Corte di Cassazione, VI Sezione Penale, 1 agosto 2024, n. 31605
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: se, nell’ambito delle attività di ‘bancoposta’ svolte da Poste Italiane Spa ai sensi del D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la “raccolta del risparmio postale” (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata da Poste per conto della Cassa depositi e prestiti – art. 2, comma 1, lett. b) reg. cit. e art. 2, comma 1, lett. b) D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 284) – abbia natura pubblicistica e, nel caso positivo, se l’operatore di Poste Italiane Spa addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ai sensi degli artt. 357 e 358 cod. pen.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Motivi della decisione
- Il primo motivo, che inerisce alla erronea qualificazione giuridica del fatto in termini di peculato, pone il tema della qualifica soggettiva da attribuirsi al dipendente di Poste Italiane Spa nell’esercizio delle attività di bancoposta, con particolare riguardo alla raccolta e gestione del risparmio postale.
Sul punto, da epoca risalente si è delineato nella giurisprudenza di legittimità un contrasto, la cui risoluzione ritiene il Collegio di dover rimettere al vaglio delle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen.
- La questione è rilevante ai fini del decidere.
Contrariamente a quanto prospettato dalla difesa con il secondo motivo di ricorso, la Corte di appello ha fatto applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte di legittimità, in forza del quale la distinzione tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen. va individuata con riferimento alle modalità di acquisizione del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui che è oggetto di appropriazione.
Ricorre il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del proprio ufficio o servizio, mentre è ravvisabile la truffa aggravata quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri, tal che, nelle ipotesi di peculato, le condotte di falsificazione documentale o i diversi artifici costituiscono un post factum non punibile, in quanto compiuti per conseguire un risultato ulteriore finalizzato all’occultamento o al perfezionamento della materiale appropriazione della res (tra le molte, Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 2018, Alfieri, Rv. 273395 -01; Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282 – 01).
La sentenza impugnata ha accertato che il ricorrente, nella qualità di consulente della struttura bancoposta dell’ufficio di appartenenza, si appropriava delle somme rivenienti dal disinvestimento di prodotti finanziari e destinate al reinvestimento in analoghi prodotti (buoni postali fruttiferi e quote del fondo obbligazionario Banco Posta), evidenziando il carattere “recessivo” della condotta truffaldina, stante l’autenticità della modulistica in tesi accusatoria contraffatta, del resto già riconosciuta dal primo Giudice, il quale aveva assolto l’imputato dai delitti di falso di cui agli artt. 476 e 493 cod. pen.
Più in dettaglio, la sentenza di primo grado – che con quella impugnata si integra a formare un unitario corpo argomentativo – ha ricostruito come A.A. trasferisse gli importi svincolati e confluiti sui conti correnti postali dei clienti sul proprio conto corrente o su altro a lui riferibile, in quanto aveva accesso alla cassa dell’ufficio postale e alla banca dati informatica, che gli consentiva di compiere autonomamente operazioni sulle giacenze dei conti correnti postali e sugli stessi buoni postali fruttiferi. L’acquisizione della sottoscrizione dei clienti sui moduli di investimento, che egli non registrava nel sistema, ma su cui apponeva il timbro “Guller” di Poste Italiane così da far credere che fossero stati invece regolarmente inoltrati per l’acquisto, non era all’evidenza finalizzata al conseguimento della disponibilità del danaro ma all’occultamento ex post della condotta appropriativa, permettendogli di agire indisturbato, senza che i titolari si avvedessero degli ammanchi.
2.1. In ogni caso, anche ove si accedesse ad una diversa qualificazione giuridica del reato, egualmente sussisterebbe la necessità di una pronuncia risolutiva del contrasto.
Difatti, si porrebbe la medesima questione in relazione alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 9, cod. pen., correlata all’abuso del ruolo di pubblico agente ovvero alla violazione dei doveri inerenti a tale qualifica, ipotizzabile in relazione alla truffa.
- In via di premessa, deve altresì precisarsi che, nel definire le qualifiche soggettive di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, rispettivamente previste dagli artt. 357 e 358 cod. pen., il legislatore della riforma attuata con legge 26 aprile 1990, n. 86 ha optato per il criterio c.d. oggettivo-funzionale, che impone di privilegiare non la qualità, pubblica o privata, dell’ente alle cui dipendenze il soggetto operi, bensì la attività che egli abbia concretamente realizzato (v. Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998 Citaristi, Rv. 211190; Sez. 6, n. 44667 del 08/10/2019, Cristini, Rv. 278191).
Con riferimento all’incaricato di pubblico servizio, tale ermeneusi è suffragata dall’utilizzo, nel corpo dell’art. 358 cod. pen., della locuzione “a qualunque titolo”, riferita alla prestazione del servizio, e dalla eliminazione di ogni riferimento, contenuto nel previgente testo normativo, al rapporto d’impiego con lo Stato o con altro ente pubblico. È dunque ben possibile che il servizio pubblico sia attuato attraverso organismi privati, ove siano perseguite finalità pubbliche (tra le molte, Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127; Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, dep. 2016, Bononnelli, Rv. 267045; Sez. 6, n. 6405 de/ 12/11/2015, Minzolini, Rv. 265830; Sez. 6, n. 39397 del 10/10/2007, Tardiola, Rv. 237668).
Da tale inquadramento consegue che l’applicabilità del c.d. statuto penale della pubblica amministrazione debba essere vagliata secondo un approccio di tipo casistico, nel senso che le qualifiche soggettive non possono essere riferite indistintamente a tutte le attività poste in essere da un dato soggetto, prescindendo dalle modalità operative di ciascuna di esse.
In tale prospettiva gli orientamenti antagonisti hanno affrontato il tema che occupa.
- Il contrasto interpretativo che si intende rimettere al Massimo Collegio nomofilattico si è polarizzato intorno a due differenti tesi.
- Secondo un primo e maggioritario orientamento, il dipendente di Poste Italiane Spa (d’ora in avanti, Poste Italiane o Poste) riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio in relazione all’attività di raccolta del risparmio postale, specificamente prevista dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, in quanto tale attività, per legge direttamente ed univocamente finalizzata al perseguimento di primari interessi pubblici, ha una peculiare connotazione pubblicistica (Sez. 6, n. 10875 del 23/11/2016, dep. 2017, Carloni, Rv. 272079-01, più diffusamente motivata, seguita in termini sostanzialmente adesivi da Sez. 6, n. 14227 del 13/01/2017, Spataro, Rv. 269481 – 01 e da Sez. 6, n. 993 del 20/11/2018, dep. 2019, Consiglio, Rv. 274938 – 01).
Il principio si pone in linea di continuità con altre più risalenti pronunce, che avevano evidenziato come la trasformazione dell’assetto giuridico e organizzativo dell’Amministrazione postale, divenuta dapprima prima ente pubblico economico e successivamente, in forza della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e della delibera CIPE del 18 dicembre 1997, società per azioni, non avesse influito sulla natura pubblicistica dei servizi definiti riservati dal D.Lgs. 22 luglio 1999 n. 261, attuativo della direttiva 97/67/CEE (più strettamente inerenti agli invii postali di corrispondenza), ma anche dei servizi non riservati, ai quali si ascrive la raccolta del risparmio attraverso i libretti di risparmio postale e i buoni fruttiferi postali (Sez. 5, n. 31660 del 13/02/2015, Barone, Rv. 265290 – 01; Sez. 6, n. 33610 del 21/06/2010, Serva, Rv. 248271 – 01; Sez. 6, n. 36007 del 15/06/2004, Perrone, Rv. 229758 -01; Sez. 6, n. 20118 del 8/03/2001, Di Bartolo, Rv. 218903-01).
