo derivante dal fatto che l’interessato che con lui si è relazionato insorga, negandone il potere di adottare l’atto a lui sfavorevole; ed il secondo, giustapposto, riannodabile alla buona fede di chi invece ha confidato nel vantaggio derivantegli dall’atto dell’apparente funzionario pubblico: onde la teoria del funzionario di fatto può per il Tar essere invocata a tutela del terzo, ma non a relativo svantaggio o danno (giacché in tale seconda evenienza il terzo può piuttosto impugnare l’atto del funzionario “<em>di fatto</em>” a lui sfavorevole). Nella particolare materia elettorale, l’interesse di chi ricorre a presidio della propria posizione giuridica individuale o comunque facendo valere lo <em>status</em> di elettore può essere solo <em>ex ante</em>, giusta applicazione delle regole preposte, “<em>a monte</em>”, a garanzia del corretto svolgimento delle operazioni elettorali, laddove per definizione finiscono per contrapporsi posizioni di vantaggio e di svantaggio che possono essere accertate solo <em>ex post</em>, una volta che la tornata elettorale si sia completata ed in ragione del relativo esito in termini di chi sia stato eletto e chi no; laddove manchi l’investitura della persona fisica a Presidente di ufficio elettorale di sezione, e più in generale nella materia elettorale, applicare l’istituto del funzionario di fatto non avrebbe allora per il Tar un valore principalmente conservativo o comunque di tutela della buona fede, risolvendosi piuttosto in un <em>vulnus</em> ai criteri che presidiano la correttezza delle operazioni di voto e che trovano un preciso addentellato in norme di rilevanza costituzionale tra le quali <em>in primis</em>, anche se non esclusivamente, nell’art.48 Cost. in tema di diritto di voto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 aprile viene varata la legge n.35 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.5.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.43789 alla cui stregua integra il reato di usurpazione di funzioni pubbliche la condotta del consigliere comunale che partecipi alle sedute del Consiglio nonostante l'intervenuta conoscenza del provvedimento amministrativo che lo abbia dichiarato decaduto dalla carica, sebbene non avvenuta nelle forme della notificazione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2013</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo viene varato il decreto legislativo n.33, recante riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle PPAA, secondo il cui art.5 in tema di c.d. accesso civico nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può ricorrere al titolare del potere sostitutivo di cui all'articolo 2, comma 9-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, che, verificata la sussistenza dell'obbligo di pubblicazione, nei termini di cui al comma 9-ter del medesimo articolo, provvede ai sensi del comma 3, e, dunque, pubblica nel sito della PA pertinente il documento, l'informazione o il dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'Amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9486 che, uniformandosi al prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA ex art.2041 c.c., afferma unico soggetto legittimato a riconoscere l’utilità essere il soggetto pubblico beneficiato, che è il solo a poter valutare la rispondenza della prestazione o della cosa al pubblico interesse; si tratta di una manifestazione di volontà che corrisponde ad una valutazione discrezionale e soggettiva della PA – come tale non surrogabile dal GO - ed è espressione del principio costituzionale di buona amministrazione ex art. 97 Cost., laddove esso impone il divieto di spese non deliberate nei modi di legge e senza la previsione di un’apposita copertura finanziaria.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3000 che si occupa di una fattispecie in cui, nell’ambito di un organo collegiale imperfetto (<em>quorum</em> strutturale: non occorre la presenza di tutti i componenti per una valida deliberazione) e virtuale (<em>quorum</em> deliberativo: non occorre il voto unanime di tutti i componenti, essendo sufficiente che si formi la prescritta maggioranza), abbraccia la tesi più moderna e sostanzialistica onde, al fine di inficiare la deliberazione, non occorre necessariamente che venga superata la c.d. prova di resistenza essendo sufficiente (pur al cospetto delle prescritte maggioranze) che taluno dei componenti non legittimato (perché in conflitto di interessi e dunque incompatibile, con obbligo di astenersi dalla votazione) abbia spiegato sul collegio una influenza effettiva. Per il Collegio, la violazione dell’obbligo di astenersi per incompatibilità vizia in modo definitivo la formazione della volontà dell’organo collegiale in parola, risultando peraltro ininfluente che nel corso del procedimento il collegio abbia proceduto in modo imparziale, ovvero che non sussista prova che nelle relative determinazioni esso sia stato effettivamente condizionato dalla partecipazione di soggetti portatori di interessi personali diversi; né rileva che l’atto adottato dal collegio sia un parere, atteso come la violazione dell’obbligo di astensione da parte di un componente di un organo collegiale consultivo infici l’attività di questo, con effetti invalidanti sull’intera procedura e sui provvedimenti che la concludono.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.37, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44; dichiara altresì, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15; dichiara infine, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative). La Corte giunge a conclusioni che intercettano – anche sul piano pratico - questioni affrontate dalla giurisprudenza e dalla dottrina sul c.d. funzionario di fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Essa rammenta <em>in primis</em> come, secondo la propria costante giurisprudenza, nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «<em>l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso</em>» (sentenza n. 194 del 2002; <em>ex plurimis</em>, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009). In apparenza, prosegue il Collegio, la disposizione impugnata non si pone in contrasto diretto con tali principi, non conferendo in via definitiva incarichi dirigenziali a soggetti privi della relativa qualifica, bensì consentendo, in via asseritamente temporanea, l’assunzione di tali incarichi da parte di funzionari, in attesa del completamento delle procedure concorsuali. Tuttavia, prosegue la Corte, l’aggiramento della regola del concorso pubblico per l’accesso alle posizioni dirigenziali in parola si rivela effettivo, sia alla luce delle circostanze di fatto, precedenti e successive alla proposizione della questione di costituzionalità, nelle quali la disposizione impugnata si inserisce, sia all’esito di un più attento esame della fattispecie delineata dall’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012.</p> <p style="text-align: justify;">Per colmare le carenze nell’organico dei propri dirigenti, prosegue la Corte, l’Agenzia delle entrate ha, negli anni, fatto ampio ricorso ad un istituto previsto dall’art. 24 del proprio regolamento di amministrazione, disposizione che consente, «[p]<em>er inderogabili esigenze di funzionamento dell’Agenzia</em>», la copertura provvisoria delle eventuali vacanze verificatesi nelle posizioni dirigenziali, previo interpello e previa specifica valutazione dell’idoneità degli aspiranti, mediante la stipula di contratti individuali di lavoro a termine con propri funzionari, con l’attribuzione dello stesso trattamento economico dei dirigenti, «<em>fino all’attuazione delle procedure di accesso alla dirigenza</em>» e, comunque, fino ad un termine finale predeterminato. Questo termine finale è stato di volta in volta prorogato, a partire dal 2006, con apposite delibere del Comitato di gestione dell’Agenzia. Al momento della proposizione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito, esso risultava fissato al 31 dicembre 2010. Successivamente alla proposizione della questione, il termine è stato prorogato altre due volte, da ultimo (con delibera n. 51 del 29 dicembre 2011) «<em>al 31 maggio 2012</em>».</p> <p style="text-align: justify;">Le reiterate delibere di proroga del termine finale hanno di fatto consentito negli anni, osserva la Corte, di utilizzare uno strumento pensato per situazioni peculiari quale metodo ordinario per la copertura di posizioni dirigenziali vacanti. Secondo la giurisprudenza, nell’ambito dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l’illegittimità di questa modalità di copertura delle posizioni dirigenziali deriva dalla relativa non riconducibilità, né al modello dell’affidamento di mansioni superiori a impiegati appartenenti ad un livello inferiore, né all’istituto della cosiddetta reggenza. Il primo modello, disciplinato dall’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede l’affidamento al lavoratore di mansioni superiori, nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di 6 mesi prorogabili fino a 12, qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti, ma è applicabile solo nell’ambito del sistema di classificazione del personale dei livelli, non già delle qualifiche, e in particolare non è applicabile (ed è illegittimo se applicato) laddove sia necessario il passaggio dalla qualifica di funzionario a quella di dirigente (sentenza della Corte n. 17 del 2014; nella giurisprudenza di legittimità, <em>ex plurimis</em>, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 12 aprile 2006, n. 8529, e 26 marzo 2010, n. 7342).</p> <p style="text-align: justify;">Invero, l’assegnazione di posizioni dirigenziali a un funzionario può avvenire solo ricorrendo al secondo modello, cioè all’istituto della reggenza, regolato in generale dall’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo 1987 concernente il comparto del personale dipendente dai Ministeri). La reggenza si differenzia dal primo modello perché serve a colmare vacanze nell’ufficio determinate da cause imprevedibili, e viceversa si avvicina ad esso perché è possibile farvi ricorso a condizione che sia stato avviato il procedimento per la copertura del posto vacante, e nei limiti di tempo previsti per tale copertura. Straordinarietà e temporaneità – rammenta la Corte - sono perciò caratteristiche essenziali dell’istituto (<em>ex plurimis</em>, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 22 febbraio 2010, n. 4063, 16 febbraio 2011, n. 3814, 14 maggio 2014, n. 10413). Ebbene, le reiterate proroghe del termine previsto dal regolamento di organizzazione dell’Agenzia delle entrate per l’espletamento del concorso per dirigenti e, conseguentemente, per l’attribuzione di funzioni dirigenziali mediante la stipula di contratti individuali di lavoro a termine con propri funzionari, con l’attribuzione dello stesso trattamento economico dei dirigenti, hanno indotto la giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, Roma, seconda sezione, sentenze 30 settembre 2011, n. 7636, e 1° agosto 2011, n. 6884) a ritenere carenti, nella fattispecie prevista dall’art. 24 del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle entrate, i due presupposti ricordati della straordinarietà e della temporaneità, a non configurarla come un’ipotesi di reggenza e quindi a considerarla in contrasto con la disciplina generale di cui agli artt. 19 e 52 del d.lgs. n. 165 del 2001.</p> <p style="text-align: justify;">In questo quadro normativo e giurisprudenziale, e nella relativa vicenda processuale, chiosa ancora la Corte, interviene il legislatore, attraverso la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale. La norma impugnata esordisce autorizzando le Agenzie delle Entrate, del Territorio e delle Dogane ad espletare procedure concorsuali, da completarsi entro il 31 dicembre 2013, per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti, attraverso il richiamo alla disciplina contenuta nell’art. 1, comma 530, della l. n. 296 del 2006 e nell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del d.l. n. 203 del 2005, come convertito. L’autorizzazione in parola è rafforzata attraverso un riferimento alla «<em>esigenza urgente e inderogabile di assicurare la funzionalità</em>» delle strutture delle Agenzie e alla necessità di garantire «<em>una efficace attuazione delle misure di contrasto all’evasione</em>» contenute in altri commi dello stesso art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, come convertito.