Massima
Il reato-inadempimento può essere “semplice”, quale fatto storico integrante una condotta lesiva dell’interesse penalmente tutelato dal legislatore; ma può anche essere peculiarmente qualificato, qui implicando – per motivi inerenti ai soggetti (attivo o passivo) che ne sono protagonisti, ovvero per cause avvinte al concreto atteggiarsi, nel caso di specie, della condotta inadempitiva – una pena maggiore o minore per l’inadempiente (reo) rispetto a quella “basic” irrogabile. In queste ipotesi, ciò che “sta intorno” qualifica peculiarmente – senza modificarne il nucleo – ciò che è “al centro”, salvo tuttavia dover attentamente verificare se gli elementi cui viene ricondotta tale qualificazione siano realmente “intorno” al ridetto nucleo o non siano, piuttosto, “al centro”, nel cuore della fattispecie penalmente rilevante ed identificantisi con il nucleo in parola (stante il diverso regime applicabile – su più fronti – rispettivamente, nel primo e nel secondo caso).
Crono-articolo
Nel diritto romano si ritrovano già nelle XII Tavole le prime figure di reato circostanziato, con particolare riferimento (VIII Tavola) al furto avente ad oggetto le messi rubate avvalendosi della magia, ovvero al furto commesso di notte, capace quest’ultimo di legittimare il proprietario che colga il ladro in flagrante alla relativa uccisione, anche se disarmato. In un noto passo del giurista Saturnino contenuto in Digesto, Dig. 48.19.16.3, si distingue poi – con riguardo ad un medesimo fatto di reato – se è stato commesso da un libero o da uno schiavo, ovvero, sul crinale della vittima, se è stato commesso nei confronti del padrone, o di un familiare, ovvero di un estraneo, in ambito pubblico o in ambito privato, con un posto particolare assegnato anche all’età del soggetto agente.
1889
La codificazione liberale Zanardelli (30 giugno) annovera le circostanze – generalmente intese – in seno al Titolo II del libro I, dedicato alle pene ed alla relativa commisurazione nel caso concreto. In particolare, le circostanze attenuanti eventualmente presenti autorizzano il giudice, ex art. 26 ed in particolari casi meno gravi, a sostituire la pena detentiva in riprensione giudiziale (un particolare ammonimento impartito in pubblica udienza); più in generale, all’art.29 – dopo aver sancito che lo stretto principio di legalità è alla base del potere del giudice non solo di aumentare, ma anche di diminuire e di commutare le pene (casi espressamente determinati dalla legge) – il codice prevede specificamente come aumentare o diminuire le pene in presenza di una circostanza legalmente prevista, e fissa precisi canoni per l’eventuale concorso tra più circostanze, stabilendo che in ogni caso sono valutate per ultime, nel preciso ordine che segue, l’età, lo stato di mente (che dunque viene ricondotto ad una circostanza), le c.d. attenuanti generiche previste dall’art.59 (un caso di attenuazione pro reo del principio di legalità che governa gli aumenti e le dimunizioni di pena) e la recidiva.
1930
Le circostanze trovano disciplina in via generale in una apposita sedes materiae, agli articoli da 59 a 70, palesandosi ormai non più quali peculiari strumenti di commisurazione della pena, quanto piuttosto – e più a monte – quali peculiari qualificazioni del fatto tipico, capaci di accrescerne o di diminuirne la gravità, la pertinente commisurazione della pena rilevando ormai come mero effetto. Significativo in particolare l’art.59, che prevede l’imputazione “oggettiva” delle circostanze al soggetto agente sia che si tratti di attenuanti, sia che si tratti di aggravanti; importante anche l’art.157, nella cui originaria versione (comma 2) il tempo necessario a prescrivere il reato si determina con riguardo al massimo della pena stabilita per il delitto consumato o tentato, tenuto conto dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per quelle attenuanti. Di rilievo l’art.63, comma 3, che distingue le circostanze in autonome ed indipendenti, e l’art.69, in tema di c.d. bilanciamento tra circostanze. Non sono previste originariamente le c.d. circostanze attenuanti generiche, che erano invece presenti nel codice Zanardelli.
1944
Il 14 settembre viene varato il decreto legislativo luogotenenziale n.288, il cui art.2 inserisce nel codice penale l’art.62.bis, reinnestando nel sistema le c.d. circostanze attenuanti generiche.
1948
Viene varata la Costituzione repubblicana che, all’art.27, parla di responsabilità penale personale, con necessità di personalizzare nella misura maggiore possibile il trattamento sanzionatorio, parametrandolo alla effettiva responsabilità del soggetto agente, anche sulla scorta di un preciso coefficiente psicologico. Sotto altro versante, ai sensi dell’art.25, comma 2, della Costituzione nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso: ciò implica che, oltre a non poter essere puniti, non si può neppure essere “più” puniti da una legge retroattiva che preveda circostanze aggravanti, le quali ultime (come del resto le attenuanti) debbono essere ancorate ad un fatto storico commesso.
1974
Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che consente di sottoporre a bilanciamento – così aumentando la discrezionalità del giudice – le circostanze eterogenee (aggravanti ed attenuanti) ad efficacia comune con quelle ad efficacia speciale. La riforma acuisce la necessità di distinguere, nei casi dubbi, le circostanze (bilanciabili) dagli elementi costitutivi del reato (non bilanciabili).
1981
Il 20 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Gentilini, in tema di lesioni personali, che abbraccia – per distinguere le circostanze dagli elementi costitutivi della fattispecie – l’ambiguo criterio della c.d. accessorietà, onde si tratta di elemento (fattuale) costitutivo solo se è essenziale (e non accessorio) per la realizzazione della fattispecie criminosa.
1984
Il 31 luglio viene varata la legge n.400, che modifica l’art.63, comma 3, del c.p. con la nuova distinzione tra circostanze autonome (pena di specie diversa da quella ordinaria del reato) e circostanze ad effetto speciale (variazione superiore ad un terzo), dimenticando tuttavia la categoria delle circostanze indipendenti (variazione di pena in misura indipendente rispetto a quella del reato semplice). Secondo una prima tesi (che sarà minoritaria) le circostanze indipendenti non trovano più disciplina nel codice, non potendo esse essere ricomprese in quelle ad effetto speciale di cui al novellato art.63. Se non che, non è stato modificato anche l’art.69, comma 4, c.p., che in sede di disciplina del bilanciamento continua a parlare ancora (ed anche) di circostanze indipendenti, fatto che fa supporre che tali circostanze esistano ancora per la legge penale; a diversamente opinare, occorrerebbe peraltro affermare, in modo del tutto irragionevole, che in presenza di circostanze indipendenti non si applicherebbe (come invece per le circostanze autonome e per quelle ad effetto speciale) il particolare regime di computo previsto dall’art.63, comma 3, nel caso in cui concorrano altre circostanze (il riferimento non è alla pena base del reato, ma alla pena stabilita per le circostanze anzidette). La dottrina più illuminata segnalerà anzi come nel caso di circostanze ad effetto speciale, poiché la variazione di pena è di tipo frazionario (anche se superiore ad un terzo), in caso di ulteriori circostanze è indifferente l’ordine con il quale si procede al computo della pena finale, mentre così non è proprio per le circostanze indipendenti, la cui variazione non ha una consistenza di tipo frazionario rispetto alla pena prevista per il reato base. Sotto altro profilo, la “dimenticanza” del legislatore farà dire a parte della dottrina che – dovendosi comunque ricomprendere le circostanze indipendenti tra quelle, espressamente previste, ad effetto speciale – esse sono solo quelle la cui variazione sia superiore ad un terzo rispetto alla pena base; a questa tesi si opporrà quella di chi assume irragionevole considerare “ad effetto comune” circostanze che, pur non superando il terzo in termini di variazione quantitativa, sono comunque “indipendenti” rispetto alla pena base del reato, con l’ulteriore difficoltà onde a questo tipo di circostanze, senz’altro non “comuni”, non sarebbe più applicabile né l’art.63, comma 3, 4 e 5 c.p., né l’art.69, comma 4, in tema di bilanciamento (che continua a parlare di circostanze indipendenti). In sostanza, per la dottrina maggioritaria l’art.63 solo apparentemente avrà cancellato la figura delle circostanze “indipendenti”, in realtà ancora pienamente configurabile come dimostra proprio l’art.69, comma 4, c.p., che le annovera esplicitamente.
1990
Il 7 febbraio vede la luce la legge n.19 che, in tema di circostanze, opera una importante riforma in punto di criterio di imputazione delle aggravanti, novellando l’art.59, comma 1, del c.p.: mentre le circostanze attenuanti possono continuare ad essere imputate al soggetto agente a titolo oggettivo, quelle aggravanti possono essere imputate solo se se da lui conosciute, ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Il 9 ottobre viene varato il D.p.R. n.309 in tema di sostanze stupefacenti, il cui art.74, comma 6, prevede che laddove l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti abbia ad oggetto fatti di lieve entità, si applica il regime sanzionatorio (più favorevole perché più mite) di cui all’art.416, comma 1 e 2, c.p.: si porrà il problema se questa norma costituisca titolo autonomo di reato o mera circostanza attenuante. Importante anche l’art.73, nella cui originaria formulazione i comma 1 e 4 costituiscono dei reati base, mentre il comma 5 configura una circostanza attenuante ad effetto speciale, con regime sanzionatorio più mite quando il fatto è di lieve entità: trattandosi di circostanza, essa è bilanciabile ex art.69 c.p. con altre circostanze di segno opposto.
1991
*L’11 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione, Spanazzi, in tema di cessione di sostanze stupefacenti che abbraccia, per distinguere le circostanze dagli elementi costitutivi della fattispecie, l’ambiguo criterio della c.d. accessorietà, onde si tratta di elemento (fattuale) costitutivo solo se è essenziale (e non accessorio) per la realizzazione della fattispecie criminosa.
1993
Il 3 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione che, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, qualifica come “ad effetto speciale” la circostanza prevista dall’art.339, comma 2, c.p., che è in realtà una circostanza indipendente, così implicitamente abbracciando la tesi della configurabilità di tali circostanze pur dopo la novella del 1984 nella formulazione dell’art.63 c.p.
1999
Il 21 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5081, Lanuto, che si occupa dell’art.609.ter, comma 1, c.p., in tema di circostanze aggravanti dei reati sessuali. Secondo la Corte si tratta di un catalogo di aggravanti che non possono essere considerate ad effetto speciale ai fini della disciplina di cui all’art.63, comma 3, c.p. (computo in caso di altre circostanze), dal momento che per il reato base è prevista una pena edittale da 5 a 10 anni di reclusione, mentre per la fattispecie aggravata la pena edittale da 6 a 12 anni: si tratta di un aumento pari ad un quinto, con esclusione della configurabilità come aggravante, per l’appunto, ad effetto speciale. La sentenza pare collocarsi nel solco di quell’orientamento che – al cospetto di circostanze c.d. indipendenti (come appunto nel caso di specie) – tende a ricondurle tra quelle “ad effetto speciale”, ma solo laddove esse superino, in termini di variazione, un terzo rispetto alla pena base (e dunque non nel caso di specie).
2000
Il 16 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1483, alla cui stregua l’art.74, comma 6, del D.p.R. 309.90 non è circostanza attenuante, ma autonoma fattispecie di reato, meno grave rispetto alle fattispecie più gravi previste dai comma 1 e 2 della medesima disposizione. Il legislatore non si limita infatti, nel comma 6, a prevedere una pena più mite laddove l’associazione per delinquere sia finalizzata ad un narcotraffico di lieve entità, ma rinvia tout court all’art.416, comma 1 e 2, c.p., con un richiamo non già soltanto alla pena, ma piuttosto e più in radice al fatto tipico, che deve proprio per questo assumersi autonomo (e non già mera circostanza attenuante), implicando un minor allarme sociale, quale semplice associazione per delinquere. Si porrà tuttavia il problema di vedere se scatta, anche per questa ipotesi più lieve, l’automatismo custodiale (sul piano cautelare), discendente dall’art. 275, comma 3, c.p.p., il quale richiama l’art.51, comma 3.bis, del c.p.p. ed i fatti in esso previsti, tra i quali appunto quelli puniti dall’art.74 del D.p.R. n.309.90, senza alcuna differenza tra fattispecie più gravi e meno gravi.
2002
Il 10 luglio esce la sentenza delle SSUU, Fedi, che si occupa di verificare se la fattispecie di cui all’art.640.bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) configuri effettivamente una aggravante, come parrebbe evincibile dalla rubrica, ovvero una fattispecie autonoma di reato. La Corte chiarisce che pur utilizzando la rubrica l’espressione “aggravata” (nomen iuris), ciò non può assumersi indizio univoco né decisivo per assumere circostanziale l’elemento della finalizzazione (della truffa) al conseguimento di erogazioni pubbliche. Nondimeno, la Corte non condivide in ogni caso la giurisprudenza che vi scorge una ipotesi di fattispecie autonoma di reato, e non piuttosto di circostanza aggravante. Perno dell’iter logico abbracciato dalla Corte è la descrizione della fattispecie da parte del legislatore, che opera un rinvio al fatto-reato previsto dall’art.640 del codice per la truffa “base”, cui aggiunge – a titolo integrativo – un oggetto materiale specifico della condotta di chi truffa, vale a dire la erogazione da parte dello Stato, delle Comunità europee o di altri soggetti pubblici, e la pertinente disposizione patrimoniale pubblica che ne discende a valle del contegno di induzione in errore. La Corte mostra in tal modo di aderire al criterio c.d. strutturale della modalità di descrizione della fattispecie, imperniantesi sul come la fattispecie viene concretamente descritta dal legislatore. La norma incriminatrice reca un precetto primario che descrive il comportamento oggetto di sanzione penale, ed è osservando tale descrizione che vanno di volta in volta risolti i casi dubbi tra circostanze ed elementi costitutivi (se del caso, di un reato autonomo): laddove il fatto incriminato venga descritto nella fattispecie A, e la fattispecie B si limiti ad una mera descrizione per relationem del fatto medesimo, la fattispecie B deve assumersi circostanziale rispetto alla fattispecie A; si è invece al cospetto di un autonomo titolo di reato laddove non vi sia il ridetto rinvio descrittivo per relationem ad altra fattispecie, provvedendo il legislatore ad una descrizione autonoma e completa di un fatto, perché tale, diverso. Le SSUU contestano quella dottrina che ritiene che vi sarebbero anche casi in cui la tecnica della descrizione con rinvio viene adoperata dal legislatore in ipotesi in cui la fattispecie che rinvia è, in realtà, certamente un autonomo titolo di reato (vengono portati gli esempi dell’inadempimento colposo di contratti di fornitura in tempo di guerra, ex art.251, comma 2, c.p., che rinvia alla fattispecie dolosa; dei delitti colposi contro la salute pubblica, ex art.452 c.p., che del pari richiamano le parallele fattispecie dolose; degli atti osceni colposi ex art.527, comma 3, c.p. (oggi depenalizzati), che pure rinviano descrittivamente alla pertinente fattispecie dolosa): in questi casi, per la Corte è infatti il mutamento del titolo di imputazione soggettiva del reato a far sì che, nonostante il rinvio per relationem alla descrizione del fatto materiale, si sia al cospetto di ipotesi di reato autonomo rispetto al reato base. Anche il fatto che l’art.640.bis si trovi in un articolo separato (c.d. criterio topografico) rispetto alla fattispecie base di cui all’art.640 non può recare ineluttabilmente seco la relativa configurabilità come fattispecie autonoma di reato, come dimostra: a) da un lato il fatto che vi sono altre ipotesi di fattispecie circostanziale contenute in articoli diversi rispetto alla figura base, come nei casi di cui agli articoli 292.bis e 293 c.p. (oggi abrogati), la cui rubrica parla espressamente di circostanze aggravanti in relazione a taluni delitti contro la personalità dello Stato; b) dall’altro il fatto che esistono figure criminose in cui, pur essendo il fatto descritto nel medesimo articolo della fattispecie base, si tratta certamente di autonomo titolo di reato, come nelle fattispecie di favoreggiamento personale previste all’art.378, comma 1 e 3, c.p. Infine, per le SSUU neppure può assumersi affidabile ed appagante il c.d. criterio teleologico, orientato alla osservazione del bene tutelato dalla norma incriminatrice, sicché si sarebbe al cospetto di una autonoma fattispecie di reato ogni qual volta muti il bene tutelato dalla norma incriminatrice; da un punto di vista logico, per la Corte deve prima verificarsi quali siano gli elementi essenziali e quali quelli accidentali (circostanziali) di una fattispecie, e solo poi acclarare se gli elementi essenziali – tra i quali, per l’appunto, il bene (interesse) tutelato – siano per avventura mutati, onde il criterio non è utile, a monte, per verificare appunto se si tratta di circostanza o di fattispecie autonoma di reato; peraltro, proprio nell’ipotesi di cui all’art.640.bis c.p. il criterio del c.d. bene tutelato (o criterio teleologico) appare del tutto inappagante, sol che si consideri come in realtà il bene tutelato, tanto nella truffa base quanto in quella disegnata dal ridetto art.640.bis, resti il patrimonio del soggetto passivo della truffa (il che peraltro confermerebbe trattarsi di circostanza, e non di autonomo titolo di reato). Piuttosto, nel caso dell’art.640.bis c.p. il patrimonio del soggetto passivo (pubblico) va inteso non già nel tradizionale senso statico del compendio di cespiti nella disponibilità del soggetto passivo medesimo, quanto piuttosto nell’ottica dinamica e funzionale della corretta allocazione delle risorse pubbliche, alterata dal contegno truffaldino del soggetto agente, con il risultato non già tanto di una riduzione del patrimonio pubblico, quanto piuttosto di uno sviamento delle risorse pubbliche dal vincolo di destinazione ad esse impresso, senza che questo escluda la natura circostanziale della norma.
2003
*Il 5 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11938, che ribadisce come l’art.74, comma 6, del D.p.R. 309.90 non sia circostanza attenuante, ma autonoma fattispecie di reato, meno grave rispetto alle fattispecie più gravi previste dai comma 1 e 2 della medesima disposizione. Il legislatore non si limita infatti, nel comma 6, a prevedere una pena più mite laddove l’associazione per delinquere sia finalizzata ad un narcotraffico di lieve entità, ma rinvia tout court all’art.416, comma 1 e 2, c.p., con un richiamo non già soltanto alla pena, ma piuttosto e più in radice al fatto tipico, che deve proprio per questo assumersi autonomo (e non già mera circostanza attenuante), implicando un minor allarme sociale, quale semplice associazione per delinquere. Resta tuttavia il problema di vedere se scatta, anche per questa ipotesi più lieve, l’automatismo custodiale (sul piano cautelare), discendente dall’art. 275, comma 3, c.p.p., il quale richiama l’art.51, comma 3.bis, del c.p.p. ed i fatti in esso previsti, tra i quali appunto quelli puniti dall’art.74 del D.p.R. n.309.90, senza alcuna differenza tra fattispecie più gravi e meno gravi.
Il 13 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3348 che, con riferimento alla violenza sessuale di gruppo di cui all’art.609.octies c.p., conclude trattarsi non di una circostanza aggravante, ma di una fattispecie autonoma di reato. La Corte abbandona in questo arresto il criterio strutturale della “modalità di descrizione della fattispecie”, applicando il quale – stante il richiamo per relationem contenuto nella norma stessa all’art.609.bis c.p., si sarebbe dovuto concludere per la natura di circostanza aggravante – onde abbracciare il criterio c.d. teleologico facente perno sul bene (interesse) giuridico protetto e sulla relativa offesa perpetrata dal soggetto agente: pur essendo il bene (interesse) giuridico tutelato dalla norma penale lo stesso tanto nell’art.609.bis quanto nell’art.609.octies, diverse sono le modalità dell’offesa arrecata al bene medesimo, il che fa propendere la Corte proprio per l’opzione ermeneutica della fattispecie autonoma di reato. Il legislatore ha riservato un trattamento sanzionatorio più grave all’art.609.octies in quanto la simultanea partecipazione di più persone al fatto offensivo conferisce al medesimo un peculiare disvalore, con un grado di lesività più intenso discendente da una maggiore capacità di intimidazione della vittima; vi è pericolo tangibile di reiterazione degli atti sessuali violenti da parte dei vari partecipi, dovendosi assumere sviluppate e incrementate le capacità criminali dei singoli. La liberà sessuale della vittima deve assumersi naturalmente assistita da un ineliminabile senso di autodeterminazione che viene maggiormente compresso da un fatto violento con più partecipi, in quanto la forza di reazione della vittima stessa viene eliminata o grandemente ridotta, con effetti fisici e psicologici di gran lunga potenziati. Di qui la natura autonoma della fattispecie di reato.
2005
Il 5 dicembre viene varata la legge n. 251, c.d. ex Cirielli, che modifica l’art.157, comma 2, c.p., onde – ai fini della individuazione del termine di prescrizione del reato – si ha ormai riguardo solo alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e delle circostanze ad effetto speciale.
2006
Il 4 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.36606 che si occupa del furto in abitazione, disciplinato dall’art.624.bis c.p.: per la Corte si tratta non già di una circostanza aggravante, ma di una fattispecie autonoma di reato. La Cassazione sembra in questo arresto abbandonare il criterio (c.d. strutturale) della modalità di descrizione della fattispecie, utilizzato nel 2002 per qualificare l’art.640.bis c.p., affidandosi piuttosto alla ratio della disposizione che, come tale, appare fare luogo appunto ad una fattispecie autonoma di reato più che ad una mera circostanza. Secondo la Corte, più in specie, l’abrogazione dell’art. 625, n. 1 c.p. e la contestuale previsione della fattispecie di reato, non aggravata, di furto in appartamento, di cui all’art. 624 bis, deve assumersi essere stata indotta proprio dalla maggiore gravità del fatto e dal maggiore allarme sociale suscitato dallo stesso, con la conseguente esigenza di escludere, da punto di vista sanzionatorio, il bilanciamento tra la preesistente circostanza aggravante ed eventuali circostanze attenuanti, onde la nuova previsione normativa costituisce fattispecie autonoma di reato rispetto a quella di furto base disciplinata dall’art. 624 c.p.
2007
*Il 20 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.42639 che ribadisce come l’art.74, comma 6, del D.p.R. 309.90 non sia circostanza attenuante, ma autonoma fattispecie di reato, meno grave rispetto alle fattispecie più gravi previste dai comma 1 e 2 della medesima disposizione. Il legislatore non si limita infatti, nel comma 6, a prevedere una pena più mite laddove l’associazione per delinquere sia finalizzata ad un narcotraffico di lieve entità, ma rinvia tout court all’art.416, comma 1 e 2, c.p., con un richiamo non già soltanto alla pena, ma piuttosto e più in radice al fatto tipico, che deve proprio per questo assumersi autonomo (e non già mera circostanza attenuante), implicando un minor allarme sociale, quale semplice associazione per delinquere. Resta tuttavia il problema di vedere se scatta, anche per questa ipotesi più lieve, l’automatismo custodiale (sul piano cautelare), discendente dall’art. 275, comma 3, c.p.p., il quale richiama l’art.51, comma 3.bis, del c.p.p. ed i fatti in esso previsti, tra i quali appunto quelli puniti dall’art.74 del D.p.R. n.309.90, senza alcuna differenza tra fattispecie più gravi e meno gravi.
2008
L’8 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.34830, che ribadisce come la violenza sessuale di gruppo di cui all’art.609.octies c.p. configuri una fattispecie autonoma di reato, e non già una circostanza aggravante.
2009
Il 3 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.25213 che, andando in contrario avviso rispetto ai precedenti della V e della VI sezione, afferma l’art.74, comma 6, del D.p.R. 309.90 configurare una mera fattispecie attenuata, e non già una figura autonoma di reato, il richiamo all’art.416 c.p. valendo solo quoad poenam, e non già quoad factum, e quindi disciplinando solo (in misura più attenuata) il regime sanzionatorio previsto per il reato base di narcotraffico. La Corte sembra muoversi secondo il criterio strutturale al fine di verificare se si è in presenza di una circostanza o di un elemento costitutivo del reato, proprio laddove afferma che gli elementi strutturali del delitto di narcotraffico restano gli stessi. Peraltro i reati-fine programmati devono intendersi specializzanti (perché di lieve entità) rispetto a quelli programmati nella fattispecie base dell’art.74. Inoltre, proprio il fatto che si è al cospetto di una circostanza attenuante implica, per la Corte, che ai soggetti agenti vanno applicati, in concorso formale, tanto l’art.416 c.p. (richiamato solo quoad poenam) quanto l’art.74, comma 6, D.p.R. 309.90, considerato il diverso oggetto di tutela assunto dalle due norme ed il fatto che l’ambito di applicabilità soggettiva dell’art.74 si configura più ampio di quello disegnato dall’art.416 c.p. Trattandosi peraltro di mera ipotesi circostanziale attenuata, tale opzione ermeneutica reca seco la applicazione automatica della misura custodiale prevista dall’art.275, comma 3, c.p.p.
2011
Il 22 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.231, onde va assunta la illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo del codice di procedura penale, nella parte in cui – nel prevedere che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Secondo la Corte – che si riferisce al reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga – giusta esame comparativo delle diverse fattispecie già sottoposte in passato al relativo vaglio, il delitto in parola va considerato in diversa guisa rispetto al delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art.416 bis c.p., l’unico per il quale è ammessa una presunzione assoluta di inadeguatezza delle misure cautelari alternative alla restrizione in carcere. La presa di posizione della Corte si riferisce tanto alle ipotesi base di associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, quanto all’ipotesi meno grave (e dubbia dal punto di vista della relativa natura quale circostanza attenuante od autonoma ipotesi di reato) dell’associazione finalizzata al narcotraffico di lieve entità (comma 6).
Il 22 settembre esce la sentenza delle SSUU n.34475, che risolve il contrasto interpretativo intorno all’art.74, comma 6, D.p.R. 309.90, optando per la tesi della figura autonoma di reato con riguardo all’associazione finalizzata al narcotraffico di lieve entità, che non può dunque assumersi mera circostanza attenuante. La Corte utilizza all’uopo il criterio teleologico: laddove l’art.74, comma 6, rinvia all’art.416, comma 1 e 2, c.p., lo fa quoad factum (e non già meramente quoad poenam), muovendo dal presupposto onde si tratta di fattispecie con minor disvalore penale (più lieve aggressione all’interesse penalmente tutelato), di natura derogatoria (proprio a fronte di tale minor disvalore) rispetto alla fattispecie base dell’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Peraltro, anche ove non fosse intervenuta la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo l’automatismo applicativo della misura custodiale in questa fattispecie autonoma meno grave, la relativa non applicabilità sarebbe comunque discesa dall’interpretazione (restrittiva) costituzionalmente orientata delle pertinenti disposizioni, alla luce degli articoli 3, 13 e 27 della Costituzione in tema di eguaglianza davanti alla legge, di inviolabilità della libertà personale e di presunzione di non colpevolezza.
2013
Il 23 dicembre viene varato il decreto legge n.146, il cui articolo 2, comma 1, lettera a) incide sull’art.73, comma 5, del D.p.R. 309.90 in tema di stupefacenti, onde – nella nuova formulazione – salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti da tale articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, e’ di lieve entità, e’ punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000. La formulazione della norma fa affiorare il dubbio che si tratti effettivamente ancora di una circostanza attenuante o, piuttosto, di una nuova e diversa fattispecie incriminatrice “circostanziata”, ma comunque autonoma rispetto alle fattispecie base di cui all’art.73 ridetto.
2014
Il 21 febbraio viene varata la legge n.10, che converte in legge il decreto n.146.13.
Il 5 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.10514 che si occupa del novellato art.73, comma 5, del D.p.R. 309.90 in tema di stupefacenti, configurato non più come circostanza attenuante, ma come illecito autonomo (meno grave) rispetto alla fattispecie base, sulla scorta della convergenza di tutta una pluralità di indici, taluni riconducibili alla lettera della norma, come ad esempio il fatto che la rubrica dell’art.2 del decreto legge 146.13 parla esplicitamente di “delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”; il fatto che la norma muova dalla clausola di sussidiarietà (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”); il fatto che la norma, piuttosto che dire “si applicano le pene” si esprima nel senso onde il colpevole “è punito”; il fatto che l’incipit sia “chiunque commette”, tipico della fattispecie incriminatrice assai più che della circostanza. Ulteriori indizi vengono ritratti dal modo in cui si esprime, anch’esso novellato sul punto, l’art.380, comma 2, lettera h) del c.p.p., che non fa più riferimento alla “circostanza prevista dal comma 5”, ma ai “delitti di cui al comma 5”, in modo analogo a quanto fa il precedente art.19, comma 5, del medesimo c.p.p. Secondo la pronuncia, anche se si tratta di indizi diversi, nessuno dei quali risolutivo ove isolatamente preso, tutti assieme essi appaiono capaci di far assumere ormai la fattispecie come incriminazione autonoma rispetto alle fattispecie base.
*Il 24 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.13903, che ribadisce come il novellato art.73, comma 5, del D.p.R. 309.90 in tema di stupefacenti si configuri non più come circostanza attenuante, ma come illecito autonomo (meno grave) rispetto alla fattispecie base, sulla scorta della convergenza di tutta una pluralità di indici, taluni riconducibili alla lettera della norma, come ad esempio il fatto che la rubrica dell’art.2 del decreto legge 146.13 parla esplicitamente di “delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”; il fatto che la norma muova dalla clausola di sussidiarietà (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”); il fatto che la norma, piuttosto che dire “si applicano le pene” si esprima nel senso onde il colpevole “è punito”; il fatto che l’incipit sia “chiunque commette”, tipico della fattispecie incriminatrice assai più che della circostanza. Ulteriori indizi vengono ritratti dal modo in cui si esprime, anch’esso novellato sul punto, l’art.380, comma 2, lettera h) del c.p.p., che non fa più riferimento alla “circostanza prevista dal comma 5”, ma ai “delitti di cui al comma 5”, in modo analogo a quanto fa il precedente art.19, comma 5, del medesimo c.p.p. Secondo la pronuncia, anche se si tratta di indizi diversi, nessuno dei quali risolutivo ove isolatamente preso, tutti assieme essi appaiono capaci di far assumere ormai la fattispecie come incriminazione autonoma rispetto alle fattispecie base.
*Il 26 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.14288, che ribadisce come il novellato art.73, comma 5, del D.p.R. 309.90 in tema di stupefacenti si configuri non più come circostanza attenuante, ma come illecito autonomo (meno grave) rispetto alla fattispecie base, sulla scorta della convergenza di tutta una pluralità di indici, taluni riconducibili alla lettera della norma, come ad esempio il fatto che la rubrica dell’art.2 del decreto legge 146.13 parla esplicitamente di “delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”; il fatto che la norma muova dalla clausola di sussidiarietà (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”); il fatto che la norma, piuttosto che dire “si applicano le pene” si esprima nel senso onde il colpevole “è punito”; il fatto che l’incipit sia “chiunque commette”, tipico della fattispecie incriminatrice assai più che della circostanza. Ulteriori indizi vengono ritratti dal modo in cui si esprime, anch’esso novellato sul punto, l’art.380, comma 2, lettera h) del c.p.p., che non fa più riferimento alla “circostanza prevista dal comma 5”, ma ai “delitti di cui al comma 5”, in modo analogo a quanto fa il precedente art.19, comma 5, del medesimo c.p.p. Secondo la pronuncia, anche se si tratta di indizi diversi, nessuno dei quali risolutivo ove isolatamente preso, tutti assieme essi appaiono capaci di far assumere ormai la fattispecie come incriminazione autonoma rispetto alle fattispecie base.
Il 4 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.23350, che si occupa della nuova fattispecie di cui all’art.73, comma 5 del D.p.R. 309.90, assumendola come ipotesi (autonoma, e non già circostanza) di “piccolo spaccio”. La fattispecie ha luogo quando sono stati superati i limiti tabellari di sostanza detenibile, e tuttavia, valutati nel relativo insieme gli elementi normativi afferenti all’azione (mezzi, modalità e circostanze) e all’oggetto del reato (quantità e qualità della sostanza drogante), si è al cospetto non già solo – come è ovvio – di ipotesi scolastiche di minima gravità, ma anche di condotte illecite in cui il disvalore appare apprezzabile, ma che tuttavia possono essere definite lievi se si pone attenzione alla dimensione economica assunta dal fenomeno nel caso concreto, al volume del commercio che lo ha compendiato, al valore della sostanza trattata e agli introiti che ne sono stati ritratti dal soggetto agente.
2016
Il 23 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 31418 alla cui stregua la circostanza di cui all’art. 609-ter, comma 1, n. 1, c.p. in tema di violenza sessuale, stabilendo la pena in misura indipendente da quella ordinaria prevista dall’art. 609-bis c.p., ha natura di circostanza aggravante ad effetto speciale, con la conseguenza che di essa deve tenersi conto nel calcolo (allungato) della prescrizione ai sensi dell’art.157 c.p., come novellato dalla c.d. Ex-Cirielli.