Tale opzione ricostruttiva muove dall’analisi dell’art. 2, comma 1, D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144 (Regolamento dei servizi di bancoposta), che ha definito quella dei servizi di bancoposta come una categoria non unitaria, comprendente attività tipologicamente non omogenee, e segnatamente “a) raccolta di risparmio tra il pubblico, come definita dall’art. 11, comma 1, del testo unico bancario ed attività connesse e strumentali; b) raccolta del risparmio postale; c) prestazioni di servizi di pagamento, comprese l’emissione di moneta elettronica e di altri mezzi di pagamento, di cui all’art. 1, comma 2, lettera f), numeri 4) e 5), del testo unico bancario; d) servizio di intermediazione in cambi; e) promozione e collocamento presso il pubblico di finanziamenti concessi da banche ed intermediari abilitati; f) servizi di investimento ed accessori di cui all’art. 12; f-bis) servizio di riscossione crediti; f-ter) esercizio in via professionale del commercio di oro, per conto proprio o per conto terzi, secondo quanto disciplinato dalla legge 17 gennaio 2000, n. 7“.
Il Regolamento ha dunque distintamente considerato, per esaltarne la specificità, la raccolta del risparmio postale di cui alla lett. b) rispetto alla raccolta del risparmio tra il pubblico, di cui alla lett. a), quest’ultima in tutto assimilata agli ordinari servizi bancari o finanziari e perciò regolata dalle pertinenti disposizioni del testo unico bancario e del testo unico in materia di intermediazione finanziaria. Ciò, sul presupposto che la raccolta del risparmio postale costituisca un segmento autonomo delle attività di bancoposta, al quale si applicano, senza alcun automatismo, le disposizioni del TUF di cui al precedente comma 4 se ed “in quanto compatibili” e quelle del TUB “ove applicabili” (art. 2, comma 6, D.P.R. n. 144 cit.) e che si connota per una peculiare disciplina.
Il fulcro di tale ricostruzione è il disposto dell’art. 12 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (codice postale e delle telecomunicazioni), a tenore del quale “Le persone addette ai servizi postali e di bancoposta, anche se dati in concessione ad uso pubblico, sono considerate pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, secondo la natura delle funzioni loro affidate, in conformità degli articoli 357 e 358 del codice penale“.
Il fatto che, con la modifica di tale norma ad opera dell’art. 218, lett. h), D.Lgs. 1 agosto n. 259 del 2003, ossia in epoca successiva alla trasformazione di Ente Poste in società per azioni, sia stato soppresso, sia nella rubrica che nel testo dell’articolo, l’originario riferimento ai soli servizi delle “telecomunicazioni”, dimostrerebbe la perdurante operatività della norma attributiva della qualifica di pubblico agente all’esercente i servizi di bancoposta.
A riprova della persistente caratura pubblicistica del risparmio postale, pur se attuato attraverso organismi privati, vi sarebbero, inoltre, plurimi indicatori e specificamente
- a) la strumentalità dei fondi raccolti da Poste al perseguimento dei compiti istituzionali assegnati a Cassa Depositi e Prestiti Spa (d’ora in avanti, Cassa o CDP) quali il finanziamento dello Stato, delle Regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico ed il compimento di ogni altra operazione di interesse pubblico prevista dallo statuto di CDP per operazioni che rivestano interesse generale (art. 1 Lgs. 30 luglio 1999, n. 284, recante norme di riordino di CDP e art. 5, comma 7, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, che disponeva la trasformazione di CDP in società per azioni);
- b) la peculiare regolamentazione degli strumenti di risparmio postale (libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi), strumenti di investimento “prudenziali”, assistiti dalla garanzia dello Stato e suscettibili di immediata liquidabilità, senza perdite in conto capitale o penalizzazioni, oggetto di monopolio legale;
- c) l’obbligatoria istituzione, da parte di CDP, di un sistema separato ai fini contabili ed organizzativi (art. 5, commi 8 e 8-bis L. n. 269 cit.) e la definizione dei parametri e condizioni di esercizio della gestione separata ad opera del Ministro dell’economia (art. 5, comma 11, D.L. n. 269 cit.);
- d) la sottoposizione al controllo della Corte dei conti sia di CDP (art. 5, comma 17, L. n. 269 cit.) che di Poste (art. 5 D.L. 1 dicembre 1993, n. 487, convertito, con modifiche, dalla legge 29 gennaio 1994 n. 71).
In epoca più recente, in senso conforme si sono espresse Sez. 6, n. 28630 del 22/06/2022, F, n.m., e Sez. 6, n. 44146 del 22/06/2023, Agnoletti, n.m.; Sez. 6, n. 22280 del 7/03/2024, Faso, le quali hanno ribadito che l’attività di carattere intellettivo in concreto svolta dagli operatori di bancoposta, laddove riguardi la raccolta e la gestione del risparmio attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi, attiene a bisogni di pubblico interesse, il cui soddisfacimento è perseguito istituzionalmente con capitali pubblici e secondo modalità e forme determinate da regolamentazione di natura pubblicistica, così da rientrare nell’alveo della prestazione di pubblico servizio, quale definita dall’art. 358 cod. pen.
Tali arresti hanno valorizzato, a riprova della matrice pubblicistica dell’attività di raccolta del risparmio postale, il regime dei relativi strumenti finanziari, assistiti da garanzia dello Stato, per i quali sono contemplate forme di tassazione agevolata nonché l’esenzione da alcuni oneri fiscali, come quelli di successione.
La sentenza Faso, più di recente, ha evidenziato che permane la sottoposizione dell’attività di risparmio postale al potere di indirizzo del Ministro dell’economia e delle finanze, esercitato, da ultimo, con il D.M. del 5 ottobre 2020, in cui si è ribadita la valenza di servizio di interesse economico generale (art. 1, comma 1).
- In netta antitesi rispetto a tale orientamento si pongono gli arresti giurisprudenziali per i quali, nell’ambito dello svolgimento di funzioni di tipo bancario, qual è la raccolta del risparmio, l’attività svolta da Poste Spa ha natura privatistica, non diversamente da quella svolta dalle banche, con la conseguenza che la appropriazione di somme di risparmiatori commessa con abuso del ruolo integra il reato di appropriazione indebita e non il reato di peculato. Al riguardo, non rileva che Poste Spa operi per conto della Cassa Depositi e Prestiti, essendo quest’ultima equiparabile ad un comune azionista che non interviene personalmente nei rapporti con la clientela, la quale intrattiene rapporti, regolati esclusivamente dal diritto civile, con Poste Spa (Sez. 6, n. 18457 del 21/10/2014, dep. 2015, De Vito, Rv. 263359, e Sez. 6, n. 18457 del 30/12/2014, dep. 2015, Romano, Rv. 263359; di seguito, in termini coerenti Sez. 6, n. 42657 del 31/05/2018, Paolacci, Rv. 274289 – 01).
Tali pronunce muovono da un approdo interpretativo già ai tempi incontestato secondo cui, con il venir meno del sistema normativo delle banche pubbliche, l’attività bancaria ha acquisito natura privatistica e, dopo ampio inquadramento sistematico, pervengono alla conclusione che riservare ai dipendenti di Poste italiane Spa nell’espletamento dei servizi di bancoposta un trattamento penale più rigoroso di quello applicabile ai dipendenti degli istituti di credito, malgrado l’identica natura dall’attività svolta, integri una palese violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.
La sentenza De Vito ha confutato gli argomenti di cui ai precedenti arresti di diverso segno, rilevando come essi fossero incentrati su una serie di disposizioni che afferiscono al nucleo originario dei compiti istituzionali di Poste, relativi essenzialmente alla gestione della corrispondenza, laddove le attività di bancoposta trovano compiuta regolamentazione in una distinta normativa di settore.