</p> <p style="text-align: justify;">In realtà, precisa la Corte, del tutto indipendentemente dalla norma impugnata, l’indizione di concorsi per la copertura di posizioni dirigenziali vacanti è resa possibile da norme già vigenti, che lo stesso art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito, si limita a richiamare senza aggiungervi nulla (si veda l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 203 del 2005, come convertito). Inoltre, considerando le regole organizzative interne dell’Agenzia delle entrate e la possibilità di ricorrere all’istituto della delega, anche a funzionari, per l’adozione di atti a competenza dirigenziale − come affermato dalla giurisprudenza tributaria di legittimità sulla provenienza dell’atto dall’ufficio e sulla relativa idoneità ad esprimerne all’esterno la volontà (<em>ex plurimis</em>, Corte di cassazione, sezione tributaria civile, sentenze 9 gennaio 2014, n. 220; 10 luglio 2013, n. 17044; 10 agosto 2010, n. 18515; sezione sesta civile − T, 11 ottobre 25012, n. 17400) – la funzionalità delle Agenzie non è condizionata dalla validità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata. Sicché l’obbiettivo reale della disposizione in esame è rivelato dal secondo periodo della norma in questione, ove, da un lato, si fanno salvi i contratti stipulati in passato tra le Agenzie e i propri funzionari, dall’altro si consente ulteriormente che, nelle more dell’espletamento delle procedure concorsuali, da completare entro il 31 dicembre 2013, le Agenzie attribuiscano incarichi dirigenziali a propri funzionari, mediante la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso.</p> <p style="text-align: justify;">Dopo la proposizione della questione di legittimità costituzionale, rammenta la Corte come il termine originariamente fissato per il «<em>completamento</em>» delle procedure concorsuali venga prorogato due volte. Dapprima, l’art. 1, comma 14, primo periodo, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15, lo ha spostato al 31 dicembre 2014, purché le procedure fossero indette entro il 30 giugno 2014, con la precisazione che, nelle more, era possibile prorogare o modificare solo gli incarichi dirigenziali già attribuiti, non invece conferirne di nuovi. Successivamente, l’art. 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), lo ha ulteriormente prorogato al 30 giugno 2015. Benché il legislatore abbia esplicitamente precisato, in questi interventi di proroga, che non è consentito conferire nuovi incarichi a funzionari interni, è indubbio che gli interventi descritti abbiano aggravato gli aspetti lesivi della disposizione impugnata. In tal modo, infatti, il legislatore apparentemente ha riaffermato, da un lato, la temporaneità della disciplina, fissando nuovi termini per il completamento delle procedure concorsuali, ma, dall’altro, allontanando sempre di nuovo nel tempo la scadenza di questi, ha operato in stridente contraddizione con l’affermata temporaneità.</p> <p style="text-align: justify;">La norma impugnata – prosegue ancora la Corte - ha cura di esibire, quale caratteristica essenziale, la propria temporaneità: il ricorso alla descritta modalità di copertura delle posizioni dirigenziali vacanti sarebbe provvisorio, strettamente collegato all’indizione di regolari procedure concorsuali per l’accesso alla dirigenza, da completarsi entro un termine ben identificato, che la disposizione impugnata, in origine, fissava al 31 dicembre 2013. Tuttavia, l’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito, inserisce in tale costruzione un elemento d’incertezza, nella parte in cui stabilisce che, fatto salvo quanto disposto dall’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, le Agenzie interessate non potranno attribuire nuovi incarichi dirigenziali a propri funzionari «[a] <em>seguito dell’assunzione dei vincitori delle procedure concorsuali di cui al presente comma</em>». Questo significa che al termine, certo nell’<em>an</em> e nel <em>quando</em>, del completamento delle procedure concorsuali – nelle cui more è possibile attribuire incarichi dirigenziali con le modalità descritte – si affianca un diverso termine, certo nella sola attribuzione del diritto all’assunzione, ma incerto nel <em>quando</em>, perché tra il completamento delle procedure concorsuali (coincidente con l’approvazione delle graduatorie) e l’assunzione dei vincitori, può trascorrere, per i più diversi motivi, anche un notevole lasso di tempo. È quindi lo stesso tenore testuale della disposizione impugnata a non escludere – per la Corte - che, pur essendo concluse le operazioni concorsuali, le Agenzie interessate possano prorogare, per periodi ulteriori, gli incarichi dirigenziali già conferiti a propri funzionari, in caso di ritardata assunzione di uno o più vincitori. In questo senso, in contraddizione con l’affermata temporaneità, il termine finale fissato dalla disposizione impugnata finisce per non essere «<em>certo, preciso e sicuro</em>» (sentenza n. 102 del 2013).</p> <p style="text-align: justify;">Per questo, precisa la Corte, non è conferente il richiamo alla fattispecie normativa scrutinata con la sentenza della Corte n. 212 del 2012. In tale sentenza, l’infondatezza della questione derivava dalla circostanza per cui la norma di legge (regionale) impugnata consentiva, in assenza di personale con qualifica dirigenziale, che talune delle suddette funzioni potessero essere attribuite a funzionari della categoria più elevata non dirigenziale, fino all’espletamento dei relativi concorsi e, comunque, per non più di due anni. Come si vede, in quel caso il termine finale della copertura delle vacanze attraverso il conferimento d’incarichi non era ancorato ad un evento incerto nel quando come l’assunzione dei vincitori, ma era fissato perentoriamente. Anche considerando il tenore letterale della norma impugnata, quindi, il carattere di temporaneità della soluzione da essa prevista tende, nel caso di specie, a scolorire fin quasi ad annullarsi.</p> <p style="text-align: justify;">Si aggiunga per quanto necessario, chiosa ancora la Corte, che la regola del concorso non è certo soddisfatta dal rinvio che la stessa norma impugnata opera all’art. 19, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui stabilisce che gli incarichi dirigenziali ai funzionari «<em>sono attribuiti con apposita procedura selettiva</em>». In realtà, la norma di rinvio si limita a prevedere che l’Amministrazione renda conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti che si rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta, stabilendo, altresì, che siano acquisite e valutate le disponibilità dei funzionari interni interessati. I contratti non sono dunque assegnati attraverso il ricorso ad una procedura aperta e pubblica, conformemente a quanto richiesto dagli artt. 3, 51 e 97 Cost. (sentenze n. 217 del 2012, n. 150 e n. 149 del 2010, n. 293 del 2009, n. 453 del 1990).</p> <p style="text-align: justify;">In definitiva, conclude la Corte, l’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito, ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica. Per questo, ne va dichiarata l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost. Posto che le ricordate proroghe di termini fanno corpo con la norma impugnata, producendo unitamente ad essa effetti lesivi, ed anzi aggravandoli, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa – per la Corte - all’art. 1, comma 14, del d.l. 30 dicembre 2013, n. 150, come convertito, e all’art. 1, comma 8, del d.l. 31 dicembre 2014, n. 192. E proprio perché tali disposizioni hanno carattere consequenziale e concorrono a integrare la disciplina impugnata, non vi sono ostacoli ad estendere ad esse la dichiarazione d’illegittimità costituzionale, pur trattandosi di disposizioni normative sopravvenute al giudizio <em>a quo</em>. Infatti, l’apprezzamento della Corte, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, non presuppone la rilevanza delle norme ai fini della decisione propria del processo principale, ma cade invece sul rapporto con cui esse si concatenano nell’ordinamento, con riguardo agli effetti prodotti dalle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionali (sentenza n. 214 del 2010).</p> <p style="text-align: justify;">La pronuncia pone dunque il problema della validità degli atti (soprattutto impositivi) posti in essere dai “<em>funzionari apparenti dirigenti</em>” fino alla pronuncia della Corte che ne ha dichiarata illegittima dal punto di vista costituzionale l’investitura, per l’appunto, come “<em>dirigenti</em>”, potendo rilevare potenzialmente proprio la teoria del funzionario “<em>di fatto</em>” al fine di giustificare la validità di tali atti (in particolare, degli atti a valenza tributaria), con conseguenti effetti solo per il futuro della declaratoria di incostituzionalità.</p> <p style="text-align: justify;">***</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 aprile esce la sentenza della Sezione I della Commissione Tributaria Provinciale di Gorizia n.63/01/15 che assume la pronuncia della Corte costituzionale n. 37/2015 non comportare affatto la caducazione (nullità) degli avvisi di accertamento oggetto del relativo scandaglio; per la CTP va applicata la teoria del funzionario di fatto, sulla scorta della giurisprudenza assolutamente prevalente che afferma che gli atti ‘<em>medio tempore’</em> adottati dal funzionario la cui nomina sia stata annullata sono da considerarsi efficaci, essendo irrilevante verso i terzi il rapporto fra la pubblica amministrazione e la persona fisica dell’organo che agisce.</p> <p style="text-align: justify;">***</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 aprile esce la sentenza della sezione I della Commissione Tributaria Provinciale di Pesaro n. 309/1/15 che conferma la valenza solo per il futuro della pronuncia della Corte costituzionale n.37 del 2015, con conseguente piena validità degli atti tributari adottati <em>medio tempore</em> dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate cui è stata illegittimamente attribuita la veste di dirigenti. Per la Commissione va richiamato non solo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (“<em>sentenze n. 8248/2006, 4283/2010, 1346/2012, 11458/2012, 17044/2013, 14942/2013, 220/2014, 18758/2014</em>”), ma anche la stessa affermazione contenuta nella sentenza della Corte costituzionale 37/2015, secondo la quale “<em>la funzionalità delle Agenzie non è condizionata dalla validità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata</em>…”, dacché è possibile per i dirigenti dell’Agenzia delle Entrate ricorrere alla delega ai propri funzionari per la sottoscrizione degli atti impositivi, dovendosi allora concludere – sulla base di un’interpretazione “<em>più conforme ai principi generali e ad una lettura costituzionalmente orientata (articoli 53 e 97 Cost</em>.)” – nel senso che la decisione della Corte “<em>ha effetti solo per il futuro mentre, per gli atti già emessi, la validità è fuori discussione purché… essi promanino e siano riferibili all’ufficio che esprime la volontà impositiva</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">***</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 maggio esce la sentenza delle SSUU n.10798 che, in tema di azione di ingiustificato arricchimento nei confronti della PA, risolve il contrasto da tempo insorto in seno alle Sezioni Semplici, intervenendo con una soluzione assunta dalla dottrina “<em>di rottura</em>” con la tradizione. Per il Collegio – che richiama i propri remoti precedenti del 1975 e del 1982, rimasti tuttavia isolati - il requisito speciale del riconoscimento dell’<em>utilitas</em> non ha alcun fondamento normativo, onde i presupposti dell’azione di ingiustificato arricchimento, a prescindere dalla veste pubblica o privata del soggetto che ha conseguito la locupletazione, sono sempre e soltanto quelli previsti dagli <a href="https://www.altalex.com/documents/news/2013/04/11/dell-arricchimento-senza-causa">artt. 2041 e 2042 c.c.</a> Va piuttosto valorizzato per il Collegio il principio costituzionale del diritto di azione contro gli atti della pubblica amministrazione, scolpito negli artt. 24 e 113 Cost., onde va assunto inammissibile - anche in considerazione del carattere residuale dell’azione in parola - che la tutela del privato venga posposta rispetto ad una scelta - peraltro discrezionale - del soggetto pubblico. La <em>ratio</em> dell’azione di cui all’<a href="https://www.altalex.com/documents/news/2013/04/11/dell-arricchimento-senza-causa">art. 2041 c.c.