Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 13 dicembre 2022 n. 47182
PRINCIPIO DI DIRITTO
Qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali, l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente, prevista per un reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un’ipotesi di violazione di legge che, ove non dedotta nell’appello, resta preclusa dalla inammissibilità del ricorso.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione sottoposta alle Sezioni Unite è stata così formulata: “Se, in tema di reati contravvenzionali, la Corte di Cassazione possa applicare la corretta riduzione della metà prevista per un reato contravvenzionale, giudicato con rito abbreviato, non disposta dal giudice di merito, pur se la questione non sia stata prospettata con l’atto di appello, ma unicamente con il ricorso per cassazione”.
Si coglie agevolmente che essa ruota intorno al potere di cognizione riconoscibile al giudice di legittimità nel caso di errata determinazione della misura della riduzione prevista per il rito abbreviato, che non sia stata dedotta o rilevata nel precedente grado di giudizio.
Sono quindi sottointesi, da un canto, l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., a mente del quale «Il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli articoli 569 e 609 comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello».
Dall’altro, l’art. 609 cod. proc. pen., il cui primo comma dispone che «il ricorso attribuisce alla corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti». Il secondo comma della medesima disposizione estende però la cognizione del giudice di legittimità alle questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e a quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.
In sostanza, ciò che si prospetta in termini dubitativi è l’inammissibilità del ricorso per mancata deduzione con i motivi d’appello dell’erronea riduzione per il rito abbreviato, operata in misura inferiore a quella prevista per le contravvenzioni.
Occorre quindi verificare preliminarmente se il ricorso di Savini sia o meno inammissibile.
- Non è in discussione che con l’appello non era stata devoluta alla corte territoriale il punto concernente la errata misura della riduzione della pena operata dal primo giudice ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen.; lo rappresenta il ricorrente medesimo. Come non è dubbio che si trattasse di censura deducibile, considerato che la sentenza di primo grado era intervenuta il 26 settembre 2019 e quindi ben dopo la modifica del citato art. 442, comma 2, cod. proc. pen. adopera dell’art. 1, comma 44, legge 23 giugno 2017, n. 103, con la quale, per le contravvenzioni, la riduzione premiale è stata elevata alla metà.
Pertanto, il giudice per le indagini preliminari avrebbe dovuto ridurre della metà la pena inflitta a Savini; per contro, ha fissato la pena base in mesi due di arresto ed euro duemila di ammenda, aumentato la pena pecuniaria a tremila euro e quindi diminuito di un terzo la pena così definita, pervenendo a quella di quaranta giorni di arresto e 2.000,00 euro di ammenda. Con l’atto di appello era stato formulato un unico motivo, con il quale ci si era doluti del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche; la celebrazione del rito abbreviato era stata evocata solo per ricavarne il segno di un’avvenuta resipiscenza dell’imputato. La estraneità del punto concernente il riconoscimento delle attenuanti generiche a quello attinente alla diminuente premiale è palese (cfr. Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239).
- Tanto premesso in fatto, il contrasto segnalato dalla Quarta Sezione è certamente esistente e si inserisce in un più ampio dibattito, che coinvolge il tema della rilevabilità di ufficio della illegalità della pena da parte della Corte di cassazione in caso di ricorso inammissibile. Infatti, proprio il tema dell’illegalità della pena ha alimentato una giurisprudenza incline a riconoscere al giudice dell’impugnazione inammissibile spazi per l’esercizio dei poteri officiosi.
Prima di esporre i termini del contrasto è opportuno svolgere una precisazione. L’ordinanza di rimessione cita, nell’ambito dell’orientamento che ammette l’intervento officioso sulla errata riduzione della pena, pronunce che si sono occupate di vicende attinenti a fatti pregressi alla novazione normativa prodottasi nel 2017 e che pertanto fondano l’interpretazione adottata sulla ritenuta rilevabilità di ufficio della mancata applicazione della disciplina (sopravvenuta) più favorevole all’imputato.
Di contro, Giuseppe Savini è stato riconosciuto autore di un reato commesso quando ormai era già entrato in vigore l’attuale testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. Pertanto, nella relativa vicenda non ha alcun ruolo la prospettiva diacronica.
- Tanto precisato, si può considerare che, riguardo al caso di erronea misura della riduzione prevista per il rito abbreviato, il contrasto si dipana tra due poli: la generale rilevabilità della illegalità della pena da parte del giudice dell’impugnazione inammissibile; la riconducibilità, o meno, della pena determinata in ragione dello specifico errore alla categoria della pena illegale.
- Quanto al primo tema, la giurisprudenza di legittimità appare divisa in due orientamenti.
5.1. Un primo ritiene che la preclusione processuale determinata dalla inammissibilità del ricorso osti alla rilevabilità d’ufficio della illegalità della pena da parte della Corte di cassazione. Per tale orientamento può essere citata, innanzitutto, Sez. 5, n. 24926 del 03/12/2003, dep. 2004, Marullo, Rv. 229812, per la quale l’illegalità della pena è rilevabile d’ufficio ed è, quindi, sindacabile indipendentemente dalla deduzione di specifiche doglianze in sede di impugnazione, ma non quando ricorra la preclusione processuale derivante dall’inammissibilità del ricorso, che impedisce il passaggio del procedimento all’ulteriore grado di giudizio ed inibisce la cognizione della questione e la rivisitazione del decisum a seguito della formazione del giudicato interno (nel caso di specie si versava in ipotesi di ritenuta illegalità della pena per essere stata inflitta quella detentiva in luogo della pena pecuniaria, di doverosa applicazione essendo il reato di competenza del giudice di pace).
In fattispecie analoga e richiamandosi proprio alla sentenza Marullo, anche Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 23063601 ha ritenuto di non poter rilevare di ufficio, stante l’inammissibilità del ricorso, la violazione del principio di legalità della pena. Si tratta di una posizione che trova precedenti anche più risalenti rispetto alla sentenza Marullo e che è stata ribadita da Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612.
In quest’ultima pronuncia si legge che «La violazione del principio di legalità della pena è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di cassazione a condizione che il ricorso non sia inammissibile e l’esame della questione rappresentata non comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili con il giudizio di legittimità». Nella specie si trattava di una riduzione della pena prevista per il giudizio abbreviato applicata senza effettuare il previo temperamento previsto dall’art. 78 cod. pen.
Per la tesi restrittiva milita anche Sez. 5, n. 15817 del 18/02/2020, Di Rocco, Rv. 27925201. Tale decisione, come le sentenze Marullo e Raimo, attiene ad una pena detentiva inflitta in luogo di quella pecuniaria per un reato di competenza del giudice di pace; ma essa ha potuto tener conto di quanto affermato con riguardo a tale ipotesi da Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106.
La Quinta Sezione ha perciò rammentato che, secondo l’insegnamento del S.C., nel caso di ricorso inammissibile perché tardivo la Corte di cassazione non può rilevare di ufficio la illegalità della pena derivante dalla erronea applicazione delle pene previste per i reati di competenza del giudice di pace, per la decisiva ragione che la intempestività dell’impugnazione determina la formazione del giudicato formale. Inoltre, tenuto conto della specie di pena illegale in considerazione, non è ipotizzabile un potere di intervento del giudice dell’esecuzione, perché la rimodulazione della pena che si renderebbe necessaria «si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice dell’esecuzione».