2017
Il 9 giugno esce la sentenza delle SSUU n.28953 che si pronuncia sulla questione di diritto se, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, le circostanze c.d. indipendenti che comportano un aumento di pena non superiore ad un terzo rientrino – o meno – nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, affermando in particolare che, ai ridetti fini (tempo necessario a prescrivere ex art.157 c.p. novellato dalla c.d. Ex-Cirielli), dette circostanze indipendenti – aumento di pena non superiore ad un terzo (nella specie, quella di cui all’art. 609-ter, primo comma, cod. pen.) – non rientrano nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, e sono dunque irrilevanti ai fini del computo della prescrizione. La Corte parte dal presupposto onde tra le circostanze c.d. indipendenti va annoverata appunto quella contemplata dall’art. 609-ter c.p. in tema di violenza sessuale; secondo una prima opzione ermeneutica abbracciata dalla maggioritaria giurisprudenza di legittimità, tale fattispecie configura da un lato una circostanza indipendente, e dall’altro una circostanza ad effetto (meramente) comune (e non ad effetto speciale), ai sensi dell’art. 63, comma 3, c.p., e ciò in quanto l’aumento – sia pure determinato in misura indipendente rispetto ad entrambi i margini della pertinente cornice edittale – non è comunque superiore ad un terzo rispetto alla pena ordinaria, con la conseguenza onde l’”indipendenza” e dunque l’autonomia della determinazione della pena (pur innegabile) non può assumersi avere rilevanza ai fini del tempo necessario a prescrivere, l’art. 157, comma 2, c.p. facendo riferimento esclusivamente alla pena prevista per le circostanze ad effetto speciale “pure”, additate dall’art. 63, comma 3, c.p., come quelle che importano un aumento o una diminuzione di pena superiore ad un terzo, oltre che per quelle autonome, per le quali la legge stabilisce una pena diversa (vengono richiamati i precedenti della Sezione I, n. 5081.99; della Sezione III, n. 10487.13 e n. 41699.14); secondo invece una diversa e più recente impostazione, la circostanza aggravante ex art. 609-ter c.p. farebbe luogo ad una vera e propria circostanza ad effetto speciale (oltre che indipendente), con conseguente rilevanza ai fini della determinazione del termine di prescrizione (viene richiamata la recentissima sentenza della III Sezione n. 31418/16). Le Sezioni Unite, registrato il ridetto contrasto interpretativo, aderiscono al primo e maggioritario orientamento muovendo dalla considerazione onde il legislatore del 1984 – nel riformulare il testo dell’art. 63, comma 3, c.p. – ha inciso in modo penetrante sulla catalogazione delle circostanze ed ha fornito una precisa definizione di quelle c.d. “ad effetto speciale”, additandole (tassativamente) come quelle che implicano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo; sotto altro profilo – prosegue la Corte – l’art. 157, comma 2, c.p., nel testo novellato dalla Legge n. 251 del 2005 (c.d. Ex-Cirielli), afferma che per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante. Per la Corte, il combinato disposto degli articoli 157 e 63 c.p. assume un significato univoco e non controvertibile, tanto laddove individua circostanze rilevanti o irrilevanti ai fini del calcolo del tempo per prescrivere, quanto laddove assume rilevanti all’uopo le sole circostanze aggravanti autonome e le circostanze aggravanti ad effetto speciale sulla base dell’aumento di pena (superiore ad un terzo) che comportano, e ciò stante come l’art. 157 c.p. novellato abbia scolpito una regola – le circostanze sono di norma irrilevanti ai fini del calcolo del tempo per prescrivere – ed una eccezione, alla cui stregua sono computabili a fini prescrizionali le (sole) circostanze aggravanti autonome e quelle aggravanti ad effetto speciale, con esclusione dunque delle circostanze c.d. indipendenti. Le SSUU sembrano peraltro adombrare anche una rilevanza in materia del principio di tassatività, tenuto conto da un lato che l’art.63, comma 3, e l’art.157, comma 2, c.p. individuano in modo preciso le circostanze (aggravanti) ad effetto speciale che implicano un allungamento dei termini prescrizionali; e dall’altro che il detto allungamento si risolve in una opzione di politica criminale contra reum, con conseguente inestensibilità a fattispecie che non siano quelle per l’appunto tassativamente previste dal legislatore penale.
Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.205, secondo la quale è da assumersi incostituzionale – per violazione degli artt. 3, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost. – l’art. 69, comma 4, c.p., come sostituito dall’art. 3, L. 5 dicembre 2005, n. 251 (“Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione”), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, comma 3, l.fall. sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p.
Il 19 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.42574, che si riferisce ad un’ipotesi di rapporto tra maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. Nel caso di specie era stata contestata con apposito motivo di ricorso l’applicazione dell’aggravante del nesso teleologico quanto al delitto di lesioni personali, laddove il fatto di lesioni giudicate guaribili in sette giorni doveva per la difesa considerarsi elemento costitutivo delle condotte maltrattanti; in ogni caso, avrebbe dovuto essere esclusa l’aggravante del nesso teleologico, presupponente la distinzione tra le azioni costitutive dei diversi reati. La Corte in proposito rammenta il proprio insegnamento costante onde non appare configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen. in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte (vengono richiamati i precedenti della VI sezione n. 23827.13 e n. 5738.16), essendo stato più in specie già affermato in proposito che – nel caso di reato di lesione personale, commesso in occasione del delitto di maltrattamenti – i due fatti non possono essere ritenuti automaticamente aggravati dalla circostanza del nesso teleologico, prevista dall’art. 61, n. 2 cod. pen., essendo necessario accertare sul piano oggettivo che le azioni costitutive dei due reati siano distinte e, su quello soggettivo, la volontà dell’agente di commettere il reato-mezzo in direzione della commissione del reato scopo (viene richiamata la pronuncia della VI sezione n. 3368.16). Al riguardo, nella specie per la Corte la sentenza impugnata nulla ha dedotto, limitandosi ad affermare, tautologicamente, che tutte le azioni accessorie al delitto di maltrattamenti dovevano (apoditticamente) considerarsi avvinte dal nesso teleologico con detto reato, “la cui condotta si sviluppa ad ampio raggio“, mentre le fattispecie concorrenti si ponevano come promanazione materiale di atti autonomamente iniqui ed antigiuridici, ma consentiti dal contesto ambientale determinato dalla condotta maltrattante. In sostanza, l’abitualità dei maltrattamenti in famiglia normalmente “assorbe” le lesioni personali lievi (che ne compendiano degli elementi costitutivi), salvi i casi in cui si dimostri l’autonomia tra le due fattispecie, ipotesi (di concorso di reati) nelle quali può rilevare anche il c.d. nesso teleologico come circostanza aggravante.
Il 01 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.54297, che premette come nella fattispecie in esame risulti essere priva di controversia la circostanza che l’imputato è stato trovato in possesso di un passaporto falso intestato ad un terzo, al quale aveva sostituito la pagina dati e apposto la propria effigie. Tanto premesso in fatto, per la Corte deve ritenersi corretta la deduzione del P.G. ricorrente, secondo cui l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 497 bis c.p. integra un reato autonomo rispetto all’ipotesi del mero possesso prevista dal comma 1, essendo la descrizione della condotta che differenzia le due fattispecie essa stessa elemento costitutivo del reato, non relegabile al ruolo di elemento circostanziale. Sul punto, è sufficiente per la Corte richiamare il percorso argomentativo sviluppato nella sentenza della Sez. 5, n.18535 de115/02/2013, che – dopo aver premesso che i due commi di cui all’art. 497 bis c.p. puniscono diversamente, in ragione del diverso grado di gravità, la condotta del mero possesso di un (falso) documento valido per l’espatrio, da un lato, e la condotta, ben più allarmante sul piano delle falsità personali per la connotazione organizzativa che la caratterizza, costituita dalla previa contraffazione del documento stesso ad opera dello stesso detentore, o del concorso da parte di costui alla falsa formazione del documento o, infine, dalla detenzione fuori dai casi di uso personale – ha evidenziato come l’art. 497 bis c.p., comma 2 costituisca un reato autonomo rispetto a quello del comma 1, posto che, sebbene la pena sia indicata con un sistema di computo per relationem rispetto a quella del comma 1 nel senso che “è aumentata” – elemento in genere ritenuto indicativo del rapporto circostanziale dell’una fattispecie rispetto all’altra – la struttura delle due fattispecie si rivela ontologicamente distinta. Invero, chiosa ancora la Corte, le SSUU nella sentenza n. 26351 del 10/07/2002, Fedi, hanno ritenuto che l’unico criterio idoneo a distinguere le norme che prevedono circostanze da quelle che prevedono elementi costitutivi della fattispecie è il criterio strutturale della descrizione del precetto penale. Orbene, nel caso in esame vi è, tra la fattispecie di cui al comma 1 e le altre, una immutazione degli elementi essenziali delle condotte illecite descritte, in quanto il riferimento è ad eventi che esprimono, ciascuno, una realtà fenomenica distinta e indipendente La ipotesi del comma 2 punisce infatti la condotta della “fabbricazione di documento falso“, in sè del tutto distinta da quella del “possesso” di cui al comma 1 e non certo in rapporto di progressione criminosa per aggiunta, costituendone semmai il presupposto e l’antefatto naturale (così testualmente Sez. 5, n. 18535 del 15/02/2013). A tali argomenti, aggiunge la Corte di avere più volte evidenziato come integri il reato di cui all’art. 497 bis, comma 2, cod. proc. pen. – e non quello meno grave di cui al comma 1 della stessa norma – il possesso, come ,nella fattispecie, di una carta d’identità recante la foto del possessore con false generalità, essendo evidente, in tal caso, la partecipazione di quest’ultimo alla contraffazione del documento (Sez. 2, n. 15681 del 22/03/2016).
2018
Il 15 marzo esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.11889 che si occupa di immigrazione clandestina, assumendo di dover rimettere alla SSUU della Corte la decisione se le fattispecie in tema di favoreggiamento di cui all’art.12, comma 3, del decreto legislativo n.286 del 1998 costituiscono circostanze aggravanti del delitto di cui al comma 1, ovvero figure autonome di reato (in questa seconda ipotesi, chiedendo anche di chiarire se si configuri una fattispecie autonoma con foggia di reato di pericolo, o a consumazione anticipata, perfezionantesi per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, ovvero una fattispecie di reato di danno, con necessità di effettivo ingresso illegale dell’immigrato).
Il 19 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.12631, che si pronuncia in tema disastro e di naufragio di natante. Per la Corte va osservato che la prevalente giurisprudenza configura come reato autonomo (e non come circostanza aggravante) la fattispecie di cui al comma 2 dell’art. 449 cod. pen. Al riguardo la Corte ritiene, condivisibilmente, che tale ipotesi criminosa si caratterizza – tanto da meritare un trattamento sanzionatorio particolarmente severo – in ragione della particolarità del disastro, riguardante le strade ferrate, le navi e gli aeromobili adibiti al trasporto di persone (Sez. 4, n. 36639 del 19/06/2012, R.C. in proc. Castelluccio e altro; n. 27851 del 04/03/2004, Del Bono), nonché per la tecnica di tipizzazione, che individua specifiche ed autonome ipotesi colpose che si distinguono nettamente rispetto a quelle indicate nel comma 1 dello stesso articolo, tanto che non si saprebbe neppure individuare una fattispecie di base aggravata dal capoverso (Sez. 4, n. 1544 del 18/1/2012, Tedesco ed altri).
Il 12 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26857, alla cui stregua – in tema di guida in stato di ebbrezza e omicidio o lesioni “stradali” – vanno preliminarmente puntualizzati taluni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del bis in idem, da ritenersi vero e proprio cardine di civiltà giuridica, poiché preclude di addebitare all’imputato lo stesso fatto storico più volte, e ciò dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, chiosa la Corte, la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell’ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. cod. proc. pen.) e l’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.). Va precisato, per la Corte, che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti nel caso di specie (artt. 84 e 15 cod. pen.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all’imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. “ne bis in idem sostanziale“, che però, come noto (viene richiamata sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell’ordinamento. Il momento di sintesi, chiosa ancora la Corte, di cui è espressione l’art. 84 cod. pen., quale esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all’imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata “vicenda di vita” si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell’azione penale talora ad elemento costitutivo dell’illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante. Tanto premesso, il ricorso, sotto il profilo segnalato nel secondo motivo, appare alla Corte nel caso di specie fondato. Alla persuasività delle considerazioni di principio già svolte, deve aggiungersi avere la Corte già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all’imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 41 del 2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell’occasione dalla S.C.): a seguito dell’entrata in vigore della L. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l’art. 589-bis cod. pen., in virtù del quale “Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni” e, inoltre, “nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto” […]. Precedentemente – prosegue la Corte – dall’entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, l’art.589 cod. pen. disponeva, tra l’altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, “Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni” e che “Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici” […] La formulazione della novella del 2016 ha per la Corte, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della “guida“, individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga “alla guida di un veicolo a motore“; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., per le quali destinatario del precetto è “chiunque cagioni per colpa [ ] con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale….)”. In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al “conducente di un veicolo a motore” e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza. In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l’esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell’art. 589-bis cod. pen. successivi al primo quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada. Occorre allora, ad avviso del Collegio, dare continuità al – condivisibile – ragionamento che si è testualmente richiamato, ed affermare che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 41 del 2016, delle innovative fattispecie autonome dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, si richiama la recentissima sentenza di Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (Sez. 4, n. 1880 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc, Greco; Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni; Sez. 4, n. 3559 del 29/10/2009, dep. 2010, Corridori; Sez. 5, n. 2608 del 15/01/1997, Schiavone). Può quindi per la Corte affermarsi in conclusione il principio di diritto onde, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà naturalmente, per la Corte, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).
Il 14 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.27425 che si occupa dei rapporti tra omicidio stradale e lesioni personali stradali, indagando la natura di reati autonomi, ovvero di circostanze aggravanti rispetto alle fattispecie “ordinarie” di omicidio e di lesioni personali. La questione che si pone attiene in particolare alla qualificazione giuridica dell’art.590 bis, comma 1, c.p., se sia circostanza aggravante ovvero fattispecie autonoma di reato. Il Tribunale di Brescia – premette la Corte – ha ritenuto trattarsi di una circostanza aggravante, che dunque non ha mutato il regime di procedibilità a querela del reato di lesioni personali colpose occorse in ambito stradale. Ha osservato sul punto che, a fronte degli argomenti formali a sostegno della tesi della natura di fattispecie autonoma di reato, quali l’autonoma collocazione della norma e la previsione di una distinta sanzione edittale, nonché l’intestazione della stessa legge n.41 del 2016 (“Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali“), vi sarebbero altri argomenti di ordine sistematico ed ermeneutico, che invece militerebbero nel senso della collocazione della norma nell’ambito delle circostanze aggravanti. Primo tra questi, il rilievo che l’intero “micro-sistema” delle lesioni si impernia su 2 fattispecie base, l’art.582, comma 1. cod.pen. per l’ipotesi dolosa, e l’art.590, comma 1, cod.pen., per quella colposa, alle quali sono applicabili varie circostanze, tra cui quelle contenute nell’art.590 bis cod.pen. Una seconda considerazione per il Tribunale è che il riconoscimento della natura di fattispecie autonoma condurrebbe poi all’elusione della disciplina dell’arresto in flagranza, avendo l’art.5, comma 1, della legge n.41 del 2016 introdotto l’arresto facoltativo per il delitto di lesioni colpose stradali gravi o gravissime ex art.590 bis, commi 2, 3, 4 e 5 cod.pen., ed il comma 6 ha previsto poi che “il conducente che si fermi e, occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subito danni alla persona, mettendosi immediatamente a disposizione degli organi di polizia giudiziaria, quando dall’incidente derivi il delitto di lesioni personali colpose, non è soggetto all’arresto stabilito per il caso di flagranza di reato“. Orbene, osserva il giudice di merito, se si intendessero le lesioni colpose stradali ex art.590 bis cod.pen. quali fattispecie autonoma, come da rubrica intitolata “lesioni personali stradali“, l’art.189, comma 8, codice della strada non potrebbe essere applicato al delitto che esso menziona, perché la fattispecie ex art.590 cod.pen. non ammette in nessun caso l’arresto; inoltre, la stessa disposizione non sarebbe applicabile neppure alle lesioni personali stradali, trattandosi di fattispecie autonoma non espressamente richiamata. Soltanto qualificando l’art.590 bis cod.pen. come un catalogo di circostanze aggravanti del delitto ex art.590 cod.pen., le lesioni stradali rientrerebbero nel più ampio novero delle lesioni personali colpose, con conseguente piena operatività della previsione ex art.189, comma 8, del codice della strada. Gli argomenti sviluppati nella sentenza impugnata non sono tuttavia per la Corte corretti e sono piuttosto smentiti da una serie di rilievi, primo fra tutti il dato testuale: la legge n.41 del 2016 è intitolata “Introduzione del reato di omicidio stradale e di lesioni personali stradali” ed indica chiaramente la volontà del legislatore di introdurre nel sistema due nuove figure di reato, che descrivono condotte specifiche e specializzanti rispetto alle generiche fattispecie base di cui agli artt.589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni colpose) cod.pen., e che sono state autonomamente disciplinate, con l’evidente intento di operare un efficace contrasto ai reati che conseguono a condotte di guida caratterizzate dalla violazione delle regole prudenziali della circolazione stradale e provocano un sempre crescente numero di vittime. Dunque, sotto il profilo testuale, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Brescia, appare alla Corte assai significativo che la disciplina in esame sia stata introdotta nel codice penale con articoli autonomi, rubricati ciascuno con il titolo del relativo reato – e segnatamente l’art. 589-bis “omicidio stradale“e l’art. 590-bis “lesioni personali stradali” – e con previsione di distinte pene edittali. Va inoltre sottolineato (come già statuito da questa Sez.4, con sent. n.29721 del 1/3/2017, in proc. Venni e n.42346 del 16/5/2017, in proc. Tosolini) che nell’ambito di tali figure criminose sono previste delle specifiche circostanze aggravanti ed attenuanti. Le prime sono richiamate dall’art.590-quater cod.pen., che, nel disciplinare il computo delle circostanze, menziona esplicitamente le circostanze aggravanti di cui agli artt.589-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 589-ter, 590-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, chiaramente escludendo la natura circostanziale delle ipotesi incriminatrici di cui al comma primo degli artt.589-bis e 590-bis cod.pen. Una circostanza attenuante specifica è inoltre prevista dal settimo comma dei predetti articoli del codice penale, che prevede una diminuzione della pena fino alla metà qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione od omissione del colpevole. La previsione di specifiche circostanze che aggravino o attenuino le pene edittali dei reati stradali colposi in esame è indubitabilmente indicativa – chiosa ancora la Corte – nella natura autonoma e non circostanziale di tali fattispecie incriminatrici. Va infine rilevato che la legge n.41 del 2016 ha apportato modifiche all’art.222 del Codice della Strada, qualificando espressamente come “reati” – e non come circostanze aggravanti – le fattispecie criminose di omicidio e lesioni stradali, facendo derivare dalla condanna o dal patteggiamento “per i reati di cui agli artt.589-bis e 590-bis cod.pen.” la revoca della patente di guida. Deve allora per la Corte ribadirsi, concludendo l’analisi della nuova normativa, che l’art.590-bis delinea una figura autonoma di reato e non una circostanza aggravante ad effetto speciale del delitto previsto e punito dall’art.590 cod.pen. e pertanto non necessita di querela di parte ai fini della relativa procedibilità.
Il 12 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.32028, giusta la quale vengono tracciati i contorni dell’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, la quale viene assunta sussistere nel caso in cui le espressioni usate rivelino appunto una volontà discriminatoria fondata sull’appartenenza etnica o religiosa della vittima, palesandosi ciò configurabile sia nel caso in cui sia stato palesato un pregiudizio razziale da parte del soggetto agente, sia nel caso in cui la relativa condotta, globalmente valutata, risulti idonea a dare luogo al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.
Il 24 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.40982, alla cui stregua, risolvendo la pertinente questione interpretativa, le fattispecie previste nell’art.12, comma 3, del decreto legislativo n.286.98 in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina configurano circostanze aggravanti (e non figure autonome di reato) rispetto alla fattispecie delittuosa “base” di cui al comma 1, da qualificarsi come reato di pericolo a consumazione anticipata. L’interrogativo sulla natura della previsione dell’art. 12, comma 3 T.U. imm. – afferma la Corte – è stata risolto in senso differente dalla giurisprudenza di legittimità parallelamente alle modifiche ripetutamente ad essa apportate dal legislatore. Il testo originario dell’art. 10 legge 6 marzo 1998, n. 40, trasfuso nell’art. 12 del d. Igs. 25 luglio 1998, n. 286, puniva al primo comma «chiunque compia attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni della presente legge» e, al terzo comma, contemplava alcune ipotesi sanzionate più severamente e cioè il fine di lucro, il concorso di tre o più persone, l’ingresso di cinque o più persone, l’utilizzazione di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti, la finalità di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione, l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento. Si era ripetutamente affermato che le ipotesi previste dall’art. 12, comma 3 T.U. imm. non configuravano ipotesi autonome di reato ma circostanze aggravanti ad effetto speciale rispetto all’ipotesi semplice del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina delineata nel primo comma (Sez. 1, n. 44644 del 21/10/2004, Ren; Sez. 1, n. 5360 del 04/12/2000, dep. 2001, Vishe). Analoga qualificazione – prosegue la Corte – era stata, in precedenza, attribuita all’art. 3, comma 8 decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, conv., con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, che costituiva l’antecedente storico dell’art. 12 T.U. imm. e che era costruito in maniera analoga: si erano qualificate entrambe le ipotesi citate nella seconda parte della disposizione (fatto commesso a fine di lucro ovvero da tre o più persone in concorso tra di loro) come circostanze aggravanti ad effetto speciale e non titoli autonomi di reato (Sez. 1, n. 1761 del 25/03/1998, Zarli; Sez. 1, n. 6227 del 27/11/1996, dep. 1997, Musletag; Sez. 1, n. 5647 del 09/11/1995, Wen Jang Jiang). La legge 30 luglio 2002, n. 189, aveva apportato modifiche sia al primo che al terzo comma dell’art. 12 T.U. imm.: la condotta del primo comma veniva descritta come «atti diretti a procurare l’ingresso […]», con la sostituzione del verbo «favorire» con «procurare». Il terzo comma assumeva una struttura analoga a quella attualmente vigente, con la riserva iniziale («Salvo che il fatto costituisca più grave reato») e la ripetizione della condotta descritta al primo comma; il comma disponeva un aumento di pena per più ipotesi descritte separatamente: per il caso di dolo specifico di profitto, anche indiretto e, nella seconda parte, per il concorso di tre o più persone, l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto o di documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente detenuti. Erano poi dettate due aggravanti (così espressamente qualificate dal legislatore nel comma 3-quater) ai commi 3-bis e 3-ter, alcune delle quali riproducevano quelle già contemplate nella norma originaria. In sostanza, alcune ipotesi aggravate venivano separate dalle altre e quella relativa alla finalità di «lucro» veniva specificata ed ampliata. La rilevanza attribuita alla condotta connotata dal dolo specifico di profitto era ulteriormente accentuata dalla nuova riforma operata dal decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 novembre 2004, n. 271, che aveva soppresso il secondo periodo del terzo comma, “trasferendo” le fattispecie ivi previste (concorso di tre o più persone, utilizzo di servizi internazionali di trasporto o di documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente detenuti) in una separata lettera c-bis) del comma 3-bis: in definitiva, delimitando il contenuto del comma 3 alla sola ipotesi suddetta. La norma così riformata era stata interpretata nel senso di attribuire natura di reato autonomo e non di mera circostanza aggravante al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina caratterizzato dal fine di profitto (Sez. 1, n. 7157 del 22/01/2008, Karpeta; Sez. 1, n. 11578 del 25/01/2006, Rufai Kuku). In particolare, si sottolineava la tecnica usata dal legislatore che, anziché rinviare per la descrizione del precetto al primo comma, aveva riformulato completamente la disposizione (indicando sia il precetto che la sanzione), così da confezionare, anche graficamente, una ipotesi di reato del tutto autonoma; ancora, si rimarcava la circostanza che i successivi commi 3-bis e 3-ter facevano distintamente riferimento alle ipotesi di reato rispettivamente previste dai commi 1 e 3 (il riferimento è al testo del comma 3-bis ulteriormente modificato dal d.l. n. 241 del 2004: «Le pene di cui ai commi 1 e 3 sono aumentate se […1», mentre il comma 3-ter si applicava ai «fatti di cui al comma 3»); si individuava, inoltre, la chiara ratio legis del legislatore della novella, che aveva voluto colpire in modo più severo i casi contrassegnati dal fine di lucro, connotati da maggiore gravità e pericolosità sociale, ed anche altamente riprovevoli alla coscienza collettiva, imponendo un livello sanzionatorio non riducibile per effetto delle attenuanti; ancora, si riteneva coerente con la natura di reato autonomo il divieto di bilanciamento di circostanze stabilito dal comma 3-quater solo per le aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter. La norma attualmente vigente, da ultimo riformata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, ha lasciata intatta la struttura dell’art. 12, comma 1 T.U. imm., modificando profondamente la parte successiva dell’articolo: la condotta dettata dal dolo specifico di profitto, anche indiretto, è ora contemplata nell’aggravante ad effetto speciale di cui al comma 3-ter, unitamente a quella contrassegnata dal fine di sfruttamento lavorativo, sessuale, di prostituzione o di minori; tuttavia, l’effetto di impedire una eccessiva riduzione della pena è stato mantenuto con il divieto di bilanciamento dettato dal comma 3-quater. Il comma 3 contempla, ora, cinque diverse ipotesi (alcune delle quali già previste nelle precedenti versioni della norma) punite con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona. Le condotte punite sono descritte unitariamente mediante la riproduzione letterale di quella contemplata dal primo comma e il loro elenco è introdotto con la locuzione «nel caso in cui: a) […]». È presente anche la riserva iniziale «Salvo che il fatto costituisca più grave reato […]».Il comma 3-bis disegna un’aggravante «se i fatti di cui al comma 3 sono commessi ricorrendo due o più ipotesi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del medesimo comma», soggetta al divieto di bilanciamento stabilito dal comma 3- quater. Secondo Sez. 1, n. 40624 del 25/03/2014, Scarano, non mass. sul punto – prosegue la Cortte – la descrizione delle ipotesi specializzanti contenute nel comma 3 fa ritenere che la norma descriva un reato autonomo, non una aggravante; si sottolinea che i fatti descritti sono evocativi di una effettiva violazione della disciplina di controllo dell’immigrazione. La Corte ritiene «infelice» la tecnica normativa di riproporre la descrizione di una condotta «di base» analoga a quella del primo comma, ma sostiene che la qualificazione come fattispecie autonoma e l’attribuzione al delitto della natura di reato di evento «consente il recupero di ragionevolezza sistematica […] anche in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata». Ulteriore conferma della natura autonoma della fattispecie del terzo comma è tratta – rammenta la Corte – dal testo del comma 3-ter che fa riferimento in modo distinto alle ipotesi dei due commi. La natura di fattispecie autonoma di reato della previsione dell’art. 12, comma 3, T.U. imm. è affermata anche da Sez. 1, n. 45734 del 31/03/2017, Bouslim, secondo cui, tuttavia, si tratta di un reato di pericolo o “a consumazione anticipata“, che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in violazione della disciplina di settore, non richiedendo l’effettivo ingresso illegale dell’immigrato in detto territorio. La riforma operata dalla legge n. 94 del 2009 non avrebbe radicalmente mutato la natura autonoma del reato che «anziché come in precedenza differenziarsi per il fine di profitto, adesso si caratterizza per la previsione di specifiche condotte»; la locuzione «nel caso in cui […]» avrebbe la funzione di prevedere «una gamma di situazioni che in precedenza configuravano circostanze aggravanti». Non vi sarebbe, quindi, «una diversità di struttura tra l’ipotesi di immigrazione clandestina prevista dal primo comma della norma e quella introdotta nel terzo comma con la modifica attuata da ultimo con la legge 94 del 2009». Avverso tale orientamento, rammenta ancora la Corte, Sez. 1, n. 14654 del 29/11/2016, dep. 2017, Yankura, sostiene che le fattispecie disciplinate dall’art. 12, comma 3, T.U. imm. costituiscono circostanze aggravanti del delitto di cui all’art. 12, comma 1 e non figure autonome di reato. Secondo il Collegio, in assenza di espresse indicazioni legislative, il canone principale di differenziazione per individuare la natura circostanziale o autonoma di una figura criminis è rappresentato dal criterio di specialità dettato dall’art. 15 cod. pen., in quanto gli elementi circostanziali si pongono in rapporto di species ad genus al cospetto della fattispecie base del reato, costituendone una specificazione. Adottando come canone interpretativo il criterio strutturale, emerge la natura circostanziale della fattispecie del terzo comma rispetto a quella del primo comma: «Il profilo descrittivo della condotta, invero, replica esattamente l’ipotesi base, con una tecnica di normazione abbastanza insolita»; infatti, gli elementi strutturali, essenziali della condotta enucleata nel comma 1, non mutano ed il fatto-base «risulta integrato “per aggiunta” esclusivamente attraverso l’inserimento dei dati specializzanti, elencati avvalendosi della tecnica di enumerazione letterale progressiva». Rispetto alla fattispecie base, quella del terzo comma, quindi, si pone «in rapporto di specialità per aggiunta con riferimento ai nuclei fattuali indicati che accentuano la lesività della condotta base, con conseguente previsione di un trattamento sanzionatorio di maggiore asprezza»: una «tecnica di incriminazione tipicamente selettiva degli elementi circostanziali [che] delimitando connotazioni accessorie del fatto (circum-stant) ne incrementano il disvalore o lo attenuano, a seconda della diversa natura (aggravante o attenuante)». Secondo la pronuncia, rafforzerebbero l’orientamento anche l’incorporazione del fatto in un’unica norma incriminatrice e il significato teleologico della norma, che è posta a presidio del medesimo bene giuridico sia nelle ipotesi del primo che del terzo comma. La soluzione sarebbe preferibile anche sulla base di considerazioni differenti: la non frammentazione di un nucleo offensivo identico in più ipotesi di reato, attraverso aspetti accessori, e il principio di favor, atteso che la natura autonoma del reato impedisce il bilanciamento delle circostanze. Le ulteriori aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter non ostacolano l’interpretazione adottata, corrispondendo ad una tecnica già utilizzata, ad esempio, per l’art. 416-bis cod. pen.; i riferimenti ai «fatti di cui ai commi 1 e 3» e ai «reati di cui al comma 3» contenuti nella norma non sono considerati decisivi, avendo carattere meramente formale. Il divieto di bilanciamento tra le circostanze limitato alle sole circostanze di cui ai commi 3-bis e 3-ter non dimostra la natura autonoma della fattispecie del comma 3, ma corrisponde alla scelta del legislatore di attuare un trattamento di maggior rigore nei soli casi in concorrano congiuntamente più circostanze di tale comma o le ipotesi previste dal comma 3-ter. Operato questo preciso excursus giurisprudenziale, le Sezioni Unite con questa importante pronuncia ritengono corretta tale seconda seconda linea interpretativa, abbracciando appunto a tesi circostanziale. Esse premettono che, come risulta con evidenza dagli artt. 61, 62 e 84 cod. pen., non esiste alcuna differenza ontologica tra elementi costitutivi, o essenziali, ed elementi circostanziali del reato: il legislatore, infatti, può rendere elementi costitutivi del reato ipotesi che, altrimenti, sarebbero considerate circostanze comuni ovvero considerare «fatti che costituirebbero, per se stessi, reato» come «circostanze aggravanti di un solo reato». Di conseguenza, la risposta in ordine al dubbio sulla natura di una fattispecie è data esclusivamente dalla ricostruzione della volontà del legislatore che, nella sua discrezionalità, tenta di articolare la valutazione penale di determinate condotte in maniera più aderente alle loro concrete manifestazioni, che mutano anche nel tempo: le numerose riforme della norma in commento sono frutto di questo tentativo, che ha tenuto conto del mutamento del fenomeno del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel corso degli ultimi decenni. Ciò premesso, in mancanza di una manifestazione espressa della volontà del legislatore di introdurre, con l’art. 12, comma 3 T.U. imm., circostanze aggravanti o fattispecie autonome di reato (manifestazione che, invece, si rinviene per le ipotesi descritte nell’art. 12, commi 3-bis e 3-ter T.U. innm., che il successivo comma 3-quater qualifica esplicitamente come «aggravanti»), occorre per la Corte ricavare tale volontà da indici significativi, elaborati da giurisprudenza e dottrina in mancanza di indicazioni normative sui criteri di distinzione. Le Sezioni Unite hanno ribadito negli anni – chiosa ancora la Corte – che il criterio principale (anche se non unico) è quello strutturale, attenendo alla struttura del precetto o della sanzione: il modo in cui la norma descrive gli elementi costitutivi della fattispecie o determina la pena è indicativo della volontà di qualificare gli elementi come circostanza o come reato autonomo; ciò, del resto, è coerente con la discrezionalità del legislatore oggetto della premessa. Nel valutare la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640-bis cod. pen. con riferimento a quella di cui all’art. 640 cod. pen., Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, Rv. 221663 rilevava che «nel caso dell’art. 640-bis la fattispecie è descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello Stato, delle Comunità europee o di altri enti pubblici). Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa» In effetti, «la descrizione della fattispecie […] non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma introduce soltanto un oggetto materiale specifico – tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale – laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo. Tra reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o l’aggiunta di elementi circostanziali». Analogamente Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, ribadiva che, anche a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 4-bis, legge 21 febbraio 2006, n. 49, l’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 configurava una circostanza attenuante ad effetto speciale e non un reato autonomo, in quanto la norma era correlata ad elementi (i mezzi, le modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non incidevano sull’obiettività giuridica e sulla struttura delle fattispecie previste come reato, ma attribuivano ad esse una minore valenza offensiva. L’evoluzione normativa seguita alla declaratoria di illegittimità costituzionale della legge n. 49 del 2006, sancita con la sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, è indicativa della discrezionalità del legislatore nella scelta di introdurre circostanze del reato o fattispecie autonome di reato: infatti, come è noto, il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10 ha introdotto una fattispecie autonoma di reato, pur mantenendo i medesimi elementi distintivi rispetto all’ipotesi base di cui all’art. 73, comma 1 T.U. stup. Infine, Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, ha applicato il medesimo criterio strutturale per stabilire che la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall’art. 615-ter, comma primo, cod. pen. e non un’ipotesi autonoma di reato. Si affermava che «circostanze del reato sono quegli elementi che, non richiesti per l’esistenza del reato stesso, laddove sussistono incidono sulla sua maggiore o minore gravità, così comportando modifiche quantitative o qualitative all’entità della pena: trattasi di elementi che si pongono in rapporto di species a genus (e non come fatti giuridici modificativi) con i corrispondenti elementi della fattispecie semplice in modo da costituirne, come evidenziato da autorevole dottrina, una specificazione, un particolare modo d’essere, una variante di intensità di corrispondenti elementi generali»; richiamando S.U., Fedi, si rilevava che «nei casi previsti dall’art. 615-ter, comma secondo, n. 1, cod. pen. non vi è immutazione degli elementi essenziali delle condotte illecite descritte dal primo comma, in quanto il riferimento è pur sempre a quei fatti- reato, i quali vengono soltanto integrati da qualità peculiari dei soggetti attivi delle condotte, con specificazioni meramente dipendenti dalle fattispecie di base». Il criterio strutturale, soggiunge allora la Corte venendo alla questione ad essa sottoposta, ben si attaglia alla fattispecie dell’art. 12, comma 3 T.U. imm.; in effetti, in conseguenza della ripetizione della descrizione della condotta presente nel primo comma, risulta evidente che gli elementi essenziali della condotta medesima non mutano, mentre le ipotesi descritte dalle lettere da a) ad e) riguardano elementi ulteriori, che non sono necessari per la sussistenza del reato e che, secondo la valutazione del legislatore, rendono più grave la condotta posta in essere. Le considerazioni favorevoli ad una considerazione dell’ipotesi come fattispecie autonoma di reato non appaiono decisive. La tecnica legislativa di riprodurre integralmente la descrizione della condotta presente nella fattispecie del primo comma è, senza dubbio, insolita ma ottiene lo stesso risultato che avrebbe prodotto un rinvio per relationem: non pare, quindi, un indizio inequivoco della volontà del legislatore di creare una diversa fattispecie autonoma. Come esattamente rileva Sez. 1, Yankura, la mancata estensione del divieto di bilanciamento delle circostanze di cui al comma 3-quater alle ipotesi del terzo comma non è affatto indice della relativa natura di fattispecie autonoma di reato, ben potendo essere conseguenza di una ragionata scelta del legislatore di sanzionare più severamente determinate ipotesi rispetto ad altre. Il riferimento distinto ai «fatti di cui ai commi 1 e 3» contenuto nel comma 3-ter non dimostra la natura di fattispecie autonoma dei due commi, ben potendo applicarsi ai fatti di cui al primo comma così come aggravati ai sensi del terzo comma. Infine, la costruzione di aggravanti di fattispecie già aggravate, riscontrabile nei commi 3-bis e 3-ter non è affatto inusuale nella variegata produzione legislativa. D’altro canto, il richiamo operato da Sez. 1, Scarano alla giurisprudenza di legittimità che aveva affermato la natura di fattispecie autonoma di reato dell’art. 12, comma 3 T.U. imm. nel testo vigente prima delle modifiche operate dalla legge n. 94 del 2009 non sembra alla Corte calzante: come già evidenziato, l’art. 12, comma 3 T.U. imm., così come riformato dalla legge n. 189 del 2002 e dal d.l. 241 del 2004, aveva un contenuto nettamente differente da quello attuale: una sola ipotesi era stata enucleata ed essa, per di più, si differenziava da quella del primo comma su un elemento essenziale, il dolo, che si pretendeva essere specifico con riferimento al profitto. Non vi è dubbio che – come si è anticipato – a sostegno della natura di fattispecie autonoma della previsione erano stati addotti argomenti ancora utilizzabili rispetto alla norma attualmente vigente: la tecnica legislativa, con la riformulazione completa della disposizione del primo comma, i riferimenti distinti ai due commi presenti in quelli successivi, il divieto di bilanciamento delle circostanze previsto solo per le aggravanti di cui ai commi successivi; tuttavia – prosegue la Corte – l’interpretazione allora adottata faceva leva soprattutto sulla chiara volontà del legislatore di colpire più severamente le condotte connotate dal fine di profitto in conseguenza di un “salto di qualità” rispetto alle ipotesi di favoreggiamento disinteressato dell’immigrazione clandestina. Si deve ricordare che, nel testo originario introdotto dalla legge n. 189 del 2002, le aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter si applicavano soltanto alle pene e ai fatti di cui al terzo comma (scelta, poi, abbandonata nel 2004), cosicché si stagliavano chiaramente due ipotesi di reato: quella del primo comma, punita poco severamente (non era previsto minimo edittale né per la pena detentiva né per quella pecuniaria) e per la quale non erano contemplate aggravanti; quella del terzo comma, punita molto più severamente e per la quale erano previste ulteriori aggravanti e veniva formulato il divieto di bilanciamento tra circostanze. In sostanza, venivano individuati due fenomeni differenti, privi di punti di contatto, tanto che non appariva casuale la collocazione, subito dopo il primo comma, della previsione (ancora vigente) secondo cui «Fermo restando quanto previsto dall’art. 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato»: norma che – come sembra evidente – non coinvolge in alcun modo le condotte di favoreggiamento professionale o comunque per profitto dell’immigrazione clandestina. Benché, come premesso, il contrasto in ordine alla necessità, per la consumazione dell’ipotesi di cui all’art. 12, comma 3, T.U. imm., che l’ingresso clandestino nel territorio dello Stato avvenga effettivamente sia sorto nell’ambito dell’interpretazione che qualifica il predetto comma come fattispecie autonoma di reato, fin qui sconfessata, è opportuno ribadire per le SSUU che il delitto in oggetto è un reato di pericolo o a consumazione anticipata e non un reato di evento. Sez. 1, Scarano, rammenta la Corte, afferma che le condotte descritte ai commi 3 e 3-bis T.U. imm. implicano l’effettivo ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, in violazione della disciplina di settore, presupposto invece non richiesto ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di reato di cui all’art. 12, comma primo, che si configura come delitto a consumazione anticipata.