</a> è per la Corte quella di predisporre, attraverso il riconoscimento di un indennizzo, un rimedio ad una situazione di iniquità generata da arricchimenti senza causa o da spostamenti patrimoniali ingiustificati, come tali notoriamente vietati dall’ordinamento, coniugando tale garanzia con la coeva esigenza di tutela delle finanze pubbliche, essendo sempre consentito all’Ente pubblico di non subire oneri economici non preventivati giusta dimostrazione di non aver voluto l’arricchimento, ovvero che questo si è verificato a relativa insaputa. Per il Collegio, nella sostanza, la disciplina dettata dal codice civile in tema di azione di ingiustificato arricchimento deve assumersi avere portata generale per cui, ove tale azione venga spiccata contro la PA, non è più da assumersi necessario il requisito del riconoscimento dell’<em>utilitas</em>, circostanza che incide sul riparto dell’onere della prova dacché l’attore privato deve provare - e il giudice accertare - il fatto oggettivo dell’altrui (nel caso di specie, pubblica) <em>locupletatio</em>, la propria correlativa <em>deminutio patrimonii</em> e l’assenza di una giusta causa, oltre all’insussistenza di altre azioni (c.d. sussidiarietà), mentre la PA deve eccepire e dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o che di esso non fu consapevole. Si tratta di conclusioni che, per le SSUU, si palesano maggiormente aderenti tanto ai principi costituzionali, quanto ai canoni che presidiano specificamente la materia considerata, laddove viene assegnata una dimensione fattuale di evento “<em>oggettivo</em>” all’arricchimento ingiustificato ex art.2041 c.c., ed alla relativa azione (da spiccarsi innanzi al GO) una funzione di rimedio generale a situazioni giuridiche altrimenti ingiustificatamente prive di tutela; per questo motivo, tale azione non annovera tra le proprie condizioni di proponibilità il riconoscimento (quand’anche implicito) dell’<em>utilitas</em> <em>ex parte publica</em>, potendo il pertinente vantaggio – oggettivamente inteso – essere accertato anche dal GO, pur in difetto di una volontà di fruire e beneficiare della prestazione formalizzata dal competente organo dell’ente pubblico, ed anche in sostituzione di tale volontà, senza che a ciò osti il principio di discrezionale valutazione del pubblico interesse, dacché lo stesso mancato rifiuto <em>ex parte publica</em> della prestazione erogata dal privato, unito alla consapevolezza della relativa esecuzione, genera in capo alla PA beneficiata l’obbligo di indennizzare il soggetto privato che l’ha resa.</p> <p style="text-align: justify;">***</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.22810, che torna ad occuparsi autorevolmente della sorte degli atti tributari adottati da funzionari dell’Agenzia delle Entrate investiti di qualifica dirigenziale con norma successivamente dichiarata incostituzionale con sentenza della Consulta n.37 del 2015. Nonostante l'inammissibilità, nel caso di specie, dei motivi di ricorso scandagliati, la Corte reputa di affrontare egualmente la sottostante questione giuridica nell'ottica di cui all'art. 363 cod. proc. civ., giacché la questione si presenta di particolare importanza avendo determinato, con ampio risalto mediatico, caotiche interpretazioni in sede di merito. E, nel farlo, se da un lato sembra assumere irrilevante la teoria del c.d. funzionario di fatto (per la Corte, l’atto impositivo è valido se sottoscritto dal capo dell’ufficio, quand’anche non sia un dirigente), dall’altro – e nel medesimo tempo – essa sembra in realtà porre tale teoria a sostanziale fondamento del proprio <em>decisum</em> laddove fa perno sul principio di necessaria continuità dell’azione amministrativa in generale, e di quella tributaria in particolare.</p> <p style="text-align: justify;">Il nodo interpretativo riguarda specificamente – precisa <em>in primis</em> la Corte - la sorte degli atti tributari sottoscritti da soggetti capi di ufficio o delegati - la cui qualifica dirigenziale sia risultata conseguita illegittimamente in relazione alla sopravvenuta sentenza n. 37 del 2015 della corte costituzionale, laddove ha sancito: (a) in via principale, l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, 24° comma, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, 1° comma, della legge 26 aprile 2012, n. 44; (b) ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, 14° comma, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, 1° comma, della legge 27 febbraio 2014, n. 15; (e) ancora ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art 1, 7 8° comma, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative). Sinteticamente, prosegue la Corte, la ragione della declaratoria di incostituzionalità è stata ancorata al fatto che, in relazione al personale delle agenzie fiscali: (aa) l'art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16 del 2012, ha contribuito all'indefinito protrarsi nel tempo di assegnazioni asseritamente temporanee di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica, in contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 cost.; (bb) le ricordate proroghe di termini hanno a loro volta fatto corpo con la norma anzidetta producendo unitamente a essa gli effetti lesivi, e anzi aggravandoli, così da non sottrarsi alla declaratoria di illegittimità costituzionale in estensione.</p> <p style="text-align: justify;">Tanto premesso, chiosa ancora la Corte, una tesi ha affermato - non senza contrasti - che la declaratoria di illegittimità costituzionale suddetta avrebbe l'effetto di travolgere gli atti tributari anteriormente sottoscritti da soggetti che non abbiano conseguito la qualifica dirigenziale in conformità alla legge, ovvero da soggetti comunque delegati da quelli. La ragione sarebbe da rinvenire nell'art. 42, 1° e 3° comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, atteso che questa norma prevede, da un lato, che "<em>gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato</em>" e, dall'altro, che "<em>l'accertamento è nullo se l'avviso non reca la sottoscrizione</em> (..) <em>di cui al presente articolo</em>". La tesi si fonda sulla considerazione che, ai fini della valida sottoscrizione dell'atto impositivo, non sarebbe sufficiente la posizione di capo dell'ufficio in chi ha sottoscritto l'atto ovvero ha conferito la delega, occorrendo altresì la qualifica dirigenziale di quel soggetto. E, a scanso di equivoci, è da puntualizzare per la Corte che le questioni dell'esistenza del potere di firma del soggetto preposto e/o della esistenza e della validità della delega conferita all'eventuale soggetto sottoposto possono certamente essere contestate e verificate in sede giurisdizionale tributaria, implicando l'indagine e l'accertamento sul tema un controllo, non sull'organizzazione interna della p.a., ma sulla legittimità dell'esercizio della funzione amministrativa prevista a pena di nullità quanto agli atti integranti la relativa estrinsecazione.</p> <p style="text-align: justify;">Tuttavia il dianzi sottolineato presupposto dell'affermazione - vale a dire che, ai fini della valida sottoscrizione di un atto impositivo, sarebbe necessario in chi ha sottoscritto l'atto ovvero ha conferito la delega il possesso di una qualifica dirigenziale - non è per la Corte giustificato dal dato normativo, e dunque non è corretto. Difatti il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, 1° comma, si limita a prevedere che gli avvisi, con cui sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio, sono sottoscritti dal "<em>capo dell'ufficio</em>" o "<em>da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato</em>", senza richiedere che il capo dell'ufficio abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale. La norma, contestualmente prevedendo l'ipotesi di nullità, individua cioè nel capo dell'ufficio, per il solo fatto di essere stato nominato tale, l'agente capace di manifestare la volontà dell' Amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna. In tal modo identifica quale debba essere in definitiva la professionalità per legge idonea a emettere atti suscettibili di produrre i previsti effetti nella sfera giuridica del destinatario.</p> <p style="text-align: justify;">Tale conclusione, per quanto esplicitamente sostenuta in un solo precedente (v. Sez. 5^ n. 18515-10), può considerarsi del tutto pacifica nella giurisprudenza della Corte; ed alla suddetta pacifica affermazione di principio va associato un argomento logico-letterale la cui rilevanza appare innegabile per la soluzione del problema in esame: se, in base alla norma di cui all'art. 42, 1° comma, l'atto impositivo può essere sottoscritto anche da un "<em>altro</em>" impiegato della carriera direttiva delegato dal capo dell'ufficio, e se tale "<em>altro</em>" impiegato può essere un funzionario di area direttiva non dirigenziale (appunto l'impiegato ex nono livello), per proprietà transitiva è logico desumere che la medesima qualifica di semplice impiegato della carriera direttiva vale a identificare, in base alla stessa norma di legge, la posizione del capo dell'ufficio delegante; posizione in tal misura necessaria ma anche sufficiente ai fini specifici della validità degli atti. La conclusione è in simile prospettiva direttamente evincibile dal testo dell' art. 42, l° comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, in cui l'utilizzo dell'espressione "<em>altro</em>" non può essere privata di significato al fine di individuare il precetto sottostante. Essa vale a stabilire che la legge consente che anche il capo dell'ufficio sia, al pari del delegato, e al fine di legittimamente sottoscrivere gli avvisi di accertamento, un semplice impiegato della carriera direttiva. Né la norma si presta a un'interpretazione diversa da quella letterale. Merita per la Corte di essere sottolineato in proposito che l'espressione "<em>impiegato della carriera direttiva</em>" è stata coniata in un contesto ordinamentale complessivo che già conosceva le qualifiche funzionali della dirigenza pubblica; al punto da doversi considerare utilizzata dal legislatore a proposito, in senso non evocativo, cioè di un requisito specifico qual è quello inerente al non richiamato possesso della "<em>qualifica dirigenziale</em>".</p> <p style="text-align: justify;">Giova rammentare – prosegue la Corte - che nelle amministrazioni statali la figura del dirigente - antesignana di quella attualmente prevista dal d.lgs. n. 165 del 2001 - è stata introdotta per la prima volta col d.P.R. n. 748 del 1972, cui si deve la creazione della nuova carriera dirigenziale scissa da quella semplicemente direttiva prevista dall'anteriore d.P.R. n. 3 del 1957. La già avvenuta introduzione nel comparto dei ministeri della nuova figura dotata di attribuzioni proprie, direttamente conferite dalla legge, oltre tutto articolata in tre qualifiche di ordine ascendente (primo dirigente, dirigente superiore e dirigente generale), induce a sottolineare che se a tale figura il legislatore tributario del 1973 avesse inteso riferirsi nella determinazione del soggetto avente titolo rappresentativo dell'Amministrazione quanto agli avvisi di accertamento, e addirittura a pena di nullità degli avvisi diversamente sottoscritti, lo avrebbe fatto redigendo il precetto in termini specifici e coerenti con una tale volontà. Tutto ciò conferma che, sotto la sanzione di nullità degli atti, compete al titolare dell'ufficio, quale organo deputato a svolgerne le mansioni fondamentali, ovvero "<em>a un altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato</em>", la funzione di sottoscrivere gli avvisi con i quali sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti, indipendentemente dal ruolo dirigenziale eventualmente ricoperto.</p> <p style="text-align: justify;">In qualche caso – chiosa ancora la Corte - si è detto che l'appartenenza al ruolo dirigenziale sarebbe stata prevista per implicito dal regolamento interno di amministrazione dell'Agenzia delle Entrate approvato con la delibera del comitato direttivo n. 4 del 22-4-2000. Ma questo dato non possiede alcuna rilevanza, atteso che tale regolamento esaurisce i propri effetti nell'ambito del rapporto di impiego (o di servizio) tra il suddetto funzionario e l'amministrazione. Così come non supera consimili confini - e dunque non rileva esso pure in senso contrario all'art. 42, 1° e 3° comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, o comunque in senso integrativo o correttivo - il d.lgs. n. 165 del 2001 che, agli artt. 17 e seg., ha ridefinito, come già si è anticipato, l'ambito delle competenze e delle funzioni della cd. carriera dirigenziale. Anche in tal caso si tratta di "<em>norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche</em>", e dunque di norme sì di rango paritario rispetto all'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, ma non interferenti col regime di validità degli atti solo da tale norma derivante, costituenti estrinsecazione della funzione amministrativa di dettaglio. L'autonoma valenza riconosciuta al ripetuto art. 42 trova conforto, ai fini specifici, nella costante affermazione giurisprudenziale secondo cui va esclusa, in materia tributaria, l'applicazione del principio desumibile dall'art. 21-octies della 1. n. 241 del 1990, secondo il quale è in sé invalido l'atto amministrativo emanato in violazione di una norma di legge. Sicché la nullità, di cui è dato discutere nella presente sede, è soltanto quella rigidamente circoscritta dai limiti dell'art. 42 citato, rispetto alla quale non assume rilievo l'eventuale illegittimità del conferimento d'incarico (finanche temporaneo) al capo dell'ufficio siccome avvenuto in dipendenza di una norma regolamentare illegittima o, per quanto rileva, di una norma di legge dichiarata incostituzionale.