Più in dettaglio si è evidenziato che
– l’art. 12 del D.P.R. n. 156 del 1973 (c.d. codice postale), attributivo della qualifica pubblicistica anche agli esercenti i servizi di bancoposta, si colloca nel contesto della disciplina antecedente alle riforme dei settori postale e bancario, mentre il D.Lgs. n. 259 del 2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), di modifica di tale norma, si è limitato a cancellare il solo riferimento ai servizi inerenti alle “telecomunicazioni”, senza toccare quello agli esercenti i servizi di bancoposta, siccome intervenuto a disciplinare lo specifico comparto delle comunicazioni;
l’attività di “bancoposta” non può che essere considerata alla luce dello sviluppo legislativo successivo al 1973, ed alla privatizzazione dell’attività bancaria, sulla quale la modifica apportata al codice postale nel 2003 non ha avuto alcuna incidenza;
– il D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, (“Attuazione della direttiva 97/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio”) pur considerato dalla giurisprudenza precedente come significativo per la propria tesi, reca a sua volta una serie di disposizioni attuative della direttiva 97/67/CEE, recante norme minime per lo sviluppo e il miglioramento qualitativo dei servizi postali comunitari, sicché non attiene all’attività di bancoposta, di cui non è menzione alcuna nell’art. 18 del decreto, laddove riconosce la qualifica di incaricati di pubblico servizio esclusivamente alle persone addette ai servizi postali (“Le persone addette ai servizi postali, da chiunque gestiti, sono considerate incaricate di pubblico servizio “); del pari irrilevante ai medesimi fini è il contratto di programma del 21 settembre 2000 tra il Ministero delle Comunicazioni e Poste Italiane (rinnovato alle scadenze successive – attualmente è in vigore il contratto tra il Ministero dello Sviluppo Economico e Poste del 15 maggio 2020, per il quadriennio 2020/24), richiamato dalla sentenza Serva del 2010. L’art. 3 del contratto, laddove definisce (rectius definiva) le attività e i servizi svolti da Poste enucleando, accanto al servizio “universale”, relativo essenzialmente agli invii di corrispondenza, i servizi riservati al monopolio, richiama difatti le disposizioni “di cui ai successivi commi 3, 4, 5, 6 e 7” dello stesso articolo, le quali si riferiscono esclusivamente ai servizi di posta;
– la separazione organizzativa e contabile tra le attività bancarie e le altre attività (non solo postali), nell’ambito di CDP, è preordinata a limitare possibili commistioni nella gestione delle provviste dell’una e delle altre.
L’ attività di bancoposta è invece regolata, come detto, da una distinta normativa, dettata, per quanto di interesse, dal D.P.R. n. 144 del 2001 e dal D.Lgs. n. 261 del 1999.
Di particolare pregnanza risulta l’art. 2 del D.P.R. n. 144, il quale definisce la attività di bancoposta “elencando una serie di attività di tipo bancario senza segnalarne alcuna specificità che possa valere, in termini impliciti, a far ritenere che venga esercitato un pubblico servizio” operando la equiparazione di Poste alle banche ai fini della applicazione del testo unico bancario e del testo unico di intermediazione finanziaria; né è dato rinvenire aliunde altra disposizione “che preveda (o lasci intendere) che Poste abbia condizioni di esercizio diverse da quelle ordinarie delle banche nello svolgimento di attività di tipo bancario” (v. sentenza De Vito).
Confrontandosi con gli argomenti basati sulla valorizzazione del rapporto di Poste con CDP, quale emerge dai contenuti del D.Lgs. n. 284 del 1999, le sentenze in disamina dissentono dalla tesi che enfatizza la strumentalità del risparmio postale alla realizzazione delle finalità di CDP, basandola sul contenuto dell’art. 2 del detto decreto, secondo il quale “La Cassa depositi e prestiti si avvale di Poste italiane Spa per la raccolta di risparmio attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi”, atteso che la norma prosegue affermando che CDP può anche ed in alternativa avvalersi di “banche, di intermediari finanziari vigilati e di imprese di investimento per il collocamento degli altri prodotti finanziari, emessi dalla Cassa stessa, di cui al comma 1, lett. b)”.
In ogni caso, né da tale norma, né da altre, è dato evincere – come invece si legge nella sentenza Serva, cit. – che Poste operi anche “in nome” della Cassa, in forza di un rapporto di immedesimazione organica tra i due soggetti. Quand’anche agisse in rappresentanza diretta, non vi sono ragioni per sostenere che Poste operi secondo regole diverse da quelle relative alle banche comuni.
Alla stessa linea interpretativa si ascrive, ancora, Sez. 2, n. 20437 del 07/03/2018, Callea, Rv. 272807 – 01, che, in tema di falso in scrittura privata, ha escluso che a seguito dell’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e della nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen., la condotta di falsificazione di un libretto postale sia soggetta a sanzione penale, precisando in parte motiva che la negoziazione di buoni fruttiferi da parte di Poste Spa costituisce servizio di tipo bancario, disciplinato dal diritto privato, sicché tali documenti non possono essere considerati come titoli di credito trasmissibili per girata ai sensi dell’art. 491 cod. pen.
- Ritiene il Collegio di condividere il secondo degli orientamenti in contrasto, per le ragioni che si vanno ad esporre.
7.1. È incontroverso che l’attività bancaria abbia natura privatistica, seppure non priva di aspetti di pubblico interesse. In termini generali, va rammentato il contenuto dell’art. 47 della Costituzione nonché le decisioni e raccomandazioni della Commissione Europea che ritiene che, secondo le normative interne dei Paesi membri, i servizi bancari di base possono essere considerati “servizio economico di interesse generale” (come rilevato proprio con Poste Italiane, valutando il risparmio postale sotto il profilo dell’integrare il rapporto con CDP un caso di “aiuto di Stato” – procedura Commissione Aiuto di stato n. C 49/2006).
Il carattere di “interesse economico generale” si riferisce alle attività che sono essenziali per il benessere della società e che, pertanto, possono ricevere un trattamento speciale da parte dello Stato per garantire che siano fornite in modo efficace ed efficiente. Nel contesto dell’Unione Europea, le attività di IEG sono quelle che gli Stati membri classificano come tali in base a criteri specifici, come la continuità, la qualità, l’accessibilità e l’affordabilità.
Sono, quindi, ricomprese le banche che svolgono un ruolo cruciale nell’economia fornendo servizi finanziari essenziali come la custodia dei depositi, la concessione di prestiti e il finanziamento delle imprese, contribuendo così allo sviluppo economico e alla stabilità finanziaria.
Perciò vi è la possibilità di misure speciali per garantire che i servizi bancari rimangano disponibili, soprattutto in situazioni di crisi finanziaria, per proteggere i depositanti e mantenere la fiducia nel sistema finanziario.
Tale carattere di interesse economico generale, quindi, non è del risparmio postale in quanto tale, bensì in quanto parte del sistema bancario generale.
In tale contesto, non pare superfluo richiamare, sia pure in rapida sintesi, l’evoluzione registratasi al riguardo nella giurisprudenza di legittimità, ed alcuni arresti che definirono alcune essenziali direttrici ermeneutiche.
A fronte di Sez. U n. 10467 del 10/10/1981, Carfì, Rv. 151057, che avevano affermato essere l’attività bancaria, volta alla raccolta del risparmio e all’esercizio del credito, caratterizzata da un interesse pubblico immanente e, come tale, inquadrabile negli schemi del servizio pubblico inteso in senso oggettivo, con conseguente applicabilità agli operatori bancari impegnati nell’espletamento di detti compiti della qualità di incaricati di pubblico servizio, Sez. U, n. 8342 del 23/05/1987, Tuzet, Rv. 176405 segnarono un cambio di paradigma, evidenziando come il complesso dei controlli sull’attività bancaria si fosse nel tempo progressivamente affievolito, con un effetto di sostanziale parificazione delle imprese bancarie alle altre attività imprenditoriali operanti sul mercato.
Di qui l’elaborazione per cui solo la puntuale ricognizione della disciplina relativa alla concreta attività posta in essere dall’agente potesse consentire di dirimere l’alternativa ermeneutica tra il normale esercizio privato del credito, che si radica in un contesto di libera concorrenza, e l’esercizio di attività creditizia in regime pubblicistico.