Su tali premesse la sentenza Di Rocco si occupa del tema della relazione tra inammissibilità del ricorso e poteri di cui all’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. non in termini generali, ma con specifico riferimento al particolare caso di illegalità della pena sottopostole; ed anzi essa, edotta dei principi posti da Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 e da Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111, segnala il pericolo di «[…] una lettura che, in maniera forse un po’ frettolosa e non sufficientemente approfondita, tenda ad assimilare tra loro le cause di illegalità delle pena, ai fini della loro equiparazione in funzione della rilevabilità di ufficio», con ciò discostandosi dal percorso argomentativo tracciato in una pronuncia militante per l’opposto avviso (Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016, dep. 2017, Jamie, Rv. 268593, della quale si tratterà a breve).
5.2. Il diverso orientamento appare maggiormente diffuso nella giurisprudenza di legittimità. Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763 ritiene non sia di ostacolo all’intervento officioso sulla pena illegale la inammissibilità del ricorso, «atteso che il principio di legalità ex art. 1 cod. pen. e la funzione della pena, come concepita dall’art. 27 Cost., non appaiono conciliabili con la applicazione di una sanzione non prevista dall’ordinamento».
Richiamandosi ad una giurisprudenza più risalente (Sez. 2, n. 11230 del 04/07/1985, Gioffrè, Rv. 171202; Sez. 5, n. 6280 del 21/03/1985, De Negri, Rv. 169897; Sez. 4, n. 3369 del 22/01/1985, Laranga, Rv. 168651, tuttavia relative a ricorsi ammissibili) la Quinta Sezione osserva che già sotto la vigenza del codice di rito del 1930 si era ritenuto ammissibile che il giudice dell’impugnazione, anche in mancanza di uno specifico motivo di gravame, annullasse o modificasse la sentenza di condanna ad una pena illegale per specie, genere o quantità, in applicazione dell’allora vigente art. 152, contenutisticamente (e quasi letteralmente) riprodotto dall’art. 129 cod. proc. pen.
Ad avviso della Quinta Sezione, a favore della tesi adottata depone anche l’indirizzo esegetico formatosi con riferimento alla illegalità del trattamento sanzionatorio posto a base di una sentenza di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen.; indirizzo favorevole alla rilevabilità officiosa della pena illegale. Invero, si osserva, «se l’esigenza di legalità della sanzione – si ripete, imposta dall’art. 1 cod. pen. e presupposta dall’art. 27 Cost. – deve prevalere anche sull’accordo delle parti (e dunque, in ipotesi, sullo stesso consenso dell’imputato a subire una pena più grave di quella prevista dall’ordinamento), a maggior ragione, ciò deve avvenire quando il trattamento sanzionatorio non è frutto di un accordo (sia pure “asimmetrico”) tra le parti, ma è determinato dal giudice». Pressocché pedissequa è Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684, in tema di recidiva erroneamente ritenuta ed applicata in rapporto ad una contravvenzione.
Nel medesimo solco si è posta Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108. Prendendo atto dell’interpretazione appena rammentata, nella sentenza si osserva che «il principio della funzione rieducativa della pena, imposta dall’art. 27, comma 3, è fra quelli che, di recente, ed in ossequio alla evoluzione interpretativa determinata dai principi della Corte EDU, le Sezioni Unite di questa Corte hanno riconosciuto essere in opposizione all’esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, pure successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Rv. 258651).
Non vi è motivo, a maggior ragione, per escludere che la illegalità della pena inflitta, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato, possa e debba essere rilevata, prima della formazione del giudicato ed a prescindere dalla articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione, pure in presenza di un ricorso caratterizzato da inammissibilità, nella specie, non originaria». Nello stesso senso si è orientata Sez. 4, n. 17221 del 02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714, come quella appena citata relativa ad una pena inflitta in misura superiore al massimo edittale.
Per Sez. 5, n. 51726 del 12/10/2016, Sale, Rv. 268639 la rilevabilità ex officio della illegalità della pena (si tratta ancora della pena detentiva inflitta per reati di competenza del giudice di pace), nonostante l’inammissibilità del ricorso, si impone in quanto «si tratta di verificare il rispetto del principio immanente di legalità della sanzione». La decisione mutua un’affermazione che risale a Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Porreca, Rv. 242973, secondo cui «L’intero sistema processualpenalistico, invero, non sopporta l’irrogazione di pena illegale, per i fondamentali principi costituzionali di libertà che ne sono sottesi, e per il principio del favor rei che, altrimenti, risulterebbe in concreto vanificato».
Sez. 5, n. 13787 del 30/01/2020, Ottoni, Rv. 27920101 ha, da un verso, fatto propria la piattaforma argomentativa utilizzata dalla sentenza Oguekemma (si verteva nella medesima ipotesi di pena superiore al massimo edittale) ma, dall’altro, ha ritenuto di poter dedurre dall’insegnamento impartito da Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106 la possibilità di differenziare in maniera netta, da un lato, le cause di inammissibilità in generale e, dall’altro, la tardività del ricorso, che esclude in radice la possibilità di instaurare un valido rapporto di impugnazione. Sulla base di tale premessa ha argomentato che il ricorso proposto per motivi non consentiti (art. 606, comma 2-bis, cod. proc. pen.), è idoneo, a differenza del ricorso tardivo, ad instaurare un valido rapporto processuale, con la conseguenza di permettere alla Corte di cassazione di rilevare di ufficio la illegalità della pena.
Si tratta di una linea interpretativa già percorsa da Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016, dep. 2017, Jomle, Rv. 268593. In questa pronuncia la Quinta Sezione ha preso le mosse da alcuni principi espressi dalle Sezioni Unite Butera, ovvero che l’illegalità della pena non è rilevabile di ufficio da parte della Corte di cassazione in caso di ricorso tardivo. In tal caso, essa è deducibile dinanzi al giudice dell’esecuzione, salvo che non si verta in ipotesi di erronea applicazione delle sanzioni previste per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, perché il giudice dell’esecuzione dovrebbe operare una valutazione di tutti i parametri di commisurazione eccentrica rispetto ai suoi poteri di intervento.
La Quinta Sezione ha rimarcato che alla medesima udienza le Sezioni Unite avevano deliberato anche la sentenza Della Fazia, la quale ha statuito che nonostante l’inammissibilità del ricorso (non tardivo), la Corte di cassazione deve rilevare di ufficio la mancata applicazione del sopravvenuto trattamento sanzionatorio più favorevole. Ne ha dedotto l’implicazione che le Sezioni Unite hanno inteso affrontare in modo unitario il tema dei limiti al sindacato della Corte di legittimità nel caso di ricorso inammissibile; ha, in conclusione, argomentato che «solo nel caso di ricorso per intempestività è precluso al giudice di legittimità “correggere” ex officio la pena illegale».
Anche per il caso di illegalità della pena accessoria si è statuito che essa è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione, pur se il ricorso è inammissibile (Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, C., Rv. 272090, che si è limitata al richiamo del precedente costituito da Sez. 5, n. 46122/2014, citata). In altra decisione (Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018, dep. 2019, Elgendy, Rv. 276320), ancora a riguardo della pena accessoria, si sostiene che «tale principio risulta in linea con la nota evoluzione giurisprudenziale, segnata da rilevanti pronunce delle Sezioni Unite in tema di cedevolezza del giudicato in presenza di una pena illegale (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697; n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327; n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-6; n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857-9; n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265108)».
