In caso di morte direttamente cagionata dall’illecito, l’ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto.
Con il 1 motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 2697,2699,2700 c.c., 115, 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto essere stata data dalla Regione Campania la “prova liberatoria della responsabilità contrattuale ascritta alla struttura ospedaliera sulla sola base della provenienza della sacca di sangue utilizzata dall’Avis e della sufficienza dei controlli solo dalla medesima effettuati, laddove anche in tal caso residuava la responsabilità contrattuale per non avere la struttura allo stato della normativa vigente comunque assicurato la tracciabilità del sangue dal donatore, e comunque per non avere proceduto direttamente ai controlli sul sangue pervenutole dall’Avis”.
Con il 2 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1223,1243,2043,2056 c.c., 2 ss. L. n. 210 del 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che la corte di merito abbia “rideterminato il danno non patrimoniale iure hereditatis” senza limitare la corresponsione alla durata di vita effettiva della vittima primaria e senza scomputare “per intero”, e cioè con riferimento “anche ai ratei futuri non ancora percepiti”, l’indennizzo ex L. n. 210 del 1992.
Lamenta che a tale stregua la corte di merito “non ha tenuto conto nel riliquidare il danno patrimoniale del lucro che nel periodo di vita stimato in più la vittima primaria avrebbe ottenuto continuando a percepire l’indennizzo”, laddove “in coerenza… avrebbe dovuto detrarre non già la sola somma… quale percepito stimato alla data del decesso, ma l’ulteriore somma che avrebbe percepito sino all’epoca di stimata vita media”, in quanto “ai fini della scomputabilità dell’indennizzo già riconosciuto e soggetto nella sua material erogazione a periodicità… lo scomputo deve essere per intero (come pure in S.U. del 2008: “integralmente scomputato”), cioè riferiti anche ai ratei futuri non ancora percepiti, in quanto solo così si assicura l’omogeneità dei termini del raffronto tra poste risarcitorie liquidate anche in relazione alle conseguenze dannose prevedibili per la aspettativa futura e le poste indennitarie in detrazione la cui attribuzione patrimoniale è causalmente e funzionalmente collegata all’illecito”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
È rimasto nel giudizio di merito accertato che la C. è deceduta in conseguenza di “epatocarcinoma a sua volta cagionato” dall’epatite C contratta all’esito di emotrasfusioni cui era stata sottoposta durante il ricovero dal 17/6/1987 al 3/7/1987 presso l’Ospedale Civile di (OMISSIS) “, e in particolare il 22/6/1987.
Orbene, va anzitutto osservato, con particolare riferimento al 1 motivo, che nell’accogliere la censura mossa dall’allora appellante ed odierna controricorrente Regione Campania (secondo cui “la sacca di sangue n. 680 utilizzata per la trasfusione del 22.6.1987 presso l’Ospedale civile di (OMISSIS) somministrata a C.A. , proveniente dall’Avis di Napoli era stata sottoposta a tutti i controlli ai sensi della normativa vigente all’epoca… pertanto il personale sanitario aveva proceduto a verificare la compatibilità per la trasfusione e riportato gli estremi nella cartella clinica adempiendo a tutte le prescrizioni di legge e di diligenza professionale”), nell’impugnata sentenza la corte di merito ha al riguardo espressamente affermato che “nel caso di specie… risulta pacifico che la trasfusione sia avvenuta con una sacca di sangue, proveniente dall’Avis, regolarmente tracciata e i cui estremi e provenienza sono stati regolarmente riportati nella cartella clinica”, e che l'”impossibilità di rintracciare successivamente il destinatario determinata dalla avvenuta distruzione dei nominativi dopo un certo numero di anni non è addebitabile all’ente regionale (e la stessa normativa evolutiva dell’obbligo di conservazione dei dati è successiva alla trasfusione in questione”, in quanto come dalla Regione al riguardo dedotto “solo nel 1990 era stato introdotto l’obbligo di conservare il nominativo del donatore per cinque anni e pertanto non era stato possibile risalire al donatore pur essendo ciò astrattamente possibile dal tracciamento della sacca”.