L’overruling ebbe impulso dal mutato quadro normativo di riferimento e, in particolare, dall’entrata in vigore del D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350, di recepimento della direttiva n. 77/780/CEE, che consacrò il principio per cui “L’attività di raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del credito ha carattere di impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano” (art. 1). Si argomentò che non potessero rilevare in senso contrario a) la necessità dell’autorizzazione della Banca d’Italia (sostitutiva del previgente regime concessorio), la quale è preordinata alla mera verifica del possesso dei requisiti patrimoniali e di professionalità richiesti dalla legge; b) la previsione di controlli pubblici, i quali sono piuttosto intesi ad assicurare stabilità ed efficienza al sistema creditizio.
7.2. Posta tale premessa teorica, l’affermazione per cui la raccolta del risparmio postale attraverso buoni postali e libretti di risparmio emessi “per conto” di CDP si distingue dalle altre attività di bancoposta perché oggetto di una specifica disciplina pubblicistica risente, ad avviso del Collegio, di una indebita confusione di piani.
Non è dubbio che costituisca esercizio di potestà pubbliche la decisione adottata dallo Stato (MEF – Dipartimento del Tesoro) e da altri enti pubblici di acquisire risorse dal mercato “facendo debito” mediante la emissione di titoli del debito pubblico (titoli di Stato quali BOT e BTP; buoni postali ed altri titoli emessi da CDP; titoli degli enti territoriali).
Altra cosa è, invece, la fase successiva, di negoziazione e gestione degli indicati strumenti finanziari, che, nel caso dei prodotti finanziari del “risparmio postale”, risulta demandata a Poste Italiane Spa, società ad ampia partecipazione pubblica (il 65% del capitale è posseduto da MEF e CDP) che agisce per conto di Cassa, ma pur sempre secondo le regole del diritto civile.
Applicando il medesimo schema logico, può dirsi che se costituisce esercizio di potestà pubbliche la scelta strategica dello Stato di fare investimenti, mediante l’acquisizione di partecipazioni, in proprio o tramite Cassa, in imprese dei più disparati settori (produttrici di prodotti petroliferi, navi, armi, o costituite per la realizzazione di infrastrutture), non ha, invece, alcun connotato di pubblicità la fase successiva a tale momento, in cui i profitti sono riversati pro quota all’azionista pubblico che li destina – e non potrebbe essere diversamente – al perseguimento dei propri scopi istituzionali.
7.3. Altro dato certo e di sicuro rilievo in rapporto al tema di interesse, è che i rapporti che scaturiscono dal collocamento dei titoli di risparmio postale sono regolati da norme privatistiche la lettura dell’intero regolamento dimostra chiaramente che tutti i rapporti con il cliente sono assolutamente di diritto privato, in rapporto di specialità con le regole generali del codice civile, come previsto dall’art. 3 del regolamento bancoposta, intitolato ai “Rapporti con i clienti”, secondo il quale “Per quanto non diversamente previsto nel presente decreto, i rapporti con la clientela ed il conto corrente postale sono disciplinati in via contrattuale nel rispetto delle norme del codice civile e delle leggi speciali”.
Se i rapporti con i risparmiatori hanno natura privatistica, non si comprende la ragione per la quale la negoziazione dei titoli, finalizzata ad immettere liquidità sul mercato, ancorché avvenga per il perseguimento di interessi generali, e la successiva loro gestione, fuoriescano da tale dimensione privatistica.
7.4. Le ragioni della separata considerazione, nella norma che definisce le attività di bancoposta, del risparmio postale rispetto a quello ordinario tra il pubblico sembrano avere una diversa causale rispetto a quella ritenuta dall’indirizzo maggioritario. Storicamente il risparmio postale, nato nel XIX secolo quale primo strumento di acquisizione di risorse “a prestito” dai piccoli risparmiatori, è uno strumento di più antica tradizione, che si è diffuso potendo beneficiare della capillare rete di distribuzione costituita dagli uffici postali esistenti sul territorio nazionale.
7.5. Come esaustivamente chiarito nella sentenza De Vito, la parziale modifica della norma attributiva della qualifica pubblicistica agli operatori postali, contenuta dal D.Lgs. n. 259 del 2003, con la espunzione del riferimento ai soli addetti ai servizi di “telecomunicazioni” e non invece di quelli di “bancoposta”, non denota affatto la perdurante volontà del legislatore di ripristinare categorie giuridiche oramai superate, giacché, semplicemente, il decreto legislativo sulle telecomunicazioni ha modificato esclusivamente quanto ricadeva nel proprio raggio di azione. Basti pensare che per effetto dell’art. 218 cit. del medesimo decreto sono stati espunti dal testo del D.P.R. n. 156 del 1973, oltre quello qui in commento, altri diciassette (17) riferimenti al termine “telecomunicazioni”, senza alcuna considerazione dei contenuti del medesimo corpo normativo e senza alcuna altra disposizione di coordinamento.
In ogni caso, l’argomento prova troppo.
Poiché il sintagma “servizi di bancoposta” include tutti i servizi, bancari e postali, espletati da Poste Spa, la tesi della natura ultrattiva della norma che originariamente aveva riconosciuto la qualifica di pubblici agenti agli operatori di bancoposta, pur dopo la privatizzazione del sistema bancario, comporta che anche attività di bancoposta della cui natura bancaria non si dubita (quali la gestione dei conti correnti, l’emissione di carte di credito etc.) assumerebbero natura di servizio pubblico.
7.7. Del resto, laddove stigmatizza la lettura dell’art. 12 del D.P.R. n. 156 del 1973 proposta dalla sentenza De Vito, dopo la novella del 2003, perché determinativa di “una non consentita abrogazione implicita”, la sentenza Carloni nega inspiegabilmente la legittimità di un criterio risolutivo dell’antinomia tra norme emanate in tempi successivi – la abrogazione tacita, appunto – che è previsto dall’art. 15 delle preleggi.
7.8. Sotto altro profilo, l’indirizzo maggioritario non esprime una posizione univoca nell’individuare il pubblico servizio che sarebbe espletato tramite la raccolta e gestione del risparmio postale.
7.9. Per un verso, si è sostenuto che il risparmio postale abbia una spiccata vocazione al “perseguimento di finalità pubbliche”, individuate dalla legge nel finanziamento dello Stato, delle Regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico nonché di ogni operazione di interesse pubblico prevista dallo statuto di CDP, in particolare nel settore delle infrastrutture di pubblica utilità e nell’assunzione di partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale e che, in ragione di tale profilo teleologico, la legge avrebbe modulato pregnanti poteri di indirizzo, vigilanza e di controllo.
Ma, sulla strumentalità di questa tipologia di risparmio a perseguire finalità di interesse generale, deve ribadirsi che l’art. 2 del D.Lgs. n. 284 del 1999 consente alla Cassa di emettere anche altri titoli obbligazionari e di avvalersi per il loro piazzamento dì “banche, di intermediari finanziari vigilati e di imprese di investimento per il collocamento degli altri prodotti finanziari, emessi dalla Cassa stessa, di cui al comma 1, lettera b)” (eventualmente anche Poste Italiane Spa), nell’esercizio delle comuni attività bancarie.
La tesi sarebbe, insomma, vera e significativa se l’art. 2 del Regolamento della Cassa, nel disciplinare le “risorse” per l’esercizio delle funzioni di essa, prevedesse che “i fondi provenienti dai depositi di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a)… (gli) altri prodotti finanziari, assistiti dalla garanzia dello Stato… i fondi provenienti dalla assunzione di prestiti” fossero destinati al perseguimento di finalità diverse da quelle pubbliche.
In realtà ciò non è, anzitutto perché l’art. 2 pone sullo stesso piano tutte le risorse che confluiscono in CDP (tra cui i profitti delle società pubbliche partecipate da CDP nei più vari settori imprenditoriali), dall’altro perché il rapporto con le finalità pubblicistiche non è affatto dovuto alle caratteristiche proprie del risparmio postale.
La normativa di riferimento prevede difatti quali fonti di alimentazione di CDP, ponendole sullo stesso livello del risparmio postale, le altre attività finanziarie (parimenti assistite dalla garanzia dello Stato) e imprenditoriali e, a ben vedere, tutto il debito pubblico nazionale serve a recuperare liquidità per l’esercizio delle funzioni istituzionali.