</p> <p style="text-align: justify;">Quanto esposto in ordine alla corretta esegesi dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 costituisce del resto un corollario del principio generale che presidia l'attività amministrativa di accertamento fiscale, rispondente a peculiari esigenze di stabilità e di continuità. La <em>ratio</em> della previsione normativa ex art. 42 cit. appare intesa così a circoscrivere, per quanto possibile, le fasi di interruzione dell'azione amministrativa di accertamento, coincidenti, per esempio, con la durata di espletamento di concorsi per l'attribuzione di qualifiche dirigenziali, tenuto conto del fatto che, in ambito fiscale come in altri di rilevanza essenziale per l'ordinamento, la celerità dell'azione amministrativa coincide con l'efficienza, ed è presidiata da altrettante norme costituzionali (art. 53 e 97 cost.). Poiché allora il 3° comma dell'art. 42 postula l'esistenza del vizio invalidante in relazione al non essere l'atto fiscale proveniente da chi abbia titolo per agire in nome e per conto dell'Amministrazione, e poiché colui che vanta, in base al 1° comma della norma, questo titolo è il funzionario di carriera direttiva che sia stato messo a capo dell'ufficio ovvero che sia stato da questi appositamente delegato, non anche il funzionario avente qualifica dirigenziale, la conseguenza è che rimane irrilevante, ai fini specifici, la sopravvenuta decisione n. 37 del 2015 della corte costituzionale. La decisione invero, per la Corte non può incidere sulla validità degli atti tributari perché diverso è il relativo oggetto, riguardando il solo aspetto attinente all'art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16 del 2012, convertito con mod. nella l. n. 44 del 2012, dichiarato illegittimo per il fatto di consentire alle amministrazioni finanziarie l'attribuzione di incarichi dirigenziali a propri funzionari fino all'espletamento delle procedure concorsuali, da completare entro il 31 dicembre 2013, con salvezza degli incarichi già conferiti; norma che (unitamente alle disposizioni di proroga) è stata ritenuta in violazione degli artt. 3, 51 e 97 cost., per aver contribuito all'indefinito protrarsi nel tempo di assegnazioni asseritamente temporanee di mansioni superiori, senza copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica. Tuttavia i due aspetti - quello della dirigenza e quello della validità degli atti anteriormente sottoscritti da impiegati della carriera direttiva, preposti agli uffici finanziari o delegati - non sono, per quanto esposto, in modo alcuno confondibili, non essendo previsto che gli avvisi di accertamento promanino, per essere imputabili all'Amministrazione finanziaria, da soggetti aventi qualifiche dirigenziali.</p> <p style="text-align: justify;">Cosicché, e conclusivamente, per la Corte non è utile ai fini specifici insistere oltre circa la portata retroattiva ordinariamente ascrivibile alla citata declaratoria di incostituzionalità, per il semplice fatto che quella declaratoria resta irrilevante quanto alla soluzione del problema in esame. La richiamata pronuncia n. 37 del 2015 riguarda il profilo involto dalla norma consentanea all'attribuzione degli incarichi dirigenziali senza concorso. Dunque non supera, sul piano effettuale, i confini del rapporto interno (di impiego o di servizio) tra l'Amministrazione e il personale direttivo, e non attinge la sorte degli atti, rispetto ai quali rileva in modo autosufficiente (solo) l'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, in rapporto alla disciplina del quale devesi stabilire se la volontà dell'ente sia stata validamente manifestata dal soggetto che, indipendentemente dalla qualifica dirigenziale, legittimamente rivestiva la funzione da esso articolo considerata (con riferimento, dunque, al diverso rapporto “<em>organico</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Possono in conclusione per la Corte essere affermati nell'interesse della legge, ai sensi dell'art. 363 cod. proc. civ., i seguenti principi di diritto: "<em>In ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d'ufficio, il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l'atto sia sottoscritto dal "</em>capo dell'ufficio<em>" o "</em>da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato<em>",</em> <em>senza richiedere che il capo dell'ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni. In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma appena evocata, i "</em>funzionari di area terza<em>" di cui al 18 contratto del comparto agenzie fiscali fissato per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma sopra citata individua l'agente capace di manifestare la volontà della amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti. Essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali, e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell'ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16 del 2012</em>". Per la Corte dunque la fattispecie decisa dalla Corte costituzionale non ha comportato, in effetti, un problema di possibili funzionari “<em>di fatto</em>”, essendo il funzionario non dirigente, ma appartenente alla carriera di direttiva, da riconoscersi quale funzionario “<em>di diritto</em>” per quanto concerne l’adozione dei pertinenti atti impositivi.</p> <p style="text-align: justify;">***</p> <p style="text-align: justify;">Il 2 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.24492, che premette come da tempo, nella giurisprudenza di legittimità si sia affermato l'orientamento secondo cui, in tema di imposte sui redditi, deve ritenersi, in base al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 1 e 3, che gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell'ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva (addetto a tale ufficio) validamente delegato dal reggente di questo. Ne consegue che la sottoscrizione dell'avviso di accertamento - atto della p.a. a rilevanza esterna - da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall'art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato (Cass. 27 ottobre 2000, n. 14195).</p> <p style="text-align: justify;">Analogamente, altra decisione di poco posteriore ha affermato che l'avviso di accertamento è nullo, ai sensi del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell'ufficio titolare ma di un funzionario della carriera direttiva incombe all'Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l'esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell'ufficio. Fermi, infatti, i casi di sostituzione e reggenza di cui al D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, comma 1, lett. a) e b), è espressamente richiesta la delega a sottoscrivere: il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario, ancorché della carriera direttiva, alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell'ufficio (Cass. 10 novembre 2000, n. 14626). Più di recente – chiosa la Corte – essa ha confermato tali princìpi ribadendo che l'avviso di accertamento è nullo, ai sensi del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell'ufficio titolare ma di un funzionario della carriera direttiva, incombe all'Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell'ufficio, poiché il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell'ufficio (Cass. 11 ottobre 2012, n. 17400).</p> <p style="text-align: justify;">A tale oramai consolidato orientamento – prosegue la Corte - ha dato ulteriore continuità la sentenza n. 14942 del 14 giugno 2013 ribadendo che, nella individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l'avviso di accertamento, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, incombe all'Agenzia delle Entrate l'onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega. In tale occasione la S.C. ha evidenziato che tale conclusione è effetto diretto dell'espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell'avviso di accertamento (cfr. in materia d'imposte dirette Cass. 17400/12, 14626/00, 14195/00). Previsione che trova giustificazione nel fatto che, come è stato osservato, gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione de potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da (e contestando) le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l'atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (v. Cass. 5 settembre 2014, n. 1875 e, da ultimo, Cass. 9 novembre 2015, n. 22800). Solo in diversi contesti fiscali - quali ad esempio la cartella esattoriale (Cass. 13461/12), il diniego di condono (Cass. 11458/12 e 220/14), l'avviso di mora (Cass. 4283/10), l'attribuzione di rendita (Cass. 8248/06) - e in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell'atto all'organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo); mentre, per i tributi locali, è valida anche la mera firma stampata, ex legge n. 549 del 1995, art. 3, comma 87 (Cass. 9627/12). Nella specifica materia dell'IVA, il d.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, nel riferirsi, nel comma 1, ai modi stabiliti per le imposte dirette, richiama implicitamente il d.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, anche il ridetto art. 42 sulla nullità dell'avviso di accertamento, se non reca la sottoscrizione del capo dell'ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (cfr., in materia di IVA, Cass. 10513/08, 18514/10 e 19379/12, in motiv.).</p> <p style="text-align: justify;">L'orientamento in rassegna, che la Corte ribadisce di voler confermare, viene assunto non contraddetto dalla sentenza n. 22800 del 9 novembre 2015 che, soffermandosi sulla diversa, anche se potenzialmente interferente, questione della interpretazione del concetto di "<em>impiegato della carriera direttiva</em>" cui può essere delegato, a mente della disposizione in esame il potere di sottoscrizione dell'atto (e giungendo al riguardo alla conclusione per cui per le agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la vecchia nona qualifica funzionale, ritenuta idonea a determinare la validità dell'atto in numerose sentenze della Corte che hanno respinto la tesi dei contribuenti secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio: cfr. Cass. 5 settembre 2014, n.18758) ha tuttavia certamente tenuto fermo il principio — che qui viene in rilievo — secondo cui ove venga contestata l'esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell'ufficio e/o l'appartenenza dell'impiegato delegato alla carriera direttiva come sopra definita, spetta alla Amministrazione fornire la prova della non sussistenza del vizio dell'atto. Ciò sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della vicinanza della prova, in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente l'Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente (Cass. 5 settembre 2014, n. 18758; Cass. 10 luglio 2013, n. 1704 ; Cass. giugno 2013, n. 14942); non essendo, dunque, nemmeno consentito al giudice tributario attivare d'ufficio poteri istruttori.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 febbraio esce la sentenza della I sezione del Tar Toscana n.331 secondo la quale gli atti adottati da funzionari ai quali sono state illegalmente attribuite funzioni dirigenziali debbono considerarsi affetti da nullità strutturale per mancanza di elementi essenziali ai sensi dell’art.21 septies della legge 241.90, la valida investitura dell’autore del provvedimento costituendo difatti un requisito in difetto del quale la volontà da egli espressa non può essere imputabile alla PA, costituendo le qualità professionali di chi adotta l’atto una essenziale garanzia per il cittadino che entra in contatto con la PA.