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Il 9 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 51063 che, affrontando il tema del reato di spaccio di stupefacenti, con particolare riferimento all’ipotesi di lieve entità, richiama gli importanti approdi giurisprudenziali sulle differenze tra circostanze ed elementi costituivi del reato.
Un primo indice “esterno” è la volontà del legislatore storico, desumibile dai lavori preparatori della legge in oggetto, da valutare insieme alla titolazione della norma oggetto di attività ermeneutica.
Indicatori altrettanto convincenti dell’avvenuta mutazione genetica della fattispecie si ritraggano anche dalle modifiche apportate nel testo della norma. Innanzitutto il ricorso alla locuzione “chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo” in sostituzione della previgente “quando…..i fatti previsti dal presente articolo“, rivela l’adozione di scelte lessicali tradizionalmente riservate alla configurazione di una autonoma figura di reato. In secondo luogo, l’introduzione nell’incipit del testo normativo di una espressa clausola di riserva relativamente indetermina (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato“) è scelta incompatibile con l’intenzione di conservare la qualificazione circostanziale, evidenziando invece in maniera inequivocabile la volontà di prevedere una figura delittuosa autonoma.
2019
Il 13 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 6955 che richiama il principio espresso dalle SU n. 3394/92 secondo cui il semplice uso o porto fuori della propria abitazione di un giocattolo riproducente un’arma sprovvisto di tappo rosso non è previsto dalla legge come reato. L’uso o porto fuori della propria abitazione di un tale giocattolo assume però rilevanza penale soltanto se mediante esso si realizzi un diverso reato del quale l’uso o porto di un’arma rappresenti elemento costitutivo o circostanza aggravante, come avviene quando il giocattolo riproducente un’arma, sprovvisto di tappo rosso, sia usato nella commissione dei delitti di rapina aggravata. Ai fini della sussistenza del reato di rapina aggravata, per la realizzazione dell’effetto intimidatorio, che l’agente si propone per il conseguimento del suo scopo è pertanto sufficiente un’arma giocattolo, priva del dispositivo di identificazione.
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Il 29 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13801 che, ai fini dell’applicazione dell’art. 131 bis c.p., valuta la non applicabilità della circostanza del danno di particolare tenuità in quanto tale attenuante è applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima.
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Il 2 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 14360 onde ove l’aggravante speciale della recidiva concorra con altra aggravante speciale e sia ritenuta meno grave ex art. 63 c.p., comma 4, ad essa si applica integralmente la norma di cui al citato articolo. Di conseguenza, il giudice, può e non deve aumentare la pena prevista per l’aggravante speciale più grave ma, ove ritenga di aumentarla, è vincolato al limite di cui al combinato disposto dell’art. 63 c.p., comma 4, e art. 64 c.p., comma 1
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Il 17 aprile esce la sentenza n. 88 della Corte Costituzionale che, dopo aver ribadito l’autonomia del Legislatore nel fissare i limiti edittali, richiama il proprio consolidato orientamento secondo cui solo in caso di trattamenti sanzionatori manifestamente sproporzionati e di sperequazioni punitive di particolare gravità, la Consulta è intervenuta a riequilibrare la risposta sanzionatoria dell’ordinamento. Ma ciò è avvenuto considerando la coerenza interna del regime sanzionatorio e l’offensività della condotta.
Proprio in tema di bilanciamento di circostanze la Corte è intervenuta più volte a riequilibrare situazioni sperequate che vedevano condotte ritenute dal legislatore di minore offensività, le quali in ragione del divieto di prevalenza di specifiche circostanze attenuanti finivano per essere sanzionate in modo sproporzionato.
In passato è stata ritenuta la legittimità, in generale, della tecnica legislativa del divieto di prevalenza o equivalenza delle circostanze attenuanti su specifiche circostanze aggravanti in ragione di speciali esigenze di contrasto di condotte particolarmente lesive dell’integrità delle persone (sentenze n. 194 e n. 38 del 1985).
È vero che il giudizio di bilanciamento delle circostanze consente al giudice di apprezzare meglio lo specifico disvalore della condotta penalmente sanzionata. Ma quando ricorrono particolari esigenze di protezione di beni costituzionalmente tutelati, quale il diritto fondamentale e personalissimo alla vita e all’integrità fisica, ben può il Legislatore dare un diverso ordine al gioco delle circostanze richiedendo che vada calcolato prima l’aggravamento di pena di particolari circostanze. Come già evidenziato in orecedenti pronunce (sentenza n. 251 del 2012), “deroghe al bilanciamento … sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore” e sono sindacabili dalla Corte “soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio” (sentenza n. 68 del 2012).
Questa “anomalia sanzionatoria” (sentenza n. 179 del 2017) si è verificata in ipotesi di particolari attenuanti cui il legislatore stesso ha assegnato un essenziale ruolo di riequilibrio della fattispecie penale.
Talvolta, quando il reato base, in ragione della sua formulazione, ha una portata ampia, il legislatore ritaglia ipotesi di minore gravità. È ciò che si è verificato per i fatti di “spaccio” di sostanze stupefacenti “di lieve entità”, circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), prima della sua trasformazione in reato autonomo. La stessa tecnica legislativa ricorre per i fatti di ricettazione “di particolare tenuità” (attenuante prevista dall’art. 648, secondo comma, cod. pen.); per i fatti di minore gravità di abusi sessuali riconducibili alla nozione di violenza sessuale (art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.); per i fatti di bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e ricorso abusivo al credito quando hanno cagionato un “danno patrimoniale di speciale tenuità” (art. 219, terzo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, recante “Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa”).
Con riferimento a queste particolari circostanze attenuanti la Corte ha ritenuto che il divieto, applicato a esse, della prevalenza di tutte le circostanze attenuanti sull’aggravante della recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen., divieto introdotto nell’art. 69, quarto comma, cod. pen., conducesse a sanzionare condotte di minore offensività con pene non proporzionate. Ha, quindi, dichiarato, di volta in volta, l’illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di ciascuna di tali specifiche attenuanti in comparazione con l’aggravante privilegiata della recidiva reiterata (sentenze n. 251 del 2012, n. 105 e n. 106 del 2014, e n. 205 del 2017). Il legislatore può schermare l’ordinario bilanciamento di circostanze del reato, secondo i criteri dell’art. 69 cod. pen., ma non fino al punto di sanzionare condotte di minore gravità con pene eccessive perché sproporzionate rispetto al canone della necessaria offensività.
Ma nella fattispecie oggetto di scrutinio da parte della Corte, l’attenuante ad effetto speciale che viene in gioco non attiene all’offensività. Sia l’omicidio stradale che le lesioni personali stradali, ove ricorra l’attenuante di cui al settimo comma degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., offendono comunque, anche nell’ipotesi così attenuata, il bene della vita e quello dell’integrità personale. L’attenuante speciale non identifica una fattispecie di minore offensività, ma si colloca sul piano del tutto distinto dell’efficienza causale dove opera il principio non già di proporzionalità, bensì quello di equivalenza delle concause dell’evento.
Maggiore, pertanto, è la discrezionalità del legislatore nel dimensionare l’incidenza di tale, eccezionale e del tutto particolare, attenuante nel calcolo della pena. È vero che il minimo della pena per il reato base (due anni di reclusione per l’omicidio stradale comune) è raddoppiato (quattro anni di reclusione) ove ricorrano a un tempo la suddetta circostanza aggravante (guida in stato di ebbrezza alcolica di cui al secondo comma dell’art. 589-bis cod. pen.) e l’attenuante dell’efficacia causale non esclusiva dell’azione o dell’omissione del colpevole di cui al settimo comma dell’art. 589-bis cod. pen. (in ragione del concorso della colpa della parte offesa o di altre concause). Ma tale differenziale sanzionatorio può dirsi rientrare nella discrezionalità del legislatore, esercitata nel limite della non irragionevolezza.
Il maggior rigore conseguente al divieto di bilanciamento di tale circostanza attenuante a effetto speciale trova ragione nel più incisivo contrasto di condotte altamente pericolose e che da tempo ‒ come già rilevato ‒ creano diffuso allarme sociale per il grave pregiudizio che arrecano alla sicurezza stradale, quale appunto la guida di veicoli a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Altresì, per il reato di lesioni personali stradali vi è analogo – in vero anche più accentuato – differenziale sanzionatorio. Ma anche in tal caso la condotta di chi, alla guida di un veicolo a motore, attraversa un’intersezione con il semaforo disposto al rosso, così commettendo il reato di lesioni personali stradali gravi, aggravate da tale circostanza cosiddetta privilegiata (come nel giudizio pendente innanzi al Tribunale ordinario di Torino), pone gravemente in pericolo l’incolumità altrui e parimenti può dirsi non irragionevole l’esercizio della discrezionalità del legislatore nell’escludere che l’attenuante in esame (quella del settimo comma dell’art. 590-bis cod. pen.) possa essere valutata dal giudice come equivalente o prevalente rispetto a tale aggravante.
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Il 15 maggio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 20808 che affronta la questione dell’ammissibilità di un riconoscimento della recidiva che pretenda di emergere dalla mera evocazione dei precedenti penali come ragione del diniego delle attenuanti generiche. Quindi sulla rilevanza che legittimamente può assumere il giudizio di (dis) valore che, incentrato sui precedenti penali dell’imputato, è elaborato con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche.
Ricorda la Corte come con la novella del 1974 la recidiva divenne facoltativa in ogni sua specie; tuttavia la giurisprudenza di legittimità elaborò posizioni non coincidenti quanto al campo di esercizio del potere discrezionale connesso al carattere facoltativo della circostanza.
Secondo l’orientamento prevalente, la nuova disciplina dava facoltà al giudice non di escludere la recidiva, bensì di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire. Ragion per cui, si osservava, «il primo problema che il giudice deve porsi non è, quindi, di esclusione o meno della recidiva, bensì – ferma questa restando – di scelta circa l’opportunità o meno di aumentare la pena. Egli, infatti, non è più vincolato all’opinione preventiva ed astratta della maggiore capacità a delinquere e pericolosità del reo espresse dalla ricaduta nel reato, ma è tenuto a stabilire volta per volta se effettivamente la recidiva sia espressione d’insensibilità etica e di pericolosità e giustifichi, perciò, la maggiore punizione del reo; o se invece, per l’occasionalità della ricaduta, per i motivi che la determinarono, per il lungo intervallo di tempo tra il precedente reato ed il nuovo, per la diversità di indole delle varie manifestazioni delinquenziali, per la condotta in genere tenuta dal reo, quella insensibilità e quella pericolosità non siano riscontrabili».
Corollario di un simile orientamento era che una volta contestata la recidiva, ove non motivatamente esclusa, non poteva considerarsi indice di un giudizio di insussistenza della stessa il mancato aumento della pena.
Se ne può dedurre che un consistente filone giurisprudenziale ha per lungo tempo inteso la recidiva come uno status personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l’ha ritenuta obbligatoria quanto all’an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell’effetto diretto (ma non in quelli indiretti).
Si tratta, tuttavia, rileva la Corte, di un orientamento ormai abbandonato, poiché la riforma della recidiva recata dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha oggettivamente fatto da volano ad un’evoluzione della disciplina verso tutt’altra direzione. Evoluzione che prende le mosse dalla sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale (che dichiarò inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), tra le cui righe può leggersi anche il rimprovero mosso ai giudici remittenti, per aver interpretato l’art. 99, quarto comma, cod. pen., e quindi il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti concorrenti con la recidiva qualificata, muovendo da un riflesso antico, quello che conduceva a ritenere obbligato il riconoscimento della recidiva (reiterata, ma non solo) ove presenti pertinenti precedenti penali. La Corte costituzionale sollecitò quindi i giudici a valutare la diversa interpretazione emersa all’indomani della riforma, la quale segnalava come in forza del nuovo regime la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen., ogni altra specie risultando ancora esito di un giudizio discrezionale.
Con un successivo intervento il massimo organo di nomofilachia descrisse definitivamente la totalità dello spazio coperto dall’onere motivazionale, puntualizzando che esso ricorre sia nell’ipotesi che la recidiva venga riconosciuta, sia nel caso che essa venga esclusa. Per Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, Marcianò, Rv. 251690, «sul giudice del merito incombe uno specifico dovere di motivazione sia quando ritiene sia quando esclude la rilevanza della recidiva», risultando tale dovere insito nei principi affermati nella sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale e in quella n. 35738/2010 delle Sezioni Unite.
Sicché, il superamento di ogni dubbio interpretativo circa il carattere e gli esatti termini della facoltatività della recidiva sortita dalla riforma del 2005, conseguito in virtù dei ripetuti interventi della Corte costituzionale e dei consonanti arresti delle Sezioni Unite, consente di affermare che nel vigente quadro normativo la recidiva è sempre facoltativa, che tale facoltatività investe il piano del suo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l’aggravante sia ritenuta o esclusa, salvo riemergere allorquando essi devono essere modulati. Correlativamente, il giudice di merito, proprio perché investito di un potere discrezionale, ha l’obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione in ordine ai due profili evidenziati di una “maggiore pericolosità del reo” e di una “più accentuata colpevolezza per il fatto”; e, come già accennato, egli è chiamato a rendere motivazione in ordine non già all’an dell’effetto diretto, che consegue indefettibile in caso di riconoscimento della circostanza, ma in ordine alla sua entità, ovvero alla misura dell’aumento di pena e infine in ordine alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, quando non soggetta a vincolo normativo.
Afferma quindi la Corte che la contestazione della recidiva, onere dell’organo dell’accusa che intenda farne oggetto di decisione giurisdizionale, non consolida alcunché, dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice. La facoltatività della recidiva – ma l’utilizzo di una locuzione ‘tradizionale’ non deve far credere che si compia un giudizio ontologicamente differente da quello che attiene alle altre circostanze del reato – si traduce in un obbligo motivazionale che ove inadempiuto apre all’ipotesi di una violazione di legge o di un vizio di motivazione. Di certo l’avvenuta contestazione non può prendere il posto di una statuizione mancante.
È utile ai fini che qui occupano rimarcare quale sia la funzione assolta nel vigente sistema dalla facoltatività della recidiva. Essa si inscrive nel processo di conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena, tra le quali assume preminenza la finalità rieducativa, che implica un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra.
Un uso non adeguatamente sorvegliato della recidiva minaccia la funzione rieducativa della pena proprio per il rischio di eccedere la pena proporzionata; per questo la motivazione deve restituire la valutazione che il giudice ha compiuto, in termini che comunichino il difficile e peculiare itinerario percorso, attraverso l’evidenziazione tanto degli elementi assunti ad indicatori quanto del traguardo dell’accertamento.
La giurisprudenza di legittimità e la dottrina non dubitano, in generale, della legittimità del ricorso alla motivazione implicita, che si configura non già come idealtipo strutturalmente diverso e ‘scalare’, fronteggiante quello della motivazione ‘esplicita’, ma piuttosto come una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda. Come è stato acutamente osservato, nella motivazione implicita manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo. Sicché, per definizione, ove ricorre una motivazione implicita non può mai parlarsi di omessa motivazione; semmai può emergere un vizio di motivazione. Solo ove manchi il menzionato nesso di conseguenzialità logica e giuridica si determina una violazione di legge per l’inesistenza della motivazione.
Il ricorso da parte del giudice alla motivazione implicita trova riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui è fondata.
In caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione può implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell’ambito di una valutazione generalmente negativa.
Con precipuo riguardo alla recidiva, si afferma che il giudice può adempiere all’onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’art. 99 cod. pen; che l’esclusione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente ove si sia in concreto apprezzata l’insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore.
L’esame della giurisprudenza di legittimità rende quindi evidente che non è in dubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita; e che un simile principio trova riconoscimento pure con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva. Ma va rimarcato che anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalità argomentativa deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva.
Occorre allora verificare se il menzionato nesso di consequenzialità ricorre tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.
Il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità chiarisce che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen.; fermo restando che non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento.
Si tratta di una interpretazione che, attraverso l’argomento a contrario, ha un preciso ancoraggio nel secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. Poiché la disposizione esclude che nei casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) cod. proc. pen., ove puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, assumano rilevanza i criteri previsti dall’art. 133, primo comma, n. 3 e secondo comma (ma, a seguito di Corte costituzionale, sent. del 10.6.2011, n. 183, può tenersi conto della condotta del reo susseguente al reato), fuori da tali casi valgono tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
Ciò non di meno, la prevalente giurisprudenza della Cassazione (consonante con parte della dottrina), ritiene che le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena. Esse, quindi, presuppongono l’esistenza di elementi ‘positivi’, intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 133 cod. pen. Come è stato precisato, la ragion d’essere della previsione normativa recata dall’art. 62 -bis cod. pen. è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile. Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda.
La conciliazione tra affermazioni apparentemente così diverse si coglie sul piano applicativo, il quale conferma quel carattere pressoché onnicomprensivo dell’art. 133 cod. pen. da sempre segnalato dalla dottrina. Nel medesimo orizzonte si registra il ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell’art. 133 cod. pen.; ma anche la cura nel filtrare eventuali spinte irrazionalistiche attraverso l’ancoraggio ai parametri legali della dosimetria sanzionatoria.
Orbene, i precedenti penali dei quali fa menzione l’art. 133 cod. pen. non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva. A solo titolo esemplificativo si può considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva; quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell’art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002 ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all’ammissione all’oblazione di cui all’art. 162-bis cod. pen.; le condanne per le quali si è prodotta l’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva.
Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell’apprezzamento del comportamento pregresso dell’imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell’art. 133 cod. pen., l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva, sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione.
E’ poi da rammentare che l’art. 133, secondo comma, n. 2, cod. pen. considera anche i precedenti giudiziari, certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva.
Quel che ulteriormente rileva in questa sede è che, ancorandosi le attenuanti generiche a specifici elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena quale risultante dall’applicazione dell’art. 133 cod. pen., quegli elementi possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo.
Si vede bene, quindi, che allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell’attenuazione della pena prevista dall’art. 62 -bis cod. pen., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi. Quando il fattore in parola è costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce quindi un espediente retorico che esalta l’assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati.
Del tutto diverso il giudizio in materia di recidiva.
In primo luogo ben più limitato è il senso della locuzione ‘precedenti penali’ valevole per essa. Costituiscono precedenti penali valutabili ai fini della recidiva unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all’oggetto, al tempo, al numero.
In concreto, quindi, ben può accadere che i giudizi – quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva – non abbiano una base fattuale coincidente. In caso diverso, quando la evocazione dei precedenti penali non si riduca alla già rammentata operazione retorica, l’uso del medesimo elemento, sia per escludere le attenuanti generiche che per ritenere la recidiva, dà luogo ad operazioni non sovrapponibili.
La dottrina è incline a cogliere una diversità prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l’art. 133 e l’art. 99 cod. pen.. Mentre la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalità del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi può vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravità del reato, la seconda assume il precedente penale per l’accertamento della consapevolezza del disvalore dell’azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso. Ha rilievo, quindi, la conoscenza e la conoscibilità della precedente condanna, dovendosi valutare la possibilità per il reo di trarre dal precedente vissuto giudiziario le motivazioni per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente. La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, ammette la polivalenza degli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen..
Risulta poi evidente che il giudizio che riconosce la recidiva considera il precedente non come fattore ostativo bensì come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato.
La irriducibilità della recidiva alla titolarità di precedenti penali è tra le premesse fondamentali della rammentata giurisprudenza costituzionale formatasi nel tempo successivo all’entrata in vigore della legge n. 251/2005; essa importa la necessità che il giudice ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente.
Si tratta di nozioni ormai acquisite al diritto vivente ma che meritano di essere ribadite, per la pratica difficoltà di farne corretta applicazione.
Ed invero, la complessità del giudizio è stata più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità. Le Sezioni Unite Calibè hanno rimarcato l’obbligo del giudice di svolgere una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Nel ribadire il rifiuto di una recidiva intesa come status formale del soggetto le Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, hanno nuovamente rimarcato che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche procedendo al riscontro sostanziale della “più accentuata colpevolezza”, per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all’ammonimento derivante dalla precedente condanna, e della “maggior pericolosità”, intesa come indice della sua inclinazione a delinquere; sicché la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo “status” e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale.
La complessità del giudizio è ulteriormente accentuata dal duplice fondamento della recidiva. Se la maggiore colpevolezza per il fatto impegna a rintracciare i segni del processo motivazionale sottostante il nuovo reato e a verificarne i nessi con il pregresso giudiziario del reo, per la maggiore pericolosità sociale si pongono in primo luogo problemi ricostruttivi, derivanti dalla contrarietà ai principi costituzionali di un’accezione che la faccia coincidere con una mera qualità della persona del reo e lasci prevalere esigenze di neutralizzazione. Pur così delimitato il campo delle possibili interpretazioni, la maggiore pericolosità può essere ricercata in connessione con il reato commesso (faticando a distinguersi, allora, dalla capacità a delinquere), oppure intesa come sinonimo di minore sensibilità al processo di rieducazione. In effetti, gran parte degli effetti indiretti della recidiva vengono considerati espressione di una valutazione legislativa ispirata dalla ritenuta maggiore pericolosità sociale.
Il fattore di crisi è rappresentato dalla concentrazione in un solo giudizio, quello del giudice della cognizione, di valutazioni che guardano in direzioni diverse: la pena proporzionata alla gravità del fatto, la efficacia del concreto trattamento in una prospettiva special-preventiva.
Secondo le SU, le soluzioni non sono nella disponibilità della giurisdizione ordinaria. Tuttavia a questa compete di tener presente, perché tal è il dato normativo, la circostanza che dalla recidiva conseguono tanto effetti diretti che effetti indiretti; in ciò una forte caratterizzazione di questa particolare circostanza del reato.
Per quanto complesso il compito che incombe sul giudice chiamato ad accertare la fondatezza della contestazione della recidiva, una volta superata la vetusta concezione dello status – specie quando si consideri con realismo la struttura del processo penale – non sono ammissibili motivazioni di puro stile, che non espongano i dati fattuali presi in considerazione, i criteri utilizzati per valutarli, un coerente giudizio circa la maggiore rimproverabilità del reo per non essersi fatto motivare dalle precedenti condanne, come pure avrebbe dovuto fare.
Né può essere dimenticata la rilevantissima incidenza che la recidiva assume sul piano sanzionatorio e non solo. La consapevolezza di tali rigorosi effetti e del concorso della recidiva medesima nella necessaria opera di individualizzazione della pena deve responsabilizzare il giudice ed indurlo al massimo scrupolo nell’accertamento degli indici del presupposto sostanziale, sulla scorta di quanto le parti, assolvendo ai rispettivi oneri probatori, conferiscono al giudizio.
Nell’accertamento della fondatezza della contestazione della recidiva il giudice deve essere consapevole della necessità di sorvegliare che non si determini una indebita valorizzazione delle qualità della persona del reo. L’ormai consueto richiamo all’accertamento della maggiore colpevolezza per il fatto e della maggiore pericolosità sociale del reo non può banalizzare il giudizio e far dimenticare che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, esse non possono mai condurre a determinare una misura della pena che ecceda quella proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto.
La parziale diversità della nozione di ‘precedente penale’; l’insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non può ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva.
Alla luce di quanto sopra, ritengono le SU che non sia fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena. Deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisca indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non sia stata riconosciuta.
Occorre poi soffermarsi brevemente su quest’ulteriore aspetto della questione proposta dalla Sezione remittente, che investe il piano della relazione tra il riconoscimento della recidiva e i suoi effetti.
Le Sezioni Unite hanno statuito che all’esito dell’accertamento al quale dà via la contestazione della recidiva il giudice può negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione. Mentre, ove la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi. Si dovranno, allora, trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.
Nel fissare tale insegnamento le Sezioni Unite Calibè precisarono che in tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata”, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante. Inoltre, abbandonò definitivamente la tesi della “facoltatività bifasica” della recidiva, per la quale è consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena mentre sono obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.
Con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, le Sezioni unite hanno esaminato la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo “applicare” utilizzato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal giudice. Richiamando quanto già messo in evidenza da altra e più risalente pronuncia delle stesse Sezioni Unite, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare. Ad avviso delle Sezioni Unite, all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena. Le ragioni fondanti la conclusione raggiunta vengono altresì individuate dalle Sezioni Unite nella elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi anche in relazione ai rapporti tra recidiva ed altri istituti, là dove si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Così proprio in tema di prescrizione, dove si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente. Si parla in simili casi di sostanziale “applicazione” della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplichi il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.
Si tratta quindi di una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quelli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore (tra i quali gli effetti indiretti). Pertanto la recidiva risulta oggetto di un giudizio di riconoscimento, che mette radici nell’accertamento del presupposto formale e nella valutazione della relazione tra “precedente” e nuovo reato; a tale giudizio consegue ex se l’esplicazione di ogni effetto, diretto ed indiretto, che ad essa riconduce l’ordinamento, senza necessità di concettualizzare un particolare momento applicativo, così come non si dubita che una volta riconosciuta ad esempio una qualsiasi aggravante comune (ex art. 61 cod. pen.), questa produca i suoi effetti senza necessità di menzionarne l’applicazione come di una particolare operazione.
E’ pur vero che nella trama del codice penale si rivengono due disposizioni nelle quali si legge di recidiva applicata (art. 81, quarto comma, e 603-ter); ma si tratta di terminologia che intende alludere al fatto che il reo sia stato riconosciuto come recidivo, come attestano le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite n. 31669/2016.
Per stretta attinenza, merita di essere esplicitato che risulta corretta l’interpretazione che prevalentemente si dà dell’art. 444, co. 1 -bis cod. proc. pen., ove menziona coloro che sono stati ‘dichiarati’ recidivi; si tratta di una locuzione che risente dell’accostamento nella disposizione dei recidivi ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, per i quali effettivamente è disciplinata la dichiarazione dello stato, e che non può essere intesa come dimostrazione della necessità di una ‘dichiarazione di recidiva’, altra rispetto al riconoscimento della circostanza.
Ciò precisato, viene ritenuta erronea l’affermazione secondo la quale la recidiva risulta ‘applicata’ «tenendone conto per escludere la concessione delle attenuanti generiche». Risulta palese che, non avendo il legislatore attribuito alla recidiva anche l’effetto di interdire il riconoscimento delle attenuanti generiche, non può ipotizzarsi una sua applicazione che in ciò consista.