E, come si è detto, mentre la scelta di indebitamento è esercizio di una attività pubblicistica, la vendita del prodotto rimane del tutto privatistica.
Ancora, non vi sarebbe alcuna ragione logica per non attribuire ad operatori nazionali ed esteri, in relazione alla vendita sui mercati nazionali ed esteri di altri strumenti finanziari di CDP, ovvero dei titoli dello Stato italiano, le medesime funzioni di incaricato di pubblico servizio che si vorrebbero attribuire all’impiegato postale nel momento in cui venda un determinato strumento finanziario anziché un altro. Ma una tale qualifica pubblicistica del “piazzista”, ad es., di Bot o Btp, o obbligazioni emesse da enti territoriali, non sembra essere mai stata, giustamente, neppure ipotizzata.
Né può esservi, ragionevolmente, alternativa di sorta alla destinazione a finalità pubblicistiche di qualsiasi risorsa conseguita da CDP.
7.10. L’indirizzo che non si condivide sembra individuare nella raccolta di risparmio postale una finalità “pubblicistica” diversa ed ulteriore rispetto a quella di consentire alla Amministrazione di reperire liquidità, che consisterebbe nell’assicurare forme di “investimento prudenziale”, caratterizzate dalla garanzia statuale, dalla immediata liquidabilità senza perdite in conto capitale o penalizzazioni, a tutela degli investitori a cui tale forma di risparmio è prioritariamente rivolta, generalmente poco inclini al rischio.
L’incentivazione di forme di risparmio a rischio contenuto, non espressamente individuata nel testo normativo e non evincibile neppure dalla politica aziendale di Poste Italiane Sp.a. (a cui il risparmio postale garantisce un flusso costante di redditività), non sembra essere un tratto identitario del risparmio postale.
La “garanzia dello Stato” che accede ai buoni postali fruttiferi e ai libretti di risparmio, non offerta dalla rete distributiva bancaria, ha sempre costituito un elemento attrattivo, di forte richiamo per il mercato, ma non è esclusiva del risparmio postale (si veda il D.M. Mef 5 ottobre 2020, art. 2, “Altre operazioni assistite dalla garanzia dello Stato”); piuttosto, essa offre ai prodotti finanziari postali la credibilità (e onorabilità) dei titoli del debito sovrano nazionale, per i quali è parimenti prevista. Si tratta, quindi, di un dato scarsamente significativo della “funzione sociale” del risparmio postale, come è agevole evincere dalla circostanza che analoga garanzia, di tipo fideiussorio, è attiva, a titolo esemplificativo, anche sulle emissioni di obbligazioni in dollari da parte di CDP, denominate “Yankee Bond'”, destinate al mercato statunitense e a investitori istituzionali locali, e sui titoli emessi da CDP destinati al mercato europeo -quindi a favore di risparmiatori non operanti sul territorio nazionale e non necessariamente “piccoli”.
In senso contrario rispetto a tale finalità rilevano alcuni dati di comune esperienza e, in particolare
- a) forme di investimento a basso rischio, con caratteristiche in tutto analoghe, sono offerte dai diversi istituti bancari mediante i “libretti di risparmio” tradizionali, obbligazioni e altri strumenti similari;
- b) per fare un esempio, i libretti di risparmio postali, soprattutto in passato, hanno offerto limitati rendimenti agli investitori, come dimostra l’entità dei tassi di interesse applicati (secondo dati noti, negli anni della inflazione italiana a due cifre, gli interessi lordi sui libretti erano variabili tra il 6% e l’8%). Insomma, l’affidabilità del prodotto ha avuto quale contropartita, in momenti di crisi, rendimenti effettivi negativi.
Non è dato, dunque, individuare un servizio pubblico reso a tutela dei risparmiatori che il risparmio postale sia in grado di offrire e che lo differenzi dalle altre attività di risparmio comune. Investimenti con le medesime caratteristiche sono offerti dal sistema bancario, ivi compresa la forma del “libretto di deposito a risparmio” (il D.M. citato, art. 7, “libretti di risparmio postale”, rende chiaro il rapporto con la tipologia generale “Ai libretti di risparmio postale sono applicabili le disposizioni recate dal codice civile in materia di libretti di deposito a risparmio”).
È vero invece che la “garanzia dello Stato” è un elemento di indubbia riconoscibilità – benché alcuni titoli si siano modificati negli anni, perdendo nella versione dematerializzata buona parte delle originarie caratteristiche – con una chiara funzione incentivante, proprio per garantire dalla assenza di rischi di insolvibilità dell’emittente.
7.11 L’orientamento maggioritario ha poi enucleato alcuni indicatori del carattere pubblicistico della attività di risparmio postale, suggestivi ma, ad avviso del Collegio, non persuasivi.
7.12 Particolarmente enfatizzata dall’orientamento maggioritario è la sottoposizione al controllo da parte della Corte dei Conti, tanto di Cassa Depositi e Prestiti che di Poste, con la specificazione che per Poste tale controllo viene esercitato anche per l’attività di bancoposta, oltre che per il servizio postale c.d. universale. Gli argomenti, però, appaiono egualmente deboli.
Tale controllo, da attuare nelle forme di cui all’art. 12 legge 21 marzo 1958, n. 259, non realizza alcuna forma di pregnante ingerenza pubblica. Si tratta, infatti, del controllo referente che l’art. 100 Cost. impone sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato o un’azienda autonoma statale contribuisce in via ordinaria “con apporto al patrimonio in capitale o servizi o beni ovvero mediante concessione di garanzia finanziaria” e si traduce nella partecipazione di un magistrato della Corte dei conti alle sedute degli organi di amministrazione e di revisione dell’ente controllato.
Non dunque un controllo di legittimità sugli atti, previsto in ragione dello svolgimento di una pubblica funzione o di un pubblico servizio, ma un controllo di gestione economica che prescinde dalla attività svolta dalla controllata (come erroneamente sottinteso nel porre l’accento sul fatto che esso ha luogo anche per la funzione bancoposta e non solo per il servizio postale cosiddetto universale – il controllo vale su tutta la complessiva attività imprenditoriale) ed è correlato all’essere in gioco un investimento finanziario dello Stato.
Il magistrato designato dalla Corte si limita, difatti, a riferire alla “proprietà”, ovvero al Ministero competente, e a trasmettere una relazione periodica al Parlamento per consentire l’esercizio da parte di questo del controllo finanziario.
In pratica, nell’ambito della proprietà azionaria pubblica, il controllo della Corte dei conti si traduce in un meccanismo di audit esterno equivalente a quello effettuato per conto di una società capogruppo sulle sue società controllate. Del resto, tale controllo del magistrato contabile in modo analogo su altre imprese multinazionali con ampia partecipazione pubblica, operanti nei più svariati settori economici (e.g., Eni Spa, Enel Spa, Leonardo Spa società con partecipazione pubblica non superiore al 30% dei rispettivi capitali, mentre il resto delle quote è sul mercato azionario), senza che mai si sia ipotizzato, riguardo a tali imprese, che il piazzamento dei relativi prodotti costituisca un servizio pubblico.
E non può non osservarsi che, stante la natura generalizzata e non selettiva del controllo, se si trattasse di un indicatore della qualifica pubblicistica, dovrebbero ritenersi pubbliche anche tutte le altre attività espletate da Poste (compreso, per citarne alcune, l’e-commerce e la logistica per l’e-commerce).
7.12. Non meno debole appare l’argomento che ritiene evocative della caratura pubblicistica della gestione di questi specifici strumenti finanziari la previsione di forme di tassazione agevolata nonché l’esenzione da alcuni oneri fiscali, come quelli di successione.
7.13. Innanzitutto, non vi è un trattamento agevolato previsto in esclusiva per i prodotti del risparmio postale (o, in generale, per i titoli del debito sovrano italiano) e, in ogni caso, i limitati profili di vantaggio assolvono ad una funzione incentivante della vendita, quindi, anche in tal caso, di natura puramente “economicistica”.