Ratio decidendi che è rimasta dall’odierno ricorrente non (quantomeno idoneamente) censurata quanto alla dedotta tracciabilità della sacca di sangue nella specie utilizzata, a fortiori in ragione della mancata osservanza del requisito a pena d’inammissibilità richiesto all’art. 366 c.p.c., 1 co. n. 6, relativamente agli atti e ai documenti e alle circostanze del giudizio di merito (in particolare con riferimento alla “confezione… consegnata sterile e sigillata al personale sanitario che ne verificava (solo) la compatibilità rispetto al donatario”, ai controlli effettuati dalla “struttura sanitaria”) su cui fonda le proprie censure, altresì comportanti accertamenti di fatto invero preclusi a questa Corte di legittimità, e una rivalutazione delle emergenze probatorie, laddove solamente al giudice di merito spetta individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, non potendo in sede di legittimità riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, atteso il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte Suprema di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. in particolare Cass., 14/3/2006, n. 5443).
Quanto al 2 motivo, va in particolare osservato che il principio secondo cui l’ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto (v. Cass., 29/12/2021, n. 41933; Cass., 26/5/2016, n. 10897; Cass., 18/1/2016, n. 679), si applica invero, come nell’impugnata sentenza posto correttamente in rilevo, solo nel caso in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, e non anche allorquando come nella specie la morte sia stata viceversa direttamente cagionata dall’illecito, essendo la persona deceduta proprio in conseguenza della patologia contratta all’esito della subita trasfusione con sangue infetto, e non già per cause da essa indipendenti.
Trova in tal caso infatti applicazione il principio affermato da questa Corte in base al quale la menomazione non reversibile dell’integrità della persona (idonea, cioè, ad incidere stabilmente e continuativamente sull’esplicazione della personalità lungo il presumibile arco della vita futura del soggetto che la patisce) presuppone che la persona sopravviva almeno temporaneamente al fatto lesivo e, presentandosi con i connotati del danno permanente, va risarcita con le corrispondenti tecniche di valutazione probabilistica (v. Cass., 11/7/2003, n. 10942; Cass., 25/2/2002, n. 2741; Cass., 7/4/1998, n. 3561; Cass., 2/3/1995, n. 2450).
Orbene, di tale principio la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione là dove ha affermato non essere nel caso applicabile il principio in tema di “risarcimento del danno non patrimoniale da liquidare in favore degli eredi” secondo cui qualora al momento della liquidazione del danno biologico la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, alla valutazione probabilistica va sostituita quella del concreto danno effettivamente prodottosi e richiesto dagli eredi iure successionis, in quanto la morte della persona sopravvenuta prima della liquidazione del risarcimento rende misurabile e rapportabile alla durata della vita successiva alla menomazione l’incidenza negativa da questa arrecata (v. Cass., 11/7/2003, n. 10942; Cass., 25/2/2002, n. 2741; Cass., 7/4/1998, n. 3561; Cass., 2/3/1995, n. 2450), giacché la liquidazione del concreto danno effettivamente prodottosi e richiesto dagli eredi iure successionis in luogo della relativa valutazione probabilistica non è “nella specie… possibile”, in quanto “nel caso in esame la morte è stata attribuita (ed in misura assolutamente preponderante) dallo stesso CTU all’epatocarcinoma a sua volta cagionato dalla patologia epatica derivata dalla trasfusione”.
La corte di merito ha pertanto conseguentemente correttamente eliminato “la decurtazione” al riguardo a tale titolo apportata dal giudice di prime cure.
Va per altro verso osservato che, diversamente da quanto richiesto dall’odierno ricorrente non può farsi nella specie luogo al defalco dell’indennizzo ex lege ex L. n. 210 del 1992 con riferimento non solo al “percepito stimato alla data del decesso” ma anche ai percipiendi ratei futuri, giacché con il decesso del beneficiario cessa l’obbligo di relativa corresponsione, e il danneggiante verrebbe in quest’ultimo caso a trarre inammissibilmente vantaggio dal proprio illecito.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore di ciascuna parte controricorrente, seguono la soccombenza.
Non è viceversa a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore degli alti intimati, non avendo i medesimi svolto attività difensiva.
Cass. civ., ord., 09.11.2022, n. 32916