L’assenza di una qualche relazione tra i due giudizi emerge anche dalla giurisprudenza che esclude vi sia contraddizione tra il riconoscimento della recidiva e quello contestuale delle attenuanti generiche; o tra il giudizio che escluda l’una e quello che escluda anche le altre; o, ancora, tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato dai precedenti penali dell’imputato, ed il contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva.
Il discorso sin qui condotto conduce a richiamare Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, secondo cui «una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso. Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica – pur se indiretta – esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica. Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga – ai sensi dell’art. 69 c.p. – un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell’afflittività sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset».
Questa decisione ha lasciato irrisolto il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all’art. 69 cod. pen., sia valutata subvalente.
Nella giurisprudenza più recente emerge un’oggettiva incertezza, giacché all’interpretazione per la quale, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi “applicata” la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti, si oppone un diverso orientamento, per il quale la recidiva contestata all’imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato.
Ad avviso del Collegio, la disciplina della prescrizione offre un nitido punto di ancoraggio per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l’abbia vista subvalente; l’art. 157, terzo comma cod. pen. esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’art. 69 cod. pen. ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione. E poiché l’art. 161 cod. pen. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall’art. 157 cod. pen., resta confermato che anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.
Ma la questione ha portata più generale; è emersa anche in tema di reato continuato, giacché si è affermato che il limite minimo per l’aumento stabilito dalla legge nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata non opera quando il giudice abbia considerato la stessa subvalente alle riconosciute attenuanti, in quanto, in tale ipotesi, la recidiva, pur considerata nel giudizio di bilanciamento, non ha però di fatto potuto paralizzare il loro effetto tipico di riduzione della pena. Essa potrebbe ipotizzarsi anche in tema di cd. patteggia mento allargato, ove risulta sinora affrontato solo il caso di recidiva ritenuta equivalente alle concorrenti attenuanti, risolto sostenendo che ai fini della preclusione al patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, è sufficiente che la recidiva, contestata ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen., sia stata riconosciuta dal giudice, anche se in concreto non applicata per effetto del giudizio di equivalenza con circostanze attenuanti.
Si è già ritenuto che la soluzione adottata sia imposta dal principio del favor rei, stante la prospettabilità di plausibili interpretazioni tra loro discordanti.
Alle Sezioni Unite appare prioritario muovere dalla considerazione che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all’origine delle regole poste dall’art. 69 cod. pen. Come puntualizzato dalla stessa sentenza Filosofi, «…all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva si è già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario». Ciò vale anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l’attenuante, risultando subvalente all’esito del giudizio di comparazione. L’art. 69 cod. pen., dal canto suo, chiaramente indica che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente – che in quanto fatto compiuto non può più essere negato – ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena.
Tuttavia, come si è già considerato, la recidiva si caratterizza, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell’escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori, decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo. Nell’attuale quadro normativo la recidiva costituisce circostanza del reato; ma permane una sua specificità funzionale, per il fatto che è produttiva dei cosiddetti effetti indiretti. Se ne censiscono alcuni ancora sul piano della commisurazione della pena; si allude alla previsione del limite minimo dell’aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione, ai sensi dell’art. 81, quarto comma cod. pen. Altri investono le sorti della punibilità; si è già rammentato l’aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l’incidenza sul termine massimo. Come si è già fatta menzione dell’incidenza sul tempo che determina l’estinzione della pena (art. 172, settimo comma, cod. pen.) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179, secondo comma, cod. pen.). Vanno ancora rammentate le preclusioni in tema di amnistia (art. 151, quinto comma cod. pen.), di indulto (art. 174, terzo comma, cod. pen.).
Anche nella fase esecutiva si registrano previsioni derogatorie al regime ordinario che rinvengono nella riconosciuta recidiva il proprio fondamento. Si rammentano qui: l’entità del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall’art. 30-ter ord. pen., elevata per i recidivi ex art. 99, quarto comma cod. pen.; la non concedibilità oltre una volta dell’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, della detenzione domiciliare e della semilibertà al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma cod. pen., ex art. 58-quater, comma 7-bis, ord. pen (nel testo scaturito da Corte cost. sent. n. 291/2010).
In modo del tutto peculiare, quindi, quando è in gioco la recidiva, specie se qualificata, la funzione rieducatrice della pena risulta debitrice non tanto, e comunque non solo, della variazione quantitativa della sanzione, quanto anche dell’avvenuto riconoscimento della sussistenza della recidiva.
Orbene, il concreto farsi della risposta punitiva non può essere tenuto in non cale, per il vincolo costituzionale a definire un trattamento sanzionatorio realmente idoneo a conseguire l’obiettivo della rieducazione del reo. Ancorché la modulazione del trattamento sanzionatorio secondo l’evoluzione del percorso di rieducazione del condannato sia affidato agli organi della esecuzione penale, il giudice della cognizione non può ignorare che la sua statuizione costituisce il primo fattore di un complessivo programma tendente alla rieducazione del condannato; programma che si snoda in modo più rilevante nella fase dell’esecuzione della pena, ma che si forma sulle direttrici identificate dal giudice del merito.
Decisivo è allora considerare che, quando il giudice di merito valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, egli esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma.
Ne consegue che, quando la recidiva sia stata ritenuta subvalente, fuori dai casi in cui la rilevanza di tale giudizio sia espressamente esclusa dal legislatore, come non si produce l’effetto diretto sulla pena così non si producono gli effetti indiretti della recidiva.
Su simile caposaldo si è attesta la pertinente giurisprudenza di legittimità, limitando il significato di ‘applicazione’ della recidiva ai casi in cui questa abbia impedito l’attenuazione della pena derivante da concorrenti attenuanti.
Va qui ribadito che, ove il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen. si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen.. Peraltro, proprio previsioni di tal fatta pongono in luce i diversi effetti derivanti da un giudizio che riconosce la recidiva ma la valuta subvalente e una statuizione che nega la ricorrenza della recidiva.
Risulta sufficientemente evidente, all’esito dell’itinerario sinora tracciato, come sia fondato su premesse non condivisibili l’orientamento secondo il quale la valorizzazione dei “precedenti penali” che sia stata operata per il diniego delle attenuanti generiche è indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva, risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva.
Esso non coglie la profonda diversità che caratterizza l’uno e l’altro istituto, con le conseguenti difformità impresse ai giudizi che li concernono. Depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti “precedenti penali”, che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all’assenza di una reale indagine al riguardo. Qualifica del tutto arbitrariamente come errore il mancato aumento della pena, facendo emergere con asettica noncuranza quel che costituirebbe, ove fosse effettiva, una patente violazione di legge. Apre ad effetti in malam partem sulla base di una mera interpretazione della decisione di merito.
In conclusione, viene quindi formulato il seguente principio di diritto: “La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato”.
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Il 24 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 33482 che si allinea al consolidato orientamento secondo cui, in tema di rapina, la circostanza aggravante speciale delle più persone riunite richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento di realizzazione della violenza o della minaccia, non rilevando che la persona offesa abbia percepito o meno la presenza anche di un secondo soggetto poiché la “ratio” dell’aggravamento non deriva necessariamente dalla maggiore costrizione esercitata simultaneamente sulla vittima, ma piuttosto dalla maggiore potenzialità criminosa correlata all’oggettiva compresenza di più persone nel luogo del delitto.
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Il 28 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43824 che, in tema di riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 8 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, rileva come essa non sia soggetta al giudizio di bilanciamento fra le circostanze e che qualora ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, onde la pena deve determinarsi, dapprima, effettuando il giudizio di comparazione fra tali ultime circostanze, per poi applicare sul risultato ottenuto la riduzione derivante dall’attenuante della «dissociazione attuosa».
Ricorda inoltre la Corte che la misura della diminuzione di pena, rinvenendo il proprio presupposto oggettivo in un comportamento attivo dell’imputato nel prestare un concreto e significativo contributo alle indagini, determinante per la ricostruzione dei fatti e la cattura dei correi, non può essere ridimensionata in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato né alle ragioni che lo hanno determinato alla collaborazione.
2020
Il 3 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 8545 che risolve la seguente questione: “se l’aggravante speciale già prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 ed oggi inserita nell’art. 416-bis 1 cod. pen., che prevede l’aumento di pena quando la condotta tipica sia consumata al fine di agevolare le associazioni mafiose, abbia natura oggettiva concernendo le modalità dell’azione, ovvero abbia natura soggettiva concernendo la direzione della volontà”.
La disposizione dell’art. 416-bis 1 cod. pen. prevede l’aggravante del metodo mafioso. Con essa si dispone l’aumento della pena prevista per qualsiasi reato, nell’ipotesi in cui l’illecito sia stato realizzato con l’utilizzazione di una forza intimidatoria che – a prescindere da qualsiasi legame del suo autore con l’organizzazione mafiosa o con l’esistenza stessa di tale compagine in quel contesto – ne mutui le modalità di azione, per proporre il clima di assoggettamento che le è caratteristico.
Sotto questo profilo, la norma evidenzia un duplice carattere preventivo: evitare fenomeni emulativi, essi stessi forieri di un rafforzamento della tipica struttura mafiosa, volta alla sopraffazione, e liberare i soggetti passivi dal potenziale giogo conseguente a tali atti, restituendo loro strumenti per una pronta reazione, a tutela della liberà di autodeterminazione. Pacifica è la natura oggettiva di questa circostanza, che si caratterizza e si esaurisce per le modalità dell’azione. Controversa è invece la natura dell’aggravante prevista nella seconda parte del primo comma dell’art. 416-bis 1 cod. pen., caratterizzata dalla finalità di agevolazione.
La Corte procede quindi ad esaminare le varie letture interpretative cui ha dato origine l’istituto che prevede l’aggravamento di pena ove qualsiasi reato sia stato commesso «al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’articolo 416-bis cod. pen.», per poi individuare la disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato.
Secondo un primo orientamento tale circostanza è integrata da un atteggiamento di tipo psicologico dell’agente, che richiama i motivi a delinquere ed è riconducibile alle circostanze indicate nell’art. 118 cod. pen.: quindi non estensibile ai concorrenti nel reato. Secondo un contrapposto orientamento, l’aggravante è integrata da un elemento obiettivo, attinente alle modalità dell’azione, ed è quindi riconducibile alle circostanze di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., non contemplate dall’art. 118 cod. pen., con conseguente estensibilità ai concorrenti, ai sensi dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., purché conosciuta e conoscibile. Secondo un ulteriore orientamento, la natura dell’aggravante e la disciplina in caso di concorso di persone nel reato dipendono da come la stessa si atteggia in concreto e dal reato cui essa acceda.
Secondo l’orientamento che ritiene l’aggravante di natura soggettiva, essa sarebbe integrata da un atteggiamento psicologico, per lo più definito in termini di dolo specifico: occorre cioè che l’agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale integrante l’elemento oggettivo del reato base, agisca per un fine particolare (quello di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso), la cui realizzazione non è necessaria per l’integrazione dell’aggravante. Questa viene quindi ritenuta di natura soggettiva, in quanto concernente i motivi a delinquere o l’intensità del dolo, e riconducibile nell’ambito di quelle contemplate dall’art. 118 cod. pen., che «sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono» e non si estendono, pertanto, ai concorrenti nel reato.
Nell’ambito di questo orientamento non è tuttavia pacifico come deve individuarsi l’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, se cioè occorra che l’agente persegua esclusivamente come scopo finale quello di agevolare l’associazione, in quanto molte sentenze ritengono che l’aggravante non sia esclusa dal fatto che l’agente persegua un diverso scopo, purché sia sicuramente consapevole di avvantaggiare l’associazione mafiosa. Analogamente non appare pacifico, nell’ambito del medesimo orientamento, quale sia il requisito necessario ai fini dell’applicazione della circostanza in caso di concorso di persone nel reato, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., e cioè se sia necessario individuare in capo a ciascun concorrente il dolo specifico richiesto dalla norma o se, invece, sia sufficiente che il concorrente abbia arrecato il proprio contributo nella consapevolezza della finalità agevolatrice perseguita dall’agente.
Infatti, mentre in alcune pronunce che hanno originato il contrasto la Corte richiede la necessità di accertare il dolo specifico di agevolazione in capo a ciascun concorrente a cui deve essere applicata, secondo molte altre l’aggravante dell’agevolazione mafiosa può essere applicata al concorrente nel reato, in base all’art. 118 cod. pen., non soltanto quando risulti che lo stesso abbia agito con lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, ma anche quando abbia fatta propria tale finalità, perseguita da altro concorrente. Ciò in linea con quanto ritenuto per altre aggravanti di natura soggettiva, quali quelle del nesso teleologico, dei motivi abietti o futili o della premeditazione.
Nelle pronunce che seguono questo percorso esegetico è poi generalmente richiesta la necessaria presenza, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, di un elemento di natura oggettiva, costituito dalla direzione o dall’idoneità dell’azione ad agevolare l’associazione mafiosa. Se tale requisito è prevalentemente richiesto a fini di prova dell’elemento soggettivo che integra l’aggravante, tuttavia talora la giurisprudenza ne ha evidenziato la necessità, quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, ai fini del rispetto del principio di offensività.
Il contrapposto orientamento è nel senso che la circostanza in esame sia integrata da un elemento oggettivo, consistente nell’essere l’azione «rivolta ad agevolare un’associazione di tipo mafioso», e che sia quindi di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., in quanto concernente le modalità dell’azione. Secondo le sentenze riconducibili a tale orientamento, quindi, l’aggravante dell’agevolazione non è riconducibile a quelle contemplate dall’art. 118 cod. pen., ed è pertanto estensibile ai concorrenti nel reato.
Dette pronunce, per quanto è dato comprendere dalle motivazioni, non ritengono però sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, un atteggiamento riconducibile all’ignoranza incolpevole. L’ignoranza incolpevole può essere sufficiente ai fini dell’estensione della circostanza ai concorrenti nel reato, ma non per l’integrazione dell’aggravante, per la quale sembra richiesta la sussistenza, in capo ad almeno uno dei concorrenti, o del dolo specifico o della consapevolezza della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso. Si rileva quindi che, anche la classificazione della circostanza quale oggettiva, non si sottrare alla necessità di verifica dell’elemento psicologico caratterizzante la finalizzazione della condotta. L’analisi del percorso valutativo appena riportata chiarisce che in entrambe le chiavi di lettura si conferisce rilievo, nel primo caso, ad una ricaduta oggettiva dell’aspirazione dell’agente, e nel secondo ad una direzione di volontà, che comunque deve accompagnare l’utilità potenziale ed astratta del risultato per la compagine illecita, sotto l’aspetto della previsione dell’agente.
L’orientamento intermedio è nel senso che la natura dell’aggravante (e la disciplina in caso di concorso di persone nel reato) dipende da come la stessa si atteggia in concreto e dal reato a cui accede: quando l’aggravante, in concreto, si configura come un dato oggettivo, che travalica la condotta del singolo agente, e che, piuttosto che denotare una specifica attitudine delittuosa del singolo concorrente, finisce per agevolare la commissione del reato, deve ritenersi estensibile ai concorrenti, in base al principio ubi commoda ibi incommoda che deve guidare l’interpretazione nei casi dubbi, e far ritenere oggettive le aggravanti che abbiano facilitato la commissione del reato.
Ciò viene ritenuto ravvisabile, con riferimento al reato associativo, allorquando la finalità di agevolare un’associazione mafiosa risulti direttamente connessa alla concreta struttura organizzativa dell’associazione semplice, perché questa si pone in collegamento con l’associazione mafiosa (vuoi perché la seconda le garantisce spazi di operatività nei territori controllati, oppure avallo e protezione in cambio dello svolgimento a suo vantaggio di parte della propria attività, vuoi perché la prima sostiene la seconda o ne reimpiega i profitti, o contribuisce a formare una cassa comune, o comunque la agevola con altre modalità), e rappresenta un dato oggettivo e strutturale, che riguarda il modo di essere della associazione e dunque le modalità di commissione del fatto di reato.
Anche tale orientamento richiede, in via generale, ai fini dell’integrazione dell’aggravante, che l’attività dell’agente esprima comunque una oggettiva capacità di agevolare, almeno potenzialmente, l’associazione criminale, ritenendo necessaria un’interpretazione della norma che prevede l’aggravante in termini che, non confinandosi entro il tenore letterale della disposizione, si conformino alla struttura di un diritto penale (quale è quello del vigente sistema italiano) del comportamento.
L’ordinanza di rimessione fonda il rilevato contrasto sulla considerazione che l’orientamento secondo cui l’aggravante di natura soggettiva non richiederebbe, ai fini dell’integrazione, il dolo specifico, ma il solo dolo generico, in quanto, postulando la necessità di un elemento di natura oggettiva, ridurrebbe la rilevanza dell’elemento psicologico alla «copertura volitiva» di tale elemento obiettivo. Conseguentemente il contrasto sarebbe ridotto alla «copertura volitiva» dell’elemento materiale consistente nella «concreta funzionalizzazione dell’attività criminosa contestata all’agevolazione di un’associazione mafiosa», nel senso cioè che il contrasto si configurerebbe tra una tesi che ritiene necessaria «la volizione piena e specifica ovvero la piena consapevolezza» della oggettiva finalità agevolatrice della condotta, ed una contrapposta tesi per la quale «è sufficiente che il nesso funzionale tra reato contestato e associazione mafiosa sia sorretto da una ‘volizione attenuata’ cioè l’ignoranza colposa».
Il Supremo Consesso rileva che, in realtà, dall’analisi delle sentenze riconducibili all’orientamento che ritiene l’aggravante di natura soggettiva emerge che, quando è richiesto un ulteriore elemento, di natura oggettiva, attinente alle «modalità dell’azione», questo, prevalentemente, non viene configurato come elemento costitutivo della fattispecie che prevede la circostanza aggravante, bensì quale fatto da cui desumere la prova della sussistenza dell’elemento psicologico, che rappresenta l’unico elemento costitutivo dell’aggravante. Non si tratta quindi di stabilire quale sia la «copertura volitiva di tale elemento», perché questo rileva, unicamente, ai fini di prova dell’elemento psicologico integrante l’aggravante, prevalentemente individuato nel dolo specifico.
Pertanto, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione, dalla lettura dei precedenti in argomento risulta che la richiesta di tale ulteriore requisito, di natura oggettiva, attenendo alla prova dell’elemento soggettivo che integra l’aggravante, e non essendo quindi configurato quale ulteriore elemento costitutivo della fattispecie che prevede la circostanza, non escluda che quest’ultima possa essere inquadrata tra quelle relative ai motivi a delinquere.
Peraltro, all’esclusione della configurabilità dell’aggravante come relativa ai motivi a delinquere non conduce neppure la tesi che ha valorizzato la necessità di tale ulteriore elemento obiettivo non a meri fini di prova del dolo specifico, bensì quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, nell’ottica di rendere la disposizione di cui all’art. 416-bis 1 cod. pen. maggiormente aderente al principio di offensività.
Tale tesi, infatti, ritiene elementi costitutivi dell’aggravante tanto l’elemento soggettivo del dolo specifico, quanto l’ulteriore elemento, di natura oggettiva, individuato nell’idoneità del fatto a realizzare il fine dell’agente, e quindi nell’idoneità del fatto ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa: in tal modo sembra configurare una circostanza mista, i cui elementi costitutivi sono uno di natura soggettiva e uno di natura oggettiva, riconducibili tanto a quelle attinenti ai motivi a delinquere, quanto a quelle oggettive inerenti le modalità della condotta.
D’altra parte, l’orientamento che ritiene di natura oggettiva l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, non considera sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, un atteggiamento riconducibile all’ignoranza incolpevole, per essa richiedendo la sussistenza, in capo ad almeno uno dei concorrenti, o del dolo specifico o della consapevolezza della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso. Pertanto, non potendosi escludere che l’orientamento secondo cui la natura soggettiva dell’aggravante richieda anche la prova del dolo specifico dell’agente, e non potendosi ritenere che per l’orientamento che ritiene la natura oggettiva dell’aggravante sia sufficiente ai fini della sua integrazione la colpevole ignoranza dell’elemento oggettivo della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso, il contrasto non sembra poter essere ricondotto alla contrapposizione tra una tesi che ritiene necessaria «la volizione piena e specifica ovvero la piena consapevolezza della finalità agevolatrice » della condotta e una contrapposta tesi per la quale «è sufficiente che il nesso funzionale tra reato contestato e associazione mafiosa sia sorretta da una ‘volizione attenuata’ cioè l’ignoranza colposa».
L’analisi delle sentenze che hanno seguito gli opposti orientamenti, e la loro lettura, anche alla luce delle fattispecie in cui si sono pronunciate, conduce a ravvisare il contrasto sotto i seguenti profili: – l’individuazione dell’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, dovendosi stabilire se esso consista nel dolo specifico ovvero nella mera consapevolezza della direzione (o idoneità) della condotta ad agevolare l’attività dell’organizzazione criminale (con la puntualizzazione che entrambe le tesi sono sostenute nell’ambito di ciascuno dei contrapposti orientamenti); – il requisito necessario per l’«estensione» o l’applicabilità dell’aggravante ai concorrenti nel reato, individuato nel dolo specifico o nella consapevolezza dalle sentenze riconducibili all’orientamento che la ritiene di natura soggettiva, ovvero nella mera ignoranza colposa dalle sentenze che la ritengono di natura oggettiva.
Infatti, per quanto attiene all’individuazione dell’elemento soggettivo integrante l’aggravante dell’agevolazione mafiosa: – nell’ambito dell’orientamento che ritiene soggettiva l’aggravante, l’elemento psicologico necessario ad integrarla, per alcune sentenze, consiste nel dolo specifico, mentre, per altre, si esaurisce nella consapevolezza che la condotta sia funzionale ad agevolare l’organizzazione criminale; – analogamente, anche nell’ambito del contrapposto orientamento che ritiene oggettiva l’aggravante, ai fini della sua integrazione, oltre all’elemento oggettivo, inerente alle modalità della condotta, è richiesto che in capo ad almeno uno dei concorrenti sia configurabile il dolo specifico, oppure, secondo alcune sentenze, è sufficiente la mera consapevolezza della oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione dell’attività dell’associazione mafiosa.
Analizzando le decisioni che si occupano di individuare la disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato, il contrasto non si riduce alla mera alternativa tra chi sostiene l’applicabilità dell’art. 118 cod. pen. e chi ritiene, invece, applicabile l’art. 59, secondo comma, cod. pen., e quindi sufficiente l’ignoranza colposa per l’estensione dell’aggravante al concorrente. Infatti, nell’ambito dell’orientamento che ritiene di natura soggettiva l’aggravante si distingue la tesi che richiede per la sua applicazione al concorrente nel reato che anch’esso sia animato dal dolo specifico, da quella che ritiene sufficiente la mera consapevolezza della finalità perseguita dall’agente o, addirittura, la sola ignoranza colposa dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa.
L’individuazione dei requisiti necessari per l’applicazione della circostanza in esame al concorrente dipende da come si ricostruisce l’elemento soggettivo integrante la stessa aggravante, essendo evidente che là dove si ritenga sufficiente la mera consapevolezza dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa, ai fini del riferimento dell’aggravante tanto a carico dell’agente, quanto a carico del concorrente, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., risulterebbe sufficiente tale mera consapevolezza.
E’ bene evidenziare che alle oscillazioni giurisprudenziali sulla natura della aggravante in oggetto non ha fatto sponda l’analisi dottrinale, che proprio sulla base del dato testuale ha sostenuto la sua natura soggettiva, limitandosi ad esigere che tale rappresentazione si accompagni ad elementi di fatto di natura oggettiva, proprio per evitare di punire più severamente un’azione la cui potenzialità lesiva si esaurisca nell’elaborazione intenzionale, cosi giungendo a punire il pericolo del pericolo. Solitamente si ritiene quindi che l’aggravante si configuri in maniera simile ai reati di pericolo, con dolo di danno.
La ricerca della concreta potenzialità offensiva, che deve caratterizzare ogni condotta illecita, ha suggerito un parallelo tra i reati a dolo specifico o intenzionale, ai quali si ascrive, per quanto detto, il reato aggravato ai sensi dell’art. 416-bis 1 cod. pen. ed il reato tentato, richiedendo per la configurazione della fattispecie, non solo l’intenzione, ma elementi concreti, idonei a rendere possibile la realizzazione dell’intento avuto di mira, quali l’esistenza del gruppo criminale ed il possibile raccordo tra quanto programmato dall’agente e l’attività illecita che caratterizza il primo.
Quel che è dato sottolineare nella ricostruzione operata dalla dottrina è inoltre una sostanziale fungibilità della funzione del soggetto agevolatore che, proprio in quanto estraneo alla compagine, non è essenziale ai suoi scopi, ma occasionalmente ne agevoli, almeno in parte, le attività, anche quelle di natura marginale, e l’irrilevanza dell’effettivo ritorno di utilità della condotta illecita in favore della compagine, perché possa configurarsi l’aggravante.
In tali elementi può cogliersi il senso della previsione dell’aggravante, che tende ad evitare effetti emulativi connessi all’esistenza del gruppo illecito, con le finalità pervasive previste quale elemento caratterizzante dall’art. 416-bis, comma 3, cod. pen., e crea una sorta di cordone di contenimento, con il proposito di colpire tutte le aree che, attraverso le modalità della condotta, o attraverso la consapevole agevolazione, producano l’effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione, con la forza che le è tipica e la tacitazione di tutte le forze sociali che dovrebbero ad essa resistere.
Non si può dimenticare inoltre, nel tentativo di ricostruzione della natura giuridica dell’aggravante in esame che, oltre ad un ostacolo di carattere testuale, una lettura in termini puramente oggettivi della sua previsione deve essere esclusa anche in quanto connessa al pericolo di una individuazione postuma delle finalità, che consenta di ravvisare l’agevolazione tutte le volte in cui una condotta illecita abbia di fatto prodotto, o abbia le potenzialità per produrre, vantaggi alla compagine. Basti pensare all’amplissima gamma di condotte illecite ascrivibili al gruppo mafioso, spesso orbitante nell’ambito delle ordinarie attività economiche, per rendersi conto che un difetto di rappresentazione e volizione di tali conseguenze comporterebbe un difetto di tipicità della fattispecie, suscettibile di censure di costituzionalità.
Sulla base di quanto precede il Collegio si determina nel senso che il dato testuale imponga la qualificazione della circostanza nell’ambito di quelle di natura soggettiva, inerenti al motivo a delinquere.
Per far questo, la Corte ritiene di approfondire se il richiamo alla finalità agevolativa debba esaurire la volizione dell’agente o se possa accompagnarsi a finalità più egoistiche. In argomento è bene prendere le mosse dall’analisi svolta in punto di elemento intenzionale dalle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, per evidenziare che nella forma del dolo specifico o intenzionale la volontà della condotta si accompagna alla rappresentazione dell’evento, che è tenuto di mira dall’agente e giustifica l’azione, ancorché non necessariamente in forma esclusiva; tale forma di atteggiamento psicologico si distingue dal dolo diretto per la specifica direzione della condotta rispetto all’evento, che nella forma diretta si limita alla rappresentazione e non alla volizione, oltre che dell’azione, delle sue conseguenze.
La forma aggravata in esame esige quindi che l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa: è necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416- bis cod. pen. ed alla effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione.
Trattandosi invero di un’aggravante che colpisce la maggiore pericolosità di una condotta, ove finalizzata all’agevolazione, è necessario che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza, anche attraverso una mera valutazione autonoma dell’agente, che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo.
È bene ribadire che tale finalità non deve essere esclusiva, ben potendo accompagnarsi ad esigenze egoistiche quali, ad esempio, la volontà di proporsi come elemento affidabile al fine dell’ammissione al gruppo o qualsiasi altra finalità di vantaggio, assolutamente personale, che si coniughi con l’esigenza di agevolazione.
Sia pure con le richiamate specificazioni non vi è dubbio quindi che il fine agevolativo costituisca un motivo a delinquere; peraltro il nostro sistema penale riconosce la rilevanza del motivo, non solo come elemento caratterizzante la fattispecie (finalità di terrorismo o di arricchimento patrimoniale per il sequestro di persona), ma anche nella forma circostanziale (quale il motivo abietto e futile, la finalità di discriminazione e odio etnico-razziale, la finalità di profitto nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico). Non risulta pertanto condivisibile la perplessità espressa nell’ordinanza di rimessione, relativa all’inquadramento di un elemento strutturale della fattispecie, quale il dolo specifico, nell’elemento accidentale, costituito dalla circostanza.
A parte il richiamo a fattispecie analoghe, appena riferite, il dato si rivela anche concettualmente del tutto compatibile con il sistema, posto che il particolare atteggiamento psicologico è richiesto per la configurazione del solo elemento accidentale che, ove riscontrabile, si salda con quelli del reato a cui è applicabile per definire una autonoma fattispecie, che accede alla diversa disciplina nascente dalla fusione delle due previsioni. Sul punto viene richiamato quanto espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 40982 del 21/06/2018, ove si è affermata la mancanza di differenza strutturale tra elementi costitutivi e circostanze del reato, in ragione di quanto emerge dalle disposizioni di cui agli artt. 61, 62 e 84 cod. pen. e la libertà del legislatore di configurare determinate ipotesi quali elementi costitutivi o elementi circostanziali.
Nel concreto, all’ordinario elemento psicologico che caratterizza il reato, si deve aggiungere la rilevanza della finalità specifica, per giustificare l’aggravamento sanzionatorio. Assume rilievo in proposito sottolineare quanto già emerso dall’analisi della giurisprudenza e della dottrina, che univocamente richiedono per la configurazione dell’aggravante agevolativa, la compresenza di elementi oggettivi e soggettivi, al di là della scelta in tema di classificazione astratta operata. Quel che innegabilmente la disposizione richiede, per consentire l’applicazione dell’aggravante, è la presenza del dolo specifico o intenzionale in uno dei partecipi. Tale atteggiamento soggettivo può essere individuato quale elemento tipizzante del reato (come ad esempio nell’abuso di ufficio, nel sequestro di persona a scopo di estorsione, nel furto) o elemento circostanziale (aggravante di discriminazione o di odio razziale o la finalità di terrorismo, o i motivi abietti e futili) ed è conseguenza della rilevanza attribuita dalla legge al motivo a delinquere per caratterizzare la fattispecie o giustificare l’aggravamento di pena.
Come si accennava la ricostruzione del motivo a delinquere in tal senso non è mai esclusiva, poiché plurimi possono essere gli stimoli all’azione; quel che rileva è che tra questi sussistano elementi che consentono di ravvisare anche quello valutato necessario dalla norma incriminatrice. Costituisce dato di comune esperienza che possano sussistere plurimi motivi che determinano all’azione che, ove accertati, non depotenziano la funzione intenzionale della condotta richiesta dalla norma specifica.
E’ quindi possibile la presenza di una pluralità di motivi, mentre essenziale alla configurazione del dolo intenzionale è la volizione da parte dell’agente, tra i motivi della sua condotta, della finalità considerata dalla norma. Tenuto conto della richiesta di elementi oggettivi a riscontro della offensività della condotta, che non assume alcuna pericolosità ulteriore ove non abbia alcuna possibilità o potenzialità di realizzazione, la ricostruzione ermeneutica impone quindi un approccio alla fattispecie, che vada al di là della classificazione formale, per valutare l’estensibilità della circostanza al concorrente.
Tale chiave interpretativa del reato risulta seguire le stesse linee ermeneutiche applicate per l’aggravante della finalità di terrorismo, in relazione alla quale si è univocamente sostenuto che l’intenzione dell’agente deve assumere una connotazione oggettiva, esplicitando gli effetti della condotta, tipizzati dalla previsione normativa di cui all’art. 270-sexies cod. pen. Si é osservato al riguardo che la norma, pur descrivendo una finalità, comprende anche elementi di carattere obiettivo, «quali misuratori della specifica offensività, e quali garanzie di un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell’intenzione e del tipo d’autore».
A questo punto le Sezioni Unite riconoscono come sia delicata la ricostruzione dello spazio di autonomia tra la fattispecie aggravata dalla finalità agevolatrice ed il concorso esterno in associazione mafiosa. Partendo dal dato comune alle figure giuridiche richiamate, inerente alla esistenza dell’associazione territoriale illecita, quel che caratterizza il concorrente esterno rispetto all’autore dell’illecito aggravato è che solo il primo ha un rapporto effettivo e strutturale con il gruppo, della cui natura e funzione ha una conoscenza complessiva, che gli consente di cogliere l’assoluta funzionalità del proprio intervento, ancorché unico, alla sopravvivenza o vitalità del gruppo. Inoltre perché possa dirsi realizzata la fattispecie delittuosa si richiede che si verifichi il risultato positivo per l’organizzazione illecita, conseguente a tale intervento esterno, che si caratterizza per la sua infungibilità.
Non a caso elemento differenziale della condotta è l’intervento non tipico dell’attività associativa, ma maturato in condizioni particolari (la cd. fibrillazione o altrimenti definita situazione di potenziale capacità di crisi della struttura), che rendono ineludibile un intervento esterno, per la prosecuzione dell’attività. Rispetto allo sviluppo dello scopo sociale l’azione del concorrente esterno si contraddistingue da elementi di atipicità ed al contempo di necessarietà in quel particolare ambito temporale.
