Corte di Appello de L’Aquila, sentenza 9 novembre 2021
MASSIMA
- Alle controversie aventi ad oggetto un contratto stipulato tra l’utente cittadino italiano e il fornitore del servizio di social network avente sede in uno Stato membro dell’Unione europea si applica il Reg. 593/2008 (Roma I) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, il cui art. 6, co. 1, individua quale legge applicabile quella del Paese ove il consumatore ha la residenza abituale.
- Si qualifica giuridicamente come contratto per adesione il contratto concluso tra il fornitore del servizio di social network e l’utente mediante il ricorso a moduli online predisposti unilateralmente dal fornitore. Siffatto contratto è, in primo luogo, a prestazioni corrispettive, atteso che, da un lato, l’utente concede la facoltà d’uso dei dati personali mentre, dall’altro lato, il gestore mette a disposizione strumenti che consentono agli utenti di connettersi tra loro, creare community e far crescere aziende; in secondo luogo, a titolo oneroso, considerata l’idoneità dei dati personali ad essere oggetto di sfruttamento commerciale. Il contenuto patrimoniale di una prestazione può infatti ritenersi sussistente anche in quei casi in cui vengano ceduti, a titolo di corrispettivo per un servizio, beni diversi dal denaro che, per la loro potenzialità di sfruttamento commerciale, divengano suscettibili di valutazione economica.
- Non può ritenersi vessatoria, e pertanto, nulla la clausola contrattuale che attribuisca al fornitore del servizio di social network poteri di rimozione dei post e di sospensione degli account in conseguenza di condotte, perpetrate dagli utenti, violative degli standard della comunità. La suddetta clausola, conferendo ad una delle parti la facoltà di sospensione della prestazione in caso di inadempimento della controparte, è assimilabile all’eccezione di inadempimento (v. art. 1460 c.c.).
- Al di fuori dei casi determinati dalla legge, il risarcimento del danno non patrimoniale (come quello da illegittima sospensione dell’account) è ammesso allorché venga accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona riconosciuto dalla Costituzione. Tale lesione deve consistere in un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse conculcato, il quale deve essere allegato e provato, oltre ad avere le caratteristiche della gravità e della non futilità.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con ordinanza pubblicata in data 29/01/2020, il Tribunale di Chieti accoglieva il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. con il quale il Sig. (…) aveva domandato la condanna di (…) al risarcimento di Euro 15.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, sotto forma di danno morale nella sua veste di danno relazionale, per la violazione e l’erronea applicazione degli “standard della comunità” previsti dal social network, in violazione dei suoi diritti costituzionalmente garantiti di espressione e di manifestazione del pensiero. Il ricorrente deduceva di essere “utente” del noto social network “(…)” sin dall’anno 2010 ed in particolare allegava che 1) in data 29/07/2018 aveva pubblicato sul suo profilo una fotografia ritraente (…) nel giorno del compleanno, accompagnata da una didascalia e poche ore dopo si era visto notificare sulla suddetta piattaforma un avviso di rimozione della fotografia pubblicata, poiché considerata non rispettosa dei cd. standard della comunità, con conseguente sospensione dell’utilizzo del suo account per la durata di trenta giorni; 2) in data 19/12/2018, l’amministrazione del social network comunicava al Sig. (…), una nuova sospensione dell’utilizzo dell’account per tre giorni, per la pubblicazione di un’immagine della bandiera della Repubblica Sociale Italiana, rimossa poiché, anch’essa, ritenuta in violazione dei cd. standard della comunità. 3) Pochi giorni dopo l’avviso del 19/12/2018, il Sig. (…) aveva ricevuto un terzo avviso con il quale (…) comunicava la rimozione, sempre per violazione dei cd. standard della comunità, di un’altra fotografia che riproduceva il (…), sul quale, nel 1939, era stata riprodotta la scritta “(…)”, attraverso la potatura di una pineta; 4) in data 11/02/2019, il (…) riceveva un avviso di sospensione dell’account per ulteriori trenta giorni, per aver pubblicato, nella pagina intitolata “Una Bologna peggiore è possibile?”, un commento (rivolto ad un terzo soggetto) che non avrebbe rispettato i cd. standard della comunità in tema di bullismo ed intimidazione. 5) In data 07/05/2019, il Sig. (…) riceveva avviso di ulteriori trenta giorni di sospensione dell’account per aver pubblicato un post contenente l’immagine di un pilota di guerra, corredata da una didascalia descrittiva della sua tragica morte. 6) Durante i predetti ultimi trenta giorni di sospensione, il Sig. (…) riceveva altra comunicazione di rimozione di altri due post per violazione dei cd. standard della comunità. 7) In data 23/08/2019, veniva comunicato al (…) un’ulteriore sospensione di trenta giorni per aver pubblicato, nel 2014, un’immagine ritraente (…) con annessa didascalia “(…)”.