- Quanto al secondo profilo del contrasto, e cioè la qualificazione come pena illegale della erronea riduzione per il giudizio abbreviato, la tesi incline ad escludere che la pena erroneamente ridotta ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. sia illegale – e quindi che vi sia materia per l’esercizio dei poteri officiosi da parte della Corte di cassazione – è espressa da Sez. 4, n. 6510 del 27/01/2021, Di Maria, Rv. 280946, che riprende l’affermazione di Sez. 1, n. 22313 del 08/07/2020, Manto, Rv. 279455 (intervenuta in vicenda concernente un provvedimento del giudice dell’esecuzione, al pari di Sez. 1, n. 28252 del 11/06/2014, Imparolato, Rv. 261091).
Secondo la Quarta Sezione nel caso specifico – si trattava di pena inflitta per un reato commesso prima del 3 agosto 2017 e venuto all’attenzione della Corte di appello dopo tale data, pena ridotta per il rito di un terzo e non della metà – non si verte in una ipotesi di pena illegale, perché non prevista dalla legge per specie o quantità, ma si tratta di «una determinazione operata in violazione del criterio di riduzione, stabilito dalla legge processuale». Pertanto, ricorrendo una violazione di legge processuale non dedotta in appello, il motivo con il quale si intende far valere siffatta violazione è inammissibile.
Secondo Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326 l’erronea riduzione per il rito, operata nella misura della metà invece che del terzo, non dà luogo ad una pena illegale se la pena data in dispositivo non è diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per un determinato reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali (nella specie, la pena di otto mesi di reclusione inflitta per il reato di evasione, pur determinata attraverso una riduzione in misura erronea e la riduzione per le riconosciute attenuanti generiche, era compatibile con i limiti edittali stabiliti per tale delitto).
Il diverso indirizzo è espresso da Sez. 3, n. 38474 del 31/05/2019, Lasalvia, Rv. 276760. In un caso nel quale era stata omessa la riduzione della pena dovuta per il rito abbreviato, ma la violazione non era stata censurata né con l’appello né con il ricorso per cassazione, bensì solo con il nuovo ricorso contro la sentenza pronunciata dal giudice del rinvio, la Terza Sezione ha richiamato il principio espresso da Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Torna, Rv. 253562 secondo cui l’erronea applicazione della diminuzione prevista per il rito abbreviato, costituisce «un palese errore materiale di calcolo nella determinazione della pena che ha comportato la sostanziale illegalità, sia pure solo in punto di quantum in conseguenza di macroscopico errore di calcolo della pena inflitta».
Secondo la citata sentenza della Terza Sezione il principio vale a fortiori nel caso di omessa applicazione della riduzione per il rito, che integra «un palese errore materiale di calcolo». Ha, quindi, ritenuto rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (eccezion fatta che nel caso di ricorso tardivo) l’illegalità della pena «derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione».
- Come preannunciato, la ricognizione delle decisioni che si sono misurate direttamente o indirettamente con il tema che qui occupa evidenzia che si controverte, da un canto, in merito alla superabilità o meno, in presenza di pena illegale, della preclusione derivante dall’inammissibilità del ricorso; dall’altro, in ordine alla riconducibilità della pena erroneamente ridotta ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. al novero delle pene illegali.
7.1. Prima di inoltrarsi nell’esame della fondatezza delle interpretazioni antagoniste è necessaria un’osservazione che attiene al metodo. Già l’excursus appena fatto evidenzia come talvolta la tesi patrocinata venga sostenuta anche mutuando principi e argomenti proposti per vicende diverse da quella in esame. Si tratta di quella assimilazione di situazioni tra loro non omogenee contro la quale la sentenza Di Rocco ha svolto condivisibili critiche.
Se pur fosse unitario il quadro entro il quale si collocano le varie questioni in ordine ai poteri del giudice dell’impugnazione inammissibile di fronte ad una pena illegale, occorrerebbe comunque interrogarsi sulla fondatezza di interpretazioni che: adottano principi formulati in tema di illegalità sopravvenuta della pena con riguardo alla diversa ipotesi di pena illegale ab origine; assimilano pene che eccedono i limiti edittali a pene determinate in violazione di norme processuali; traggono da specifiche ipotesi di ritenuta recessività del giudicato sostanziale un generale principio di soccombenza di esso ad istanze legaliste, senza indicarne i fondamenti.
All’inverso, è necessario definire con precisione le premesse che avviano alla soluzione della questione che qui occupa. La messa a fuoco non può che prendere le mosse dal concetto di pena illegale. Infatti, solo se è da ritenere illegale la pena ridotta in misura erronea rispetto a quanto previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. è necessario occuparsi, in questa sede, dell’odierna concezione del giudicato sostanziale e della sua ipotetica flessibilità.
7.2. Ciò introduce al tema che ora occorre affrontare, ovvero il principio di legalità della pena. L’impegno non è agevole poiché, come denuncia la più recente dottrina, il principio di legalità è stato studiato ed esplicato soprattutto con riferimento alla legalità del precetto, mentre la legalità della pena è tema rimasto maggiormente in ombra. Ovviamente, nello Stato di diritto, non è in discussione che la pena inflitta dal giudice debba essere legale, ovvero, prevista dalla legge. Per l’ordinamento nazionale depongono in tal senso la previsione dell’art. 1 cod. pen. e, con superiore autorità, l’art. 25, comma 2 Cost., che eleva il principio di legalità della pena al rango costituzionale.
E’ però significativo che, come già rilevato da Sez. U, Della Fazia, il riconoscimento di una “illegalità” della pena abbia richiesto un approfondimento della portata precettiva dell’art. 25, comma 2, Cost., il cui testo non espone con assoluta evidenza il principio nulla poena sine lege (per scelta deliberata del legislatore costituente, che ritenne il principio ricavabile comunque da altre norme).
Tale approfondimento è stato operato dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 15 del 1962, che ha superato le incertezze scaturite dalla variazione testuale che l’art. 25 Cost. propone rispetto all’art. 1 cod. pen., oltre che da posizioni teoriche inclini a tener distinti, rispetto al tema della legalità, il precetto penale e la sanzione. Il Giudice delle leggi ha disatteso l’assunto per il quale non sarebbe costituzionalmente garantito il principio di legalità della pena sancito nell’art. 1, cod. pen., affermando che l’art. 25, comma 2, Cost. «dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individualizzazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge».
Anche la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali si situa tra le fonti normative del principio di legalità della pena. In particolare, secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo, esso è sancito dall’art. 7 (Corte EDU, 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia, § 52). In primo luogo, il principio vieta di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano reato ed impone di non applicare la legge penale in maniera estensiva a danno dell’imputato, ad esempio per analogia (tra le altre, Corte EDU, GC, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 78). Ma, in forza della previsione del comma 1, secondo periodo, secondo la quale «…non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato», esso obbliga il legislatore anche a definire chiaramente le pene.
Non dissimili le previsioni dell’art. 49, § 1, della Carta di Nizza e dell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881. D’altronde, come è stato rimarcato dalla dottrina, «il principio di legalità sarebbe vanificato e privato del suo significato di garanzia se abbracciasse il solo precetto e non investisse anche il versante delle sanzioni».
Nullum crimen sine lege e nullum poena sine lege sono così intimamente correlati. Ne discende che, anche per le pene, il principio di legalità assume i contenuti che gli sono riconosciuti quando riferito al reato.