Gli elementi costitutivi appena richiamati sono estranei alla figura aggravata, con cui condivide solo la necessità dell’esistenza dell’associazione mafiosa, mentre nella forma circostanziale l’utilità dell’intervento può essere anche valutata astrattamente solo da uno degli agenti, senza estensione ai componenti del gruppo, e del tutto estemporanea e fungibile rispetto all’attività delinquenziale programmata e, soprattutto, non necessariamente produttiva di effetti di concreta agevolazione.
Si è chiarito inoltre che anche l’associato può consumare condotte aggravate dalla finalità agevolativa, mentre non può essere concorrente esterno, per la intrinseca contraddizione logica di un concorso ex art. 110 cod. pen. del partecipe. Non appare per contro rilevante, al fine di escludere la natura di dolo intenzionale nella forma circostanziale, la possibile esistenza di una discrasia logica di una figura delittuosa, quale il concorso esterno, per cui è sufficiente il dolo diretto, e la richiesta del dolo intenzionale per la figura circostanziale. Basterà sul punto rilevare la differente struttura delle due figure delittuose, delle quali l’art. 416-bis cod. pen. non opera alcun riferimento ad una finalità specifica, per escludere che la sua forma concorsuale possa essere ricostruita diversamente; per contro l’illogicità di un dolo specifico inerente ad un elemento accessorio della fattispecie, come si accennava, è superata agevolmente dal richiamo ad altre figure analoghe (per tutte l’art. 61 n. 1 cod. pen.) che avvalorano la possibilità di una richiesta del dolo per la circostanza.
La considerazione che questa si applichi ad una fattispecie delittuosa che deve essere perfetta nei suoi elementi essenziali, non priva di rilievo la possibilità che si richieda un particolare collegamento psicologico, con l’ulteriore finalità della realizzazione di un evento specifico, che si aggiunge a quello tipico della fattispecie.
Definite le caratteristiche dell’aggravante della finalità agevolativa della associazione mafiosa, si deve chiarire la sua applicabilità ai concorrenti nel reato.
Il dibattito sulla natura oggettiva o soggettiva dell’aggravante in esame è stato determinato, soprattutto, per le diverse conseguenze in ordine all’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 59 o 118 cod. pen.. Viene in proposito sottolineato che le due norme richiamate sono state ridisegnate dalla novella contenuta nella legge 7 febbraio 1990 n. 19, modifica normativa che non ha toccato invece l’art. 70 cod. pen. che classifica le circostanze a seconda della loro natura soggettiva od oggettiva.
L’esigenza perseguita da tale intervento novellatore è stata quella di garantire l’eliminazione di qualsiasi riflesso di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato, per l’esigenza di ricollegare qualsiasi componente dell’illecito, costitutivo o circostanziale, alla volontà del soggetto agente, imposta dall’attuazione del criterio costituzionale della responsabilità personale. In tal senso l’art. 59 cod. pen., che prima prevedeva l’attribuzione all’autore delle aggravanti e delle attenuanti, anche se da lui non conosciute, è stato modificato nel senso di consentire l’applicazione delle aggravanti solo se conosciute dall’agente; contestualmente se prima l’art. 118 cod. pen. imponeva l’applicazione a tutti i concorrenti delle circostanze aggravanti soggettive non inerenti alla persona del colpevole, se avevano agevolato la consumazione del reato, cosi attribuendo maggiore gravità al fatto, a prescindere dall’adesione a tutte le sue componenti da parte dei singoli concorrenti, attualmente il nuovo testo circoscrive l’applicazione di alcune aggravanti soggettive alla persona a cui si riferiscono.
Viene rilevato, per contro, che la modifica non ha raggiunto la bipartizione tra circostanze oggettive e soggettive, di cui all’art. 70 cod. pen., rimasto immutato. L’analisi storica della modifica porta a correggere l’assunto generalizzato secondo cui le circostanze soggettive devono essere escluse dall’estensione ai concorrenti, posto che, a ben vedere, tale esclusione, sancita solo dall’art. 118 cod. pen., è circoscritta a quelle aggravanti attinenti alle sole intenzioni dell’agente, pertanto potenzialmente non riconoscibili dai concorrenti.
Se le circostanze soggettive richiamate dall’art. 70 cod. pen. sono quelle che concernono «la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole», l’art. 118 cod. pen. non prevede l’impossibilità di estensione delle circostanze soggettive tout court, ma opera un’indicazione autonoma, limitata alle «circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole» che richiede siano «valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono»; vengono così escluse da tale delimitazione le condizioni e le qualità personali del colpevole, ed i rapporti tra il colpevole e l’offeso, elementi che, pur nella chiara connotazione soggettiva, possono essere percepite anche ab externo.
Si pensi, in particolare, alla qualifica soggettiva del colpevole, derivante dalla sua natura professionale, o ai rapporti di parentela di questi con l’offeso, elementi personali, ma nei fatti astrattamente conoscibili dal coimputato. Il discrimine, ai fini della possibilità di estensione delle circostanze, non sembra riguardare la natura, oggettiva o soggettiva della circostanza, secondo la classificazione contenuta nel codice, ma piuttosto la possibilità di estrinsecazione della circostanza all’esterno, cosicché rimane esclusa dall’attribuzione al compartecipe qualsiasi elemento, di aggravamento o di attenuazione della fattispecie, confinato all’intento dell’agente che, proprio in quanto tale, non può subire estensione ai concorrenti, perché da questi non necessariamente conoscibile.
In conseguenza, qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l’intento dell’agente sia stato riconosciuto dal concorrente, e tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l’estensione della sua applicazione, posto che lo specifico motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo, sulla base degli specifici elementi rivelatori che, per quanto detto, devono accompagnarne la configurazione, per assicurare il rispetto del principio di offensività.
La soluzione qui accolta, del resto, non appare nuova, ma ampiamente acquisita nella giurisprudenza, con riferimento ad altre figure di aggravanti che riguardano altri motivi a delinquere o l’intensità del dolo. È quanto avvenuto in tema di premeditazione, circostanza inesorabilmente connessa all’intensità del dolo e, quindi, compresa nell’art. 118 cod. pen., e tuttavia ritenuta chiaramente estensibile al concorrente non partecipe di tale intensa programmazione, ove ne sia consapevole.
In giurisprudenza è stato infatti chiaramente affermato che la conoscenza effettiva e non la mera conoscibilità della premeditazione altrui impone l’applicazione dell’aggravante anche al partecipe, sgomberando il campo dalla possibilità di una imputazione colposa della circostanza ex art. 59, secondo comma, parte seconda, cod. pen.
Ad analoghe conclusioni si è giunti in tema di estensione al concorrente dell’aggravante dei motivi abietti e futili, anch’essa pacificamente ascrivibile al motivo a delinquere, estensione condizionata solo alla conoscenza di tali fini a cura del partecipe, prima di assicurare il suo intervento di collaborazione.
In senso conforme si è concluso anche nell’ipotesi dell’aggravante del nesso teleologico, connessa allo scopo dell’agente, ma ritenuta applicabile al concorrente che non abbia elaborato tale nesso, ove lo stesso fosse a questi conoscibile ed a lui attribuibile, anche a titolo di dolo eventuale in forza della intervenuta rappresentazione.
In definitiva, là dove l’elemento interno proprio di uno degli autori sia stato conosciuto anche dal concorrente che non condivida tale fine, quest’ultimo viene a far parte della rappresentazione ed è quindi oggetto del suo dolo diretto ove il concorrente garantisce la sua collaborazione nella consapevolezza della condizione inerente il compartecipe.
Quanto esposto induce a ritenere che il concorrente nel reato, che non condivida con il coautore la finalità agevolativa, ben può rispondere del reato aggravato, le volte in cui sia consapevole della finalità del compartecipe, secondo la previsione generale dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., che attribuisce all’autore del reato gli effetti delle circostanze aggravanti da lui conosciute. Tale disposizione è applicabile al concorrente ex art. 110 cod. pen., atteso che l’impostazione monistica del reato plurisoggettivo impone l’equivalenza degli apporti causali alla consumazione dell’azione concorsuale, cosi che la realizzazione della singola parte dell’azione, convergente verso il fine, consente di attribuire al partecipe l’intera condotta illecita, che rimane unitaria.
In tal caso per il coautore del reato, non coinvolto nella finalità agevolatrice, è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme di dolo eventuale. E’ evidente però che la natura soggettiva dell’aggravante di pertinenza del partecipe non consente di estendere l’imputazione soggettiva alla colpa, prevista dalla seconda parte della disposizione richiamata, in quanto la condizione in esame è incompatibile con un obbligo giuridico di conoscenza o di ordinaria prudenza, necessariamente ricollegabile all’imputazione colposa.
Invero le situazioni contingenti, l’occasionalità della compartecipazione, l’ignoranza dell’esistenza di una compagine mafiosa o dei suoi collegamenti con l’occasionale partecipe, non potrebbe mai generare un obbligo giuridico di diligenza, suscettibile di sostenere le condizioni dell’imputazione colposa. La funzionalizzazione della condotta all’agevolazione mafiosa da parte del compartecipe in definitiva deve essere oggetto di rappresentazione, non di volizione, aspetto limitato agli elementi costitutivi del reato, e non può caratterizzarsi dal mero sospetto, poiché in tal caso si porrebbe a carico dell’agente un onere informativo di difficile praticabilità concreta.
A tal riguardo occorre accertare se il compartecipe è in grado di cogliere la finalità avuta di mira dal partecipe, condizione che può verificarsi sia a seguito della estrinsecazione espressa da parte dell’agente delle proprie finalità, o per effetto della manifestazione dei suoi elementi concreti, quali particolari rapporti del partecipe con l’associazione illecita territoriale, o di altri elementi di fatto che emergano dalle prove assunte. In presenza di tali dati dimostrativi, non potrebbe negarsi che l’agente, cui si riferisce l’art. 59, secondo comma, cod. pen., concetto che comprende chiunque dia il suo contributo alla realizzazione dell’illecito, e quindi anche il compartecipe, si sia rappresentato la finalità tipizzante la fattispecie aggravata, e pur, non agendo personalmente a tal fine, abbia assicurato il suo apporto al perfezionamento dell’azione illecita, nelle forme volute dai concorrenti.
Sulla base di quanto illustrato viene enunciato il seguente principio di diritto: «L’aggravante agevolatrice dell’attività mafiosa prevista dall’art. 416-bis 1 cod. pen. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell’altrui finalità».
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Il 16 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 10084 che definisce la differenza tra circostanze attenuanti comuni e attenuanti generiche. Spiega la Corte che l’art. 62 bis, primo comma, cod. pen. individua le circostanze attenuanti generiche che possono essere prese in considerazione dal giudice al fine di diminuire la pena innanzitutto con una definizione in negativo rispetto alle circostanze attenuanti comuni già enucleate dal legislatore: «il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse…». La norma aggiunge poi che l’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. «può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62».
Dalla disposizione, dunque, si ricava l’ontologica differenza e l’autonomia concettuale tra le circostanze attenuanti comuni (o speciali) e quelle generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen., con l’inevitabile conseguenza che laddove sussistano elementi che integrano le diverse ipotesi circostanziate le stesse concorrono, mentre se i fattori considerati sono idonei ad integrare una circostanza attenuante comune o speciale si deve comunque ritenere la sussistenza di quest’ultima, quand’anche – secondo una tesi non incontroversa – i medesimi elementi possano magari essere valutati pure al fine di concedere le circostanze attenuanti generiche.
Se per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. possono essere utilizzate anche ragioni che, pur non bastevoli a determinare l’integrazione di un’ipotesi circostanziata altrimenti codificata per difetto di tutti i suoi elementi costitutivi, sono comunque valorizzabili sul piano delle circostanze generiche, l’ipotesi residuale – in quanto sussidiaria – non potrà mai valere ad escludere l’applicazione di una fattispecie circostanziale di cui sussistano tutti i presupposti.
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L’8 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione Penale n. 14168 onde la circostanza aggravante del nesso teleologico, di cui all’art. 61, n. 2, c.p., è configurabile anche in ipotesi di concorso formale di reati, non richiedendo una alterità di condotte quanto piuttosto la specifica finalizzazione dell’un reato alla realizzazione dell’altro.
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Il 12 maggio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 14722 che, in tema di circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente, risponde a due quesiti diversi, strettamente collegati:
“– se mantenga validità il criterio per la determinazione dell’ingente quantità fissato dalla sentenza delle Sezioni Unite Biondi, fondato sul rapporto (1 a 2000) fra quantità massima detenibile come prevista nell'”elenco” allegato al D.M. 11 aprile 2006 e quantità di principio attivo contenuto nella sostanza oggetto della condotta, ferma la discrezionalità giudiziale in caso di superamento del limite così ottenuto;
– come debbano essere individuati i fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c. d. “droghe leggere“.
Le Sezioni Unite Biondi avevano risolto il contrasto interpretativo sorto nella giurisprudenza di legittimità dopo che le medesime Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, avevano affermato il principio secondo cui la circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, la cui ratio legis è da ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l’apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza.
La sentenza Primavera, pur superando apparentemente il riferimento all’incerta nozione di saturazione di un “mercato illecito” di aleatoria definizione sulla quale la giurisprudenza si era fin lì in sostanziale continuità assestata, aveva concluso nel senso che, perchè potesse parlarsi di quantità “ingente” di stupefacente, fosse necessario che il dato ponderale di sostanza tossica oggetto del procedimento superasse notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera: ma con ciò, sostanzialmente, da un lato, riconducendo nuovamente il concetto a valutazioni collegate a realtà locali, necessariamente differenti, “apprezzate specificamente” dal giudice e riaffidandolo, da un altro, all'”abilità dialettica di chi fornisce la motivazione della decisione”.
A tale pronunzia si era conformata a lungo la giurisprudenza successiva, senza che sulla uniformità di tale orientamento – posto in discussione solo a far data dal 2010 – incidesse in qualche misura l’entrata in vigore del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (c.d. “Fini-Giovanardi”).
Detto intervento normativo aveva disposto (art. 4-vicies ter) che le sostanze stupefacenti “pesanti” e “leggere” fossero raggruppate senza distinzioni nella medesima tabella, di formazione ministeriale, allegata al D.P.R. n. 309 del 1990 (artt. 13 e 14 D.P.R. cit. come allora novellati) ed unificava la sanzione per i reati ad esse relativi (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come emendato dall’art. 4-bis).
Nello stesso tempo la riforma aveva sostanzialmente ripristinato l’originario sistema della predeterminazione della quantità detenibile per uso personale, cioè quello dell’individuazione numerica del limite di irrilevanza penale, attribuendo ad un decreto del Ministro della Salute (D.M. 11 aprile 2006) ed all'”elenco” ad esso allegato il compito di fissare i limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili a tale uso esclusivo (art. 73, comma 1 bis, lett. a): del tutto analogo era infatti il sistema precedente – introdotto con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, e art. 78, comma 1, lett. c), venuto meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171) nel quale l’irrilevanza penale era riconosciuta a condotte aventi ad oggetto sostanze “in dose non superiore a quella media giornaliera”, l’individuazione della quantità massima del cui principio attivo tollerato era sempre attribuita ad un decreto ministeriale ed alle tabelle ad esso allegate (si emanò in attuazione il D.M. 12 luglio 1990, n. 186).
Solo con la sentenza Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni si era manifestata l’esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità ad un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi e ciò anche per evitare un insanabile contrasto fra la circostanza aggravante in questione ed il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità presidiato dall’art. 25 Cost., comma 2.
Si sottolineava come ai fini di un’applicazione giurisprudenziale che non offrisse il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non addirittura casuale arbitrarietà, fosse necessario meglio definire l’ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza prodottasi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite Primavera, pur prestandovi formalmente adesione, presentava talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati qualitativi/quantitativi e di realtà territoriali in tutto assimilabili.
Ritenendo pertanto che ai fini della configurabilità della circostanza aggravante debba rilevare il criterio oggettivo del numero dei possibili fruitori finali e non l’area dove essi insistono e dunque essenzialmente il valore ponderale dello stupefacente considerato in relazione alla qualità della sostanza e specificato in relazione al grado di purezza, la Sezione sesta prendeva atto dei dati derivanti dall’esperienza giudiziaria, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata di conoscenza in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale, per concludere che ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non possano di regola definirsi “ingenti” i quantitativi di droghe “pesanti” o “leggere” che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di 2 kg. e 50 kg.
Altre sentenze, tuttavia, contrastavano espressamente tale orientamento, riproponendo i principi della sentenza “Primavera” e ritenendoli idonei a superare i dubbi di determinatezza della norma; ad avviso di questo secondo filone interpretativo, la predeterminazione dell’indice quantitativo che oggettivamente segna il confine tra la quantità ingente e quella non ingente, finendo col proporsi in sostanza come dato avente valenza normativa, non potrebbe che essere prerogativa del legislatore.
In tale quadro di decisioni confliggenti interveniva la sentenza n. 35258 del 24/05/2012, Biondi. Con essa le Sezioni Unite, preso atto dei perduranti contrasti giurisprudenziali e difformità applicative anche risalenti in ordine al significato da attribuire all’espressione “ingente quantità”, su cui si fonda una circostanza aggravante oggettiva “molto soggettivamente interpretata”, alla quale si ricollegano rilevanti effetti commisurativi in pejus, hanno ricercato e rinvenuto la soluzione del quesito all’interno del sistema approntato dalla legislazione (allora) vigente in tema di stupefacenti.
Il punto di partenza del ragionamento espresso in sentenza è stata la constatazione che la normativa prevedesse espressamente indicatori precisi per la determinazione dei limiti quantitativi entro i quali le condotte descritte dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, potevano considerarsi di regola penalmente irrilevanti, così fornendo attraverso dati numerici il discrimine tendenziale fra l'”uso personale”, che non comporta sanzione penale, e le condotte viceversa penalmente represse.
Le Sezioni Unite hanno dunque preso le mosse dal riferimento testuale operato dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (come introdotto dalla “Fini-Giovanardi”) ai limiti massimi di stupefacente la cui detenzione è tendenzialmente presunta per uso personale, i quali sono indicati con decreto del Ministro della Salute – adottato di concerto con altre autorità di governo – in un “elenco” ad esso allegato contenente la specificazione del quantitativo massimo di principio attivo detenibile: quantitativo definito espressamente come “soglia” e ricavato – per ogni sostanza – dal prodotto della moltiplicazione del valore della dose media singola espresso in milligrammi per un fattore (“moltiplicatore” variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza) individuato dal ministero competente.
Dal rilievo diretto e riflesso che il sistema tabellare così delineato ha assunto all’interno della disciplina repressiva dei reati in tema di stupefacenti, le Sezioni Unite hanno considerato di potere e dovere trarre la conclusione della necessità di individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità: se il legislatore ha infatti positivamente fissato la soglia quantitativa della punibilità (dunque un limite “verso il basso”), consegue che l’interprete ha il compito di individuare una soglia quantitativa definita al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa intendersi l’ingente quantità (un limite, quindi, “verso l’alto”).
Assumendo come riferimento il valore-soglia previsto dalla predetta “tabella” (in quanto “unità di misura” rapportabile al singolo cliente/consumatore), le Sezioni Unite hanno pertanto ritenuto di individuare, sulla base dei dati esperienziali relativi al traffico di sostanze stupefacenti come risultante dai casi affluiti alla Corte (riferibili all’intero territorio nazionale e tenuto conto del grado di “purezza” medio relativo alle singole sostanze), una soglia ponderalmente determinata al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità “ingente”.
Hanno quindi affermato che, specificando di non usurpare con ciò una funzione normativa ma di svolgere semplicemente un’opera ricognitiva dei dati empirici raccolti, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella “tabella” allegata al D.M. 11 aprile 2006 (cioè il provvedimento previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), non possa di norma ritenersi “ingente” un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia espresso in milligrammi di principio attivo (750 mg. per la cocaina, 250 mg. per l’eroina, 1000 mg. per l’hashish: così testualmente in sentenza).
Tale conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, soddisfaceva i criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed equità che le stesse Sezioni Unite avevano già ritenuto in materia fondanti (Sezioni Unite n. 17 del 21/06/2000, Primavera); con la specificazione che la soglia in tal modo individuata, proprio perchè volta a definire tendenzialmente la quantità minima indispensabile al fine di ritenere la sussistenza della circostanza de qua, può valere solo “in negativo”, nel senso che il suo superamento non comporta di per sè automaticamente la configurabilità dell’ipotesi aggravata, dovendo comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice di merito.
La giurisprudenza delle sezioni semplici si è adeguata ai principi così espressi, i quali sono stati, tuttavia, posti in discussione in seguito alla vicenda normativa originata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4-bis e 4-vicies ter, come convertito dalla L. n. 49 del 2006, art. 1, comma 1, in riferimento all’art. 77 Cost., comma 2, per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto legge e quelle, impugnate, introdotte nella legge di conversione.
Ed invero, pur avendo il giudice delle leggi espressamente affermato che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, dovesse tornare ad applicarsi non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo, il legislatore ha ritenuto di dover ancora intervenire per regolamentare la materia.
Il D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, nel riscrivere il D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 ha così espressamente ripristinato la distinzione, per quanto qui interessa, fra sostanze di tipo “pesante” e sostanze di tipo “leggero”, prevedendo la loro indicazione in tabelle diverse (I e II), inserite nel D.P.R. n. 309 del 1990 ai sensi dell’art. 1, comma 30, del predetto D.L., il cui completamento ed aggiornamento è assegnato ad un D.M., secondo i criteri per la loro formazione fissati dall’emendato art. 14.
Alla rinnovata distinzione tabellare ha quindi fatto seguito – per effetto della “riviviscenza” della disciplina pregressa – la medesima distinzione sanzionatoria per i reati concernenti i diversi tipi di sostanze così come era prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 prima della modifica operata dalla normativa dichiarata incostituzionale.
La novella ha pure parzialmente ridefinito la regolamentazione delle sanzioni amministrative per le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti per uso personale, ricollocandola nell’originaria sede del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, ma sostanzialmente reiterando la previsione già contenuta nell’art. 73, comma 1 bis, lett. a) della Legge “Fini-Giovanardi”, secondo cui agli effetti dell’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale deve tenersi conto, insieme ad elementi circostanziali rivelatori dell’intenzione, del dato oggettivo che la quantità della sostanza non sia superiore ai limiti massimi di principio attivo (valori-soglia) indicati con decreto emanato dal Ministro della Salute di concerto con altre autorità di governo.
Il D.L. n. 36 del 2014, come convertito, ha altresì disposto all’art. 2, comma 1, la perdurante efficacia del decreto ministeriale fissante valori-soglia emanato nel vigore della “Fini-Giovanardi”.
All’indomani della riforma si è dunque manifestato un orientamento giurisprudenziale – la cui segnalazione è oggetto dell’ordinanza di rimessione – teso a sollecitare il superamento delle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite.
Si deve subito precisare come questo filone interpretativo si sia sviluppato attraverso alcune decisioni, anche graficamente sovrapponibili, per un assai ristretto periodo di tempo e che il contrasto sia stato interamente e definitivamente riassorbito dalla giurisprudenza successiva, univocamente orientata, come si vedrà, nel confermare la persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite Biondi.
Secondo detto orientamento, poichè a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2014 il legislatore ha modificato il “sistema tabellare” che era seguito alla legge “Fini-Giovanardi” ed introdotto quattro nuove tabelle in ordine alle sostanze stupefacenti e psicotrope, la determinazione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante della ingente quantità non potrebbe prescindere da questa impostazione normativa differente.
Non può non rilevarsi, si afferma, che in un quadro che smentisce la ratio della normativa vigente all’epoca dell’approdo giurisprudenziale delle Sezioni Unite – spezzando la sostanziale equiparazione tra il reato attinente a droghe pesanti ed il reato relativo a “droghe leggere”, per di più enucleando come reato autonomo, anche sotto il profilo delle modalità di esecuzione, e non solo dell’entità, del trattamento sanzionatorio, la fattispecie lieve – “tale giurisprudenza dovrà essere rimeditata, in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità”.
A questo primo indirizzo se ne è sincronicamente contrapposto un altro secondo il quale per effetto dell’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come modificato dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, mantengono validità i criteri enunciati dalla sentenza “Biondi” basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Come già anticipato quest’ultimo orientamento, consapevolmente discostatosi da quello opposto, è in breve divenuto univoco.
Le Sezioni Unite condividono le argomentazioni del secondo orientamento citato e le relative conclusioni circa la persistente validità dei criteri fissati nella sentenza “Biondi” per la configurabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Si rileva, infatti, l’erroneo presupposto dal quale muove l’orientamento rimasto minoritario per derivarne la necessità di ridefinire i criteri per l’applicazione della circostanza de qua, e cioè la considerazione che la riforma del 2014 abbia determinato una modifica del sistema tabellare introdotto con la c.d. legge “Fini-Giovanardi” nella vigenza della quale si erano pronunciate le Sezioni Unite.
Il recente intervento legislativo e la L. n. 49 del 2006 (di conversione del D.L. n. 272 del 2005), infatti, si pongono entrambi in continuità con il sistema tabellare già prefigurato fin nella L. 22 ottobre 1954, n. 1041 (in cui si disciplina la compilazione di un “elenco” delle sostanze e preparati ad azione stupefacente a cura del Ministero della Sanità, pubblicato nella G.U. ed inserito nella Farmacopea ufficiale) e quindi realizzato compiutamente con la L. 22 dicembre 1975, n. 685, la quale agli artt. 11 e 12 prevedeva che le sostanze fossero raggruppate in sei tabelle, la prima e la terza delle quali indicanti sostanze stupefacenti e psicotrope di tipo “pesante”, la seconda e la quarta di tipo “leggero”, ricollegando sanzioni di differente gravità alle rispettive violazioni; sistema peraltro integralmente replicato nel T.U. stup. del 1990 (artt. 13, 14 e 73).
In tale continuità di sistema si collocano sia la discrezionale opzione del legislatore del 2006 di unificare la pena per i reati concernenti sostanze “pesanti” o “leggere” mediante lo strumento di tecnica legislativa di indicarle tutte nella medesima tabella, sia quella del legislatore del 2014 il quale, sempre attraverso lo strumento di intervenire sul contenuto delle tabelle, questa volta tornando a distinguerlo, ha realizzato l’intento di nuovamente differenziare la sanzione a seconda dell’efficacia drogante delle sostanze “vigilate” dal Ministero della salute ed ivi elencate.
Nessuna “modifica di sistema” può dunque evocarsi in proposito e così, sotto questo profilo, nessun effetto ermeneutico può riconoscersi alla riforma del 2014 sul significato di “ingente quantità”, intorno alla cui definizione non può attribuirsi influenza alcuna alla rinnovata differenziazione della pena comminata a seconda del tipo di sostanza oggetto del reato: non a caso il concetto di “ingente quantità” definito dalle Sezioni Unite “Primavera” era rimasto del tutto insensibile – come si è più su precisato – all’introduzione della “Fini-Giovanardi”, venendo rimeditato, nelle successive ampie cadenze temporali sopra descritte, non in funzione del disposto accorpamento delle sostanze proibite nella medesima tabella bensì dalla necessità di elaborare un’interpretazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, maggiormente aderente al principio costituzionale di determinatezza.
Unica conseguenza discendente dalla riforma del 2014, del tutto estranea alla ricostruzione teorica per la parte che qui interessa, è dunque esclusivamente quella di differenziare, a seconda della sostanza, la pena base sulla quale deve essere applicato l’aumento per la ricorrenza della circostanza aggravante e non certo quella di riscrivere i criteri per la sua configurabilità, a fronte di un dato normativo rimasto testualmente invariato sin dalla disciplina posta dalla L. n. 685 del 1975, art. 74, il quale al comma 2 espressamente contemplava che “se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope le pene sono aumentate dalla metà a due terzi”, con formula identica a quella contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non modificato nè dalla L. n. 49 del 2006 di conversione del D.L. n. 272 del 2005 (poi dichiarata incostituzionale) nè dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79.
Alcuna interferenza, poi, è dato individuare – nè la giurisprudenza qui non condivisa lo esplica, limitandosi semplicemente ad affermarne valenza ermeneutica – fra la “trasformazione” in reato autonomo della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ed i criteri di valutazione dell’ingente quantità: si tratta di vicenda normativa del tutto eccentrica rispetto alla questione di diritto affrontata dalle Sezioni Unite “Biondi” e conseguentemente del tutto ininfluente sulla sua risoluzione.
E così è a dirsi anche a proposito dei pur evocati ma non precisati effetti interpretativi derivanti dalla nuova disciplina (art. 73, comma 5 bis) delle modalità di esecuzione della pena irrogata o applicata per il predetto reato ove commesso da tossicodipendente o assuntore.
Per esigenze di chiarezza è opportuno altresì precisare che detta “trasformazione” risale ad intervento legislativo precedente alla sentenza costituzionale n. 32 del 2014 e che la riforma ad essa successiva si è limitata a modificare in melius la sanzione ivi prevista.
Tutto ciò premesso, le Sezioni Unite passano a chiarire un equivoco, peraltro diffuso nella giurisprudenza di legittimità e caratterizzante anche le decisioni appartenenti all’orientamento minoritario, che induce a confondere il sistema delle tabelle disciplinato dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 con il sub-sistema concernente l’individuazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale.
Le tabelle previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 e ad esso allegate (ora “inserite”, ex D.L. n. 36 del 2014, art. 30) hanno costituito (in tutte le versioni succedutesi a far data dalla emanazione del T.U. stup.) la fonte legislativa per l’individuazione delle sostanze vietate ed oggetto delle disposizioni sanzionatorie previste nel titolo VIII (“Della repressione delle attività illecite”).
Del tutto diversa è la funzione dell'”elenco” allegato al decreto ministeriale previsto dall’art. 73, comma 1 bis, lett. a) Legge “Fini-Giovanardi”, nel cui vigore si sono pronunciate le Sezioni Unite con la più volte citata sentenza “Biondi”, la quale proprio sull’indicazione normativa della quantità massima di principio attivo detenibile ha fondato la ricostruzione della nozione di “ingente quantità” ricavandola dalla moltiplicazione del valore-soglia per un fattore ricavato dalla concreta esperienza giudiziaria.
Tale sub-sistema è rimasto inalterato dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge “Fini Giovanardi” ed il varo della riforma.
Assume decisivo rilievo, ai fini della risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, la circostanza che il D.L. n. 36 del 2014, art. 2, comma 1, come convertito dalla L. n. 79 del 2014, abbia espressamente previsto che riprendano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990 sino alla data della pubblicazione della sentenza costituzionale n. 32/14; è stata così integralmente “recuperata” dal legislatore primario l’efficacia del D.M. 11 aprile 2006 contenente “Indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale”, cioè proprio l’atto di normazione secondaria che la sentenza “Biondi” aveva posto a base del proprio argomentare partendo dal dato testuale della specifica indicazione numerica di un limite massimo di principio attivo detenibile per giungere, come si è detto, alla fissazione di un limite minimo – pur esso coerentemente fondato su dati numerici – per il riconoscimento della circostanza aggravante dell’ingente quantità.
Al citato decreto ministeriale deve operarsi ora riferimento nell’applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come novellato, il quale pure si pone in continuità normativa, confermandone effetti e ratio, con l’art. 73, comma 1 bis, lett. a), legge “Fini-Giovanardi”, chiaro indice dell’intento del legislatore di mantenere inalterato non solo il sistema tabellare nella sua funzione di selezione delle sostanze proibite (D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14) ma anche il sub-sistema dell’indicazione – in apposito “elenco” allegato al decreto ministeriale ora previsto dall’art. 75 – dei “limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale” (così l’intestazione del vigente D.M. 11 aprile 2006).
Escluso dunque che sia individuabile quello che, con formula invero generica, l’indirizzo minoritario definisce “accresciuto tasso di modulazione normativa” per derivarne il superamento del principio fissato dalle Sezioni Unite, deve necessariamente escludersi la ulteriore conseguenza che se ne trae, e cioè quella della sopravvenuta incompatibilità con il sistema delineato dal D.P.R. n. 309 del 1990, come novellato, di un’interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’ingente quantità.
Solo per completezza si aggiunge come sul punto la giurisprudenza di legittimità, con argomentazione integralmente qui condivisa, abbia da tempo chiarito che il superamento dei parametri enucleati dalla sentenza “Biondi” per l’individuazione del limite minimo dell’ingente quantità, come peraltro nella stessa espressamente affermato, non determini automaticamente la sussistenza dell’ipotesi aggravata, dovendosi in ogni caso avere riguardo alle circostanze del caso da valutarsi con riferimento alla pericolosità della condotta ed al livello di potenziale compromissione della salute e dell’ordine pubblico; e che il giudice, nell’esercizio del potere di valutazione in concreto cui è tenuto possa valorizzare, per corroborare il dato rappresentato dal superamento del limite, tutti quegli elementi di fatto mirati a considerare la realtà specifica che già la giurisprudenza, in assenza di specifici parametri quantitativi, aveva individuato anteriormente all’elaborazione alle Sezioni Unite del 2012 quali indici di per sè esaustivi della ricorrenza dell’aggravante.