Sulla base di tali elementi di fatto e di diritto il ricorrente aveva denunciato l’illiceità della condotta della società convenuta tale da giustificare un risarcimento per danno morale, sotto due profili: A) illegittima sospensione dell’account (…) per oltre quattro mesi, in un arco temporale di quattordici mesi complessivi, in violazione del diritto costituzionalmente garantito della libertà d’espressione; B) violazione dell’art. 617 sexies c.p. (Falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche) per avere la società convenuta creato un pregiudizio, interrompendo diverse sue comunicazioni con la illegittima sospensione dell’utenza, con ciò impedendo le sue abituali relazioni sociali sulla piattaforma informatica.
- Si era costituita in giudizio la (…), contestando tutto quanto dedotto ex adverso, insistendo per il rigetto della domanda ed esperendo altresì eccezione riconvenzionale di inadempimento contrattuale.
- Il Tribunale adito aveva accolto integralmente le domande attoree, condannando la società convenuta al pagamento di Euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi legali dalla domanda al saldo e alla refusione, in favore di parte attrice, delle spese di lite.
In primo luogo, l’azione era qualificata come di origine contrattuale.
Il Giudice aveva posto a fondamento della decisione le seguenti considerazioni: – l’ordinamento democratico della Repubblica italiana rifiuta ogni ideologia contraria alla carta fondamentale, la quale, in particolare, alla XII disposizione transitoria e finale vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”; – la cd. legge Scelba del 1952 aveva dato attuazione al detto principio costituzionale; – sulla suddetta normativa, si era formato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale, sulla base del combinato disposto tra la XII disposizione transitoria e finale e l’art. 21 della Costituzione, le condotte apologetiche, per divenire illecite, devono concretarsi in comportamenti fattivi di pericolo (quest’ultimo inteso come probabilità del verificarsi dell’evento dannoso) di ricostituzione del partito fascista.
Posto ciò, sotto un primo profilo, in riferimento alle quattro condotte relative all’espressione di un pensiero di adesione all’ideologia fascista, il primo Giudice ha motivato l’accoglimento della domanda attorea affermando che, affinché possa essere posta a base di un giudizio di inadempimento contrattuale, senza tuttavia violare il diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero, la condotta dell’utente de quo, avrebbe dovuto concretizzarsi in iniziative fattive volte a supportare ed elogiare l’ideologia fascista, in una logica di espansione del consenso, utile a concretizzare il pericolo di una sua riaffermazione. Il giudicante ha invece ravvisato nelle condotte di parte ricorrente la semplice espressione delle proprie convinzioni, pur improntate a dette ideologie, in una logica di dialettica e confronto. Di conseguenza, le condotte oggetto di causa non potevano, secondo il Tribunale, concretare la violazione degli standard, come eccepito dalla società convenuta, concretandosi nel mero esercizio del diritto costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero.
Sotto un altro profilo (in relazione alla condotta sopra richiamata al punto 4), il primo Giudice riteneva che anche questa ultima non si poneva in violazione degli standard della comunità ma, tutt’al più, esprimeva un pensiero con un tono fortemente polemico. In conclusione, il Tribunale, accertando l’inadempimento contrattuale di parte resistente, condannava (…) Ireland ldt, a pagare al Sig. (…) Euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la cui liquidazione veniva effettuata equitativamente sulla base del fatto che: – le condotte di inadempimento erano reiterate; – la durata complessiva dell’inadempimento ammontava ad oltre 4 mesi, corrispondenti al periodo di sospensione forzata dell’account del (…); – gli altri utenti con cui il (…) condivideva la piattaforma sociale erano circa 2.500; – nell’ordinamento italiano è fatto divieto alla liquidazione dei cd. danni puntivi. Infine, alla condanna alle spese di parte resistente secondo il principio di soccombenza, è stata applicata dal Tribunale la maggiorazione prevista dall’art. 4, comma 8 del D.M. 55/2014.