Viene, in proposito, in rilievo innanzitutto la riserva di legge che assolve ad una funzione di garanzia dell’individuo tanto rispetto al momento costitutivo che a quello di concreta attuazione della pretesa punitiva. Secondo l’insegnamento del Giudice delle leggi, nell’ordinamento costituzionale il principio di legalità della pena implica, in primo luogo, la riserva a favore della legge statuale: «esso esige che sia soltanto la legge (o un atto equiparato) dello Stato a stabilire con quale misura debba esser repressa la trasgressione dei precetti che vuole sanzionati penalmente. La dignità e la libertà personali sono, nell’ordinamento costituzionale democratico e unitario che regge il Paese, beni troppo preziosi perché, in mancanza di un inequivoco disposto costituzionale in tali sensi, si possa ammettere che un’autorità amministrativa, e comunque un’autorità non statale, disponga di un qualche potere di scelta in ordine ad essi» (n. 62 del 1966; in tal senso anche n. 282 del 1990).
Ma la legalità della pena non è solo un argine frapposto alla moltiplicazione delle fonti di criminalizzazione; è anche garanzia contro l’arbitrio del giudice che, creando la pena, si arroga prerogative che spettano solo a chi è chiamato ad assumersi le responsabilità politiche della penalizzazione. «Solo il legislatore, dunque, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali» (sentenza n. 447 del 1998).
Il monopolio a favore del legislatore è, però, accompagnato da vincoli; come la norma incriminatrice deve soddisfare il principio di determinatezza, anche per le pene egli è tenuto a stabilire il tipo, il contenuto e la misura della pena e a farlo in modo non arbitrario. Determinatezza non significa, tuttavia, opzione a favore delle pene fisse: invero, «il principio di legalità della pena non può prescindere dalla individualizzazione di questa» (Corte cost., sent. n. 131 del 1970). Ed invero, la pena ‘costituzionale’ non è solo rispettosa del principio di legalità, ma anche del principio di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa. Corte cost., sent. n. 149 del 2018 rammenta «il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena».
La Corte costituzionale ha progressivamente accentuato il giudizio di tendenziale incoerenza delle pene fisse al dettato costituzionale, proprio in ragione della necessità dell’individualizzazione della pena. Se, con la sentenza n. 67 del 1963 (relativa alla pena pecuniaria comminata in misura fissa dall’art. 54 del R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 2033, abrogato dalla legge 3 febbraio 2011, n. 4), la Corte costituzionale ritenne che la previsione non compromettesse il principio che la responsabilità penale è personale, la finalità rieducativa della pena ed il principio di uguaglianza, tuttavia, già in tale decisione il Giudice delle leggi convenne in ordine al fatto che lo strumento più idoneo a garantire la adeguatezza del trattamento sanzionatorio al reo è «la mobilità della pena, cioè la predeterminazione della medesima da parte del legislatore in modo da contenerla fra un massimo ed un minimo».
Con la sentenza n. 50 del 1980 la Corte costituzionale espresse un giudizio più marcatamente critico rispetto alle pene fisse: «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».
Con questa pronuncia il principio di legalità delle pene viene fortemente connesso ai principi indicati dall’art. 27, commi 1 e 3 Cost. La pena determinata dal legislatore deve poter essere individualizzata dal giudice, in modo da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi: «lo stesso principio di “legalità delle pene”, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali – come quelli indicati dall’art. 27, primo e terzo comma, Cost. – ed in cui “l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità” (sentenza n. 104 del 1968). Di qui il ruolo centrale, che nei sistemi penali moderni è proprio della discrezionalità giudiziale, nell’ambito e secondo i criteri segnati dalla legge (artt. 132 e 133 cod. pen.; e si veda al riguardo la sentenza n. 118 del 1973)».
Più di recente la Corte ha precisato che la tendenziale contrarietà delle pene fisse «al volto costituzionale» dell’illecito penale deve intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso e non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete (ordinanza n. 91 del 2008).
Con la sent. n. 222 del 2018, pronunciando la illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui dispone che «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», la Corte costituzionale ha ribadito che «l’esigenza di “mobilità” (sentenza n. 67 del 1963), o “individualizzazione” (sentenza n. 104 del 1968), della pena – e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua determinazione in concreto, di una certa discrezionalità nella commisurazione tra il minimo e il massimo previsti dalla legge – costituisce […] “naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale” (sentenza n. 50 del 1980), rispetto ai quali “l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità” (così, ancora, la sentenza n. 104 del 1968).
Con la rilevante conseguenza, espressamente tratta dalla citata sentenza n. 50 del 1980, che “[i]n linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il ‘volto costituzionale’ del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente ‘proporzionata’ rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”».
Se la Costituzione esprime un’indicazione preferenziale per la mobilità della pena, la stessa predeterminazione di un minimo e di un massimo della sanzione non è libera da vincoli: «il principio di legalità richiede anche che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 e che manifestamente risulti non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta. Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario» (Corte cost., n. 299 del 1992).
Inoltre, il legislatore deve assicurare la necessaria proporzionalità delle pene, sia in relazione a quelle previste per altre figure di reato che rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (cfr. Corte cost., sent. n. 63 del 2022, cui si rimanda anche per la menzione delle decisioni che hanno delineato i termini del sindacato di costituzionalità sulla determinazione legale della pena).
- La pena costituzionale è quindi la pena determinata dal legislatore secondo le direttrici evidenziate dal Giudice delle leggi ed individualizzata dal giudice. I due poteri concorrono verso il traguardo di una sanzione che rappresenti la sintesi dei valori costituzionali cui deve ispirarsi il diritto penale.
Come rilevato dalla Corte costituzionale (sent. n. 299 del 1992), la predeterminazione della pena da parte del legislatore tra un minimo ed un massimo e il conferimento al giudice del potere discrezionale di determinare in concreto, entro tali limiti, la sanzione da irrogare costituisce lo strumento più idoneo al conseguimento delle finalità della pena e più congruo rispetto al principio di uguaglianza. La determinazione delle cornici edittali è «requisito essenziale affinchè la discrezionalità giudiziale nella determinazione concreta della pena trovi nella legge il suo limite e la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio».
Nelle comminatorie edittale si esprime la scala di graduazione del disvalore definita dal legislatore; «il compito che viene assegnato al giudice è quello di “proporzionare” la sanzione concreta …» a quella e non al proprio giudizio di disvalore sul fatto reato.
Tuttavia, quello tra determinazione legale e commisurazione giudiziale è un rapporto alla perenne ricerca di un soddisfacente equilibrio.
Uno sguardo retrospettivo rivela che il monopolio legislativo ha avuto nel tempo differenti declinazioni, in stretta correlazione all’avvicendarsi delle concezioni in ordine ai rapporti tra istanze legaliste e di individualizzazione della pena. Infatti, sin dal suo sorgere nell’età dell’illuminismo giuridico, la questione della legalità delle pene è stata essenzialmente una questione di perimetrazione dell’insopprimibile intervento giudiziale. Fermo il monopolio legislativo – fondato sulla convinzione che la perdita del bene supremo dell’individuo è legittima solo se affonda le proprie radici nella volontà popolare, per come espressa dalle assemblee rappresentative – si è trattato di individuarne le modalità di esercizio, consapevoli che i margini di valutazione che la legge lascia al giudice spostano gli equilibri tra certezza e flessibilità della pena e, pertanto, sanciscono la primazia o la subalternità della determinazione legale rispetto alla commisurazione giudiziale della pena.