Rimane dunque di perdurante attualità ed efficacia dimostrativa la base sostanziale e formale delle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite nella sentenza “Biondi” del 2012 per la definizione dei criteri di individuazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità; conclusioni che – collegando l’entità della sanzione anche a dati oggettivi i quali indirizzano in funzione di garanzia la discrezionalità del giudice – soddisfano insieme, come rilevato, ineludibili esigenze costituzionali e convenzionali di determinatezza del precetto penale e parità di trattamento.
Non può sfuggire, a questo proposito, il limite intrinseco dell’indirizzo rimasto minoritario il quale, pur sollecitando un ripensamento della giurisprudenza “Biondi” in ragione, come si è detto, del ritenuto “accresciuto tasso di modulazione normativa” conseguente alla riforma del 2014, di tale ripensamento non indica la direzione, limitandosi ad assegnare genericamente al giudice di rinvio la ricostruzione di un criterio alternativo, così tornando a rendere “vaga” una norma “elastica” alla quale l’interpretazione sistematica delle Sezioni Unite ha dato concretezza e determinatezza.
Le Sezioni Unite passano poi ad affrontare il contrasto interpretativo concernente la individuazione precisa dei fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c.d. “droghe leggere”.
Tale contrasto ha avuto origine da un’imprecisione contenuta nella sentenza resa in causa Biondi la quale, individuato in 2000 il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo, pure numerico, dell’ingente quantità, ha indicato per le c.d. droghe leggere un “valore soglia”, espresso in milligrammi, pari a 1000.
Ed invero, pur avendo la sentenza operato, al fine di individuare i dati dei valori-soglia, un generico riferimento alle tabelle di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 le quali, come si è detto, hanno solo la diversa funzione di individuare le sostanze “vietate” o comunque sottoposte a controllo, appare evidente come le Sezioni Unite abbiano tratto tali valori dall'”elenco” allegato al più volte citato D.M. 11 aprile 2006 previsto dall’art. 73, comma 1 bis, legge “Fini Giovanardi (ed ora “recuperato” dalla riforma del 2014) il quale tuttavia, al momento della decisione, prevedeva per le c.d. “droghe leggere” (THC) un valore-soglia di principio attivo, espresso in milligrammi, pari 500 e non a 1000, come invece indicato in sentenza.
Tutto ciò in quanto il D.M. 4 agosto 2006 il quale – aumentando da 20 a 40 il moltiplicatore del valore di principio attivo della dose media singola (25 mg.) da applicarsi per ottenere la quantità massima detenibile – aveva portato a 1000 il valore-soglia del THC espresso in milligrammi, era stato annullato per vizi della motivazione dal Tribunale amministrativo del Lazio, Sez. III quater, con sentenza n. 2487 del 21 marzo 2007.
Immediatamente dopo la pronuncia delle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità ha quindi preso atto della circostanza che prima della decisione fosse già intervenuto l’annullamento del D.M. 4 agosto 2006 ed ha così ricondotto il valore-soglia delle “droghe leggere” all’originaria previsione di 500 milligrammi, con la conseguenza che, operata la moltiplicazione di quest’ultimo dato per il fattore 2000 indicato da Sezioni Unite “Biondi” per tutte le sostanze, il limite minimo dell’ingente quantità è stato fissato in 1 kg. di principio attivo.
Alcune decisioni hanno espressamente motivato il disallineamento (meramente numerico e non di principio) dalla sentenza Biondi proprio con specifico riferimento all’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, mentre altre hanno sostanzialmente dato per scontata l’applicazione del dato numerico pari a 500 milligrammi indicato nel D.M. 11 aprile 2006 come vigente al momento della pronuncia delle Sezioni Unite per ribadire il limite minimo dell’ingente quantità nel caso di “droga leggera” in 1 kg. di principio attivo.
A far data da Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016, Hrim, tale indirizzo è stato tuttavia integralmente sostituito da altro (tanto che il contrasto segnalato dalla sezione rimettente può ben definirsi diacronico e considerato ormai riassorbito), secondo il quale, seguendo il filo logico della motivazione della sentenza “Biondi”, per rispettare le proporzioni e rendere omogeneo il principio con essa affermato alle conseguenze dell’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo “leggero” al di sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, “deve essere necessariamente pari al doppio di quello da essa (erroneamente) indicato e dunque a 4.000 (e non 2.000) volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (corrispondente a 2 kg. di principio attivo, che del resto corrisponde a quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo di sostanza pura al 5%)”.
A tale decisione si è conformata la giurisprudenza successiva, anche in questo caso con motivazioni tutte lessicalmente sovrapponibili a quella di cui si è appena dato conto.
Le Sezioni Unite, con la precisazione che seguirà, ritengono la correttezza di quest’ultimo orientamento, perchè aderente al reale contenuto dell’analisi effettuata dalla sentenza “Biondi” del 2012 come riferita alle caratteristiche oggettive della sostanza (qualità, quantità, concentrazione) idonee a rendere applicabile il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Detta analisi, svolta come già precisato su dati giudiziari empirici, ma altamente dimostrativi del fenomeno, si è sviluppata da parte delle Sezioni Unite dapprima commisurando il dato oggettivo delle quantità di stupefacente alle quali attribuire – secondo la verifica effettuata in concreto da un osservatorio privilegiato – rilievo ponderale tale da poter integrare il valore minimo per la configurabilità della circostanza aggravante de qua; e quindi, in successione logica e partendo dalla premessa teorica della fissazione normativa della quantità massima detenibile, individuando un moltiplicatore di questa che consentisse di ricostruire e rappresentare in termini numerici proprio quel valore ponderale minimo come determinato attraverso l’esame dell’esperienza giudiziaria.
In altre parole, nel ragionamento della Corte è venuta prima la verifica delle quantità definibili ingenti (significativo il riferimento esemplificativo ai 50 kg. di “droghe leggere”) e poi quella dei numeri atti a rappresentarle, sicchè l’evidente errore di lettura del D.M. quanto al valore-soglia di principio attivo del THC non può inficiare in alcun modo l’accertamento empirico delle quantità rilevanti effettuato dalle Sezioni Unite, ma impone solo una correzione dei fattori del calcolo per ricostruirlo secondo i principi espressi in sentenza; e che questa correzione riguardi il moltiplicatore normativo della dose media singola (20 divenuto 40 e poi tornato 20) per ottenere la dose-soglia o, in alternativa, il moltiplicatore empirico di questa (2000 o 4000) poco importa, perchè il risultato aderente all’esito dell’indagine induttiva delle Sezioni Unite cristallizzato nella sentenza “Biondi” è che la soglia minima perchè si possa intendere ingente una quantità di “droga leggera” è di 2 kg. di principio attivo.
La precisazione infine formulata dalle Sezioni Unite concerne la reiterata definizione in motivazione della dose-soglia come “quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno” e si palesa necessaria, più che per ragioni di correttezza terminologica, per il contributo che essa può fornire al giudice nell’ambito dell’esercizio della residua discrezionalità valutativa della sussistenza o meno della circostanza aggravante dell’ingente quantità nei casi in cui risulti superato il valore minimo ponderale determinato secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite.
E’ d’uopo qui rammentare che la figura giuridica della “dose media giornaliera” quale limite alla detenzione per uso esclusivamente personale sia stata introdotta con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 comma 1 e art. 78, comma 1, lett. c) e sia venuta meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171).
La normativa attuale, come si ricava dalla lettura del preambolo al più volte citato D.M. 11 aprile 2006, contiene nell'”elenco” ad esso allegato l’indicazione, per ogni sostanza, in primis di una dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo; e, di seguito, quella di una dose-soglia, significante la quantità massima detenibile, la quale è data dall’incremento della dose media singola in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza: essa prescinde totalmente dalla frequenza delle assunzioni nell’arco della giornata e perciò sembra anzi consentire (tollerare) anche un modesto accumulo per più giorni, sempre presunto come destinato all’uso personale.
L’unità di misura rapportabile al singolo cliente-consumatore è e deve pertanto essere non quella della non più normativamente esistente e perciò giuridicamente irrilevante “dose media giornaliera” (il cui valore era stato fissato dal D.M. 12 luglio 1990, n. 186), bensì quella del valore soglia (la quantità massima detenibile) posto a base del percorso argomentativo delle Sezioni Unite Biondi e ricavato dalla moltiplicazione del valore espresso in milligrammi della dose media singola per un fattore – di individuazione ministeriale sulla base di scelte di discrezionalità tecnica – pari a 5 per la cocaina, 10 per l’eroina, 20 per il THC, la cui determinazione già sconta la differente pericolosità o efficacia drogante dei vari tipi di stupefacente.
Vengono, pertanto, affermati i seguenti principi:
“a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2;
con riferimento alle c.d. droghe leggere la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo“.
* * *
L’11 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 17954, onde la questione di legittimità costituzionale dell’art. 624 bis, comma 4, c.p., in relazione agli artt. 3, 25, comma 2, e 27 Cost., è, oltre che non rilevante, altresì manifestamente infondata, in quanto l’esclusione dal bilanciamento tra attenuanti e aggravanti ivi prevista si fonda sul legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, estrinsecantesi in una tutela rafforzata del patrimonio nell’ambito dei luoghi di privata dimora, non potendo altresì ritenersi integrata la violazione del principio rieducativo della sanzione penale, essendo disponibile una gamma di opzioni sanzionatorie idonee a garantire la personalizzazione della pena, non irragionevoli e comunque proporzionate alla maggiore gravità del furto commesso all’interno di tali luoghi.
Più nel dettaglio, ad avviso del Collegio, il legislatore, anche nel caso della disciplina afferente al reato di furto in abitazione, così come per quella di omicidio e lesioni stradali, ha optato per un graduale ma inesorabile aggravamento del complessivo trattamento afflittivo predisposto dall’ordinamento penale nei confronti di aggressioni ritenute particolarmente allarmanti nei confronti del bene-patrimonio, poiché coinvolgenti spazi di vita privata ed individuale che rendono la condotta lesiva dotata di una carica di offensività potenziale molto più incisiva rispetto a quella contemplata nell’ipotesi base prevista dall’art. 624 cod. pen.
Si è perciò agito non soltanto sull’editto sanzionatorio, portato gradualmente entro un delta sempre più elevato, ma anche sul regime delle circostanze aggravanti, del loro bilanciamento e persino sul versante della ricerca di nuove forme di legittima difesa “anticipate”, che hanno rivelato come la ratio del legislatore in tale ambito tradisse una sorta di previsione di ineluttabile pericolo per l’incolumità individuale derivante dall’accesso in private dimore per compiere delitti contro il patrimonio quali quello previsto dall’art. 624-bis cod. pen. Le analogie tra la storia normativa del delitto di furto in abitazione e quello di omicidio e lesioni stradali, peraltro, trovano radici nella stessa genesi delle fattispecie, tutte “create” con funzione simbolica per “gemmazione” successiva rispetto a una disciplina incriminatrice comunque già preesistente, utile a coprire l’illecito.
In tale contesto, che rispecchia pienamente la valutazione parallela cui la Corte costituzionale richiama l’interprete per la verifica della legittimità di norme che irrigidiscano il bilanciamento normativo tra aggravanti e attenuanti, anche l’esame della questione centrale riferita alla non sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto ad un canone di offensività sicuramente di più elevato livello per l’ipotesi di furto ex art. 624-bis cod. pen., aggravata ai sensi dell’art. 625 cod. pen., dà esito favorevole nel 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale senso della tenuta costituzionale del divieto previsto dal quarto comma della citata disposizione di cui all’art. 624-bis.
Anche nel caso di tale previsione di divieto, infatti, ricorrono particolari esigenze di protezione di beni costituzionalmente tutelati, poiché il patrimonio della vittima viene aggredito mediante l’invasione di un luogo privato, dove si esprime la personalità individuale e si realizzano diritti inviolabili della persona (e, d’altra parte, viene inserita nella disposizione normativa l’esclusione dal divieto di bilanciamento di attenuanti speciali – quelle dell’art. 98 e dell’art. 625-bis cod. pen.- che contribuiscono alla razionalità complessiva della scelta legislativa). Gli effetti sanzionatori che ne derivano, pur essendo sicuramente connotati da maggior afflittività rispetto all’ipotesi aggravata di furto ex art. 624 cod. pen., non risultano tali da violare i principi di ragionevolezza e proporzionalità in termini riconducibili a quelli indicati dalla Consulta, essendo comunque collegati agli elementi peculiari che hanno caratterizzato l’agire dell’autore del delitto e l’oggettivo manifestarsi di quest’ultimo (è indubbia la più elevata pericolosità della condotta derivata dall’aver commesso il reato in più persone).
Tali elementi, precisa la Corte, costituiscono fattori tali da far sì che il reato si apprezzi in termini di particolare offensività e di spiccato disvalore. Inoltre, è possibile adeguatamente garantire l’individualizzazione della pena rapportandola al disvalore effettivo della condotta attraverso una scelta sanzionatoria che si muove in un range edittale sufficientemente ampio, tale da consentire razionali margini di manovra al giudice del caso concreto ed una adeguata personalizzazione della sanzione.
Né, infine, vengono in rilievo elementi di graduazione della rimproverabilità soggettiva, che potrebbero fondare dubbi riguardo alla suddetta esigenza di personalizzazione della risposta sanzionatoria, essendo le circostanze di cui all’art. 625 cod. pen. tutte idonee ad aggravare l’oggettiva manifestazione del reato. L’opzione normativa che si lamenta come incostituzionale, dunque, rientra invece nelle prerogative del legislatore.
* * *
Il 21 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 156, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131 bis del codice penale, inserito dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della l. 28 aprile 2014, n. 67», nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva.
In particolare, il Collegio osserva anzitutto come la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost. sia fondata.
Nel definire la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità, l’art. 131 bis cod. pen. stabilisce al primo comma che «[n]ei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Ai sensi del quarto comma del medesimo art. 131-bis, la determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma, di regola insensibile alle circostanze del reato, risente tuttavia di quelle a effetto speciale, a tal fine neppure suscettibili di bilanciamento; inoltre, per il quinto comma, «[l]a disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante».
Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, tale ultima disposizione indica che l’esistenza di un’attenuante, di cui la particolare tenuità del danno o del pericolo sia elemento costitutivo, di per sé non impedisce l’applicazione della causa di non punibilità, ma neppure la comporta automaticamente (sentenza n. 207 del 2017).
Ciò in quanto la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. richiede una valutazione complessiva di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, a norma dell’art. 133, primo comma, cod. pen., incluse quindi le modalità della condotta e il grado della colpevolezza, e non solo dell’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 aprile 2016, n. 13681).
Nel definire la ricettazione come delitto contro il patrimonio mediante frode, l’art. 648 cod. pen. stabilisce al primo comma che, «[f]uori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329».
Ai sensi del secondo comma del medesimo art. 648, «[l]a pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 516, se il fatto è di particolare tenuità».
La «particolare tenuità del fatto» di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen. integra una circostanza attenuante rientrante nel novero di quelle cosiddette indefinite o discrezionali (ancora sentenza n. 207 del 2017).
È acquisito invero che non si tratti dell’elemento costitutivo di un reato autonomo rispetto alla ricettazione-base di cui all’art. 648, primo comma, cod. pen., bensì di una circostanza attenuante speciale (tra le tante, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 24 marzo 2017, n. 14767, 25 gennaio 2013, n. 4032, 26 maggio 2011, n. 21010, e 14 ottobre 2008, n. 38803).
In linea astratta, dunque, per effetto del quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen., la particolare tenuità del fatto quale attenuante della ricettazione, come definita dall’art. 648, secondo comma, cod. pen., potrebbe concorrere a integrare l’esimente di cui al medesimo art. 131-bis, qualora, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento risulti non abituale.
Viceversa, per effetto del quarto comma dell’art. 131-bis cod. pen., che attribuisce rilevanza alle circostanze speciali quoad poenam, detta causa di non punibilità non può trovare applicazione in rapporto alla ricettazione attenuata di cui al secondo comma dell’art. 648 cod. pen., poiché questo fissa un massimo edittale di pena detentiva pari a sei anni di reclusione, quindi superiore al limite di cinque anni posto dalla norma esimente (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 12 aprile 2019, n. 16083, e 12 maggio 2017, n. 23419).
Aggiunto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2015, l’art. 131-bis cod. pen. segna il punto di arrivo di una linea di sviluppo avviata dall’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e proseguita dall’art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), i quali rispettivamente contemplano l’«irrilevanza del fatto» quale causa di improcedibilità nei confronti dell’imputato minorenne e la «particolare tenuità del fatto» quale causa di improcedibilità per i reati di competenza del giudice di pace.
Nell’illustrare gli elementi differenziali fra tali istituti, pur nella loro comune ispirazione di fondo, questa Corte ha rilevato che l’art. 131-bis cod. pen. «prevede una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge» (sentenza n. 120 del 2019).
Per delineare questa esimente generale, il legislatore del 2015 ha «considerato i reati al di sotto di una soglia massima di gravità – quelli per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, nonché quelli puniti con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva – e ha tracciato una linea di demarcazione trasversale per escludere la punibilità – ma non l’illiceità penale – delle condotte che risultino, in concreto, avere un tasso di offensività marcatamente ridotto, quando appunto l’“offesa è di particolare tenuità”» (ancora sentenza n. 120 del 2019).
Si è invero precisato che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione» (ordinanza n. 279 del 2017).
Per costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, le cause di non punibilità costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, sicché la loro estensione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria, giudizio che appartiene primariamente al legislatore (ex multis, sentenze n. 140 del 2009 e n. 8 del 1996).
Muovendo da tale premessa, questa Corte, nella sentenza n. 207 del 2017, ha rilevato che la scelta del legislatore in ordine all’estensione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. è sindacabile soltanto per «manifesta irragionevolezza».
Con la medesima sentenza, questa Corte ha dichiarato non fondate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., nella parte in cui non estende l’applicabilità dell’esimente all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., in ragione del massimo edittale di pena detentiva superiore ai cinque anni.
La declaratoria di infondatezza è stata motivata sia con un rilievo di inidoneità dei tertia comparationis elencati dal giudice a quo, troppo eterogenei per poter fungere da modello di una soluzione costituzionalmente obbligata, sia con l’esigenza di salvaguardare la discrezionalità legislativa espressasi nella posizione del limite massimo dei cinque anni, «che non può considerarsi, né irragionevole, né arbitrario», in quanto «rientra nella logica del sistema penale che, nell’adottare soluzioni diversificate, vengano presi in considerazione determinati limiti edittali, indicativi dell’astratta gravità dei reati».
La sentenza n. 207 del 2017 ha tuttavia rilevato l’«anomalia» della comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, in ragione dell’inconsueta ampiezza dell’intervallo tra minimo e massimo di pena detentiva (da quindici giorni a sei anni di reclusione), della larga sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (da due anni a otto anni), nonché dell’asimmetria scalare tra gli estremi del compasso, giacché «mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme».
La citata sentenza ha osservato che, «se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione», cioè una pena che, «secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività»: per ovviare all’incongruenza – si è aggiunto –, «oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità».
Astenutasi dal compiere siffatto intervento additivo, primariamente spettante alla discrezionalità legislativa, questa Corte ha ammonito il legislatore a farsene carico, «per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui».
Il legislatore non ha dato seguito a tale monito, pur essendo recentemente intervenuto sul testo dell’art. 131-bis cod. pen. per aggiungere, nel secondo comma, un’ipotesi tipica di esclusione della particolare tenuità, ove si proceda per delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero per violenza, minaccia, resistenza od oltraggio commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (art. 16, comma 1, lettera b, del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77).
Ed è proprio la circostanza che il legislatore non abbia sanato l’evidente scostamento della disposizione censurata dai parametri costituzionali che impone oggi a questa Corte di intervenire con il diverso strumento della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Come osservato nella sentenza n. 207 del 2017 circa la ricettazione attenuata, con un rilievo che può essere tuttavia formulato in termini generali, la mancata previsione di un minimo edittale di pena detentiva – e quindi l’operatività del minimo assoluto di quindici giorni stabilito per la reclusione dall’art. 23, primo comma, cod. pen. – richiama per necessità logica l’eventualità applicativa dell’esimente di particolare tenuità del fatto.
D’altronde, nella giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzionalità della sanzione penale, il minimo assoluto dei quindici giorni di reclusione ha identificato il punto di caduta di fattispecie delittuose talora espressive di una modesta offensività (sentenza n. 341 del 1994).
Nello specifico della comminatoria di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., l’assoluta mitezza del minimo edittale rispecchia una valutazione legislativa di scarsa offensività della ricettazione attenuata, «la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di rilevanza criminosa assolutamente modesta, talvolta al limite della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza» (sentenza n. 105 del 2014).
In linea generale, l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività.
Rispetto a queste ultime è dunque manifestamente irragionevole l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni di reclusione.
Il carattere generale dell’esimente di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis cod. pen. impedisce a questa Corte di rinvenire nel sistema un ordine di grandezza che possa essere assunto a minimo edittale di pena detentiva sotto il quale l’esimente stessa potrebbe applicarsi comunque, a prescindere cioè dal massimo edittale.
La stessa pena minima di sei mesi di reclusione, prevista per i reati menzionati dal giudice a quo come tertia comparationis, cioè furto, danneggiamento e truffa (artt. 624, primo comma, 635, primo comma, e 640, primo comma, cod. pen.), non è generalizzabile, neppure all’interno della categoria dei reati contro il patrimonio, ove solo si consideri la poliedricità del delitto di ricettazione.
Ben potrà il legislatore, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità in tema di estensione delle cause di non punibilità, fissare un minimo relativo di portata generale, al di sotto del quale l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. non potrebbe essere preclusa dall’entità del massimo edittale.
Qui deve tuttavia censurarsi, alla luce dell’art. 3 Cost., l’intrinseca irragionevolezza della preclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. per i reati – come la ricettazione di particolare tenuità – che lo stesso legislatore, attraverso l’omessa previsione di un minimo di pena detentiva e la conseguente operatività del minimo assoluto di cui all’art. 23, primo comma, cod. pen., ha mostrato di valutare in termini di potenziale minima offensività.
La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva, lascia intatti, ovviamente, tutti i requisiti applicativi dell’esimente che prescindono dall’entità edittale della pena.
Pertanto, anche nell’ipotesi di ricettazione attenuata ex art. 648, secondo comma, cod. pen., e in ogni altra ipotesi di reato privo di un minimo edittale di pena detentiva, l’esimente non potrà essere riconosciuta quando la valutazione giudiziale di cui all’art. 133, primo comma, cod. pen. sia negativa per l’autore del fatto o la condotta di questi risulti abituale ovvero, ancora, quando ricorra una fattispecie tipica di non tenuità tra quelle elencate dal secondo comma dell’art. 131-bis cod. pen.
Deve essere quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva.
Resta assorbita la questione sollevata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.
* * *
Il 2 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 24990 sul seguente quesito di diritto: “se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all’art. 62 c.p., n. 4, sia applicabile ai reati in materia di stupefacenti, e, in caso affermativo, se sia compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5”.
La questione compone di due nuclei problematici, collegati tra loro.
Il primo aspetto del problema attiene alla applicabilità della circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all’art. 62 c.p., n. 4, ai reati in materia di stupefacenti. Il secondo, ed eventualmente consequenziale, profilo della questione riguarda la compatibilità dell’attenuante in esame con l’autonoma fattispecie “di lieve entità”, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5″.
Secondo l’orientamento più risalente, la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62 c.p., n. 4, non sarebbe applicabile ai reati in materia di stupefacenti, nè sarebbe compatibile con la fattispecie prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5.
Con riferimento al primo dei profili indicati, la Corte di cassazione era pervenuta alla soluzione negativa sulla base di considerazioni, rimaste peraltro isolate, secondo le quali, nonostante il generico riferimento operato dall’art. 62 c.p., n. 4, ai “delitti determinati da motivi di lucro”, l’evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità deve sempre essere riferito a fatti di reato offensivi del patrimonio, nei quali non rientrano i reati in materia di sostanze stupefacenti, che sono invece “lesivi dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla sicurezza ed all’ordine pubblico, alla salvaguardia del sociale”.
Altre decisioni si inscrivono nell’indirizzo negativo seguendo un differente percorso argomentativo. Pur ammettendo l’astratta riferibilità dell’art. 62 c.p., n. 4, anche a reati diversi da quelli contro il patrimonio ma determinati da motivi di lucro, esse escludono l’applicabilità dell’attenuante ai reati in materia di stupefacenti per l’impossibilità di configurare un evento dannoso di speciale tenuità là dove i beni tutelati abbiano rango costituzionale.
Sulla premessa che, a seguito della riforma operata dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, per la configurabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, devono concorrere i due elementi dell’aver agito per conseguire, o l’aver comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità e dell’essere l’evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità, quelle decisioni sostengono che nei reati in materia di stupefacenti l’evento non potrebbe essere in alcun caso qualificato in termini di “speciale tenuità”, sia perchè le condotte contemplate e sanzionate dal Testo Unico sugli stupefacenti sono lesive dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla salvaguardia del sociale, alla sicurezza dell’ordine pubblico, di fronte ai quali resterebbe del tutto irrilevante la ridotta valenza del lucro conseguito, sia perchè occorre tener conto non dei soli danni immediati, ma anche di quelli non immediati, pur sempre ricollegabili all’uso delle sostanze stupefacenti.
Con riferimento al secondo profilo della questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, plurime pronunce hanno poi, più particolarmente, affermato l’incompatibilità della circostanza attenuante comune in esame con l’autonoma fattispecie di reato prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5. Secondo tali decisioni, al ricorrere della speciale tenuità del lucro, perseguito o effettivamente conseguito, e dell’evento dannoso o pericoloso, si verificherebbe sempre la coincidenza dei presupposti fattuali dell’attenuante con quelli che determinano il riconoscimento della fattispecie di “lieve entità” di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, sicchè la concessione dell’attenuante determìnerebbe una duplice valutazione degli stessi elementi e una conseguente, indebita duplicazione dei benefici sanzionatori.
All’orientamento esposto se ne contrappone un altro che, invece, ammette l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, ai reati in materia di stupefacenti e, in particolare, ai fatti “di lieve entità” di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5.
L’orientamento positivo ha in primo luogo chiarito che, a seguito delle modifiche recate dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, al testo dell’art. 62 c.p., n. 4., l’attenuante in esame è configurabile per ogni tipo di delitto purchè commesso per motivi di lucro, a prescindere dalla natura dell’offesa prodotta e dal bene protetto dalla norma incriminatrice. Ritenere ex lege presuntivamente esclusa tale attenuante per alcune categorie di fattispecie criminose, quali quelle riguardanti le sostanze stupefacenti, considerandola circoscritta ai soli reati offensivi del patrimonio, sarebbe contrario al chiaro tenore letterale della nuova disposizione ed avrebbe di fatto vanificato la portata della modifica normativa. Inoltre, ha affermato che l’introduzione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, imponeva una rimeditazione delle decisioni della Corte di legittimità affermative di una assiomatica esclusione dei reati in materia di stupefacenti dal possibile novero dei reati connotati da un evento di “speciale” tenuità”, posto che proprio con la nuova previsione lo stesso legislatore aveva ritenuto possibile qualificare in termini di “lieve entità” anche i reati in tema di stupefacenti.
La decisione, pronunciata allorchè la lieve entità dei fatti di cui al testè citato comma 5 costituiva un’attenuante speciale rispetto ai reati previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ha affermato altresì la compatibilità di detta attenuante con quella di cui all’art. 62 c.p., n. 4, posto che la prima si riferisce all’azione e all’oggetto materiale del reato, globalmente e unitariamente vagliati, mentre la seconda attiene unicamente al lucro e all’evento dannoso o pericoloso che siano connotati da speciale tenuità.
Lo stesso orientamento ha evidenziato che l’attenuante comune ex art. 62 c.p., n. 4, era stata ritenuta compatibile con le attenuanti speciali da “particolare tenuità del fatto” di cui all’art. 648 c.p., comma 2, e 323-bis c.p. – relative, al pari della diminuente prevista al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, a reati non annoverabili tra quelli posti a tutela del patrimonio.
Ha poi sottolineato che quelle attenuanti speciali si riferiscono al fatto di reato nella sua globalità – e quindi ai tradizionali elementi della condotta, dell’elemento psicologico e dell’evento, complessivamente considerati – mentre la prima attiene unicamente agli elementi del lucro e del danno, ciascuno dei quali deve essere connotato da speciale tenuità.
I principi affermati in merito alla generale compatibilità tra l’attenuante ex art. 62 c.p., n. 4 e i delitti in materia di stupefacenti sono stati ripresi da una successiva sentenza che, agli argomenti già spesi a supporto della tesi affermativa, affianca nuove argomentazioni desunte dal mutato quadro normativo di riferimento.
Viene in primo luogo contestata l’argomentazione, posta a base dell’opposto indirizzo interpretativo, secondo cui in caso di violazione della disciplina penale degli stupefacenti sarebbe impossibile il verificarsi di un evento dannoso o pericoloso “tenue”. Questo enunciato, “predicato in maniera tanto assoluta quanto apodittica”, sarebbe infatti “normativamente contraddetto dal chiaro disposto del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, il quale riconosce espressamente la possibilità che un fatto punibile ai sensi del citato art. 73 sia caratterizzato da minima offensività dei beni protetti, pure certamente primari e costituzionalmente garantiti”.
Sicchè il contrario indirizzo giurisprudenziale si porrebbe in contrasto non solo col chiaro tenore letterale dell’art. 62 c.p., n. 4, seconda parte, il quale prevede l’applicabilità dell’attenuante in questione a tutti i delitti determinati da motivi di lucro, ma anche col citato art. 73, comma 5.
Si osserva poi che l’assoluta impossibilità di un evento dannoso o pericoloso di lieve entità per i reati in materia di stupefacenti si rivela vieppiù insostenibile a seguito dell’introduzione della generale causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p..
Posto infatti che la pena edittale prevista per l’ipotesi lieve di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, rientra nei limiti di cui all’art. 131-bis, comma 1 e che gli elementi oggettivi di esclusione della particolare tenuità dell’offesa sono specificamente (e tassativamente) descritti nel comma 2 della medesima disposizione senza che tra essi figuri un qualsivoglia riferimento alla “categoria” dei delitti in tema di stupefacenti, deve ritenersi che la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., possa applicarsi alle condotte rientranti nella fattispecie di lieve entità.
Sicchè anche per tale via risulta confermata la possibilità che i delitti in materia di stupefacenti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, siano caratterizzati da minima offensività, tale da determinare alternativamente, previa scrupolosa verifica degli elementi indicati nelle norme testè citate, la qualificazione del fatto in termini di lieve entità D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, ovvero la sua non punibilità ex art. 131 bis c.p..
In definitiva, nell’attuale assetto normativo, totalmente differente da quello in cui iniziò ad affermarsi la tesi negativa, i delitti in materia di stupefacenti di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, non solo possono essere caratterizzati da minima offensività, tale da determinare la qualificazione del fatto in termini di lieve entità ex art. 73, comma 5, ma potrebbero risultare addirittura non punibili in ragione della particolare tenuità del fatto.
Nè, secondo l’orientamento in esame, può essere condiviso l’argomento secondo il quale il riconoscimento dell’attenuante del lucro di speciale tenuità prevista all’art. 62 c.p., n. 4, seconda parte, comporterebbe, in caso di condanna per il delitto di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, un’ingiustificata duplicazione di benefici sanzionatori.
La trasformazione dell’attenuante speciale prevista dal testo originario del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in autonoma fattispecie di reato, operata dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche dalla L. n. 10 del 2014, fa sì che a tale autonoma fattispecie delittuosa corrisponda ora una specifica cornice edittale. Deve pertanto escludersi che l’attenuante comune in esame, destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, possa determinare un’indebita duplicazione di benefici sanzionatori.
E ciò è tanto più vero in quanto quell’attenuante richiede per la sua applicazione l’esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell’offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5. Elemento consistente nell’essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell’avere l’agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità.
Tale prospettiva ermeneutica fonda la proposta soluzione positiva principalmente sulla trasformazione dell’attenuante speciale prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in fattispecie autonoma di reato. La presenza nell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, dell’elemento specializzante relativo alla “speciale tenuità” del lucro e del danno, diviene pertanto argomento secondario e rafforzativo di quello principale.
Le Sezioni Unite ritengono condivisibile la soluzione prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale più recente, secondo il quale la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62 c.p., n. 4 è applicabile ai reati in materia di stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato anch’esso da speciale tenuità, ed è compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.
Sull’applicabilità dell’attenuante in esame anche ai reati in materia di stupefacenti convergono dati testuali, teleologici e sistematici.
Prima dell’entrata in vigore della L. 7 febbraio 1990, n. 19, l’attenuante comune di cui all’art. 62 c.p., n. 4, era prevista nel caso di speciale tenuità del danno cagionato alla persona offesa ed era applicabile solo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio.
La novella testè citata ha aggiunto nella medesima disposizione un’ulteriore diminuente, applicabile a tutti i delitti determinati da motivi di lucro alla duplice condizione che sia il lucro perseguito od effettivamente conseguito dal reo, sia l’evento dannoso o pericoloso siano caratterizzati da speciale tenuità.