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 maggio viene varato il decreto legislativo n.97 che, nel modificare l’art.5 del precedente decreto legislativo n.33.13, rimodula la disciplina del c.d. accesso civico dei poteri sostitutivi ad esso riconnessi in caso di inerzia dell’organo competente. In particolare, secondo il nuovo comma 7 dell’art.5, nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il termine indicato al precedente comma 6, il richiedente può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, di cui all'articolo 43, che decide con provvedimento motivato, entro il termine di 20 giorni.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 dicembre esce la sentenza della III sezione del Tar Toscana n.1576 alla cui stregua gli atti amministrativi con rilevanza esterna adottati da funzionari privi di qualifica dirigenziale (e, dunque, “<em>di fatto</em>”) devono considerarsi affetti da nullità strutturale ex art. 21-septies, Legge. n. 241/1990. Il Tar rammenta in particolare come secondo la propria giurisprudenza la stabile attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del compito di adottare atti amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il disposto dell'art. 17, comma 1 bis, del D.Lgs. 165/2001 (TAR Toscana, III, n. 1700/2015); tale norma (avente rango legislativo e non derogabile da parte della contrattazione collettiva in quanto afferente profili organizzativi) trova il proprio antecedente nelle disposizioni del D.Lgs n. 29 del 1993 (vigente all’epoca della adozione del provvedimento impugnato) che attribuivano ai dirigenti tutti i compiti di rilevanza esterna (art. 3 comma 2) e precludevano la stabile attribuzione di mansioni superiori a funzionari privi della menzionata qualifica (art. 57). A ciò occorre aggiungere – prosegue il Tar - che, sempre secondo la giurisprudenza della Sezione, il provvedimento sottoscritto dal funzionario non dirigente è nullo e non semplicemente annullabile (sentenza n. 331/2016).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che cosa si intende per competenza amministrativa e cosa occorre rammentare in proposito dal punto di vista “<em>statico</em>”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>può essere riferita ad un soggetto o, all’interno di un soggetto, ad un organo di esso;</li> <li>in entrambi i casi si fa riferimento ad un complesso di poteri e funzioni che il soggetto o l’organo sono, rispettivamente, legittimati ad esercitare;</li> <li>quando il riferimento è all’intero soggetto PA, la competenza prende più tecnicamente il nome di “<em>attribuzione</em>”, mentre “<em>competenza</em>” designa in genere l’ambito dei poteri e delle funzioni propri di un organo, che è articolazione interna di un soggetto PA;</li> <li>l’attribuzione di un soggetto pubblico, e dunque di una PA, è strettamente avvinta agli interessi pubblici che la legge le demanda di perseguire; ciascuno degli organi della ridetta PA – chiamato a perseguire tali interessi - ha un ambito di poteri e funzioni ad esso assegnato dal sistema, e dunque una “<em>competenza</em>” che costituisce, come tale, il <em>quantum</em>, la misura dell’attribuzione di ciascun organo all’interno di una singola Amministrazione, per il perseguimento degli interessi pubblici ad essa demandati dalla legge;</li> <li>tra due soggetti pubblici PA si pone dunque un problema di attribuzioni (e di eventuale difetto di attribuzione di uno rispetto all’altro); all’interno del singolo soggetto pubblico PA, e tra i relativi organi, si pone invece un problema di competenza (e di eventuale incompetenza di uno rispetto all’altro);</li> <li>a livello di organi, si distinguono: f.1) la competenza interna: si tratta dei poteri e delle funzioni dell’organo con effetti esclusivamente interni al soggetto PA considerato; non vige la riserva di legge di cui all’art.97 Cost. e dunque tali poteri e funzioni possono essere disciplinati anche da fonti di natura secondaria; f.2) la competenza esterna: si tratta dei poteri e delle funzioni dell’organo con effetti esterni al soggetto PA considerato, e dunque con effetti rispetto ai terzi; vige la riserva di legge di cui all’art.97 Cost. e dunque tali poteri e funzioni possono essere disciplinati solo da fonte primaria; nondimeno, trattandosi di riserva di legge “<em>relativa</em>”, possono intervenire in sede di disciplina di dettaglio anche fonti di natura secondaria;</li> <li>la competenza si distingue in: g.1) competenza per materia o per oggetto, con riguardo all’ambito per l’appunto oggettivo in cui si esplica il potere o la funzione dell’organo (o del soggetto, se si tratta di attribuzione) considerato, come nel classico esempio dei Ministeri, ciascuno dei quali “<em>serve</em>”, per l’appunto, una determinata materia, e persegue dunque un determinato interesse pubblico; quando la competenza è attribuita dalla legge ad un solo organo (o soggetto, nel caso di attribuzione) si parla di competenza esclusiva, che diviene invece concorrente quando è ripartita tra più organi, laddove tutti gli organi coinvolti hanno il potere di determinarsi sull’interesse pubblico di riferimento, ovvero uno ha il potere di decidere e l’altro (o gli altri) <em>ex ante</em> un potere consultivo ovvero, <em>ex post</em>, di controllo; g.2) nel medesimo ambito, e dunque con riguardo alla medesima competenza per materia od oggetto, competenza per territorio, onde ciascuno organo è – in quella materia o per quell’oggetto – competente in un dato territorio di riferimento; per quanto riguarda i soggetti, si configurano enti territoriali, laddove il territorio si configura come elemento costitutivo della relativa consistenza e, ad un tempo, limite alla pertinente attività ed ai relativi effetti; g.3) in una determinata materia od oggetto, nell’ambito di un dato territorio, competenza per grado, che fa riferimento ad un rapporto di gerarchia laddove esistono organi gerarchicamente sovraordinati e gerarchicamente sottordinati, gli atti di questi ultimi dovendosi assumere non definitivi e come tali impugnabili dinanzi ai primi, giusta ricorso (per l’appunto) gerarchico; g.4) competenza per valore, che afferisce a determinati limiti di spesa pubblica (tetti) in capo agli organi preposti alla cura di determinati interessi pubblici.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che cosa occorre rammentare della competenza dal punto di vista “<em>dinamico</em>”?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere dalla riserva di legge di cui all’art.97 Cost. che, proprio perché tale, non consente spostamenti di competenza giusta fonti subordinate né, tampoco, giusta provvedimenti amministrativi, dovendosi dunque tendenzialmente assumere la competenza amministrativa siccome fissata dalla legge come inderogabile;</li> <li>quello che può essere oggetto di spostamenti “<em>senza legge</em>” non è la competenza staticamente intesa, ma il relativo “<em>esercizio</em>” e dunque – dinamicamente – la spendita del potere pubblico ad essa avvinto sulla base della legge, che un organo può trasferire ad un altro senza che quest’ultimo – che pure “<em>esercita</em>” appunto il tal potere pubblico – ne divenga attributario o titolare e, dunque, organo “<em>competente</em>”; quando si sposta invece, eccezionalmente, la competenza anche sul piano statico, occorre la fonte di rango primario;</li> <li>le 3 figure tradizionali di spostamento dell’esercizio del potere che pure resta appannaggio dell’organo competente ovvero, eccezionalmente, anche della competenza staticamente intesa (in questi casi dunque lo spostamento coinvolge sia la titolarità che l’esercizio del pertinente potere) sono la avocazione, la sostituzione e la delega;</li> <li>la avocazione presuppone un rapporto gerarchico tra organo avocante, sovraordinato, e organo avocato, sottoordinato: l’organo avocante attribuisce a sé la competenza con riguardo al compimento di atti che spetterebbero alla competenza dell’organo avocato, e ciò anche nel caso in cui non vi sia inadempimento o ritardo nel compimento dell’atto in questione da parte dell’organo avocato; in genere se ne esclude la configurabilità quando la competenza dell’organo avocato viene dalla legge definita esclusiva, mentre all’opposto, una volta avocata una data competenza, essa resta in capo all’organo avocante e può tornare all’organo avocato solo in caso di apposita ed esplicita restituzione del pertinente potere dall’uno (avocante) all’altro (avocato); trattandosi di spostamento della competenza sia sul crinale statico che su quello dinamico (titolarità ed esercizio del potere pertinente), occorre la fonte primaria, come più volte ribadito dalla giurisprudenza;</li> <li>la sostituzione presuppone anch’essa un rapporto gerarchico tra organo sostituente, sovraordinato, e organo sostituito, sottoordinato: essa scatta tuttavia – previa formale diffida ad adempiere ineseguita da parte dell’organo sostituente - solo in caso di inerzia o di inadempimento dell’organo sostituito e, coinvolgendo la competenza tanto sul crinale statico (titolarità del potere) quanto su quello dinamico (esercizio del potere) presuppone – come la avocazione – l’autorizzazione della fonte primaria, al fine di non entrare in conflitto con la riserva di legge di cui all’art.97 Cost.;</li> <li>nella delega l’organo (o soggetto) competente resta il delegante, che tuttavia trasferisce l’esercizio del pertinente potere pubblico all’organo (o soggetto) delegato, che affiora dunque quale competente “<em>derivato</em>”, con la possibilità per il delegante di revocare la delega e dunque di riappropriarsi (anche) dell’esercizio del potere del quale è (e resta in ogni caso) titolare.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare, più nel dettaglio, con riguardo alla c.d. delega di potere amministrativo e da quali figure va tenuta distinta?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si è al cospetto di un atto amministrativo di natura organizzatoria, a struttura unilaterale e a carattere discrezionale, a forma scritta <em>ad substantiam</em>;</li> <li>nel caso in cui si tratti di un soggetto pubblico che delega un altro soggetto pubblico, si parla di delega intersoggettiva;</li> <li>nel caso in cui si tratti – all’interno di un medesimo soggetto pubblico e dunque del medesimo ramo di Amministrazione - di un organo che delega un altro organo, si parla di delega interorganica (esempio, delega dal Prefetto al Questore);</li> <li>la delega trasferisce non la competenza statica del delegante, ma l’esercizio del potere che connota tale competenza, creando dunque – sul piano dinamico - una competenza “<em>derivata</em>” in capo al soggetto o all’organo delegato;</li> <li>l’esercizio del potere del delegante avviene, da parte del delegato, in nome proprio, e dunque assumendosene la pertinente responsabilità, similmente a quanto accade nel diritto privato e, segnatamente, nel mandato senza rappresentanza (c.d. rappresentanza indiretta, in cui il mandatario agisce in nome proprio, ma nell’interesse del mandante); il regime che connota l’atto è dunque quello degli atti del delegato, e non già quello degli atti del delegante (ove si tratti di un regime diverso);</li> <li>il delegante può discrezionalmente procedere ad attribuire l’esercizio del potere rientrante nella propria competenza al delegato, ma ciò sempre entro convenienti limiti di tempo, una delega <em>sine die</em> finendo col violare – giusta atto amministrativo – l’ordine delle competenze soggetto invece a riserva di legge ex art.97 Cost.; proprio la riserva di legge impone poi che alla base della delega vi sia sempre una autorizzazione legislativa, anche al cospetto di un rapporto gerarchico tra delegante e delegato, come del resto accade in tema di avocazione e di sostituzione, pur accontentandosi talvolta la giurisprudenza di una autorizzazione meramente implicita nella legge stessa;</li> <li>ove la delega sia viziata, in tema di ripercussione di tale vizio sull’atto compiuto dal delegato opera normalmente la c.d. regola del fatto compiuto, onde se l’atto del delegato “<em>a valle</em>” ha prodotto effetti favorevoli nella sfera giuridica di terzi, esso va assunto valido (nonostante la delega viziata “<em>a monte</em>”), mentre chi ne ha subito effetti sfavorevoli va assunto legittimato ad impugnare contestualmente tanto la delega viziata a monte quanto l’atto del delegato a valle, chiedendone la caducazione;</li> <li>sul concreto atteggiarsi della legittimazione del delegato ad esercitare un potere che - sul crinale statico - è e resta del delegante, occorre per la dottrina distinguere: h.1) delega intersoggettiva: fino ad intervenuta revoca della delega, che esige la forma scritta e che deve dunque essere espressa, unico soggetto legittimato ad esercitare il potere è il soggetto delegato, perdendo dunque il delegante, giusta delega, la corrispondente facoltà di esercizio del potere (ma non anche il potere); h.2) delega interorganica: sussiste la concorrente legittimazione ad esercitare il