Questa tensione si è manifestata soprattutto sul terreno del regime delle circostanze del reato. Animato da un sentimento di sfiducia nei confronti del potere giudiziario, l’illuminismo giuridico propugnò che: le ‘circostanze del reato’ valutabili dal giudice fossero solo quelle contenute in elenchi predeterminati dal legislatore e tassativi; esse operassero unicamente quali fattori di modulazione della pena entro le cornici edittali (quindi come le moderne circostanze cc.dd. improprie, di cui all’art. 133 cod. pen.), come previsto dal progetto di codice lombardo del 1791, che vide tra i suoi elaboratori anche Cesare Beccaria. Con il codice napoleonico del 1810 cominciò a profilarsi la categoria delle circostanze del reato cc.dd. proprie. In quel testo, circostanze attenuanti, espressive di una eccezionale tenuità del disvalore del fatto, permettevano di travolgere il minimo (ma non il massimo) edittale.
Tuttavia, secondo autorevole dottrina, questa codificazione era ancora ispirata ad un modello rigidamente legalista, nel quale il giudice era inteso quale meccanico applicatore del dettato legislativo e la pena aveva prevalentemente funzioni di prevenzione generale e di deterrenza. Sullo sfondo, si stagliava l’idea che «a reati uguali commessi da persone dotate di pari libertà deve corrispondere una medesima pena».
Anche il codice Zanardelli riconobbe le circostanze proprie, strutturandole come comuni, indefinite ed attenuanti, originariamente determinanti una variazione proporzionale di pena fissa (peraltro, in un sistema caratterizzato dal calcolo aritmetico delle circostanze). Il fatto che la diminuzione della pena edittale non potesse superare una entità fissata dal legislatore evidenzia la persistenza di una pena a prevalente determinazione legale, pur nel riconoscimento di un più esteso potere commisurativo del giudice.
Si coglie in tale previsione, la rivendicazione da parte del legislatore di un potere di definizione in termini presuntivi ed astratti del ‘peso’ dell’elemento circostanziale. Rivendicazione che il codice Rocco fece con maggior forza. Nel disegno generale di una tipizzazione e sistematizzazione delle circostanze, comuni e speciali, attenuanti e aggravanti, la previsione di un elevatissimo numero di circostanze speciali a variazione di pena autonoma o indipendente esprime la volontà legislativa di determinare in via generale ed astratta il disvalore insito nel sottotipo circostanziato; e la sottrazione delle stesse (e di quelle inerenti alla persona del colpevole) al giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen. era la pietra d’angolo della fortificazione eretta a protezione della determinazione legale. Ad una simile opzione politica faceva da perfetto pendant la mancata previsione delle circostanze attenuanti indefinite; in tal modo il legislatore del 1930 si assicurava che le cornici edittali non venissero travolte.
Secondo l’unanime giudizio della dottrina siffatto sistema ha visto incrinata l’interna razionalità già con l’introduzione delle circostanze attenuanti generiche (d. Igsl. 19 settembre 1944, n. 288); incrinatura approfondita dal d.l. 11 aprile 1974, n. 99, conv. dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di bilanciamento a tutte le circostanze, senza distinzioni di sorta.
Ad avviso degli studiosi, le novelle sopraggiunte con la legge 5 dicembre 2005, n. 251 (che, tra l’altro, ha escluso la possibilità di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99 cod. pen. e sulle aggravanti previste dagli artt. 111 e 112 cod. pen.), con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, ed il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modifiche dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (che hanno ampliato il novero delle circostanze privilegiate) hanno rappresentato una reazione tendente alla riduzione della discrezionalità giudiziale.
La ‘lezione’ che si ricava dalle vicende rapidamente ripercorse è che il tema della pena è il tema della coesistenza di due domini, quello del legislatore e quello del giudice, tra loro interrelati e tuttavia non confondibili. L’uno è espressione del potere di determinare il disvalore del tipo (ed eventualmente del sottotipo) astratto; l’altro del potere di determinare il disvalore del fatto concreto. Nel commisurare la pena il giudice si confronta, quindi, con due vincoli legali: quelli del primo tipo tendono a preservare le fondamentali opzioni legislative in ordine al disvalore del fatto reato astrattamente inteso; gli altri indirizzano e regolano la discrezionalità giudiziale nell’apprezzamento del disvalore del fatto reato storicamente concretizzatosi ai fini della individualizzazione della pena. Ogni violazione del primo travolge le prerogative del legislatore ed i valori per i quali esse sono riconosciute (nello Stato di diritto di stampo liberale, tali valori fanno capo all’individuo): la pena così determinata è illegale. La violazione delle regole che disciplinano l’uso del potere commisurativo – che resti rispettoso della determinazione legale – pone invece una questione di legittimità della pena.
- Pertanto, è rintracciabile un criterio per distinguere la pena illegale dalla pena illegittima. Premesso che, come rammentato da Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace, quella di pena illegale è categoria che la giurisprudenza utilizza con esclusivo riferimento ai casi in cui la sanzione applicata dal giudice sia di specie più grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati dalla stessa – trovando soluzione il caso opposto nel divieto di reformatio in peius – l’illegalità della pena ricorre solo quando essa eccede i valori (espressi sia qualitativamente: genere e specie, che quantitativamente: minimo e massimo) assegnati dal legislatore al tipo astratto nel quale viene sussunto il fatto storico reato.
Per quanto in concreto possa non essere agevole la individuazione delle cornici edittali pertinenti al caso, è solo la violazione di esse – che sono la manifestazione ed il frutto del potere legale di determinazione della pena – ad integrare la pena illegale. Ogni altra violazione delle regole che occorre applicare per la definizione della pena da infliggere integra un errato esercizio del potere commisurativo e dà luogo ad una pena che è illegittima. La puntuale identificazione degli estremi edittali è operazione essenziale, perché si possa giudicare della eventuale illegalità della pena inflitta e far così emergere il superamento di quel confine che il giudice non può valicare.
Solo la pena che non sia prevista, nel genere, nella specie o nella quantità, dall’ordinamento, sovverte le valutazioni valoriali riservate al legislatore, e con ciò le ragioni di tale monopolio. Con essa il giudice viola «il limite assoluto, invalicabile, oltre il quale la pronunzia giurisdizionale sconfina nell’arbitrio e nell’usurpazione del potere legislativo» (Sez. 1, n. 3048 del 15/10/1973, dep. 1974, Zulini, Rv. 126759). Anche Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep- 2015, B., come si è già detto, ha sottolineato che l’illegalità della pena rivela la mutazione subita dalla discrezionalità giudiziale, che da espressione e strumento della migliore attuazione della legge diviene il suo opposto.
Solo una pena illegale travolge anche il caposaldo della prevedibilità della sanzione, presupposto essenziale di una responsabilità penale che voglia farsi rispettosa del principio di colpevolezza. Non è superfluo rammentare che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha interpretato l’art. 7 della Convenzione come disposizione che non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato, ma richiede altresì la prevedibilità non solo del precetto ma anche delle specifiche conseguenze del reato. Ha precisato, la Corte EDU, che la prevedibilità attiene alla probabilità concreta per il destinatario di calcolare le conseguenze del proprio agire, in rapporto alle circostanze del caso (Corte EDU, 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta; Corte EDU, Del Rio Prada c. Spagna, citata; Corte EDU, GC, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro).
Come già rilevato tanto dalla giurisprudenza che dalla dottrina, la pena illegale contraddice le funzioni assegnate alla sanzione dalla Carta costituzionale. Si è già rappresentato che per la Corte costituzionale la funzione rieducativa della pena ha ricadute immediate in tema di legalità della pena. Sussiste la necessità costituzionale che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato. Non può soddisfare tale esigenza una pena extra o contra legem, che cioè non trovi riscontro nelle statuizioni del legislatore. Essa è di per sé inidonea a conseguire la finalità rieducativa, che il potere legislativo ha ritenuto perseguibile attraverso l’esercizio del potere discrezionale giudiziale contenuto entro i limiti definiti.