La Relazione illustrativa del disegno di legge dal quale origina il descritto intervento normativo, presentato dal Ministro della Giustizia alla Camera dei Deputati il 19 ottobre 1987 e rubricato “Modifiche in tema di circostanze attenuanti, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti”, espressamente riporta la nuova attenuante alla opportunità, per motivi di equità, di riformulare l’art. 62 c.p., n. 4, in modo simmetrico all’art. 61 c.p., n. 7, che già prevedeva l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non solo per i reati contro il patrimonio, ma anche per quelli determinati da motivi di lucro.
Nel proporre tale allineamento, il Governo segnalava che “peraltro, attribuendosi rilievo ai motivi del reato, non è parso congruo eccepire, come delimitazione oggettiva dell’operatività dell’attenuante, il parametro del danno patrimoniale di speciale tenuità arrecato alla persona offesa, che ne avrebbe contenuto la portata in margini eccessivamente ristretti e generalmente riferibili ai soli delitti che tutelano, esclusivamente o in via cumulativa, il patrimonio”, e fosse invece opportuno “prevedere che il danno (o il pericolo) di speciale tenuità che viene in rilievo non è quello patrimoniale bensì quello criminale”, sicchè, “così delineata, la diminuente viene a costituire un valido elemento a disposizione del giudice per una più equa correlazione della pena alla effettiva lesività della condotta criminosa”.
In definitiva, per consentire la piena attuazione del principio di proporzionalità della pena, alla struttura dell’attenuante di nuovo conio – riferita tanto al perseguimento o all’effettivo conseguimento di un lucro di speciale tenuità che alla produzione di un danno criminale (e non solo patrimoniale) di pari intensità e grado – non si accompagna – a differenza di quella preesistente, relativa ai soli delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio – alcuna selezione di categorie di reati operata in via astratta in relazione al bene giuridico protetto e senza considerare le specifiche caratteristiche del caso concreto.
L’inquadramento sistematico della disposizione in esame offre ulteriori conferme all’analisi testuale e teleologica.
Che ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti – cagionando la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici di primaria importanza e costituzionalmente protetti, quali la salute della persona e la sicurezza pubblica – comporti necessariamente, per sua natura, un evento dannoso o pericoloso, diretto o mediato, di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità è, prim’ancora che affermazione indimostrata, un assunto smentito da plurimi indici normativi.
Viene in primo luogo in rilievo il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 il quale prevede che una condotta punibile ai sensi dello stesso articolo possa connotarsi quale fatto “di lieve entità”. Infatti, ove la semplice individuazione del coacervo dei beni giuridici protetti dalle disposizioni penali in tema di stupefacenti fosse sufficiente, sempre e comunque, ad escludere la lieve entità dell’offesa in concreto ad essi arrecata nel caso di specie, quell’ipotesi delittuosa non sarebbe mai suscettibile di integrazione.
L’esistenza di quella fattispecie dimostra, al contrario – tanto sulla base della pertinente disciplina giuridica che della quotidiana esperienza giudiziaria – che anche per i delitti in materia di stupefacenti è senz’altro configurabile una lesione o messa in pericolo dei beni giuridici protetti caratterizzata da lieve entità.
Questa conclusione trova ulteriori riscontri sistematici nell’art. 131-bis c.p., che prevede la “non punibilità del fatto quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.
Infatti, l’istituto della non punibilità per particolare tenuità dell’offesa non connette alla mera individuazione del bene giuridico protetto alcun rilievo ai fini del giudizio sull’utilità e necessità della pena. Al contrario, il legislatore ha affidato la selezione delle fattispecie alle quali è applicabile quella causa di non punibilità alla considerazione della gravità del reato, desunta dalla pena edittale, e della non abitualità del comportamento; mentre nessuno degli altri indicatori idonei ad escludere la particolare tenuità dell’offesa elencati al comma 2 dello stesso art. 131-bis ha diretto e generale riguardo al tipo di bene giuridico protetto.
Ebbene, poichè la fattispecie delittuosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, rientra nei limiti di applicabilità dell’art. 131-bis c.p., appare evidente che il legislatore ha ritenuto la violazione di quel precetto penale suscettibile di produrre un’offesa ai beni giuridici tutelati qualificabile in termini di particolare tenuità, andando essa, in tal caso, esente da pena.
Conseguentemente, risulta smentito, sotto ulteriore e autonomo profilo, l’assunto – posto a base dell’orientamento che nega l’applicabilità ai reati in materia di stupefacenti dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità di cui all’art. 62 c.p., n. 4, – secondo cui ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti comporti necessariamente un evento dannoso o pericoloso di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità.
L’irrilevanza dell’astratta valutazione del tipo di bene protetto ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto consente tuttavia ulteriori, e più generali, valutazioni.
Le Sezioni Unite hanno più volte richiamato la costituzionalizzazione del principio di offensività, operata attraverso la lettura integrata di diverse norme della legge fondamentale, ribadendo che l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente, e apprezzabilmente, offensivi.
In tale prospettiva, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto, sicchè tipicità e offensività convergono sul piano ermeneutico, dovendosi considerare fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non effettivamente offensivi dell’interesse protetto.
Sulla scia di tali rilievi, le Sezioni Unite hanno altresì affermato che ai fini della configurabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità dell’offesa – pure per sua natura riferita a fatti certamente offensivi e perciò pienamente riconducibili alla fattispecie legale – non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica, ma è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore.
In definitiva, mentre l’esistenza nel caso concreto di un’effettiva, specifica offesa del bene giuridico protetto – qualunque esso sia – rappresenta condizione indefettibile per l’applicazione della fattispecie astratta, l’intensità e il grado di quell’offesa costituiscono il presupposto del giudizio di utilità e necessità della relativa pena, a prescindere dalla natura dell’interesse tutelato.
In entrambi i casi, dunque, seppure a fini diversi, assume decisivo rilievo la connotazione storica del fatto e l’accertamento, nel caso concreto, dell’esistenza, o meno, di un’apprezzabile offesa del bene giuridico protetto, che sia eventualmente caratterizzata da particolare tenuità.
Pertanto, non si dà tipologia di reato in cui sia inibita ontologicamente l’applicazione dell’istituto di cui al citato art. 131-bis.
Di più, il legislatore ha espressamente, e significativamente, disposto che tale istituto trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante (art. 131-bis c.p., comma 3). Dunque, anche in presenza di un danno di speciale tenuità, l’applicazione dell’art. 131-bis è pur sempre legata anche alla considerazione degli ulteriori indicatori a quello scopo rilevanti, afferenti alla condotta ed alla colpevolezza. E, per converso, quando ha voluto evitare che la graduazione del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all’entità della lesione sia travolta da elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge, il legislatore lo ha fatto esplicitamente: l’offesa non può essere ritenuta connotata da particolare tenuità quando la condotta ha cagionato, quale conseguenza non voluta, la morte o lesioni gravissime (art. 131-bis c.p., comma 2).
Risulta così accolta in tutto e per tutto la concezione gradualistica del reato nitidamente scolpita nell’insegnamento della risalente, ma sempre autorevole dottrina secondo cui: nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere e nella individualità criminosa nella quale si estrinseca; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato perchè l’uomo deve essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni.
Da una parte, quindi, la tenuità del danno o del pericolo cagionati al bene giuridico protetto può – e deve – essere considerata – se, come nell’art. 62 c.p., n. 4, normativamente previsto – sia per attenuare la pena, che, eventualmente, ai sensi ed alle condizioni dell’art. 131-bis c.p., per escluderne la necessità. Dall’altra, la relativa verifica dovrà avere ad oggetto, in entrambi i casi, non già l’astratta considerazione della natura giuridica del bene protetto, bensì il grado di effettiva offensività del fatto nel caso concreto.
Trova così conferma, in termini rinnovati e più estesi, la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, a seguito della nuova formulazione dell’art. 62 c.p., n. 4, recata dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 2, la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità è applicabile ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, purchè la speciale tenuità riguardi congiuntamente l’entità del lucro (conseguendo o conseguito) e dell’evento dannoso o pericoloso.
Come l’offensività della condotta costituisce un presupposto generale per la rilevanza penale del fatto qualunque sia il reato ascritto all’imputato, così la circostanza attenuante in esame attraversa tutti i reati commessi a scopo di lucro. Sicchè, una volta verificato che il delitto è stato commesso a fini di lucro, il giudice di merito deve valutare, in concreto, la ricorrenza, o meno, della speciale tenuità riferita sia al lucro perseguito o conseguito dall’autore del reato, sia all’evento dannoso o pericoloso causato nel caso di specie.
Teorizzare in via generale la non applicabilità dell’attenuante a categorie di reati individuate in ragione dell’astratta riferibilità a un dato bene giuridico, affermando che, anche ad ipotizzare la speciale tenuità del lucro conseguibile dall’imputato, “non sarebbe comunque mai soddisfatta la seconda condizione prevista dall’art. 62 c.p., n. 4, e cioè la speciale tenuità del danno o del pericolo conseguente all’azione”, comporta null’altro che la generalizzata esclusione – sempre e comunque – dell’applicabilità dell’attenuante in esame, sulla base di considerazioni sganciate dalla concreta connotazione storica del fatto e in contrasto con la rilevata finalità del legislatore di estendere l’applicabilità dell’attenuante a tutti i delitti determinati da motivi di lucro.
Potendo in concreto verificarsi che l’evento dannoso o pericoloso conseguente a un delitto commesso per motivi di lucro – indipendentemente dalla natura giuridica del bene protetto, e quindi anche, come del resto normativamente previsto, in materia di stupefacenti presenti una gradualità non necessariamente superiore alla soglia della “speciale tenuità”, tanto da essere generalmente ipotizzabile, in disparte dell’oggetto giuridico tutelato, l’esenzione da pena conseguente, ex art. 131-bis c.p., alla particolare tenuità del fatto.
Resta peraltro fermo, in ossequio al tenore letterale dell’art. 62 c.p., n. 4, che l’attenuante in parola è applicabile solo ai delitti, essendo essa incompatibile con le fattispecie di natura contravvenzionale.
Viene data risposta affermativa anche al secondo quesito oggetto di contrasto, relativo alla compatibilità della circostanza attenuante in esame con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.
Non può essere infatti condiviso l’argomento secondo il quale il riconoscimento dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità prevista all’art. 62 c.p., n. 4, seconda parte, comporterebbe, in caso di condanna per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la duplice valutazione del medesimo elemento e, conseguentemente, un’ingiustificata duplicazione di benefici sanzionatori.
Inizialmente catalogato dalla giurisprudenza di legittimità come circostanza attenuante, l’istituto previsto dal testo originario del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è stato trasformato in autonoma fattispecie di reato dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10.
Tale novella rispondeva peraltro all’esigenza, da più parti segnalata, di riconoscere, a fronte del severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nel citato art. 73, diverse tipologie di condotte caratterizzate da specifiche e più adeguate previsioni edittali in funzione della loro ridotta offensività, nella consapevolezza del carattere variegato e mutevole del corrispondente fenomeno criminale e nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente al principio costituzionale di proporzionalità della pena, evitando automatismi decisori nell’adeguamento della pena al fatto.
Tenuto conto del contesto normativo appena descritto, le Sezioni Unite ritengono in primo luogo fondato il rilievo – espresso nelle argomentazioni più recentemente portate a sostegno dell’orientamento giurisprudenziale che ammette la compatibilità dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità coll’ipotesi delittuosa del fatto di lieve entità – secondo il quale la trasformazione dell’attenuante speciale originariamente prevista al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, in ipotesi di reato autonomo, come tale dotata di specifica cornice edittale, fa sì che l’attenuante comune in esame sia ormai destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, sicchè in tal caso non si verifica, come paventato dall’opposto indirizzo interpretativo, alcun cumulo di benefici sanzionatori tra loro concorrenti.
Tale conclusione appare del resto perfettamente in linea con la ratio dell’operata trasformazione normativa, espressamente volta a dare consistenza ai principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza della pena in materia di stupefacenti, conformando il sistema penale di settore alla multiforme varietà delle relative condotte e del loro effettivo disvalore ed emancipando il giudice, in tale ambito, da rigidi meccanismi di determinazione del trattamento sanzionatorio.
L’accoglimento della opposta tesi, preclusiva dell’applicazione dell’attenuante, comporterebbe infatti un rigido limite nella modulazione della pena al fatto storico, e comporterebbe che, anche in presenza di un lucro e di un’offesa di speciale tenuità, l’imputato non possa beneficiare di un eventuale e specificamente motivato – giudizio di bilanciamento con le aggravanti che fossero state contestate in relazione alla fattispecie di cui al citato art. 73, comma 5.
A ciò deve aggiungersi che ove il legislatore ha voluto affermare l’incompatibilità di una specifica attenuante con la nuova fattispecie delittuosa lo ha fatto con espressa disposizione.
In sede di conversione del D.L. n. 146 del 2013, la L. n. 10 del 2014 ha infatti modificato l’art. 19, comma 5, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, stabilendo che la diminuente della minore età non opera per i delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ai fini della determinazione del limite di pena rilevante in ordine all’applicazione delle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere nei confronti degli imputati minorenni.
Al contrario, al momento della trasformazione dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5 in fattispecie autonoma di reato, non è stata espressamente esclusa la compatibilità con la nuova ipotesi delittuosa dell’attenuante comune di cui all’art. 62 c.p., n. 4, risultando anche per questa via confermata, in applicazione della regola ermeneutica condensata nel brocardo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, la preclusione dell’interpretazione restrittiva.
Che il riconoscimento dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità comporti, in caso di condanna per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la duplice valutazione del medesimo elemento costituisce del resto assunto smentito dalla diversità dei presupposti necessari per l’integrazione del fatto di lieve entità rispetto a quelli conformativi dell’attenuante comune in esame.
Infatti, mentre la valutazione della “lieve entità” del fatto ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è relativa alla condotta – avuto riguardo ai mezzi, alla modalità e alle circostanze dell’azione – e all’oggetto materiale del reato – in relazione alla qualità e quantità delle sostanze -, la verifica della “speciale tenuità” rilevante per il riconoscimento dell’attenuante di cui alla seconda parte dell’art. 62 c.p., n. 4, attiene ai motivi a delinquere (lucro perseguito), al profitto (lucro conseguito) e all’evento (dannoso o pericoloso) del reato.
Si tratta quindi, contrariamente all’asserzione posta a fondamento della tesi restrittiva, di valutazioni focalizzate su elementi tra loro ontologicamente distinti, ancorchè in astratto suscettibili di convergere nell’accertamento del complessivo disvalore del fatto storico.
Si tratta, inoltre, in ogni caso, di valutazioni di diversa natura e diverso grado: la prima, attinente alla “lieve entità del fatto”, è unitaria e complessiva, non scandita da un ordine gerarchico degli elementi allo scopo rilevanti, per ciascuno dei quali è possibile un giudizio di parziale o totale compensazione; la seconda, relativa alla “speciale tenuità” del lucro e dell’offesa, indica due temi specifici e distinti, suscettibili di opposte conclusioni nel medesimo caso di specie e ancorati ad un parametro di maggiore intensità e pregnanza rispetto a quello rilevante per l’integrazione della fattispecie “lieve”.
Sicchè, anche sotto questo profilo, trova conferma l’indirizzo interpretativo secondo cui l’attenuante “richiede per la sua applicazione l’esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell’offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5. Elemento consistente nell’essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell’avere l’agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità”.
Esclusa l’incompatibilità logica e normativa tra la fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e l’attenuante del lucro/offesa di speciale tenuità, il riconoscimento di tale attenuante nel caso concreto resta tuttavia affidato ad una puntuale ed esaustiva verifica, della quale il giudice di merito deve offrire adeguata giustificazione, che dia consistenza sia all’entità del lucro perseguito o effettivamente conseguito dall’agente, che alla gravità dell’evento dannoso o pericoloso prodotto dalla condotta considerata.
Dovendosi tale ultimo elemento riferire alla nozione di evento in senso giuridico, esso è infatti idoneo a comprendere qualsiasi offesa penalmente rilevante, purchè essa, come concretamente accertata, si riveli di tale particolare modestia da risultare “proporzionata” alla tenuità del vantaggio patrimoniale che l’autore del fatto si proponeva di conseguire o ha in effetti conseguito.
Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “La circostanza attenuante del lucro e dell’evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5”.
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Il 3 settembre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione Civile n. 18288, alla stregua della quale, in tema di illeciti amministrativi di cui al d.lgs. n. 196/2003 (cd. “codice della privacy”), la fattispecie prevista dall’art. 164 bis, comma 2, costituisce non un’ipotesi aggravata rispetto alle violazioni semplici ivi richiamate, ma una figura di illecito del tutto autonoma, atteso che essa prevede la possibilità che vengano infrante dal contravventore, anche con più azioni ed in tempi diversi, una pluralità di ipotesi semplici, unitariamente considerate dalla norma con riferimento a «banche di dati di particolare rilevanza o dimensioni», sicché, in caso di concorso di violazioni di altre disposizioni unitamente a quella in esame, ne deriva un’ipotesi di cumulo materiale delle sanzioni amministrative.
2021
Il 29 gennaio esce la sentenza delle Sezioni Unite Penali della Cassazione n. 3585, che ha affrontato la seguente questione di diritto: «se il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale, contenuto nell’art. 649-bis cod. pen. ai fini della procedibilità d’ufficio per taluni reati contro il patrimonio, vada inteso come riguardante anche la recidiva qualificata di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 99 dello stesso codice».
Il d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, osserva anzitutto la Corte, ha tradotto in regole operative le direttive fissate dalla legge delega n. 103 del 2017, ponendo mano al comparto dei reati a tutela della persona e del patrimonio previsti dal codice penale, per introdurre il nuovo regime di procedibilità a querela in luogo di quello officioso previgente.
Accanto alla sfera dei reati contro la persona attinta dalla riforma (artt. 2-6 d.lgs. cit.), la tecnica di selezione delle fattispecie perseguibili a querela nell’ambito dei reati contro il patrimonio ha riguardato i delitti di truffa (art. 640 cod. pen.), di frode informatica (art. 640-ter cod. pen.) e, per quello che più interessa, la fattispecie di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.), rispetto alla quale resta ferma la procedibilità a querela anche in quelle situazioni che, in passato, determinavano la procedibilità d’ufficio, quali la realizzazione del delitto su cose possedute a titolo di deposito necessario (art. 646, secondo comma, cod. pen.) ovvero con abuso di autorità o di relazioni domestiche o, ancora, con abuso di relazioni di ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità (art. 61, primo comma, n. 11, cod. pen.).
L’area della procedibilità a querela subisce, però, una rilevante limitazione in presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale.
I nuovi artt. 623-ter e 649-bis cod. pen., introdotti, rispettivamente, dagli artt. 7 e 11 del decreto legislativo sopra indicato, dispongono la procedibilità ex officio in presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale. Nella Relazione illustrativa del decreto legislativo n. 36 del 2018 si legge che l’ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela è teso a migliorare l’efficienza del sistema penale e «costituisce un punto di equilibrio e di mediazione fra due opposte esigenze: da un lato, quella di evitare che si determinino meccanismi repressivi automatici in ordine a fatti che non rivestono particolare gravità, tali da ostacolare il buon governo dell’azione penale in riferimento a quelli seriamente offensivi; dall’altro quello di fare emergere e valorizzare l’interesse privato alla punizione del colpevole in un ambito di penalità connotato dall’offesa a beni strettamente individuali.
In tale ultimo caso, il ricorso alla procedibilità a querela dipende principalmente dalla necessità di condizionare la repressone penale di un fatto, astrattamente offensivo, alla valutazione in concreto della sua gravità da parte della persona offesa. In questi casi, la procedibilità a querela funziona come indicatore della concreta intollerabilità di singoli episodi conformi alla fattispecie incriminatrice».
La Relazione aggiunge che, ampliando l’area della procedibilità a querela, si può ottenere anche l’effetto aggiuntivo, «parimenti importante in una logica di riduzione dei carichi processuali, di favorire meccanismi conciliativi, che spesso si concludono proprio nelle fasi preliminari del giudizio, quando si avverte più impellente l’esigenza di evitare l’aggravio e il pericolo del processo, prima ancora che della condanna».
In relazione a reati che già prevedono la procedibilità a querela nelle ipotesi base, il legislatore ha provveduto a ridurre il novero delle circostanze aggravanti alla cui ricorrenza è collegato l’effetto della procedibilità d’ufficio (ad esempio art.612 cod. pen.). Il medesimo obiettivo di riduzione dei presupposti della procedibilità d’ufficio è stato perseguito per i reati contro il patrimonio: truffa (art. 640 cod. pen.) e frode informatica (art. 640-ter cod. pen.).
Quanto al contenuto specifico dei singoli articoli, di particolare importanza, ai fini che qui interessano, è l’art. 10, che estende il regime della procedibilità a querela anche alle ipotesi aggravate del reato di appropriazione indebita, relative al fatto commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità. In tali ipotesi assumono rilevanza interessi e relazioni di carattere strettamente personale per le quali la perseguibilità della relativa offesa non può che essere rimessa a una iniziativa del soggetto privato.
L’articolo 11 prevede la conservazione della procedibilità d’ufficio nei casi in cui ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale «tra cui, la finalità di terrorismo e di eversione di cui all’articolo 1 decreto-legge n. 625 del 1979, di mafia di cui all’articolo 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 o di discriminazione razziale, etnica e religiosa di cui all’articolo 3 del decreto-legge n. 122 del 1993» (cfr. in tal senso la Relazione illustrativa)
L’ordinanza di rimessione nel suo sviluppo argomentativo mostra di condividere l’assunto da cui muove il ricorso. L’appropriazione qualificata da aggravante ad effetto speciale è perseguibile d’ufficio. La recidiva qualificata, prevista nelle ipotesi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 99 cod. pen. è una circostanza aggravante ad effetto speciale, in quanto comporta un aumento della pena superiore ad un terzo (art. 63, terzo comma, cod. pen.), come peraltro espressamente affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 20798 del 24.2.2011, Indelicato.
Il Collegio rimettente rileva, però, che nella giurisprudenza di legittimità formatasi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 36 del 2018 la questione proposta non risulta essere stata risolta con una motivazione che si sia fatta carico di affrontare tutti i nodi problematici della questione e che dal panorama delle pronunce di legittimità possono evincersi due differenti linee interpretative, che scaturiscono da diverse concezioni in ordine alla natura giuridica della recidiva ed ai peculiari meccanismi accertativi e valutativi ad essa sottesi.
Un primo filone giurisprudenziale trova espressione in una pronuncia delle Sezioni unite (Sez. U, n. 3152 del 31/01/1997, Paolini, cit.) che ha affermato il principio secondo il quale la recidiva non è compresa nelle circostanze aggravanti che rendono il reato di truffa perseguibile d’ufficio, perché, inerendo esclusivamente alla persona del colpevole, non incide sul fatto-reato.
L’ordito motivazionale che sorregge l’enunciazione di tale principio di diritto muove dalla modifica dell’art. 640 cod. pen., introdotta dall’art. 98 della legge 24 novembre 1981 n. 689, che aveva aggiunto il seguente comma: «Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante». Sin dalle prime applicazioni del suddetto comma, la giurisprudenza di legittimità aveva assunto due opposti orientamenti in ordine alla inclusione della recidiva fra le circostanze aggravanti indicate nella nuova disposizione. Il problema, come indicato nella citata sentenza Paolini, era quello di qualificare o meno la recidiva, al fine della perseguibilità di ufficio del reato di truffa, quale “circostanza aggravante”.
Sul punto Sez. U. Paolini rilevano che il codice penale si occupa della recidiva non nella parte che riguarda il reato, ma in quella che si riferisce al reo e, precisamente, nel Capo secondo del Titolo quarto del Libro primo, dedicato anche alla abitualità e alla professionalità nel reato, ossia a quelle condizioni personali alle quali più si avvicina la condizione del recidivo. Il che, ad avviso delle Sez. U, è coerente con il rilievo che, «la recidiva qualifica il soggetto, ma resta del tutto estranea alla fattispecie legale, comunque circostanziata, del reato.
Essa, infatti, a differenza di altre condizioni personali che incidono sulla tipicità del reato (ad esempio: la qualifica di pubblico ufficiale per i reati di concussione, abuso innominato di ufficio, ecc.), incide esclusivamente sulla quantità della pena da infliggere in concreto, alla stessa stregua delle condizioni economiche previste dall’art. 133-bis cod. pen.».
Della diversità della recidiva rispetto alle altre circostanze, comuni e speciali, si annota nella predetta sentenza, è stato ben consapevole il legislatore del 1930, che ha escluso la recidiva dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. in base alla considerazione (cfr. Relazione al progetto definitivo del codice penale) che le circostanze inerenti alla persona del colpevole, ossia l’imputabilità e la recidiva, «escono, per così dire, fuori dal quadro della equivalenza o della prevalenza, essendo del tutto eterogenee rispetto alle altre circostanze comuni e speciali» e che «le regole sulla prevalenza e sulla equivalenza sono applicabili soltanto in quanto si rimanga nel campo delle vere e proprie circostanze che modificano esclusivamente la quantità del reato, rappresentandone una accidentalità, una modalità, una causalità».
E coerentemente, anche in tema di concorso di persone nel reato, il legislatore ha riservato alle circostanze inerenti alla persona del colpevole una valutazione diversa rispetto alle altre circostanze soggettive (art. 118 cod. pen. nel testo ratione temporis vigente).
Secondo le Sez. U Paolini, la riforma del 1974 non ha smentito il fondamento della originaria distinzione operata dal legislatore, avendo semplicemente eliminato l’evidente antinomia tra il fine del giudizio di bilanciamento, rivolto all’individualizzazione del trattamento punitivo tenendo anche conto «della particolare personalità del reo considerata sotto ogni aspetto sintomatico», e la rigida limitazione di tale giudizio ad una valutazione complessiva del disvalore materiale del fatto. Sulla base di tali considerazioni la sentenza giunge alla conclusione che la recidiva «è una “circostanza aggravante” sui generis, che ha rilevanza solo quando sia presa in considerazione la misura della pena, mentre non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato, al quale resta estranea».
La sentenza percorre anche un ulteriore e convergente itinerario argomentativo, individuando la ratio della perseguibilità a querela del reato di truffa nei suoi sottostanti aspetti civilistici, che divengono recessivi rispetto agli interessi pubblicistici nel caso in cui ricorra una circostanza aggravante.
Osserva che le ragioni della procedibilità a querela del reato di truffa, introdotta dall’art. 98 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sono state puntualmente evidenziate dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 294 del 1987, nella quale si è sottolineato che la legge n. 689 del 1981 non soltanto ha tenuto conto della non rilevante gravità degli illeciti per i quali si è introdotto il regime della perseguibilità a querela, ma ha dato rilievo decisivo alla finalità di conseguire, anche per questa via, una significativa deflazione dei carichi giudiziali, ritenuta necessaria per l’effettiva funzionalità della giustizia penale.
A tale esigenza si affianca, come si legge nella Relazione di accompagnamento alla legge, quella «di evitare che l’azione penale venga iniziata o proseguita, senza o addirittura contro la volontà di coloro che per essere i titolari degli interessi meritevoli di maggiore protezione sono abilitati a chiedere l’intervento del giudice penale».
Proprio in tale prospettiva, Sez. U Paolini evidenzia che il legislatore ha, comunque, voluto escludere dalla punibilità a querela anzitutto il reato di truffa aggravato ai sensi del capoverso dell’art. 640 e, cioè, il caso in cui il fatto assuma la tipicità descritta dalla norma stessa, equiparandovi poi, in seconda battuta, anche le altre circostanze aggravanti.
«La rimarcata equiparazione», afferma la sentenza Paolini, «deve fare ritenere che il legislatore abbia voluto includere solo le circostanze che, come quelle previste dal capoverso dell’art. 640, incidono sulla quantità del fatto», ritenendo, per contro, «indifferente la misura della pena» derivante dall’applicazione delle circostanze stesse».
A queste considerazioni logico-giuridiche, ritenute decisive, Sez. U Paolini ne aggiunge altre, tutte conducenti alla medesima conclusione. Non si riscontrano precedenti ipotesi di perseguibilità d’ufficio per effetto della sola aggravante della recidiva. Sarebbe contraddittorio ritenere che il legislatore abbia voluto attribuire tale effetto alla recidiva nel momento stesso in cui ha ampliato il campo della procedibilità dell’azione penale a querela della persona offesa proprio in relazione al reato di truffa «che, nella forma semplice, il legislatore ha voluto escludere dalla punibilità d’ufficio in considerazione dei suoi aspetti civilistici, i quali non vengono certo alterati dalle condizioni personali del reo».
Il principio della estensione della querela a tutti i concorrenti, affermato dall’art. 123 cod. pen., «postula che il reato debba essere individuato sulla base della sua astratta struttura oggettiva, sia in relazione agli elementi costitutivi sia in relazione a quelli accidentali, con nessuno dei quali può identificarsi la condizione personale di recidivo di un singolo compartecipe». Infine, sarebbe assurdo sottrarre la perseguibilità penale al potere dispositivo della persona offesa in base ad una mera presunzione di maggiore capacità a delinquere del recidivo, la quale può essere esclusa, in concreto, dal giudice del dibattimento.
Il principio affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata è stato espressamente richiamato e condiviso da altre e più recenti pronunce di seguito indicate, che, ad eccezione della prima di esse, sono successive alle rilevanti modifiche in tema di recidiva apportate dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 e a due decisioni delle Sezioni unite (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè; Sez. U, n. 20798 del 24/2/2011, Indelicato).
La Seconda Sezione penale, con la sentenza n. 1876 del 19/11/1999, dep. 2000, Aliberto, nel ribadire l’orientamento espresso da Sez. U Paolini, ha affermato che la recidiva è un’aggravante che inerisce esclusivamente alla persona autrice del fatto e non può comunicarsi agli altri compartecipi, poiché non incide sul fatto- reato, sulla sua natura e sulla sua gravità oggettiva. Pertanto, non assume rilievo ai fini del regime di procedibilità.
Una seconda e più recente pronuncia (Sez. 2, n. 26029 del 10/06/2014, Folgori), nel fare proprio il principio di diritto espresso dalle Sez. U Paolini, osserva che la ratio del particolare regime di procedibilità prescelto dal legislatore per il delitto di truffa deve essere ricercata anche nella rilevanza degli aspetti civilistici sottesi a tale reato, i quali, però, in presenza di circostanze aggravanti, non possono prevalere sugli interessi pubblicistici. In tale contesto ha aggiunto che la truffa è un reato che ha valenza meramente intersoggettiva, lesivo di un interesse prevalentemente privato.
Da qui la logica della avulsione di una aggravante sui generis, come la recidiva, dal novero di quelle per le quali si giustificherebbe il regime di procedibilità ex officio. La decisione argomenta che tale approdo interpretativo è da «condividere e ribadire anche alla luce delle più recenti disposizioni dettate dalla legge n. 251 del 2005 le quali hanno acuito i connotati “personalistici della recidiva”, rendendone ancor più peculiare il relativo regime».
La recidiva – si legge nella citata sentenza – è una «circostanza senz’altro “speciale” rispetto a quelle che “ordinariamente” sono chiamate a qualificare in termini di maggior disvalore il fatto-reato». D’altra parte, si aggiunge, «il carattere ordinariamente “facoltativo” della recidiva che continua a contraddistinguere la recidiva (…) e che impone al giudice di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore e di escludere l’aumento di pena, con adeguata motivazione sul punto, ove non ritenga che dal nuovo delitto possa desumersi una maggiore capacità delinquenziale, induce a concludere nel senso che una siffatta “circostanza” mal si presti a “giustificare” (sul piano non soltanto logico ma anche sistematico) la trasformazione della procedibilità in quella officiosa».
Questa interpretazione è stata seguita da altre pronunce (Sez. 2, n. 29529 del 01/07/2015, Di Stefano; Sez. 2, n. 2990 del 01/10/2015, dep. 2016, Saltari; Sez. 2, n. 18311 del 28/01/2016, Dicembre; Sez. 2, n. 38396 del 29/04/2016, Meocci; Sez. 7, n. 42880 del 26/09/2016, Battaglia; Sez. 2, n. 1907 del 20/12/2016, dep. 2017, Camozzi; Sez. 2, n. 47068 del 21/09/2017, Mininni).
Principi analoghi sono stati espressi da due pronunce relative al regime di procedibilità del delitto di cui all’art. 612 cod. pen. (Sez. 5, n. 30453 del 01/04/2019, Cabello, n.m. e Sez. 6, n. 35880 dell’11/07/2019, Della Rocca, n.m.) commesso da soggetti ai quali era stata contestata ed applicata la recidiva qualificata.
Tali decisioni, preso atto della nuova procedibilità a querela anche per il reato di minaccia grave, hanno ritenuto che la contestazione della recidiva qualificata non precluda l’applicabilità della nuova disciplina in tema di procedibilità del suddetto reato.
Pur nell’assenza di decisioni che abbiano specificamente sviluppato argomentazioni a sostegno della contrapposta tesi favorevole alla incidenza della recidiva qualificata sulla procedibilità d’ufficio dei reati interessati dalla riforma introdotta dal d.lgs. n. 36 del 2018, la genesi di un diverso orientamento può trarsi da due decisioni che, in presenza della contestazione della recidiva qualificata, ritenuta sussistente dal giudice, hanno ritenuto che tale circostanze aggravante ad effetto speciale determina la procedibilità d’ufficio del reato di appropriazione indebita (Sez. 7, ord. n. 11440 del 24/09/2019, dep. 2020, Grillo, n.m.) e di truffa (Sez. 2, n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave).