- Avverso la predetta ordinanza, proponeva appello la (…), chiedendo l’accoglimento delle conclusioni trascritte in epigrafe.
- Resisteva l’appellata, chiedendo il rigetto dell’appello come da conclusioni trascritte in epigrafe.
- Le parti precisavano le conclusioni all’udienza del 24/03/2021, tenutasi con trattazione scritta ai sensi e per gli effetti dell’art. 221, IV comma, L. 77/2020; quindi, la Corte, decorsi i termini assegnati ex art. 190 c.p.c. (concessi nella misura ordinaria, 60+20), riservava la causa a sentenza.
- Posto ciò, l’appello proposto dalla (…) è parzialmente fondato, nei limiti e per le ragioni che di seguito si espongono.
- Preliminarmente, occorre interrogarsi sulla legge applicabile, trattandosi di un rapporto contrattuale in cui l’utente – consumatore è cittadino italiano mentre il fornitore del servizio è società con sede in Irlanda, cosicché il contratto è certamente caratterizzato da profili di internazionalità. Trattandosi di un rapporto tra soggetti giuridici facenti parte dell’Unione europea, questa corte ritiene debba farsi riferimento al Reg. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), che all’art. 6 c. 1 individua quale legge applicabile quella del Paese ove il consumatore ha la residenza abituale (cfr. anche il regolamento UE n. 1215/2012, detto “Bruxelles I”). Anche in tema di giurisdizione tali atti normativi prevedono che il consumatore possa essere convenuto solo dinanzi all’autorità giudiziaria dello stato in cui domicilia, mentre quando sia il consumatore ad agire in giudizio gli è riconosciuta la facoltà di scegliere la giurisdizione competente. Nel confermarsi dunque la sicura sussistenza della giurisdizione italiana, va ritenuta l’applicabilità al caso della legge italiana.
- Ciò posto, sempre in via preliminare, allo scopo di impostare correttamente l’esame delle censure proposte, va esplicitato l’inquadramento e la qualificazione giuridica della fattispecie, ricondotta dal primo giudice all’alveo della responsabilità contrattuale. Tale impostazione va certamente condivisa, sebbene si ritenga necessario prendere posizione sulle specifiche caratteristiche del contratto. Una volta affermato che siamo certamente in ambito negoziale ed in tema di responsabilità contrattuale, deve anzitutto ammettersi si tratti di un contratto per adesione, stipulato mediante il ricorso a moduli on line predisposti unilateralmente dal fornitore, le cui clausole, quindi, dovendosi applicare la legge italiana, essendo “… inserite nelle condizioni generali di contratto, o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro” (art. 1370 c.c.).