Solo una pena illegale, infine, confligge con la previsione dell’art. 13 Cost. che, nel vietare ogni forma di detenzione e di altra restrizione della libertà personale che non trovi titolo in un atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, ribadisce la necessità della base legale della statuizione giudiziale che incide sulla libertà personale.
Resta quindi confermata la fondatezza del principio tradizionalmente enunciato dal giudice di legittimità, secondo il quale gli errori nell’applicazione delle diverse discipline che entrano in gioco nella commisurazione della pena danno luogo ad una pena illegale solo se la risultante (ovvero la pena indicata in dispositivo) è per genere, specie o per valore minimo o massimo diversa da quella che il legislatore ha previsto per il tipo (o sottotipo) astratto al quale viene ricondotto il fatto storico reato. Fuori da tale caso, la pena è illegittima, ove commisurata sulla base della errata applicazione della legge o non giustificata secondo il modello argomentativo normativamente previsto.
Sulla scorta delle precisazioni operate, le Sezioni Unite condividono l’affermazione di Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729, che esclude la riconducibilità alla categoria della pena illegale della sanzione che, pur osservando i limiti edittali, sia il frutto di errori; ed anche l’avviso di Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, De Paola, Rv. 266080, secondo la quale esula dalla nozione di pena illegale la sanzione che sia complessivamente legittima, ma determinata secondo un percorso argomentativo viziato. Merita adesione anche Sez. 2, n. 14307 del 14/03/2017, Musumeci, Rv. 269748, che ha ritenuto non illegale la pena che sia risultante dell’applicazione di un distinto aumento per ciascuna delle ritenute circostanze ad effetto speciale e non tenga conto del criterio fissato dall’art. 63, comma 4, cod. proc. pen., perché l’errore riguarda le «modalità di calcolo della pena», e non incide sui limiti edittali, comunque rispettati. Condivisibili sono anche Sez. 5, n. 23911 del 20/02/2019, Calogiuri, non mass., che ha ritenuto non dar luogo a pena illegale l’aver erroneamente calcolato prima l’aumento di pena per la continuazione tra i reati e poi quello per la recidiva, pur senza superare i relativi termini edittali, e Sez. 2, n. 46765 del 09/12/2021, Bruno, Rv. 282322, relativa ad un caso di erronea applicazione della disciplina relativa a circostanza ad effetto speciale, che non aveva determinato il superamento dei termini edittali del reato di cui si trattava.
- Di contro, risulta non condivisibile la diversa e maggiormente estesa accezione di pena illegale emersa nella giurisprudenza di legittimità più recente; un’accezione che in definitiva conduce a predicare l’illegalità non già della pena, bensì del trattamento sanzionatorio, ovvero del complessivo regime di attuazione della statuizione sulla pena.
Espressione di tale orientamento è Sez. 4, n. 5064 del 06/11/2018, dep. 2019, Bonomi, Rv. 275118. Dovendo valutare se il ricorso del pubblico ministero avverso la sentenza di patteggiamento riguardasse uno dei motivi indicati dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., la Quarta Sezione ha sostenuto che sono riconducibili al concetto di legalità della pena anche gli istituti che incidono sulla concreta ed effettiva applicazione delle sanzioni. Pertanto, ha ritenuto che l’omessa subordinazione della sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 165, comma secondo, cod. pen., a uno degli obblighi previsti dal primo comma della stessa norma può essere dedotta con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.
Anche Sez. 6, n. 17119 del 14/03/2019, P., Rv. 275898 ha ritenuto che il concetto di pena illegale coinvolga tutto ciò che comunque incide sul trattamento punitivo. Nell’occasione la Sesta Sezione ha affermato che «l’illegalità della pena ricorre non solo quando la pena non è conforme a quella stabilita in astratto dalla norma penale (ad es. superiore al massimo o inferiore al minimo edittale; pena relativa ad un reato abrogato, per abolitio criminis o per effetto della dichiarazione di incostituzionalità della norma penale, anche se relativa al solo trattamento sanzionatorio), rientrando nel concetto di pena illegale anche tutto ciò che incide sul trattamento punitivo, e quindi anche le norme che ne sospendono l’esecuzione, quando si tratti di istituti la cui applicazione viene decisa contestualmente alla pronuncia della sentenza all’esito del giudizio, conformemente al principio che la pena è essenzialmente la sanzione che viene inflitta dal giudice con la sentenza di condanna, oltre alle pene accessorie che conseguono di diritto come effetto legale della condanna e che interessano la sentenza di patteggiamento nei soli casi del c.d. patteggiamento allargato quando la pena principale sia superiore a due anni di reclusione».
Una simile ricostruzione del concetto di pena illegale è fondatamente criticata da Sez. 3, n. 35485 del 23/04/2021, P., Rv. 281945, per la quale un simile ampliamento «trasmoda rispetto ai termini di esso, andando a ricomprendere non solo la illegalità della sanzione in senso tecnico ma anche la illegittimità di taluno degli aspetti ad essa pena accessori, quali gli eventuali vizi dei termini della sua applicazione ovvero, […] della sospensione della sua applicazione; una siffatta interpretazione, se appare conforme alla esegesi della espressione “trattamento sanzionatorio”, dovendo in esso ricomprendersi tutti gli aspetti legati alle modalità con le quali viene applicata la punizione derivante dalla trasgressione di una disposizione penale, non appare, invece, corrispondere al generalmente inteso concetto di pena illegale».
- Le considerazioni sin qui svolte permettono anche di dissipare i dubbi che possono insorgere da una lettura non sufficientemente prudente di talune affermazioni della giurisprudenza di legittimità, che potrebbero far intendere l’esistenza di un’autonoma ipotesi di illegalità della pena discendente dal carattere ‘macroscopico’ dell’errore di calcolo. E’ la tesi adombrata anche dal ricorrente.
Il tema prende origine da Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Torna, Rv. 253562, la quale distingue una pena illegale nella specie e/o nella quantità «senza alcuna giustificazione rinvenibile nella sentenza (frutto, cioè, di mero ed esclusivo errore macroscopico)» e una pena non illegale perché determinata all’esito di «un (per quanto discutibile o addirittura erroneo) apparato argomentativo».
L’evocazione di un palese, macroscopico errore per significare il carattere illegale della pena inflitta è riproposta anche in altre pronunzie. Qui basti citare le già menzionate Sez. 1, n. 20466 del 27/01/2015, Nardi, Rv. 263506 e Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879. Anche Sez. 3, n. 38474 del 31/05/2019, Lasalvia, Rv. 276760 si richiama a Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Toma, laddove sostiene che l’applicazione della diminuente per il rito abbreviato in misura inferiore a quella prevista di un terzo determina la «sostanziale illegalità» della pena, in quanto conseguenza di «un palese errore materiale di calcolo», come tale rilevabile anche dopo la formazione del giudicato con incidente di esecuzione. Su tale premessa afferma che «a maggior ragione deve ritenersi applicabile quando l’applicazione della diminuente per il rito sia stata del tutto omessa: anche in questo caso si verifica un palese errore materiale di calcolo, con effetti ancor più gravi per l’imputato».