pertinente potere tanto in capo al delegante quanto in capo al delegato, conservando il primo il potere anche nella relativa declinazione dinamica (facoltà di esercizio) e potendo dunque questi esercitare ancora il potere delegato, con effetto di revoca implicita della delega che può essere generale o solo parziale, laddove la delega coinvolga un ventaglio di affari amministrativi e la <em>voluntas</em> del delegante possa assumersi nel senso di limitare la revoca della delega al singolo affare nel caso di specie considerato;</li> <li>si configura un rapporto inversamente proporzionale tra delega di potere e c.d. pluralismo autonomistico: più invale il pluralismo autonomistico (come è accaduto nel 2001 in occasione della riforma del Titolo V della Costituzione), più determinati soggetti (od organi) vengono muniti di poteri propri, meno è necessaria la delega al fine di conferire l’esercizio di tali poteri che, in caso di centralismo, restano appannaggio dei soggetti (o degli organi) più “<em>centrali</em>” e che possono dunque essere solo delegati;</li> <li>in caso di avvalimento, non si è al cospetto di alcuna delega di potere: qui un organo, al fine di esercitare funzioni ad esso proprie – a cagione di carenze strutturali di tipo organizzativo, ovvero al fine di favorire la maggiore prossimità possibile tra il disimpegno della funzione pubblica ed i relativi destinatari privati - si avvale degli uffici di altro organo, quest’ultimo talvolta incardinato in un altro soggetto pubblico, senza che ci sia bisogno di una delega tra i due protagonisti pubblici della vicenda;</li> <li>non si ha delega di potere in caso di mera “<em>delega di firma</em>”, quale autorizzazione che l’organo “<em>delegante</em>” rilascia all’agente delegato (“<em>d’ordine di…</em>”) di apporre la propria firma su un provvedimento amministrativo che è - e resta, in termini di deliberazione, di imputazione soggettiva degli effetti ed anche in termini di responsabilità - del “<em>delegante</em>”, con la conseguenza onde, in caso di rapporto gerarchico tra delegante e delegato di firma, l’atto è da assumersi “<em>definitivo del delegante</em>” e come tale non impugnabile con ricorso gerarchico; mentre nel diverso caso della delega di potere, il potere medesimo viene esercitato dal delegato in nome proprio e con assunzione di responsabilità propria (seppure sulla base del titolo compendiantesi nella rilasciata delega), con la conseguenza onde, in caso di rapporto gerarchico tra delegante e delegato, l’atto è da assumersi “<em>non</em> <em>definitivo” </em>e come tale impugnabile con ricorso gerarchico innanzi al delegante; una figura peculiare in tal senso è quella della delega del Ministro al Sottosegretario di Stato, potendo quest’ultimo firmare il provvedimento ed anche, più a monte, deliberarlo, a differenza della delega di firma “<em>pura</em>”, laddove appunto il delegato si limita a firmare, in luogo del delegante, un atto che è stato deliberato da quest’ultimo;</li> <li>la delega di potere non è una concessione: mentre la prima coinvolge solo soggetti pubblici (delegante e delegato), la concessione fa luogo ad un rapporto giuridico tra un soggetto pubblico concedente ed un concessionario che può anche essere (e normalmente è) un soggetto privato;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare del c.d. difetto di competenza amministrativa?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>quando la competenza fa difetto, possono configurarsi 3 distinte fattispecie, da esaminare partitamente: a.1) l’incompetenza assoluta; a.2) l’incompetenza relativa; a.3) la c.d. “<em>acompetenza</em>”;</li> <li>l’incompetenza assoluta: b.1) chi pone in essere l’attività o adotta l’atto è organo di un soggetto diverso rispetto a quello cui appartiene l’organo che dovrebbe provvedere, e dunque di un altro ramo dell’Amministrazione ovvero di un altro Potere dello Stato (c.d. difetto di attribuzione o straripamento di potere); b.2) chi pone in essere l’attività o adotta l’atto è organo di una circoscrizione territoriale diversa rispetto a quella cui appartiene l’organo che dovrebbe provvedere (incompetenza per territorio); in questi casi l’atto adottato è inesistente o comunque, ex art.21 septies della legge 241.90, nullo per difetto assoluto di attribuzione;</li> <li>l’incompetenza relativa: chi pone in essere l’attività o adotta l’atto è organo del medesimo soggetto cui appartiene l’organo che dovrebbe provvedere; in questi casi l’atto adottato è, ex art.21 octies, comma 1, della legge 241.90, annullabile per incompetenza (che, assieme a violazione di legge ed eccesso di potere, compendia uno dei 3 tradizionali vizi di legittimità del provvedimento amministrativo); si tratta fondamentalmente di una incompetenza per grado, ma che può essere anche per materia ovvero, ferma la competenza per materia, una incompetenza per territorio, onde in quella materia avrebbe dovuto provvedere un organo (del medesimo soggetto) il cui ufficio è dislocato in un territorio diverso da quello in cui è dislocato l’ufficio dell’organo che ha provveduto; quando un organo non sia titolare dei requisiti soggettivi che lo abilitano ad adottare l’atto, si è al cospetto di un requisito di legittimazione dell’organo medesimo (organo collegiale irritualmente costituito; organo temporaneo irritualmente investito; funzionario incompatibile): secondo parte della dottrina in queste fattispecie il vizio investe più la PA dal punto di vista soggettivo che l’atto adottato dal punto di vista oggettivo, onde si sarebbe al cospetto di una incompetenza, e non già di una (più generica) violazione di legge;</li> <li>può accadere che una medesima materia accolga interessi pubblici il cui perseguimento viene dalla legge demandato a soggetti diversi, o ad organi di soggetti diversi, come laddove si intenda costruire in zone soggette a vincolo paesaggistico, circostanza che vede competenti, rispettivamente, la Soprintendenza (organo dello Stato) a presidio dei valori paesistici generali, ed il Sindaco (organo del Comune) a presidio dei valori edilizi locali; in questi casi, in fattispecie di eventuale debordare della competenza di un organo a discapito dell’altro: d.1) secondo una prima tesi, si è comunque – secondo la regola generale - al cospetto di un difetto di attribuzione e dunque di una “<em>carenza</em>” di competenza, onde l’eventuale atto è inesistente per sostanziale carenza di potere, con conseguente giurisdizione del GO; d.2) stando ad una alternativa opzione ermeneutica, si è invece al cospetto di un “<em>cattivo uso</em>” della competenza che comunque appartiene, per materia, anche all’organo che ha adottato il provvedimento, il quale ultimo va assunto appunto annullabile per incompetenza, con giurisdizione del GA;</li> <li>la c.d. “<em>acompetenza</em>”: chi pone in essere l’attività o adotta l’atto non è un organo di un soggetto pubblico, perché non è mai stato investito come tale; perché investito con atto che è tuttavia nullo <em>ab origine</em> ovvero viene annullato <em>ex tunc</em>, onde risulta come non essere stato mai investito; perché, ritualmente investito, è ormai decaduto dall’ufficio; si tratta dunque della nota vicenda del c.d. “<em>funzionario di fatto</em>”.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia, sul piano statico, la figura del c.d. funzionario di fatto?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta - nella sostanza - di un c.d. “<em>acompetente</em>”;</li> <li>esso si compendia in una persona fisica (o, meno frequentemente, in un collegio) che esercita “<em>di fatto</em>” funzioni corrispondenti ad un ufficio pubblico, e dunque potestà pubbliche, in difetto di una corrispondente, valida investitura;</li> <li>stando alla impostazione dottrinaria tradizionale, si giustappongono 3 visioni identificative del funzionario di fatto; c.1) una omnicomprensiva, che lo identifica in chi detiene irregolarmente un ufficio pubblico perché il procedimento di assunzione all’ufficio è mancato del tutto, ovvero è viziato, o ancora perché – pur essendovi stato un valido procedimento di assunzione all’ufficio – è sopraggiunto un vizio che ne ha inficiato <em>ex post</em> l’irregolarità, e ciò anche in ambito contabile (c.d. esattore di fatto, che pur irritualmente nominato proceda ad esigere tributi), costituzionale (Governo di fatto) e financo internazionale (c.d. occupazione di guerra); c.2) una più riduttiva, che lo identifica in chi detiene irregolarmente un ufficio pubblico perché il procedimento di assunzione all’ufficio è mancato del tutto, ovvero è viziato, o ancora perché – pur essendovi stato un valido procedimento di assunzione all’ufficio – è sopraggiunto un vizio che ne ha inficiato <em>ex post</em> l’irregolarità, ma solo in ambito di Pubblica Amministrazione, non potendo la medesima figura essere estesa all’ambito contabile, costituzionale o internazionale; c.3) una più generica, seguita dalla dottrina maggioritaria, onde si ha funzionario “<em>di fatto</em>” al cospetto di chi, privo di una valida legittimazione pubblica stante il difetto di titolo legittimante originario, ovvero al cospetto di un vizio che inficia tale titolo legittimante, compie comunque una attività riferibile alla PA e che dunque “<em>appare</em>” pubblica;</li> <li>si tratta in ogni caso, come illuminante dottrina ha evidenziato, di un “<em>falsus agens</em>” della PA, in ordine alla cui attività rileva da sempre, a determinate condizioni, il principio di conservazione degli atti (in questo caso, degli atti amministrativi) e quello c.d. di effettività, dovendosi attribuire rilievo al concreto esercizio di funzioni pubbliche, massime quando occorra ad un tempo tutelare l’affidamento incolpevole dei terzi che siano entrati in giuridico contatto con chi “<em>appare</em>” un organo pubblico;</li> <li>si fa anche rilevare che la funzione pubblica non può di regola subire interruzioni, essendo orientata al perseguimento del pubblico interesse, onde – ogni qual volta occorra scongiurare pericolosi vuoti nell’esercizio della funzione amministrativa e nel connesso perseguimento dell’interesse pubblico – può entrare in gioco la figura appunto del funzionario “<em>di fatto</em>”, al fine di preservare il principio di continuità ininterrotta dell’azione amministrativa e quello, ad esso avvinto, di perseguimento dello scopo (e dunque, in ultima analisi, dell’interesse pubblico del quale la singola PA è per legge attributaria);</li> <li>il funzionario “<em>di fatto</em>” si palesa poi incardinato in un determinato organo pubblico, ponendosi dunque anche un problema di eventuale imputabilità al ridetto organo – e, in ultima analisi, al soggetto pubblico cui tale organo appartiene - degli atti compiuti dal funzionario medesimo e, per via connessa, un problema di sorte degli atti che egli compie quale “<em>apparente</em>” titolare (o con-titolare) dell’organo in parola;</li> <li>il caso più radicale di difetto di titolo legittimante è quello dell’usurpatore di pubbliche funzioni, punito ex art.347 c.p., e dunque di chi – consapevole di non esserne titolare – esercita dolosamente funzioni pubbliche perseguendo finalità contrarie a quelle dell’organo od ente pubblico del quale falsamente appare “<em>agens</em>”, ed al quale viene apparentemente riferita la pertinente attività: gli atti dell’usurpatore di pubbliche funzioni sono in realtà radicalmente nulli e non possono in alcun modo essere riferiti all’organo pubblico ed al soggetto pubblico cui appaiono <em>prima facie</em> avvinti;</li> <li>altro caso abbastanza smaccato di difetto di titolo legittimante, e tuttavia in qualche modo “<em>scriminato</em>”, è quello dell’esercizio da parte di taluno di una funzione pubblica senza averne avuto mai titolo e tuttavia per far fronte ad una situazione di impellente necessità, circostanza che si risolve nel perseguimento dell’interesse pubblico; in queste ipotesi, la sostituzione di fatto di chi non è “<em>pubblico</em>” legittimato a chi lo sarebbe viene in qualche modo “<em>giuridicizzata</em>” dalla ridetta necessità, con conseguente validità dei pertinenti atti;</li> <li>il titolo può poi ben esserci (e, dunque, non mancare), e tuttavia essere viziato: i.1) in via originaria: l’atto con il quale il funzionario è stato preposto all’ufficio che ricopre è nullo, inefficace o comunque geneticamente invalido, senza che il funzionario ne abbia responsabilità, ovvero per relativa “<em>fraudolenta manomissione</em>” del titolo di investitura (laddove abbia ad esempio falsamente attestato il possesso dei requisiti per accedere all’ufficio in parola); i.2) in via sopravvenuta, allorché nella sostanza il funzionario – <em>ab origine</em> ritualmente preposto all’ufficio che ricopre – perda uno dei requisiti che sottendono la legittima conservazione della propria investitura;</li> <li>una figura peculiare, con effetti caratteristici, è quella della c.d. <em>prorogatio</em>, laddove il funzionario – ritualmente investito <em>ab origine</em> – veda scadere il proprio mandato e continui, nondimeno, a compiere gli atti propri dell’ufficio ricoperto; se prima del 1994 la scadenza dell’investitura è stata parificata alla relativa assenza, con riconducibilità della fattispecie appunto a quella del “<em>funzionario di fatto</em>”, dopo il decreto legge 293.94 e la legge di conversione 444.94 occorre distinguere: j.1) nei 45 giorni successivi alla scadenza si ha proroga <em>ex lege</em>, onde gli atti riconducibili all’ordinaria amministrazione del pertinente ufficio non possono essere assunti riconducibili ad un funzionario di fatto, quanto piuttosto ad un funzionario <em>pleno iure</em>; j.2) può invece scattare la fattispecie del funzionario di fatto per gli atti di straordinaria amministrazione compiuti nei ridetti 45 giorni dalla scadenza, e per tutti gli atti (tanto di ordinaria che di straordinaria amministrazione) dopo il decorso dei 45 giorni in parola, trattandosi in entrambi i casi di atti ormai adottati da soggetto non ritualmente investito.