L’orientamento contrario all’incidenza della recidiva sulla procedibilità d’ufficio si fonda sulla natura giuridica della recidiva intesa come aggravante “speciale” che non incide sulla gravità del fatto-reato a differenza di quelle che, “ordinariamente”, sono chiamate a qualificarlo in termini di maggior disvalore.
Deve, però. rilevarsi che una ricostruzione sensibilmente differente della natura giuridica della recidiva è stata oggetto di particolare valutazione da parte di altre e più recenti decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte dalle quali possono trarsi indicazioni utili anche sullo specifico versante della sua rilevanza sulla procedibilità del reato.
In linea con l’interpretazione elaborata dalla giurisprudenza costituzionale, la natura di circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole ed il carattere discrezionale della recidiva, anche qualificata, sono stati ribaditi con chiarezza dalla giurisprudenza di legittimità, tanto che può ritenersi ormai consolidato l’orientamento secondo il quale non può ritenersi conforme ai principi fondamentali in tema di ragionevolezza, proporzione e funzione rieducativa della pena enunciati dalla Costituzione una concezione della recidiva quale status soggettivo desumibile dal certificato penale che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.
Nel 2010 le Sezioni Unite hanno precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e ad ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
E hanno ritenuto che solo qualora la recidiva venga apprezzata come indice di maggiore colpevolezza e pericolosità essa produce tutti i suoi effetti. In tali ipotesi, infatti, essa, oltre che “accertata” nei presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), è anche “ritenuta” dal giudice ed “applicata” (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè). Una successiva decisione delle Sezioni unite (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato) ha ricondotto la recidiva qualificata alla categoria delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, atteso che le ipotesi previste ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 99 cod. pen. comportano un aumento della pena superiore ad un terzo.
Ha, inoltre, confutato la concezione dell’istituto come status formale del soggetto, in base al rilievo che la recidiva produce effetti unicamente ove il giudice non solo verifichi l’esistenza del presupposto formale desumibile dai precedenti penali, ma proceda anche al riscontro sostanziale della “più accentuata colpevolezza” e della “maggiore pericolosità”.
La citata sentenza muove dalla premessa che le circostanze costituiscono lo strumento giuridico attraverso il quale il legislatore provvede ad adeguare la risposta sanzionatoria alla variabile gravità di fatti criminosi già tipici, correlata alla sussistenza di ulteriori elementi, predeterminati in via generale ed astratta attraverso la previsione legale delle singole e molteplici situazioni circostanziali.
Richiama, quindi, la partizione fra circostanze soggettive ed oggettive e quella fra circostanze definite, caratterizzate dalla descrizione legislativa della situazione circostanziante, e circostanze indefinite che, in assenza di tale compiuta indicazione, affidano al giudice la concreta valutazione degli elementi rilevanti ai fini della variazione della pena (cfr., ad esempio, l’art. 62-bis cod. pen.), nonché l’ulteriore distinzione fra circostanze discrezionali ed obbligatorie, le quali ultime, a fronte della realizzazione della fattispecie circostanziata, comportano inevitabilmente la variazione di pena.
Infine, sotto il profilo degli effetti applicativi, menziona la classificazione, delineata dall’art. 63 cod. pen., tra circostanze che comportano una variazione della pena stabilita per il reato di tipo frazionario, in misura non superiore a un terzo, e circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di “specie diversa” (v. art. 17 cod. pen.) da quella ordinaria del reato o “ad effetto speciale”, intendendosi 11 /;2/ con tale ultima definizione quelle che comportano un aumento o una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo.
La sentenza non disconosce che l’istituto della recidiva è connotato da una marcata ambivalenza, desumibile dalla stessa sistematica del codice penale, ma, nel ripercorrere la complessa ed articolata elaborazione giurisprudenziale maturata dopo l’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, afferma che non è conforme ai principi generali di un moderno diritto penale, espressivo dei valori costituzionali, una concezione della recidiva quale status soggettivo correlato al solo e semplice dato formale della ricaduta nel reato dopo una previa condanna passata in giudicato, che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.
Evidenzia che la recidiva, al pari di altri elementi la cui natura circostanziale non è posta in discussione, «esplica un’efficacia extraedittale», permettendo di fissare la sanzione finale oltre i limiti propri della comminatoria edittale, e, al contempo, «assolve alla funzione di commisurazione della pena», adeguando la sanzione al fatto, considerato sia nel suo obiettivo disvalore, sia nella relazione qualificata con il suo autore.
Sulla base di tali rilievi giunge alla conclusione che la recidiva è una circostanza pertinente al reato «che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale».
Supera, pertanto, definitivamente l’orientamento interpretativo espresso dalle Sezioni Unite Paolini che, pronunziandosi in tema di procedibilità d’ufficio del delitto di truffa, avevano qualificato la recidiva come circostanza aggravante sui generis, osservando che la stessa connota il soggetto, ma resta del tutto estranea alla fattispecie, comunque circostanziata, del reato, e «non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato», assumendo rilevanza «solo quando sia presa in considerazione la misura della pena».
Secondo Sez. U Indelicato l’orientamento fatto proprio dalla precedente decisione del 1987, «dilatando il richiamo alla personalità dell’agente oltre i limiti di immediata e diretta rilevanza per la valutazione dello specifico episodio, mal si concilia con un diritto penale del fatto, rispettoso del principio di colpevolezza fondato sulla valutazione della condotta posta in essere dal soggetto nella sua correlazione con l’autore di essa.
Il giudizio sulla recidiva non riguarda l’astratta pericolosità del soggetto o un suo status personale svincolato dal fatto reato. Il riconoscimento e l’applicazione della recidiva quale circostanza aggravante postulano, piuttosto, la valutazione della gravità dell’illecito commisurata alla maggiore attitudine a delinquere manifestata dal soggetto agente, idonea ad incidere sulla risposta punitiva – sia in termini retributivi che in termini di prevenzione speciale – quale aspetto della colpevolezza e della capacità di realizzazione di nuovi reati, soltanto nell’ambito di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente» espressivo di una maggiore colpevolezza e di una maggiore pericolosità dell’autore del fatto.
Chiarita la natura della recidiva quale circostanza aggravante, Sez. U Indelicato osservano che l’art. 69 cod. pen., nel regolare il concorso fra circostanze aggravanti ed attenuanti ai fini del trattamento sanzionatorio, annoverano chiaramente la recidiva tra le circostanze ai fini del giudizio di bilanciamento.
Tale approdo esegetico è stato condiviso da una successiva decisione delle Sezioni Unite la quale ha ribadito che la recidiva costituisce «una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quegli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore» (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino).
Anche la Corte costituzionale più volte intervenuta, a seguito della novella del 2005, in relazione al nuovo regime della recidiva, nel ricostruire i principi sottesi all’istituto, ne ha individuato il fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo.
«Conformemente ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (sentenza n. 192 del 2007).
Tale orientamento ha trovato seguito in successive pronunce (ordinanze n. 409 del 2007, nonché n. 33, 90, 193 e 257 del 2008, e n. 171 del 2009) con le quali si è definitivamente esclusa la conformità ai principi costituzionali di una lettura dell’art. 99 cod. pen. basata su qualsiasi forma di automatismo tale da elidere la discrezionalità del giudice.
L’adesione alla concezione della recidiva quale circostanza aggravante comporta il riconoscimento che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerta i requisiti costitutivi e la dichiara, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo da accertarsi discrezionalmente, con obbligo specifico di motivazione sia nel caso che venga riconosciuta sia nell’ipotesi che venga esclusa (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Marcianò, Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi).
La recidiva deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art.69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè).
Una norma può dirsi applicata «se concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso» Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, cit.).
In tale prospettiva, all’atto del giudizio di comparazione, l’applicazione della recidiva si è già verificata, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario (Sez. U. n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, cit.). La recidiva ha esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena (Sez. U., n. 17 del 18/06/1991, Grassi, cit.).
I principi enunciati da Sez. U Grassi, Calibé, Filosofi sono stati ulteriormente sviluppati da Sez. U n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, in relazione all’ipotesi di subvalenza della recidiva rispetto ad una o più circostanze attenuanti all’esito del giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen.
La citata decisione ribadisce che la recidiva costituisce una circostanza aggravante del reato che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quegli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore, tanto sul piano normativo che su quello logico.
Il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all’origine delle regole poste dall’art. 69 cod. pen. Quest’ultima disposizione indica chiaramente che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente – che in quanto fatto compiuto non può più essere negato – ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena (Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, cit.).
Le considerazioni sinora svolte consentono di giungere alle seguenti conclusioni.
L’art. 649-bis cod. pen., ai fini della procedibilità d’ufficio, attribuisce specifico rilievo alle “circostanze aggravanti ad effetto speciale.”
L’art. 12 preleggi, nel dettare le principali regole di interpretazione, dispone che nell’applicare la legge «non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore».
Costituisce, ormai, un vero e proprio diritto vivente l’affermazione che la recidiva costituisce una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato e che la stessa, nella sua espressione “qualificata”, è una circostanza aggravante ad effetto speciale.
La recidiva, ove ritenuta sussistente dal giudice, rientra, in quanto circostanza aggravante, nel giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti previsto dall’art. 69 cod. pen. Il giudizio di equivalenza o di subvalenza della recidiva rispetto alle circostanze attenuanti nell’ambito del giudizio di bilanciamento ai sensi dell’art. 69 cod. pen. non elide la sussistenza della recidiva stessa e gli effetti da essa prodotti ai fini del regime di procedibilità e non rende il reato perseguibile a querela di parte, ove questa sia prevista per l’ipotesi non circostanziata (Sez. 2, n. 37482 del 06/06/2019, Torre; Sez. 5, n. 14648 del 12/02/2019, Mercadante; Sez. 5, n. 10363 del 06/02/2019, Gennaro; Sez. 2, n. 24754 del 09/03/2015, Massarelli).
Rimane da verificare se la discrezionalità della valutazione giudiziale circa la sussistenza dei presupposti (sostanziali) della recidiva possa determinare ricadute negative sulla individuazione del regime di procedibilità e possa conciliarsi con le esigenze deflattive perseguite dal legislatore. Una parte della dottrina, pur riconoscendo la natura circostanziale della recidiva, argomenta che essa non può incidere sul regime di procedibilità, dovendo le deroghe all’obbligatorietà dell’azione penale fondarsi su dati certi e di tempestiva riscontrabilità.
La concreta possibilità di verificare la sussistenza del fondamento reale dell’aggravante ex art. 99 cod. pen. solo in una fase avanzata del processo rischia di introdurre una sorta di procedibilità d’ufficio “provvisoria” e sub iudice, finendo inevitabilmente per affidare lo stesso esercizio dell’azione penale a criteri incerti e di natura sostanzialmente valutativo-prognostica.
A titolo esemplificativo si osserva che il pubblico ministero, prima di scegliere se dare avvio al procedimento, dovrebbe pronosticare se l’esistenza di precedenti penali, di cui non è sufficiente la mera formale ricorrenza, possa essere ritenuta, in sede giudiziale, indice di maggiore colpevolezza e di più accentuata pericolosità.
Tutto questo viene ritenuto incompatibile con il carattere di obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. E’ stato altresì evidenziato che, qualora la valutazione giudiziale abbia esito negativo, il risultato non potrà che essere quello di dichiarare “non doversi procedere” per l’eventuale mancanza della querela, ma solo a processo pressoché ultimato, con frustrazione delle stesse finalità di deflazione dei carichi processuali che ha ispirato l’estensione dei casi di procedibilità a querela da parte del legislatore del 2017-2018, non dissimilmente da quello del 1981.
Altri Autori rilevano, poi, che un effetto potenzialmente pregiudizievole per l’autore del reato, qual è la procedibilità di ufficio rispetto alla perseguibilità a querela, «non può farsi dipendere dalla previa contestazione» – pur necessaria – «del solo presupposto formale» dato dalle (o dalla) precedenti condanne e che non appare plausibile che tale contestazione dia luogo ad una procedibilità d’ufficio provvisoria, suscettibile di lasciare eventualmente il passo, a giudizio del tutto (o pressoché) ultimato, ad una riemergente perseguibilità a querela.
Esiste una sostanziale incommensurabilità tra il giudizio discrezionale su cui si fonda l’accertamento della recidiva e quello – preventivo ed astratto, a carattere legale e non giudiziale – riguardante la gravità «tipizzata» del reato che deve fondare il regime di procedibilità.
Con riguardo alle sollevate perplessità merita ricordare che la Corte costituzionale ha più volte affermato, con specifico riguardo alla perseguibilità a querela costituente, nel nostro ordinamento, una deroga alla obbligatorietà dell’azione penale, che la scelta delle forme di procedibilità coinvolge la politica legislativa e deve, quindi, rimanere affidata a valutazioni discrezionali del legislatore, presupponendo bilanciamenti di interessi e opzioni di politica criminale spesso assai complessi, sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità (cfr., ex plurimis, ord. n. 324 del 2013; n. 91 del 2001; n. 354 del 1999; n. 204 del 1988; n. 294 del 1987; sent. n. 274 del 1997; n. 7 del 1987; n. 216 del 1974).
La Corte costituzionale ha, inoltre, osservato che la scelta legislativa di escludere l’influenza del giudizio di comparazione tra le circostanze sul regime di procedibilità del reato, operata nell’ambito della disciplina generale che regola il regime di valutazione delle circostanze, non è da considerare arbitraria (ord. n. 354 del 1999).
La natura della recidiva quale circostanza del reato rende, inoltre, evidente che, in presenza della sua contestazione, il giudice, chiamato a valutarne la sussistenza, compie un giudizio ontologicamente identico a quello che effettua in rapporto ad altre circostanze del reato e, in quanto investito di un potere discrezionale, ha l’obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione.
La giurisprudenza di legittimità, sia pure con riguardo all’istituto della prescrizione, ha avuto modo di escludere potenziali aspetti di frizione fra la previsione di un regime differenziato per il soggetto recidivo ed i principi desumibili dalla Costituzione in considerazione del maggior allarme sociale provocato dal comportamento di chi, rendendosi autore di reiterate condotte criminose, mette maggiormente a rischio la sicurezza pubblica (Sez. 2, n. 31811 del 02/07/2015, Angileri; Sez. 5, n. 31064 del 02/11/2016, dep. 2017, Conte; Sez. 5, n. 57694 del 05/07/2017, Panza; Sez. F, n. 38806 del 27/07/2017, Mari).
All’obiezione che la necessaria certezza processuale verrebbe a dipendere da una provvisoria contestazione, su base meramente formale, della recidiva, destinata magari in seguito a venire meno in ragione della valutazione del giudice è possibile rispondere che la questione coinvolge non solo la recidiva, contestata dal pubblico ministero e successivamente ritenuta insussistente dal giudice, ma, allo stesso modo, qualsiasi altra aggravante che abbia incidenza sulla procedibilità.
Tali situazioni trovano una risposta fisiologica in sede processuale, ove l’art.129 cod. proc. pen., impone, in ogni stato e grado del procedimento, l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, fra le quali rientra anche la mancanza di una condizione di procedibilità.
In ordine alla ventilata frustrazione delle finalità deflattive non può che richiamarsi la Relazione illustrativa del d.lgs n. 36 del 2018, in cui viene affermato che l’articolo 11 prevede la conservazione della procedibilità d’ufficio per i reati contro il patrimonio oggetto dell’intervento normativo nei casi in cui ricorrano “circostanze aggravanti ad effetto speciale”, categoria questa che ricomprende indubbiamente la recidiva qualificata.
L’obiezione che la rilevanza della recidiva qualificata ai fini della procedibilità del reato verrebbe ad incidere sulle posizioni dei coimputati, i quali si troverebbero ad essere assoggettati a un diverso regime di procedibilità per un fatto a loro totalmente estraneo, è del tutto superata alla luce della riformulazione dell’art. 118 cod. pen., secondo cui le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono.
Ne consegue che la perseguibilità d’ufficio opererebbe solo nei confronti dei coimputati recidivi, considerato che essa è una circostanza aggravante attinente alle condizioni e qualità personali del colpevole. Una disciplina diversificata della procedibilità rispetto a coimputati del medesimo reato non è peraltro estranea al sistema penale: si pensi, ad esempio, alle ipotesi disciplinate dall’art. 649, secondo comma, cod. pen. (perseguibilità del reato a querela nei confronti dei congiunti ivi indicati e d’ufficio nei confronti dei concorrenti estranei).
Può, quindi, affermarsi che il riconoscimento giudiziale, con specifica motivazione, della sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale quale la recidiva qualificata determina la procedibilità d’ufficio per i reati indicati nell’art. 649-bis cod. pen.
Deve dunque enunciarsi il seguente principio di diritto: «il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale contenuto nell’art. 649-bis, cod. pen., ai fini della procedibilità d’ufficio, per i delitti menzionati nello stesso articolo, comprende anche la recidiva qualificata – aggravata, pluriaggravata e reiterata – di cui all’art. 99, secondo, terzo e quarto comma cod. pen.».
Venendo all’esame del ricorso, va rilevato come lo stesso, sulla scorta delle superiori premesse, risulta fondato. Il Tribunale di Cosenza ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Annunziato Li Trenta con riguardo al delitto di appropriazione indebita continuata aggravata dall’abuso di relazioni di prestazione di opera (art. 61 n. 11 cod. pen.), per essere il reato estinto per remissione di querela, senza considerare la contestazione della recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale che, qualora ritenuta sussistente, avrebbe determinato la procedibilità d’ufficio del reato, ai sensi dell’art. 649-bis cod. pen. Il Tribunale ha omesso, sul punto, qualsiasi motivazione. La sentenza in oggetto deve essere, pertanto, annullata con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro.
Questioni intriganti
Cosa sono le circostanze del reato?
- si tratta di elementi accessori della fattispecie penale, che si aggiungono come tali ai relativi elementi costitutivi, collocandoglisi “intorno”;
- il reato è dunque già – nei relativi elementi essenziali – strutturalmente perfetto rispetto agli elementi circostanziali, che gli risultano meramente accidentali ed accessori;
- sul crinale degli effetti, la presenza di circostanze fa sì che muti la gravità dell’inadempimento-reato dal punto di vista di chi lo ha commesso (soggettivo) o di come lo ha commesso (oggettivo), mutando per conseguenza anche l’entità della pena comminata al reo, in senso sia quantitativo che – talvolta – qualitativo; in sostanza, muta la c.d. cornice edittale della pena comminabile, con effetti sia dal punto di vista della prescrizione del reato (art.157 c.p.) sia dal punto di vista schiettamente processuale (ad esempio, art.4 c.p.p. in tema di competenza);
- il fatto-inadempimento-reato, siccome concretamente atteggiantesi, presenta un determinato disvalore tanto nella relativa versione base, o semplice, quanto nelle ipotesi in cui alla versione base si aggiungano altri elementi;
- attraverso le circostanze, il fatto-inadempimento-reato viene cucito dal punto di vista individuale su chi lo ha commesso e su come lo ha commesso, recando seco anche una evidente individualizzazione e personalizzazione della responsabilità penale;
- in forza del principio di legalità, la circostanza è lo strumento con il quale la legge determina – individualizzandola – la pena comminabile rispetto al fatto inadempimento reato siccome concretamente posto in essere, dovendosi la discrezionalità del giudice muoversi nello spazio edittale dalla legge medesima tracciato;
- in tal modo il principio di legalità garantisce la piena legittimità della efficacia di extra-edittalità spiegata dalle circostanze;
Come si categorizzano le circostanze del reato?
- aggravanti se la pena di cui alla fattispecie base viene aumentata, ed attenuanti se viene diminuita;
- comuni se sono riferibili ad ogni genere di reato (articoli 61 e 62 c.p.), e speciali o specifiche se possono afferire solo a determinate fattispecie; per le circostanze comuni la afferibilità a ciascuna singola fattispecie di reato base dipende ovviamente anche dalla compatibilità strutturale;
- ai sensi dell’art.70 c.p., oggettive se più avvinte agli elementi oggettivi del reato, e soggettive laddove maggiormente calibrate sui soggetti, rispettivamente, autore e vittima del fatto inadempimento reato; miste (categoria dottrinale) laddove vi siano presenti tanto elementi oggettivi che soggettivi, con la conseguenza onde, dal momento che ai sensi dell’art.118 le circostanze soggettive non si estendono ai compartecipi, nel dubbio il principio del favor rei impone di assumere le circostanze aggravanti miste come soggettive (e dunque non estensibili);
- ai sensi dell’63, comma 3, c.p. ad effetto comune se la variazione di pena dipende – a livello frazionario – dalla pena ordinaria del reato; autonome se si applica una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il reato base; indipendenti, se la pena che si applica è della stessa specie di quella del reato base, ma determinata in modo indipendente (non frazionario) rispetto a quella (non vi è più traccia di questa categoria nel novellato art.63, comma 3, c.p., ma la si ritrova tuttora intatta all’art.69, comma 4, c.p.); ad effetto speciale, se la variazione della pena indotta dalla circostanza, rispetto al reato base, è di tipo frazionario ma superiore ad un terzo; nel caso delle circostanze autonome e di quelle ad effetto speciale, in presenza di altre circostanze la variazione della pena non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza, rispettivamente, autonoma o ad effetto speciale o anche, per taluni, indipendente (trattasi di regime importante ai fini della competenza ex art.4 c.p.p. ed ai fini dell’applicazione delle misure cautelari ex art.278 c.p.p.);
- intrinseche, se sono strettamente legate alla condotta del soggetto agente (come nel caso dell’aver adoperato sevizie), ed estrinseche, laddove avvinte in misura più evanescente alla condotta del soggetto agente (come nell’ipotesi in cui il soggetto agente aggravi ex post le conseguenze del fatto inadempimento reato);
- antecedenti, se precedono la condotta dell’agente (ad esempio nella colpa con previsione), concomitanti, se accompagnano la ridetta condotta (ad esempio nell’uso di sevizie), e susseguenti, se seguono la condotta in parola (tipico il caso della riparazione integrale del danno prodotto dal fatto inadempimento reato);
- definite, se il legislatore tassativamente definisce gli elementi in presenza dei quali scatta la variazione sanzionatoria, e indefinite, o generiche, o libere, o ancora arbitrarie ovvero innominate, laddove sia presente un palmare deficit di tassatività in punto di descrizione degli elementi in presenza dei quali muta la quantità del regime sanzionatorio che colpisce il reo; in questo ultimo caso, si tratta di fattispecie nelle quali aumenta grandemente la discrezionalità del giudice non già solo in punto di quantificazione del trattamento sanzionatorio ma, ancora più a monte, in punto di identificazione – sul crinale fattuale – degli elementi circostanziali, come nelle fattispecie in cui il legislatore si esprime additando i “casi di particolare gravità” o i “casi più gravi”; in queste ipotesi – laddove si tratti di circostanze aggravanti – la previsione normativa entra in rotta di collisione con il principio di tassatività della fattispecie e, per il relativo tramite, con l’art.25, comma 2, Cost.; frizione non predicabile invece quando si abbia a che fare con circostanze attenuanti, come dimostra la previsione delle d. attenuanti generiche prevista dall’art.62.bis c.p.. Né potrebbe ragionevolmente affermarsi che il principio di tassatività della fattispecie penale afferisca si soli elementi costitutivi della fattispecie medesima, lasciando fuori gli elementi circostanziali, essendovi comunque implicata la libertà personale del soggetto agente.
Da cosa vanno distinte le circostanze del reato?
- dagli elementi costitutivi del reato medesimo, che ne “costituiscono” appunto il nucleo essenziale di perfezionamento come fatto inadempimento reato; dal punto di vista ontologico, diventa spesso difficile capire se un elemento della fattispecie ne è parte costitutiva, ovvero meramente accessoria; l’esempio classico è quello dell’abuso d’ufficio ex art.323 c.p., che si compendia – a livello “basic” di elemento costitutivo – nell’abuso dei poteri inerenti alla pubblica funzione da parte dell’pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio; quel medesimo abuso di poteri che – rispetto ad altre fattispecie – implica invece mera circostanza aggravante comune ai sensi dell’art.61, n.9 c.p.);
- dalle c.d. circostanze di esclusione della pena di cui all’59, comma 1, c.p., in quanto la circostanza in senso tecnico muta la pena, non la esclude;
- dalle c.d. circostanze improprie, vale a dire gli indici di gravità del reato ed i connessi criteri di commisurazione della pena ex art.133 c.p., che si riferiscono in realtà al reato base ed operano all’interno della cornice edittale di tale reato base, senza poterne implicare un mutamento o comunque una estensione;
- dai mutamenti della pena pecuniaria ex 133 bis, comma 2, c.p., tanto in aumento che in diminuzione, funzionali ad adeguare la sanzione pecuniaria alle condizioni economiche del reo; in questo caso tuttavia si discute in quanto: d.1) il fatto che il mutamento della pena pecuniaria venga applicato dal giudice quando egli ha già complessivamente valutato il disvalore del fatto sospinge nel senso di escludere che si sia in presenza di una circostanza in senso tecnico; d.2) il fatto, tuttavia, che la pena muti in via extraedittale porta invece ad accostare, anche tecnicamente, la fattispecie alle vere e proprie circostanze.
Cosa impone di distinguere nettamente la circostanza dall’elemento costitutivo del reato’
- il bilanciamento: la circostanza – ai sensi del novellato (1974) art.69 c.p. – può essere bilanciata con un’altra circostanza di senso opposto di qualsiasi tipo (le aggravanti con le attenuanti, e viceversa), ma non con un elemento costitutivo del reato;
- l’imputazione: gli elementi costitutivi devono essere coperti dal dolo (ed eccezionalmente dalla colpa), mentre le circostanze, se attenuanti, vengono imputate a livello oggettivo (e dunque anche se non conosciute dal soggetto agente) e se aggravanti, vengono imputate se colposamente non conosciute o assunte insussistenti per errore colposo;
- il concorso di persone: se si tratta di elementi costitutivi, si applica l’art.116 o l’art.117 c.p. (muta il titolo del reato, e si fa riferimento per l’appunto ai relativi elementi costitutivi); se si tratta di circostanze, la norma che viene in rilievo è l’art.118 c.p., trattandosi di reato in concorso con riferimento al quale si valutano in modo differente le circostanze (elementi accessori) relative ai singoli soggetti agenti partecipi;
- la territorialità; se si tratta di elemento costitutivo della fattispecie, può configurarsi un fatto inadempimento reato almeno in parte commesso in Italia (“parte” dell’azione od omissione), con punibilità appannaggio del giudice italiano; se invece si tratta di mera circostanza (elemento accessorio), la punibilità resta appannaggio del giudice dello Stato in cui il fatto è stato commesso;
- il tentativo: mentre il tentativo circostanziato di delitto viene generalmente ammesso (la circostanza è accessoria al tentativo di delitto), il tentativo di delitto circostanziato viene da parte della dottrina assunto inconfigurabile (la circostanza è qui accessoria al delitto del cui tentativo si tratta), onde se si tratta di circostanza (e non di elemento costitutivo), potrebbe essere difficile assumere configurabile il tentativo in determinate fattispecie, in quanto non si tratterebbe di tentativo di delitto (elemento costitutivo), ma di tentativo di delitto circostanziato (circostanza);
- la prescrizione: se si tratta di circostanze (e non di elementi costitutivi), esse – se aggravanti – incidono sul termine di prescrizione del reato solo se prevedono pene di specie diversa da quella prevista dalla legge in via ordinaria, ovvero se sono ad effetto speciale (legge 251.05, c.d. ex-Cirielli).
Come si distinguono gli elementi costitutivi del reato dagli elementi (accessori) circostanziali?
- criterio della accessorietà: un elemento è circostanziale se accessorio, mentre è costitutivo se è essenziale nel contesto della fattispecie di fatto inadempimento reato. E’ tuttavia difficile, nei casi specifici, capire se un elemento è essenziale ovvero meramente accessorio rispetto alla fattispecie tipica;
- criterio della specialità: un elemento è circostanziale se è speciale rispetto alla fattispecie base della pertinente figura criminosa, sicché si hanno elementi della fattispecie incriminatrice costitutivi (genus) ed altri elementi che li specificano (species) quali peculiari ipotesi di essi, specie in termini di “variante di intensità”; in sostanza, mentre il reato semplice è la fattispecie base, il reato circostanziato ne è una sottofattispecie specializzante; quando invece vi è incompatibilità o esclusione reciproca, si è al cospetto di due reati autonomi, e dunque degli elementi costitutivi dell’uno e dell’altro, e non già di una circostanza rispetto ad un reato base; quando una fattispecie è elemento costitutivo di altra fattispecie (come lo è il furto rispetto alla rapina), si ha rapporto di specialità, ma non circostanza, che invece ricorre quando una fattispecie è sottofattispecie dell’altra. Proprio il fatto che esistono anche figure di reato che sono autonome, e tuttavia specializzanti rispetto ad altre (del pari autonome) porta ad assumere tale criterio come poco appagante, potendo essere difficile verificare, nei singoli casi, se si è al cospetto di una mera sottofattispecie (elemento circostanziale), ovvero di una fattispecie speciale ed autonoma (elemento costitutivo);
- criterio della struttura normativa: un elemento è circostanziale se è contenuto – nell’ambito della fattispecie penalmente rilevante – in un precetto di natura “secondaria” che si rivolge al giudice al fine di consentirgli la concreta determinazione della pena, mentre è costitutivo se – nell’ambito della struttura logica della norma – si rivolge, come precetto di natura “primaria”, ai consociati, rappresentando ciò che va o non va fatto, pena la sanzione. E’ tuttavia difficile, nei casi specifici, capire se l’elemento di che trattasi, nell’ambito della fattispecie, è previsto da un precetto primario, ovvero secondario;
- criterio del bene (interesse) giuridico offeso: un elemento è circostanziale se non altera il profilo dell’offesa all’interesse penalmente tutelato, mentre laddove è idoneo ad incidere sul vulnus a tale interesse si tratta piuttosto di elemento costitutivo. E’ tuttavia difficile in concreto verificare il discrimen, anche perché distinguere tra elementi che offendono il bene (interesse) penalmente tutelato ed elementi che sono solo “circostanti” rispetto a tale offesa presuppone l’operazione preliminare di circoscrivere l’offesa, talvolta impedita proprio dalla difficoltà di distinguere gli elementi costitutivi da quelli circostanziali;
- criterio del favor rei: nel dubbio, si deve ritenere che un elemento sia essenziale e costitutivo piuttosto che circostanziale, anche perché nel primo caso occorre normalmente il dolo, mentre nel secondo il criterio di imputazione appare meno favorevole al reo: si tatta di una opzione ermeneutica garantista, che ha perso vigore da quando (legge 19.90) le circostanze aggravanti non sono più imputate al reo a titolo oggettivo, ma a titolo ormai soggettivo (legato alla colpa). Peraltro, si tratta di un criterio distintivo che – ispirato al garantismo – non vale al fine di distinguere gli elementi costitutivi dalle circostanze attenuanti (piuttosto che aggravanti); e che, per una sorta di eterogenesi dei fini, potrebbe risultare più penalizzante per il soggetto attivo, sottraendolo al potenziale giudizio di bilanciamento (laddove, nel dubbio, vede appunto un elemento costitutivo piuttosto che una circostanza). Si è nel tempo fatta strada anche una tesi giustapposta, onde nel dubbio deve assumersi essere in presenza di circostanze, e non già di elementi costitutivi, per i quali sarebbe prevista la “espressa” previsione nella legge incriminatrice (art.1 c.p. e art.25, comma 2, Cost.): la dottrina più accreditata ha tuttavia risposto che tali disposizioni valgono in egual misura tanto per gli elementi costitutivi che per quelli circostanziali, esprimendo il fondamentale principio di legalità.
In cosa consiste il c.d. reato circostanziato?
- si tratta di una figura forgiata dalla dottrina penalistica recente;
- in sostanza, le circostanze presenti fanno luogo ad una fattispecie incriminatrice nuova ed autonoma
- si ha allora una fattispecie incriminatrice base “indipendente” ed una o più fattispecie incriminatrici circostanziate che sono “dipendenti”, dal punto di vista sistematico, rispetto alla fattispecie base;
- muovendo da questo presupposto, non si parla più di concorso di circostanze, ma di concorso, in qualche modo, di reati, ovvero di fattispecie incriminatrici circostanziate (dipendenti);
- vi possono essere ricadute sistematiche di tipo semplificatorio, come nel caso del c.d. delitto circostanziato, il cui tentativo è pianamente ammissibile nel caso in cui le circostanze non vengano per l’appunto intese quali elementi accessori rispetto ad una fattispecie base, quanto piuttosto quali elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice diversa, autonoma e dipendente, il delitto circostanziato appunto (e non già il delitto + le circostanze), che nella forma tentata diventa tentativo di delitto circostanziato. Sul crinale del c.d. bilanciamento peraltro, non ci si trova più al cospetto di molteplici circostanze rispetto al reato base (bilanciabili), ma di più delitti circostanziati in concorso tra loro (ex lege eccezionalmente capaci di bilanciarsi in termini di concreta dosimetria della pena).