7.14. Per regola generale, l’aliquota fiscale è fissata al 26% per tutte le rendite finanziarie, provengano esse da dividendi, plusvalenze o interessi (T.U. Imposte sui Redditi, art. 44, e D.L. 24 aprile 2014, n. 66 convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, art. 3). Dunque, l’imposta sostitutiva è dovuta nella stessa misura per i libretti di risparmio postali, come per quelli bancari.
Una tassazione agevolata, con imposta sostitutiva ridotta al 12,5% è invece prevista per i Buoni Postali non si tratta, però, di una agevolazione esclusiva dei titoli del debito sovrano italiano, ma riguarda anche altri bond analoghi non italiani.
Il già citato art. 3 del D.L. n. 66 del 2014, in deroga alla aliquota ordinaria del 26%, applica l’aliquota del 12,50% sugli interessi, premi e ogni altro provento sia per le “obbligazioni pubbliche” italiane (di cui all’art, 31 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601), tra le quali rientrano i Buoni Postali, che per quelle emesse dagli Stati inclusi in una lista di Paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni (requisito richiesto per ragioni di rispetto della regolarità fiscale), nonché per quelle emesse da enti territoriali dei medesimi Stati. Quindi l’applicazione di una aliquota agevolata per tutti i bond statali, purché emessi dagli Stati appartenenti alla suindicata lista, non è significativa della natura pubblica della gestione dei detti titoli.
7.15. Anche l’esenzione dagli oneri fiscali di successione non è affatto una prerogativa esclusiva dei titoli del risparmio postale.
L’art. 12 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (T,U. successioni e donazioni) esclude dall’attivo ereditario “h) i titoli del debito pubblico,… ivi compresi i corrispondenti titoli del debito pubblico emessi dagli Stati appartenenti all’Unione europea e dagli Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo… gli altri titoli di Stato, garantiti dallo Stato o equiparati, ivi compresi i titoli di Stato e gli altri titoli ad essi equiparati emessi dagli Stati appartenenti all’Unione europea e dagli Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo”.
Più che evidenziare la qualificazione in termini di servizio pubblico del risparmio postale – a favore di una utenza che non necessariamente è costituita da residenti in Italia – il regime agevolato vale, ancora una volta, ad incentivare l’acquisizione di disponibilità finanziarie da parte dello Stato ed enti equiparati mediante attività che restano, tuttavia, di natura privatistica. Tant’è che l’estensione del regime agevolato non solo ai titoli propri, ma anche ai titoli del debito pubblico di paesi europei e convenzionati, è avvenuta a seguito della procedura di infrazione n. 2012/2157 del 21 febbraio 2013, con cui la Commissione europea ha rilevato che il regime di esclusione dall’asse ereditario, circoscritto ai soli titoli interni e non a quelli dei paesi dell’unione e aderenti allo Spazio economico europeo, costituiva violazione del principio di libera circolazione dei capitali.
Il che comprova che anche la leva fiscale (certamente utilizzata in passato per i soli titoli nazionali) ha semplicemente la funzione di incentivare o disincentivare l’investimento in determinati beni e non invece quella di favorire l’utenza.
7.16. Ancora, l’orientamento dominante ha dedotto dal fatto che CDP venda i libretti postali e i buoni postali tramite la sua controllata Poste (come previsto dal D.Lgs. n. 284 del 1999), che questa operi in regime di “monopolio”, come da ultimo ribadito dalla sentenza Faso.
Si fa, evidentemente, riferimento al monopolio “legale” e non di fatto (che certo non rileverebbe per i fini di interesse).
L’esistenza di un monopolio legale con riguardo all’attività di raccolta del risparmio postale non è tuttavia supportata da alcun dato normativo ma, soprattutto, non corrisponde alla evidente realtà del mercato dei prodotti finanziari.
Un monopolio legale – che potrebbe rappresentare un indice pregnante del carattere pubblicistico dell’attività regolata – esige che una determinata attività economica sia riservata esclusivamente a determinati soggetti, sia che si tratti di garantire un servizio (come nel caso della gestione del servizio elettrico nazionalizzato), sia che si tratti di riservare un’attività economica al fine di garantire entrate pubbliche (come accaduto, andando a ritroso nel tempo, per vari prodotti, dai tabacchi, al sale, alle banane).
Di contro, a Poste non è riservato in via esclusiva il piazzamento sul mercato di prodotti finanziari della tipologia libretto di risparmio o obbligazioni, per il semplice fatto che l’offerta sul mercato di prodotti analoghi da parte di una pluralità di attori del sistema economico è ampia e variegata – si tratta, del resto, di categorie generali definite nel codice civile.
Quello descritto come monopolio è, a ben vedere, un normale fenomeno di “esclusiva” nel piazzamento sul mercato di un prodotto, nella specie avente la denominazione di libretto postale o di buono fruttifero postale, ben caratterizzato, che viene immesso alla vendita attraverso la rete di distribuzione di Poste. L’identità del prodotto, detto altrimenti, è essenziale per la sua riconoscibilità da parte del pubblico.
Tutte ragioni che non sembrano avere alcuna attinenza con il concetto di pubblico servizio, almeno – lo si ripete – con riguardo alla fase di piazzamento sul mercato di titoli.
7.17. Del resto, non si comprende come, in un settore oramai del tutto liberalizzato, possa essere ipotizzata l’esistenza di un monopolio non previsto dal legislatore. Si tratterebbe di un regime vincolistico non conforme al diritto unionale, impeditivo della concorrenza “sul” mercato, ma altresì “per” il mercato, dal momento che, ove mai esistente, non solo comporterebbe una riserva sulla emissione di obbligazioni e sui libretti di risparmio, ma addirittura precluderebbe ad altro operatore di subentrare nella posizione di fornitore esclusivo del servizio in questione,
Una tale compressione della libera concorrenza non opera neppure per il servizio postale c.d. universale, essendosi disposta, con l’art. 1 comma 57, lett. b), legge 4 agosto 2017, n. 124, con decorrenza dal 10 settembre 2017, l’abrogazione dell’art. 4 del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, con conseguente soppressione dell’attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane Spa, quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi inerenti alle notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari e alle violazioni al codice della strada.
Si noti, ancora, che vi è un forte argomento nel senso di escludere che la riserva di vendita di uno specifico prodotto facente parte di un genere in “comune commercio” possa definirsi un “monopolio legale” (per poi trarne argomenti per la tesi non condivisa), che si trae dalla già citata procedura europea C 49/2006, volta a verificare se la vendita dei prodotti del risparmio postale di CDP solo tramite Poste Spa (“presunto diritto esclusivo di collocamento dei prodotti del risparmio postale riconosciuto a Poste Italiane Spa (PI) e la corrispondente remunerazione versata a PI da Cassa Depositi e Prestiti Spa”) integrasse un aiuto di Stato.
Si trattava una procedura sorta da una contestazione della Associazione Bancaria Italiana che segnalava presunti benefici a favore della attività bancaria di Poste Spa la quale, con il diritto esclusivo di collocamento degli specifici prodotti del risparmio postale, riceveva una remunerazione eccessiva e, inoltre, aveva il vantaggio di “allontanare la clientela dagli omologhi prodotti bancari”. Non rileva in questa sede approfondire il tema, bastando osservare che si è chiaramente nell’ambito di temi di (alterazione della) libera competizione sul mercato dei capitali e non di controllo monopolistico ex lege di settori economici.
- Va, infine, considerata la nozione di “organismo di diritto pubblico” con riferimento a Poste Spa che è stata ritenuta certamente tale quanto allo svolgimento del servizio di posta universale.
Si deve, quindi, considerare se tale qualificazione possa essere riferita anche all’attività di raccolta del risparmio postale laddove se ne volesse affermare la natura di servizio bancario di base e, in tale modo, “servizio economico di interesse generale”, distinguendolo dai servizi bancari ordinari.
Pur affrontando il tema per completezza, si anticipa che, comunque, anche tale qualificazione pubblicistica non inciderebbe sulla qualifica penalistica ex artt. 357 e 358 cod. pen.