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in particolare, sul piano dinamico, del c.d. funzionario di fatto?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>dal punto di vista della imputazione degli atti del “<em>funzionario di fatto</em>” all’ente pubblico del quale “<em>appare</em>” organo, occorre muovere dalla considerazione onde l’irritualità dell’investitura, prima ancora di incidere sul regime di validità degli atti compiuti dal funzionario medesimo, interessa in realtà il (meno dibattuto) problema se i ridetti atti possano o meno essere considerati atti “<em>dell’ente</em>” al quale il funzionario di fatto sembra appartenere in veste di organo; considerare infatti gli atti validi significa “<em>imputarli</em>”, dal punto vista del rapporto organico, all’ente pubblico per il quale il funzionario di fatto sembra operare;</li> <li>chi nega tale imputabilità, e con essa la validità degli atti del funzionario di fatto, muove articolati generi di critiche: b.1) laddove non vi sia rituale investitura, difetta l’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente pubblico, non potendo dunque essere imputati gli atti della prima al secondo; b.2) i principi di legalità e, in specie, di riserva di legge di cui all’art.97 Cost. vanno assunti prevalenti sul principio di continuità dell’azione amministrativa; né potrebbe soccorrere un generico riferimento allo stato di necessità (di agire nell’interesse pubblico) che, preso alla lettera, potrebbe finire con l’autorizzare qualunque atto di qualunque persona fisica in alcun modo incardinata nelle maglie organizzative dell’ente pubblico (potendo al più ammettersi una prevalenza del canone della necessità su quello di legalità solo al cospetto di una urgenza reale ed effettiva che non ammette ritardi operativi);</li> <li>sul crinale opposto, in genere l’imputazione degli atti all’ente pubblico - e la conseguente validità dei medesimi - vengono affermati sulla scorta di 3 distinte, ma convergenti, opzioni ermeneutiche: c.1) secondo parte minoritaria della dottrina, il principio costituzionale di buon andamento della PA ha per corollario quello di necessaria continuità ed indefettibilità dell’esercizio del potere pubblico, onde il funzionario – seppure “<em>di fatto</em>” – è da assumersi legittimato nel diuturno svolgimento dell’attività di cui alla competenza dell’ufficio che ricopre sicché, trattandosi di atto “<em>dell’ufficio</em>” e non già atto “<em>della persona fisica</em>”, invale il c.d. “<em>fatto compiuto</em>”: in sostanza, il funzionario di fatto agisce comunque in nome della PA, i relativi atti sono imputati alla PA, e resta irrilevante la relativa irritualità di investitura; c.2) secondo altra parte della dottrina, del pari minoritaria, è il principio generale di conservazione degli atti che impone di assumere questi ultimi imputabili all’ente pubblico e validi, quantunque adottati da un funzionario meramente “<em>di fatto</em>”; c.3) stando invece alla dottrina maggioritaria, il principio di tutela dell’affidamento dei terzi - quali destinatari degli atti del funzionari di fatto e quali soggetti che molto spesso ignorano l’organigramma dell’ente pubblico e le regole che ne presidiano l’investitura ai singoli uffici - impone di affermare che tali atti sono imputabili all’ente pubblico del quale egli appare titolare, valorizzandosi dunque il canone di c.d. <em>apparentia iuris</em>, laddove concretamente idoneo ad indurre nel terzo la convinzione che il funzionario di fatto sia, in realtà, un funzionario ritualmente investito nel proprio ufficio; in sostanza, la tutela dell’affidamento dei terzi ed il canone di continuità dell’azione amministrativa vengono assunti prevalere sul principio di legittimità dell’azione pubblica, onde gli atti del funzionario di fatto vengono assunti comunque validi ed imputabili all’ente (quand’anche, sotto il profilo della ritualità della pertinente investitura, illegittimi);</li> <li>la valorizzazione della buona fede del terzo (privato) a cagione della situazione di <em>apparentia iuris</em> inveratasi, secondo le prospettazioni della tesi maggioritaria, limita tuttavia la validità degli atti del funzionario di fatto ai soli producenti effetti favorevoli per il destinatario del cui ragionevole affidamento si tratta, e non anche dunque a quelli <em>in malam partem</em>;</li> <li>per quanto invece concerne gli atti <em>in malam partem</em>, e dunque sfavorevoli per il destinatario, occorre distinguere 3 ipotesi specifiche:</li> <li>una prima fattispecie è quella in cui l’investitura nell’ufficio fa difetto <em>ab initio</em>, o è comunque <em>ab initio</em> nulla o inefficace, o è stata già annullata <em>ex post</em> con effetto retroattivo – dal GA o dalla stessa PA in via di autotutela - quando l’atto sfavorevole viene adottato: in questi casi il ridetto atto sfavorevole non viene assunto quale estrinsecazione della volontà autoritativa pubblica, né tampoco può assumersi imputabile all’ente pubblico; f.1) secondo una prima ipotesi si è al cospetto di atti nulli per carenza di potere in astratto, anche in forza del richiamo alla nullità contenuto nella legislazione sulla <em>prorogatio</em> del 1994 che, se vale per il caso di decadenza dell’organo, non può che valere <em>a fortiori</em> per l’ipotesi, più grave, di difetto <em>ab origine</em> (nullità o inefficacia) dell’investitura o di successivo annullamento, con effetti <em>ex tunc</em>, dell’investitura medesima; proprio perché in questi casi l’atto sfavorevole del funzionario di fatto è nullo, esso può essere impugnato innanzi al GO senza dover osservare il consueto termine decadenziale, quanto piuttosto entro il termine di prescrizione e con possibilità di invocare il risarcimento del danno; si verte, nella sostanza,, in una ipotesi di difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità strutturale (per carenza di potere) dell’atto amministrativo ai sensi dell’art.21 septies della legge 241.90, onde il funzionario di fatto in nulla si differenzia, in simili gravi evenienze di titolo difettante, da un <em>quisque de populo</em>; f.2) stando ad una seconda opzione ermeneutica, nelle ridette fattispecie il potere astrattamente esiste in quanto attribuito dalla legge, ma non è configurabile in concreto in capo al funzionario che, per l’appunto, è un funzionario “<em>di fatto</em>”, onde gli atti che esso adotta “<em>a valle</em>”, quale precipitato di un “<em>cattivo esercizio</em>” del potere medesimo, devono assumersi (validi quantunque) annullabili, ed efficaci finché non vengono appunto impugnati nei termini con successiva caducazione, laddove ciò non accada divenendo essi invece definitivamente inoppugnabili; proprio perché in questi casi l’atto sfavorevole del funzionario di fatto è annullabile, esso deve essere impugnato innanzi al GA nel consueto termine decadenziale, anche per poter invocare – o laddove si invochi solo – il risarcimento del danno; non si verte, nella sostanza,, in una ipotesi di difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità strutturale (per carenza di potere) dell’atto amministrativo ai sensi dell’art.21 septies della legge 241.90, quanto piuttosto in una fattispecie di carenza di potere in concreto e dunque di mera violazione, ridondante, ex art.21 octies della legge 241.90, in mera annullabilità del provvedimento sfavorevole adottato dal funzionario di fatto, dacché la nullità ex art.21 septies può predicarsi solo in caso di carenza assoluta di potere in astratto, di incompetenza assoluta o di straripamento di potere, mentre in questo caso il potere sussiste come legalmente previsto, difettandone solo una condizione di concreto esercizio (il valido titolo di investitura); non manca peraltro chi attrae la stessa incompetenza assoluta nell’orbita dell’art.21 octies, configurando un difetto assoluto di attribuzione ex art.21 septies solo in presenza di carenza di potere in astratto e di straripamento di potere (laddove gli atti sarebbero inesistenti);</li> <li>l’investitura nell’ufficio “<em>a monte</em>” è illegittima, l’atto sfavorevole “<em>a valle</em>” viene adottato e la ridetta investitura illegittima non è stata ancora caducata, palesandosi dunque ancora efficace quando l’atto “<em>a valle</em>” sfavorevole viene adottato, né può essere più caducata per essere ormai decorsi i pertinenti termini di impugnazione: in sostanza, qui l’investitura illegittima è ormai inoppugnabile, ed il problema è capire se il terzo destinatario del provvedimento sfavorevole “<em>a valle</em>” può impugnare il ridetto atto nei termini, congiuntamente all’atto di nomina “<em>a monte</em>” ormai, per l’appunto, inoppugnabile; la giurisprudenza ha risposto affermativamente solo nel caso in cui vi sia uno stretto nesso procedimentale tra l’investitura del funzionario “<em>a monte</em>” e l’atto “<em>a valle</em>” concretamente adottato, onde il funzionario è stato investito del potere di adottare quello specifico atto (o quei specifici atti), circostanza sola in presenza della quale l’adozione del provvedimento sfavorevole “<em>riapre</em>” – nella sostanza - i termini per far valere l’illegittimità dell’investitura “<em>a monte</em>”, attraverso l’impugnazione dell’atto sfavorevole “<em>a valle</em>”;</li> <li>l’investitura nell’ufficio “<em>a monte</em>” è illegittima, l’atto sfavorevole “<em>a valle</em>” viene adottato e l’investitura illegittima “<em>a monte</em>” viene successivamente caducata; in questa fattispecie, ancora una volta si fronteggiano in dottrina e giurisprudenza 2 tesi: h.1) l’annullamento dell’investitura “<em>a monte</em>” comporta nullità (art.21 septies della legge 241.90) dell’atto sfavorevole adottato “<em>a valle</em>”, stante la c.d. “<em>acompetenza</em>” del medesimo, cui è consustanziale un difetto assoluto di attribuzione o, in altri termini, la carenza di potere (<em>ex post</em>) del funzionario di fatto; secondo questa tesi, a venire meno è lo stesso rapporto organico tra funzionario - rivelatosi “<em>di fatto</em>” - e Amministrazione di appartenenza; sempre sul crinale della nullità si colloca chi assume l’atto sfavorevole consequenziale “<em>a valle</em>” strutturalmente nullo per difetto di un relativo “<em>elemento essenziale</em>”, vale a dire la volontà della PA, della quale non può assumersi estrinsecazione il provvedimento adottato da chi non è ritualmente “<em>parte</em>”, che non può dunque imputarle gli effetti della propria azione; non sono mancate tuttavia critiche a questa opzione ermeneutica, sul presupposto della natura normalmente originaria e genetica della nullità (che peraltro, proprio come tale, dovrebbe operare anche con riguardo agli atti <em>in bonam partem</em> e dunque favorevoli al destinatario, non potendo la ridetta nullità essere declinata in modo diverso a seconda del tipo di atto adottato dal funzionario di fatto, in connessione col ragionevole affidamento suscitato nel destinatario dalla situazione di <em>apparentia iuris</em> ingeneratasi), mentre nell’ipotesi considerata l’atto sfavorevole viene adottato dal funzionario ancora <em>pleno iure</em>, la caducazione della relativa investitura sopravvenendo (seppure con effetti <em>ex tunc</em>) rispetto all’atto sfavorevole medesimo; parte della dottrina che abbraccia questa tesi “<em>caducante</em>” aggiusta allora il tiro affermando che in questi casi la caducazione della investitura