Le stesse Sezioni Unite Butera, richiamando l’orientamento giurisprudenziale per il quale il giudice dell’esecuzione può rilevare la pena illegittima «solo quando la sanzione inflitta non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata – salvo che sia frutto di errore macroscopico – trattandosi in questo caso di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza», menzionano quale distinta ipotesi di pena rettificabile in sede esecutiva quella «frutto di un errore macroscopico non giustificabile e non di una argomentata, pur discutibile, valutazione».
Orbene, l’approfondimento dell’analisi conduce le Sezioni Unite ad escludere che l’illegalità della pena possa essere determinata dal carattere macroscopico dell’errore, sì da dover aggiungere una ulteriore ipotesi a quelle della diversità per specie o quantità rispetto ai termini edittali. In primo luogo occorre considerare che la sentenza Torna, come la sentenza Villirillo e quella Nardi, sono intervenute in vicende che attenevano ai poteri del giudice dell’esecuzione cui, come è noto, è precluso di modificare le statuizioni del giudicato, anche se erronee, quando argomentate dal giudice della cognizione. In tale prospettiva si comprende la necessità di distinguere la pena illegale che sia stata indicata senza alcuna giustificazione da quella esito di un erroneo apparato argomentativo. Tale è il senso anche della riproposizione delle formule giurisprudenziali da parte di Sezioni Unite Butera. Quel che si è definito, quindi, non è un diverso concetto di pena illegale, ma la condizione di esercizio del potere di intervento del giudice dell’esecuzione di fronte ad una pena illegale. In conclusione, la macroscopicità dell’errore non è fattore costitutivo della illegalità della pena.
- Definito il concetto di pena illegale ab origine, tracciata la linea di demarcazione rispetto a quello di pena illegittima, dimostrata la irrilevanza di criteri euristici incentrati sulla evidenza dell’errore rinvenibile nella decisione, è giunto il tempo di rispondere al quesito se la diminuente prevista per il rito abbreviato reagisca o meno sulla legalità della pena. Sembra ormai acquisito che, per le scelte operate dal legislatore del 1988, aspetti sostanziali e aspetti procedurali possono intersecarsi con la commisurazione della pena.
In questa sede è sufficiente considerare che l’aver assegnato il legislatore alla celebrazione del rito abbreviato la idoneità a concorrere alla quantificazione della pena da infliggere ha condotto la giurisprudenza, innanzitutto quella costituzionale, a porre in evidenza gli effetti anche sostanziali del rito. Sin dalla sentenza n. 23 del 1992 la Corte costituzionale ha osservato che sottrarre al giudice del dibattimento l’allora previsto controllo sulla definibilità del processo allo stato degli atti significa limitare «in modo irragionevole il diritto di difesa dell’imputato, nell’ulteriore svolgimento del processo, su di un aspetto che ha conseguenze sul piano sostanziale».
Concordando con l’avviso espresso dalla Grande Camera della Corte EDU nella sentenza del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, per la quale l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., ancorché contenuto in una legge processuale, costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato», la Corte costituzionale, nella pronuncia n. 210 del 2013, ha rilevato che la natura sostanziale della disposizione era stata già chiaramente affermata da Sez. U, n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo, Rv. 189398, e che ciò è preminente rispetto al tema della natura della diminuzione o della sostituzione della pena, perché quel che rileva è che essa si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore.
Si tratta di una ricostruzione mai posta in discussione ed anzi ribadita ancora con la sentenza n. 260 del 18 novembre 2020, nella quale la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della Spezia in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., che preclude l’applicabilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, ha precisato che «la disciplina censurata, pur incidendo su disposizioni concernenti il rito, ha un’immediata ricaduta sulla tipologia e sulla durata delle pene applicabili in caso di condanna, e non può pertanto che soggiacere ai principi di garanzia che vigono in materia di diritto penale sostanziale, tra cui segnatamente il divieto di applicare una pena più grave di quella prevista al momento del fatto, come affermato anche dalla giurisprudenza EDU».
Anche la giurisprudenza di legittimità ha nel tempo consolidato l’avviso espresso dalla sentenza Piccillo («… nella specie gli aspetti processuali sono strettamente collegati con aspetti sostanziali, perché tali certamente sono quelli relativi alla diminuzione o sostituzione della pena …»). Basti rammentare quanto affermato da Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649, a riguardo dell’applicabilità della disciplina in materia di successione nel tempo di leggi penali sostanziali alla sopraggiunta modifica delle condizioni di accesso al rito abbreviato e alcune delle numerose consonanti pronunce delle Sezioni semplici: Sez. 2, n. 14068 del 27/02/2019, Selvaggio, Rv. 275772; Sez. 4, n. 5034 del 15/01/2019, Lazzara, Rv. 275218; Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752.
La ricognizione delle decisioni pertinenti evidenzia che, sinora, il rilievo del profilo sostanziale del rito abbreviato è stato esaltato essenzialmente nella prospettiva della applicazione della legge più favorevole al reo; e ciò non è senza significato, perché pone in luce che occorre cautela nel ricavarne automatismi o implicazioni su un piano più generale. In altri termini, non sarebbe corretto affermare che, in quanto incidente sulla pena, la diminuzione per l’abbreviato afferisce al piano della determinazione legale. La previsione processuale non è ispirata alla necessità di ridefinire il valore del tipo.
Per quanto dalla sua introduzione la disciplina del rito abbreviato abbia conosciuto ripetute modifiche, non sempre ispirate dall’intento di conservare il disegno originario, non sembra mutata la funzione assegnata alla caratteristica riduzione di pena. La Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale le assegna la «finalità pratica di creare un incentivo alla richiesta di giudizi abbreviati» che, al pari degli altri procedimenti speciali, sono stati previsti per ridurre la durata del processo. Una rinnovata conferma della funzione deflattiva della diminuzione di pena viene dalla legge 27 settembre 2021, n. 134, con la quale è stata conferita “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. L’art. 1, comma 10, lett. b) n. 2), con riguardo al rito abbreviato, prescrive di «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione». La ratio della previsione, quale esplicitata dalla Relazione della Commissione ministeriale dai cui lavori essa ha tratto origine, è quella di «ridimensionare l’incidenza di appelli finalizzati a censurare unicamente l’entità della pena»; la riduzione si basa «su uno scambio ben noto nel nostro ordinamento tra rinuncia consapevole e volontaria a una garanzia (l’appello quale espressione del diritto di difesa) e uno sconto ragionevole di pena (quale premio per il risparmio di attività processuale) …».
Dal canto suo, la giurisprudenza individua la ragione giustificativa della diminuzione prevista per il rito abbreviato nell’intento di accordare un incentivo, o premio, per la scelta del procedimento speciale a prova contratta, o allo stato degli atti (Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, Rv. 226595; Sez. 6, n. 58089 del 16/11/2017, Wu, Rv. 271954). Ricostruzione che è stata ribadita da Sez. U, n. 35852 del 22/02/2018, Cesarano, Rv. 273547, che ha rammentato come la Corte costituzionale abbia in più occasioni rimarcato la natura di diminuente processuale (n. 284 del 1990), funzionale ad assicurare la rapida definizione dei procedimenti (n. 277 del 1990).