Si rammenta che la nozione di organismo pubblico è stata elaborata dal diritto dell’Unione europea (nelle direttive n. 89/440 e n. 93/37) ai fini della individuazione delle amministrazioni aggiudicatrici dei pubblici appalti, tenute al rispetto delle regole unionali (art. 1, lett. b), della direttiva 89/440. Nell’ordinamento interno, la definizione era data dall’art. 3, comma 1, lett. d), del codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, cui fa riferimento la giurisprudenza dopo citata. Il D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, abrogando il codice degli appalti, ha riprodotto la disposizione suindicata nell’art.1 dell’allegato 1.1.
La nozione è riferibile ad enti a) dotati di personalità giuridica; b) istituiti per la realizzazione di specifiche finalità d’interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale (“requisito teleologico”); c) la cui attività sia finanziata, in prevalenza, da pubbliche amministrazioni o direttamente controllata dalle stesse o orientata da un organo di gestione a prevalente designazione pubblica (c.d. “requisito dell’influenza dominante”).
La qualificazione in termini di organismo pubblico rileva al già citato fine di individuare le c.d. amministrazioni aggiudicatrici, e, quindi, rileva solo nell’ambito dei contratti pubblici, costituisce il precipitato della c.d. nozione sostanzialistica di Pubblica Amministrazione, ed è preordinata – per il mezzo della valorizzazione del “fine” perseguito da un determinato soggetto rispetto alla sua qualificazione giuridica – ad evitare che la privatizzazione puramente formale di enti pubblici possa determinare una sostanziale elusione delle normative europee.
La funzione di tale disciplina è ben chiara se si considera la condizione negativa della lett. b) (non trattarsi di attività avente carattere industriale o commerciale) che tendenzialmente ne esclude I’ applicazione in relazione all’impresa pubblica che si trova ad operare nel mercato in condizioni di normale concorrenza, sopportando i rischi connessi al mercato stesso, rendendo superfluo il ricorso all’evidenza pubblica.
8.1. Si può richiamare la giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, in materia di riparto di giurisdizione, che offre risposte utili per quanto qui rileva Sez. U, n. 1482 del 18/01/2022 (Rv. 663720 – 01) riformava la sentenza del Consiglio di Stato del 16 gennaio 2020 che aveva qualificato come organismo di diritto pubblico la Cassa Depositi e Prestiti – Investimenti SGR Spa, società di gestione del risparmio costituita da CDP e soci minoritari (associazioni bancarie) per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico mediante la gestione di fondi immobiliari di tipo chiuso, riservati ad investitori qualificati (in applicazione di quell’effetto di propagazione che in ambito amministrativistico va sotto il nome di “teoria del contagio”).
In tale occasione la Corte conferma che il requisito c.d. teleologico quale sopra definito non sussiste quando l’attività sia svolta nel mercato concorrenziale e sia ispirata a criteri di economicità, essendo i relativi rischi economici direttamente a carico dell’ente.
Nel caso concreto, l’attività principale della SGR pubblica era basata su criteri di rendimento, efficacia e redditività.
Nell’occasione, la Corte precisa anche che, pur a fronte delle finalità di CDP, l’attività della controllata non va ricondotta alla funzione pubblica di rilevanza costituzionale della salvaguardia del risparmio; tale funzione, che in termini generali giustifica l’assoggettamento di tale tipologia di società alla disciplina speciale dettata dal D.Lgs. n. 58 del 1998 (T.U. intermediazione finanziaria), non comporta la trasformazione della loro attività in una pubblica funzione, trattandosi pur sempre di un’attività imprenditoriale.
Sez. U civ., Ordinanza n. 8511 del 2012, ha deciso, con espresso riferimento a Poste Spa, quanto alla necessità di procedere con una gara a evidenza pubblica per l’installazione di apparecchiature per il prelievo di contante. Anche in questo caso la Corte ha affermato che la disciplina dell’organismo pubblico non trova motivo di applicazione in relazione alla figura dell’impresa pubblica, qual è di norma Poste Spa, che si trova ad operare nel mercato in condizioni di normale concorrenza, sopportando i relativi rischi. Pertanto, l’obbligo di seguire le regole dell’evidenza pubblica sussiste solo per gli appalti aggiudicati per lo svolgimento dei servizi postali in senso stretto, quelli non (del tutto) liberalizzati. In applicazione di tale principio, Poste Italiane Spa non ha natura di organismo di diritto pubblico per le attività di bancoposta svolta in condizioni di libera accessibilità dei mercati.
In ogni caso, la caratterizzazione degli enti in questione (Poste Spa e CDP per il profilo di interesse) potrebbe tutt’al più rilevare ai più limitati fini dell’ assoggettamento alle norme in termini di evidenza pubblica ed alla operatività della giurisdizione esclusiva, ma non costituisce un parametro generale, utile per definire la natura giuridica di un soggetto e tantomeno può essere ritenuta decisiva ai fini dell’applicazione dello statuto penale della pubblica amministrazione.
Tra le altre decisioni rilevanti, si rinvia a Sez. U civ., n. 8673 del 28/03/2019 (Rv. 653558 – 01) e, con riferimento alla controllante CDP, alla sentenza della Corte dei conti, Sez. Lombardia, n. 283 dell’I 1/10/2021, che ha rimarcato – in linea con la tesi che si condivide – come il modulo organizzativo di CDP diverga notevolmente da quello di un qualsiasi ente pubblico, atteggiandosi quale holding di un gruppo di imprese ed operando secondo regole privatistiche-societarie e non pubblicistiche-procedimentali e che la presenza di alcune finalità pubblicistiche nell’azione della Cassa non risultino sufficienti a connotarla quale ente pubblico.
- La tesi maggioritaria, una volta ritenuto che la raccolta del risparmio postale costituisca un servizio pubblico, non dubita che soggetti posti in ruoli quale quello del ricorrente, rivestano qualifica pubblicistica svolgendo attività inquadrabile nell’ambito degli artt. 358 o 357 cod. pen.
Anche sotto tale profilo si ritiene di dissentire.
A voler aderire alla tesi del servizio pubblico non è dato comprendere – e la giurisprudenza non lo chiarisce – in che modo l’operatore di Poste Italiane Spa, addetto ai rapporti con il cliente per la vendita e gestione di detti titoli, ponga in essere attività tipiche dell’incaricato di pubblico servizio o del pubblico ufficiale.
Come anticipato in premessa, il capoverso dell’art. 358 cod. pen. definisce il servizio pubblico come formalmente omologo alla funzione pubblica di cui al precedente art. 357, ma caratterizzato dalla mancanza di poteri – deliberativi, autoritativi o certificativi – tipici di quest’ultima.
La nozione di i.p.s. è delimitata verso il basso, essendo esclusa la qualifica per il soggetto che si limiti allo svolgimento di semplici mansioni di ordine e alla prestazione di opera meramente materiale.
La formulazione lessicale, impiegata dal legislatore, con l’utilizzo dei termini “semplici” e “meramente”, indica in modo univoco una intentio legis incline a collocare nel perimetro della nozione di incaricato di pubblico servizio qualunque mansione che richieda un bagaglio di nozioni tecniche e di esperienza e che comporti un livello di responsabilità superiore a quello richiesto per lo svolgimento di incombenti esclusivamente materiali o di ordine.
9.1. Innanzitutto, sembra implicita l’affermazione che l’addetto alla negoziazione dei buoni postali fruttiferi e dei libretti di risparmio sia un incaricato di pubblico servizio, perché dotato di poteri di iniziativa ed investito di discrezionalità.
Avuto riguardo alle attività in concreto svolte dal ricorrente, non può non osservarsi che, al di là della attività di consulenza, quella della liquidazione dei titoli o della effettuazione dei pagamenti, in una gestione ampiamente dematerializzata, resa possibile dalla generale diffusione degli strumenti telematici, ha connotazioni essenzialmente esecutive, non richiede specifiche competenze e sembra essere priva del carattere di autonomia (in tal senso si veda Sez. 6, n. 22275 del 31/01/1974, Puglisi).