irrituale “<em>a monte</em>” opera non già sul piano genetico e strutturale, quanto piuttosto sul piano degli effetti spiegati sull’atto sfavorevole “<em>a valle</em>”, onde tecnicamente, più che di nullità, dovrebbe parlarsi di caducazione dell’atto consequenziale sfavorevole a valle; per quanto concerne poi la diversa tipologia degli atti (rispettivamente, favorevoli o sfavorevoli per il privato), occorre considerare che la trama dei rapporti amministrativi è tale per cui, normalmente, alla natura favorevole di un atto per Tizio si giustappone, ad un tempo, la natura sfavorevole del medesimo atto per Caio, con potenziale irrilevanza della stessa obiezione siccome posta, dacché per Tizio che non fa valere la nullità dell’atto perché a lui favorevole ci potrebbe sempre essere Caio che, destinatario di effetti sfavorevoli, concretamente la invoca; sul versante processuale, abbracciare la tesi della nullità o comunque della inefficacia sopravvenuta dell’atto sfavorevole “<em>a valle</em>” significa non richiedere al terzo di doverlo tempestivamente impugnare nei 60 giorni, purché egli abbia impugnato nei termini l’investitura illegittima “<em>a monte</em>”, la cui caducazione finisce col caducare in via immediata e diretta anche l’atto sfavorevole “<em>a valle</em>”; h.2) l’annullamento dell’investitura “<em>a monte</em>” comporta la sola annullabilità “<em>invalidante</em>” (art.21 octies della legge 241.90) – e non già caducante - dell’atto sfavorevole adottato “<em>a valle</em>”, da assumersi viziato da incompetenza o, comunque, da violazione di legge <em>sub specie</em> di frizione con i canoni che presidiano al riparto di potere tra gli organi di un soggetto pubblico, negandone una quota a chi non risulta ritualmente investito nella carica; sul crinale processuale, chi segue questa tesi assume in capo al terzo l’onere della doppia impugnativa nei termini tanto dell’atto di investitura illegittimo “<em>a monte</em>” quanto successivamente, se del caso con motivi aggiunti, dell’atto sfavorevole adottato dal funzionario (“<em>di fatto</em>”) “<em>a valle</em>”; ciò massime allorché non sussista uno specifico nesso che avvince il procedimento orientato all’investitura (ad esempio, la nomina di un determinato organo) e quello orientato al provvedimento adottato (dal medesimo organo), circostanza nella quale è da escludere in ogni caso, secondo questa prospettazione, una efficacia caducante dell’annullamento dell’investitura “<em>a monte</em>” (che abilita ad adottare una vasta congerie di atti) rispetto all’atto sfavorevole “<em>a valle</em>” in concreto adottato dal funzionario “<em>di fatto</em>”;</li> <li>quando il funzionario “<em>di fatto</em>” non è organo monocratico, ma piuttosto contribuisce alla composizione di un organo collegiale, il relativo difetto (o vizio) di investitura incide sulle deliberazioni dell’organo collegiale cui partecipa secondo effetti diversi a seconda che: i.1) si tratti di organo collegiale perfetto (<em>quorum</em> strutturale) e reale (<em>quorum</em> funzionale), nel cui contesto per la validità delle deliberazioni è richiesta la presenza di tutti i componenti (collegio perfetto) e l’unanimità dei voti (collegio reale): in questi casi il difetto di legittimazione di uno dei componenti si traduce in difetto di legittimazione dell’intero organo; i.2) si tratti di organo collegiale imperfetto e virtuale, nel cui contesto per la validità delle deliberazioni non occorre la presenza della totalità dei membri né l’unanimità dei voti, laddove per la teoria formalistica rileva la c.d. prova di resistenza, ispirata al principio di conservazione degli atti giuridici, onde il collegio non è legittimato solo se il difetto di legittimazione del funzionario “<em>di fatto</em>” si riveli determinante per la formazione della richiesta maggioranza; mentre per la più moderna teoria sostanzialistica, il difetto di legittimazione del funzionario di fatto può tradursi in difetto di legittimazione dell’intero organo collegiale laddove il primo, pur non intaccando aritmeticamente la richiesta maggioranza, possa spiegare sulla totalità dell’organo una effettiva influenza.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa, più in specie, occorre rammentare in ordine alle eventuali “<em>pretese economiche</em>” del funzionario di fatto nei confronti della apparente PA di appartenenza?</strong></p> <ol> <li style="text-align: justify;">può accadere che la PA per la quale il funzionario di fatto concretamente opera ritragga alfine un vantaggio dall’azione del funzionario medesimo;</li> <li style="text-align: justify;">in questi casi, il funzionario “<em>di fatto</em>” che ha agito nell’interesse della PA può pretendere un compenso per l’attività svolta;</li> <li style="text-align: justify;">nell’ipotesi in cui l’atto di investitura difetti <em>ab origine</em> il funzionario “<em>di fatto</em>” può invocare dalla PA di (apparente) appartenenza soltanto l’indennizzo per ingiustificato arricchimento ex art.2041 c.c., purché di questo istituto (tradizionalmente assunto “<em>di chiusura</em>” del sistema) siano presenti tutti i presupposti, ovvero appunto l’arricchimento ingiustificato della PA, il correlato impoverimento del funzionario e l’assenza di altre azioni tipiche esperibili (c.d. sussidiarietà); ciò obbedendo ad un principio equitativo ed al canone della necessaria giustificazione obiettiva e meritevolezza degli spostamenti patrimoniali in difetto della quale non può ammettersi – pur al cospetto di atti leciti – un arricchimento patrimoniale di Tizio ed un contestuale impoverimento di Caio; per decenni peraltro, in caso di esperimento della corrispondente azione nei confronti della PA (presunta “<em>arricchita</em>”) da parte di un privato (presunto “<em>impoverito</em>”) è stato ritenuto necessario il riconoscimento da parte della PA <em>accipiens</em> – quand’anche tacito e non espresso - dell’utilità dell’opera o comunque della prestazione riconducibile al terzo privato, assunte consapevolmente come corrispondenti alle proprie finalità istituzionali e dunque, in sostanza, all’interesse pubblico perseguito; ciò anche al fine di non eludere le regole dell’evidenza pubblica e più in generale quel principio di buon andamento dell’azione amministrativa che, in ambito contrattualistico, impone procedure comparative <em>secundum legem</em> e debita copertura finanziaria; da questo punto di vista, l’unico soggetto a poter riconoscere la ridetta <em>utilitas</em> è stato assunto essere la PA agente, non potendo tale valutazione di utilità o vantaggio, operata nell’interesse pubblico, essere surrogata dal GO sollecitato dal terzo in sede di azione ex art.2041 c.c., pena l’invasione del GO medesimo nella sfera del merito amministrativo; più in specie, sul crinale della competenza all’interno della PA “<em>arricchita</em>”, si è a lungo ritenuto necessario che il riconoscimento dell’utilità intervenisse da parte dell’organo rappresentativo responsabile della spesa, come tale in grado di esprimere all’esterno la volontà dell’ente pubblico, non potendo provenire da funzionari qualsiasi o comunque privi di questo potere, né tampoco da Amministrazioni terze, quantunque in qualche modo anch’esse interessate alla prestazione; ciò al fine di scongiurare atteggiamenti arbitrari da parte di persone fisiche, pur appartenenti all’ente pubblico di volta in volta considerato, non legittimate ad interloquire con i terzi privati, ma ad un tempo con pericolo di iniquità per questi ultimi laddove adempienti senza poi ottenere un corrispondente “<em>riconoscimento di utilità</em>” dall’organo legittimato, peraltro neppure ritraibile nell’ipotesi in cui il vantaggio della PA si fosse tradotto in un risparmio di spesa (e non già in una specifica prestazione a proprio favore); solo con la svolta del 2015 le SSUU hanno chiarito che il “<em>riconoscimento dell’utilità</em>” non risulta previsto dal codice civile, onde il privato può limitarsi a provare il proprio depauperamento, il corrispondente arricchimento della PA (che ha natura oggettiva e non deve essere riconosciuto “<em>soggettivamente</em>” da organi qualificati di questa) e l’insussistenza di altri strumenti di tutela a propria disposizione, mentre spetta eventualmente alla PA provare di non aver voluto l’opera o la prestazione concretamente ricevuta dal terzo (pur avendo mancato di rifiutarla); un qualche riequilibrio è tuttavia riannodabile alla precedente presa di posizione giurisprudenziale delle SSUU del 2008 alla cui stregua la determinazione dell’indennizzo per ingiustificato arricchimento va limitata al danno emergente (spese eseguite per la prestazione), senza potervi aggiungere anche il lucro cessante, ovvero il mancato guadagno che il privato “<em>impoverito</em>” avrebbe ritratto dalla propria attività durante il tempo in cui si è dedicato ad eseguire la prestazione a vantaggio della PA “<em>arricchita</em>”.</li> <li style="text-align: justify;">nella diversa ipotesi in cui l’atto di investitura originariamente vi sia, e sia tuttavia caducato <em>ex post</em> (perché annullato o dichiarato nullo), il funzionario di fatto “<em>lavoratore subordinato</em>” può invocare l’art.2126 c.c. ed ottenere la retribuzione per l’opera prestata, dacché come noto laddove il contratto di lavoro sia nullo tale nullità non rileva, nell’ottica del diritto alla retribuzione del lavoratore, per il periodo in cui egli ha comunque svolto la propria attività lavorativa; diversamente, il funzionario di fatto “<em>lavoratore autonomo</em>” può invocare (ancora una volta) solo, in presenza dei consueti presupposti, l’art.2041 c.c. in tema di indennizzo per ingiustificato arricchimento della PA; non sono mancate in passato prese di posizione della giurisprudenza nel senso di assumere applicabile al lavoratore pubblico in posizione di subordinazione l’art.2126 c.c. anche in difetto <em>ab origine</em> di un atto di nomina (laddove, a rigore, sarebbe invocabile il solo art.2041 c.c.) al cospetto dei c.d. indici rivelatori del rapporto di impiego pubblico, seppure solo a fini retributivi (e non anche, dunque, di inquadramento, stante il difetto di un concorso);</li> <li style="text-align: justify;">questione a parte è quella della identificabilità del funzionario di fatto in un “<em>gestore di affari altrui</em>” ex art.2028 c.c., laddove egli abbia spontaneamente ed utilmente intrapreso l’esecuzione della prestazione a vantaggio della PA; se infatti in linea di principio soggetti estranei all’apparato pubblico non possono esercitare funzioni pubblicistiche (massime se riconnesse al potere pubblico nell’interesse pubblico), configurandosi dunque una generale “<em>prohibitio domini</em>” <em>ex lege</em>, l’operatività in queste fattispecie c.d. “<em>iure imperii</em>” del c.d. funzionario di fatto non può riannodarsi all’istituto della <em>negotiorum gestio</em> proprio per questa sorta di incompatibilità di fondo; in presenza di attività pubblicistica dunque, il funzionario di fatto non è un “<em>negotiorum gestio</em>” perché non potrebbe esserlo, giustificandosi gli effetti degli eventuali atti da lui posti in essere sulla scorta di principi diversi (quale ad esempio quello della continuità dell’azione amministrativa, o quello della conservazione degli atti giuridici, o quello della tutela degli affidamenti ingenerati dall’apparenza); discorso diverso vale per l’attività della PA c.d. “<em>iure privatorum</em>”, in relazione alla quale si tende ad ammettere la configurabilità di una <em>negotiorum gesti</em>o sulla base della assimilabilità dell’Amministrazione, in simili ipotesi, ad un qualunque soggetto privato; l’Amministrazione è tuttavia la sola, secondo la tesi tradizionale, a poter discrezionalmente riconoscere il c.d. <em>utiliter coeptum</em>, e dunque l’utilità iniziale della prestazione la cui esecuzione sia stata intrapresa dal privato <em>gestor</em>, pur potendo tale riconoscimento assumersi anche implicitamente dalla circostanza onde la PA ha fatto propri gli effetti favorevoli ad essa derivanti dalla intrapresa gestione; diversamente opinando, ed in particolare affidando al GO l’accertamento di tale <em>utiliter coeptum</em>, si finirebbe con il consentire al GO medesimo di operare una valutazione riservata alla discrezionalità della PA; similmente a quanto accaduto con la parabola giurisprudenziale dell’ingiustificato arricchimento ex art.2041 c.c., esistono tuttavia voci dottrinali tendenti ad assumere il ridetto <em>utiliter coeptum</em> come un quid “<em>oggettivo</em>” che, come tale, può dunque essere accertato anche dal GO in sede giurisdizionale, senza con ciò sconfinare nel merito delle scelte discrezionali della PA.</li> </ol>