Ancor più pregnante rispetto alla prospettiva che qui interessa è quanto affermato da Sez. U, n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 187851, la quale ha escluso che la diminuente in parola possa essere assimilata alle circostanze del reato, facendone discendere la non incidenza sulla determinazione della pena rilevante per l’individuazione del tempo necessario alla prescrizione del reato. Anche Sez. 2, n. 18558 del 20/02/2020, Larosa, Rv. 279147, in tema di calcolo del termine di durata massima della custodia cautelare nel giudizio abbreviato, ha ritenuto che per tale calcolo non si può tener conto della riduzione di un terzo prevista dall’art. 442 cod. proc. pen., non incidendo questa sulla misura edittale della pena.
Parole nette sulla questione si leggono in Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace: «… la natura processuale della diminuente per il rito, in quanto non attiene alla valutazione del fattoreato e alla personalità dell’imputato, non contribuisce a determinare in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa, consistendo in un abbattimento fisso e predeterminato connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice». Rilievo che non ha precluso alle Sezioni Unite di ribadire che «le caratteristiche della diminuente si presentano collegate con effetti di sicuro rilievo dal punto di vista sostanziale». Sicché, sarebbe errato dedurre una implicita connotazione in termini di illegalità della pena dalla circostanza che nella medesima sentenza si è rimarcata la inderogabilità della riduzione per il rito; del resto ancorata, nel caso di specie, al più generale obbligo del giudice di appello di rispondere specificamente ai motivi proposti con l’impugnazione e sulle questioni con gli stessi devolute nonché alla violazione del principio devolutivo (cfr. p. 8).
La non incidenza della diminuente processuale sulla legalità della pena inflitta è presente anche nelle argomentazioni di Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229173, che hanno sancito il dovere di applicare la riduzione per il rito abbreviato da parte del giudice del dibattimento che, all’esito del giudizio, reputi illegittimo il rigetto dell’istanza di rito abbreviato condizionato avanzata dinanzi al giudice per le indagini preliminari o al giudice dell’udienza preliminare e tempestivamente rinnovata in dibattimento. In tale decisione viene più volte rimarcato che la legittimità del provvedimento reiettivo della richiesta di rito abbreviato (condizionato) è presupposto che condiziona «la legalità della pena inflitta con la condanna». Ma tale affermazione è fatta nel contesto di una argomentazione che non aveva la necessità di distinguere tra pena illegale e pena illegittima. Tanto è vero che in essa si scrive che l’eventuale rinnovato rigetto del rito abbreviato condizionato da parte del giudice del dibattimento può essere appellato con specifico motivo di gravame che denunci «l’eventuale profilo di ‘illegalità’ della pena inflitta». In altri termini, non si è in presenza di una decisione che coglie (né doveva cogliere) il discrimine tra pena illegale e pena illegittima; la sentenza individua correttamente un profilo di illegittimità del procedimento (il rigetto viziato) che rifluisce sulla legittimità della pena in concreto inflitta.
Né si traggono argomenti critici da Sez. U, n. 20214 del 27/03/2014, Frija, Rv. 259078, che ha stabilito il diritto dell’imputato al recupero della riduzione premiale nel caso in cui il rigetto o la dichiarazione d’inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato non subordinata a integrazioni istruttorie siano illegittimi. Nell’occasione le Sezioni Unite si sono limitate a ritenere estensibile alla fattispecie esaminata il principio scandito dalla sentenza Wajib.
Nel complesso, la quasi unanime giurisprudenza di legittimità non afferma che la riduzione premiale prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. attiene alla determinazione legale della pena. Una diversa presa di posizione sul punto sembra potersi cogliere in Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, D’Onofrio, Rv. 271526, laddove si sostiene che «le norme del codice di procedura penale che regolano i riti premiali nella parte in cui disciplinano le riduzioni di pena devono essere intese come norme regolatrici di “sanzioni”», traendo la conseguenza che «l’accesso ad un rito nei casi non consentiti con conseguente applicazione del premio sanzionatorio connesso configura una situazione in cui viene applicata una pena illegale» (nella specie, si trattava di patteggiamento ‘allargato’). Ma si tratta di affermazione che viene sostenuta con il richiamo ai principi espressi da Sez. U, Ercolano (e dalla correlata giurisprudenza convenzionale), dai quali non può ricavarsi che la rilevanza del profilo sostanziale della riduzione processuale vada oltre l’ambito della successione di leggi penali nel tempo.
Dunque, in ragione della estraneità della diminuente processuale all’ambito della determinazione legale della pena, la violazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non importa la illegalità della pena.
- Le argomentazioni esposte dalle pronunce che si sono espresse sulla specifica questione vanno esaminate alla luce delle premesse sin qui definite. Le sentenze che fanno leva sulla macroscopicità dell’errore (Sez. 3, n. 38474 del 31/05/2019, Lasalvia e Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Torna) utilizzano un criterio che, per quanto già osservato, è eccentrico rispetto ai termini del problema e, pertanto, non idoneo ad identificare la pena illegale e a distinguerla dalla pena illegittima. Neppure è condivisibile Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, la quale non ricava dalla natura processuale della diminuente motivo per distinguere l’ipotesi della erronea applicazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. dai casi di illegalità della pena.
Distinguo che si coglie, al contrario, in Sez. 4, n. 6510 del 27/01/2021, Di Maria e in Sez. 1, n. 22313 del 08/07/2020, Manto, Rv. 279455 le quali, pur senza esplicitare le premesse interpretative adottate, formulano un enunciato che coglie esattamente il punto: in linea generale, la determinazione della pena operata non applicando o erroneamente applicando il criterio di riduzione previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. integra una violazione della legge processuale, sicché la pena risulta illegittima, ma non illegale. Merita condivisione, quindi, anche Sez. 1, n. 28252 del 11/06/2014, Imparolato, Rv. 261091, che con riguardo ad un’ipotesi di omessa applicazione della riduzione prevista per il rito abbreviato, ha affermato che «… non di pena illegale può correttamente discettarsi, di pena cioè non prevista dall’ordinamento, ma di pena illegittima e cioè determinata in contrasto con i principi di legge per la sua quantificazione».
- Pervenuti alla conclusione che la pena determinata dal giudice in violazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. è illegittima e non illegale, risulta superfluo l’esame di quello che si è definito, in principio di trattazione, come il primo polo del contrasto segnalato dalla Quarta Sezione, ovvero la rilevabilità della illegalità della pena ad opera del giudice dell’impugnazione inammissibile.
- Può quindi essere formulato il seguente principio: “Qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali, l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente, prevista per un reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un’ipotesi di violazione di legge che, ove non dedotta nell’appello, resta preclusa dalla inammissibilità del ricorso“.
- Calando simili considerazioni nel caso che occupa, la pena risultante dal dispositivo non risulta illegale. Il reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e co. 2-sexies cod. strada è punito con l’arresto sino a sei mesi e la ammenda da 1.066 a 4.800 euro. La pena irrogata, di giorni quaranta di arresto ed euro duemila di ammenda, è ricompresa nel range e pertanto non è illegale. Pertanto, sussiste una violazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. che dà luogo ad una pena illegittima, come tale non rilevabile d’ufficio da questa Corte, stante la inammissibilità del ricorso per le ragioni esposte al paragrafo 2.
- Il rinvenuto contrasto interpretativo e la complessità e la particolare rilevanza del tema posto con il ricorso danno evidenza all’assenza di ‘colpa’ del ricorrente, al quale non può rimproverarsi di aver presentato un’impugnazione temeraria, ovvero connotata da avventatezza, superficialità, o finalità meramente dilatorie. Pertanto, alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali non deve seguire anche la condanna al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende (cfr. Sez. U, n. 43055 del 30/09/2010, Dalla Serra, Rv. 24838001).