Sicuramente non esercita poteri autoritativi o deliberativi (tipici del p.u.) ma neanche, a ritenere che l’attività in questione sia caratterizzata dall’essere “disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione”, risulta svolgere alcuna attività che si caratterizzi per l’esercizio di mansioni diverse da quelle di ordine rispetto alla gestione dei prodotti finanziari, a ben vedere oggetto di semplice compravendita o gestione senza alcuno spazio di discrezionalità – l’eventuale consulenza finanziaria o simile è attività che esula da quella in questione, rientrando nell’esercizio della generale attività bancaria di un ente “privato”.
9.2. Né risulta che il ricorrente eserciti poteri “certificativi” (a parte che anche tale ruolo riporterebbe alla qualifica di pubblico ufficiale). Non è infrequente che si utilizzi il concetto di potere certificativo quale semplificazione per risolvere il tema della qualifica pubblica con un ragionamento circolare del tipo “è funzionario pubblico perché ha potere certificativo e ha potere certificativo perché è funzionario pubblico”.
Invero, non si deve confondere il rilascio di ricevute scritte, annotazioni, registrazioni etc, comuni in qualsiasi tipo di rapporto privatistico quali normali dichiarazioni di scienza o verità destinate a fare prova nei rapporti giuridici, con il rilascio di documenti annotazioni analoghe ma con valore certificativo e, quindi, valore di prova legale nell’ordinamento civile (e non solo nel rapporto tra le parti).
L’art. 2699 cod. civ. prevede che sia atto pubblico (con funzione certificativa secondo il concetto che ci interessa) quello emanato da un soggetto “autorizzato ad attribuirgli fede”, autorizzazione che deve derivare da una norma di legge (Sez. U civ., n. 215 del 09/04/1999, Rv. 525078 – 01).
Quindi, non basta una mera affermazione come quella sopra riportata, ma si dovrebbe individuare la norma che attribuisce il potere certificativo.
9.3. È innanzitutto utile considerare che la situazione del ricorrente è analoga a quella del soggetto addetto a servizi bancari, svolti anche da Poste Spa, di riscossione per conto di enti impositori e di previdenza obbligatoria di tributi/contributi/sanzioni mediante modello di versamento unificato “F24”, che, secondo una risalente giurisprudenza, era soggetto con qualifica pubblica nell’emettere la relativa ricevuta di pagamento.
Premessa la differenza strutturale della situazione, essendo in questione il momento finale dell’esercizio di una funzione pubblica, la recente Sez. 6, n. 22275 del 31/1/2024 ha osservato come sia venuta meno la asserita funzione fidefacente ex art. 2700 cod. civ. non avendo più la “stampata” dell’operazione una funzione probatoria “…la ricevuta, predisposta oramai dagli strumenti telematici, è riconducibile direttamente a Poste Italiane Spa nella sua soggettività giuridica e non al singolo operatore di sportello quale soggetto che attesta per conto della società.
Significativa in tal senso è la mancanza di una firma su tali moduli da parte…”. Anche in quel caso, poi, per il resto si considerava che “… dunque, non emerge che l’imputata svolgesse compiti di natura diversa da quelli semplicemente esecutivi, né, tanto meno, che esercitasse poteri certificativi o altrimenti discrezionali, che gestisse direttamente protocolli, registri o altra documentazione finalizzata alla registrazione o alla tracciatura della posta, ovvero che a lei fossero stati assegnati compiti di collaborazione direttamente riferibili a funzioni superiori”.
Inoltre, va rilevato che disposizioni specifiche depongono in termini diversi da quelli dell’esservi una attribuzione di potere ex art, 2699 e ss. cod. civ.
Il tema si pone maggiormente per il “libretto”, tradizionalmente caratterizzato da annotazioni dell’operatore finalizzate a far prova del rapporto. I buoni postali, invece, erano tradizionalmente prestampati, ponendosi tutt’al più un tema di attestazione di consegna etc.
Premesso, quindi, che non risultano norme attributive agli impiegati postali del potere di certificazione nel compiere attività relative ad obbligazioni, vi sono disposizioni specifiche per i libretti.
Mentre nella vigenza del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 il T.U. delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni non prevedeva specificatamente il ruolo certificativo dei funzionari dell’ente Poste, che poteva eventualmente trarsi dall’essere quello bancario un servizio pubblico – a parte le regole del codice civile – con il regolamento postale del 2001, come sopra detto, è espressamente prevista l’applicabilità del codice civile, per quanto non disciplinato dal regolamento medesimo.
Ciò non lascia residui dubbi all’applicabilità delle norme generali in tema di libretti di deposito “Art. 1835. Libretto di deposito a risparmio – Se la banca rilascia un libretto di deposito a risparmio, i versamenti e i prelevamenti si devono annotare sul libretto. Le annotazioni sul libretto, firmate dall’impiegato della banca che appare addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti tra banca e depositante. È nullo ogni patto contrario”.
La corrente interpretazione è nei seguenti termini “Il libretto bancario di deposito a risparmio, pur non potendosi considerare atto pubblico dotato dell’efficacia probatoria privilegiata di cui all’art. 2700 cod. civ., è assistito dallo speciale regime probatorio delineato dall’art. 1835, secondo comma, stesso codice, sicché, ove il documento presenti i requisiti formali minimi della sua identità, esso fa piena prova non solo delle annotazioni eseguite e sottoscritte dal funzionario addetto, ma anche della provenienza del libretto dalla banca al cui servizio appare addetto il menzionato funzionario, fermo restando che l’annotazione firmata non è il solo mezzo probatorio con il quale si può dare la prova dell’operazione bancaria, esprimendo tale speciale regime un principio di tutela rafforzata del diritto alla prova predisposto dalla legge a favore del depositario” (Sez. 1 civ., n. 25370 del 12/11/2013, Rv. 628809 – 01).
9.5. Si considerino, quindi, le seguenti disposizioni regolamentari.
Il D.M. Mef 6 ottobre 2004 prevedeva che “Ai libretti di risparmio postale sono applicabili le disposizioni recate dal codice civile in materia di libretti di deposito a risparmio”.
Tale decreto è stato modificato con il D.M. 29 febbraio 2016, adattando la disciplina anche per i libretti “dematerializzati”. Viene inserito un riferimento al valore delle annotazioni “fino a querela di falso”, ma si tratta di un inciso, non meglio chiarito, che non ha efficacia non potendo la data fonte avere la forza di legge necessaria per attribuire il valore ex artt. 2699 e 2700 cod. civ., peraltro in deroga alla specifica disposizione dell’art. 1835 cod. civ.
La norma regolamentare vigente, D.M. Mef del 5 ottobre 2020, all’art. 7 prevede, in fine, “In caso di discordanza tra le registrazioni contabili e le annotazioni sui libretti cartacei, prevalgono le scritture contabili” togliendo definitivamente ogni rilievo alle annotazioni scritte, valendo il contenuto del sistema informatico.
In definitiva, non vi è previsione di potere fidefacente per i soggetti che svolgono le attività bancoposta, anche quanto al “risparmio postale”.
Come già rilevato con la sentenza sopra citata, la sostanziale perdita di valore costitutivo probatorio dei documenti cartacei, ormai mera stampa di ricognizione dei dati delle registrazioni nei sistemi informatici, fa venir meno la rilevanza probatoria delle annotazioni e/o ricevute degli addetti allo sportello (come di quelle rilasciate in automatico dai programmi informatici c.d. homebanking che consentono al cliente di compiere operazioni da remoto in via autonoma).
- In definitiva, va rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto
“Se, nell’ambito delle attività di ‘bancoposta’ svolte da Poste Italiane Spa ai sensi del D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la “raccolta del risparmio postale” (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata da Poste per conto della Cassa depositi e prestiti – art. 2, comma 1, lett. b) reg. cit. e art. 2, comma 1, lett. b) D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 284) – abbia natura pubblicistica e, nel caso positivo, se l’operatore di Poste Italiane Spa addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ai sensi degli artt. 357 e 358 cod. pen.“.