- Altro elemento del contratto che occorrerà verificare ai fini di una corretta valutazione delle prestazioni poste a carico delle parti e dei poteri che negozialmente sono riservati a (…) a tutela della regolarità del servizio e di un corretto uso della piattaforma da parte dei fruitori (e, in ultima analisi, per la valutazione della sussistenza e della gravità degli inadempimenti che le parti reciprocamente si addebitano) è se si tratti di contratto a titolo gratuito, come sostenuto dalla convenuta appellante, oppure a titolo oneroso. A tale riguardo, conviene anzitutto esaminare quanto risulta nell’incipit della pagina online che descrive oggi le Condizioni d’uso, che di seguito si trascrive: “Anziché richiedere all’utente un pagamento per l’utilizzo di (…) o degli altri prodotti e servizi coperti dalle presenti Condizioni, (…) riceve una remunerazione da parte di aziende e organizzazioni per mostrare agli utenti inserzioni relative ai loro prodotti e servizi. Utilizzando i Prodotti di (…), l’utente accetta che (…) possa mostrargli inserzioni che (…) ritiene pertinenti per l’utente e per i suoi interessi. (…) usa i dati personali dell’utente per aiutare a determinare quali inserzioni mostrare all’utente. (…) non vende dati personali dell’utente agli inserzionisti e non condivide informazioni che identificano direttamente l’utente (informazioni come il nome, l’indirizzo e-mail o altre informazioni di contatto dell’utente) con gli inserzionisti senza l’autorizzazione specifica dell’utente. Al contrario, gli inserzionisti possono indicare a (…) elementi come il tipo di pubblico di destinazione delle proprie inserzioni e (…) mostrerà tali inserzioni agli utenti che potrebbero essere interessati. (…) fornisce agli inserzionisti report sulle prestazioni delle proprie inserzioni per consentire loro di comprendere in che modo gli utenti interagiscono con i loro contenuti”. L’adesione dell’utente comporta quindi il sorgere di obbligazioni corrispettive, che, semplificando, dal lato dell’utente vanno individuate nella concessione a (…) della facoltà d’uso dei dati personali (con le limitazioni sopra specificate ed oggetto di analisi, in altre sedi e sotto altri profili, che qui non rilevano) e, dal lato del gestore, nella messa a disposizione di strumenti che consentono agli utenti di connettersi fra di loro, creare community e far crescere aziende (vds. condizioni d’uso). Il punto essenziale da valutare è se la concessione della facoltà d’uso dei dati personali possa essere considerato alla stregua di un corrispettivo che, pur non avendo un contenuto patrimoniale immediatamente percepibile, costituisca il tassello fondamentale nella politica dell’impresa per attrarre il maggior numero di inserzionisti e realizzare lo scopo di impresa. Riguardo a tali concetti, è utile far riferimento ai principi espressi di recente nella sentenza emessa dalla sesta sezione del Consiglio di Stato, n. 2631, del 29 marzo 2021. Oggetto del giudizio era la legittimità del provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato aveva sanzionato (…), contestandole una pratica commerciale scorretta, ai sensi degli art. 21 e 22 del Codice del consumo, individuata in un’informativa poco chiara ed incompleta, in merito all’attività di raccolta e utilizzo, a fini commerciali, dei dati degli utenti. In particolare, era – fra l’altro – proprio la dicitura allora presente (ed ora modificata, proprio in virtù di questo intervento), “Iscriviti! È gratis e lo sarà per sempre’, che immediatamente appariva all’utente quando decideva di procedere alla sua registrazione, ad essere stata ritenuta scorretta, in quanto evocava appunto impropriamente la gratuità della prestazione, senza informare l’utente che, invece, (…) avrebbe fatto uso per propri interessi verso terzi, per fini commerciali, dei dati personali degli utenti acquisiti al momento dell’iscrizione. Il Consiglio di Stato, confermando sul punto la sentenza di primo grado (T.A.R. Lazio, I, sent. n. 260/2020, citata dall’appellato), ha ritenuto legittimo il provvedimento sanzionatorio adottato dal Garante, sostenendo che all’assenza della corresponsione di una somma di denaro non conseguisse necessariamente una valutazione di gratuità della controprestazione. Il principio giuridico espresso valorizza, a ben vedere, il profilo patrimoniale della prestazione richiesta all’utente ampliandone la valutazione, in funzione dell’evoluzione della tecnologia e delle nuove scelte imprenditoriali che la pratica commerciale propone – evidentemente ritenute meritevoli di tutela giuridica – e, in tale ottica, giunge a considerare la facoltà d’uso dei dati personali concessa dall’utente al social network alla stregua di una controprestazione a contenuto patrimoniale. In questo quadro, sviluppandosi i principi affermati dal Consiglio di Stato, questo collegio ritiene di condividere l’affermazione che il contenuto patrimoniale di una prestazione possa ritenersi sussistente anche in quei casi in cui vengano ceduti, a titolo di corrispettivo per un servizio, beni diversi dal denaro che, per la loro potenzialità di sfruttamento commerciale, divengano suscettibili di una valutazione in chiave economico – patrimoniale. È, in sostanza, l’idoneità intrinseca del dato personale – legittimamente acquisito e trattato, s’intende, il che dovrà essere sempre attentamente valutato – a dover essere considerata, in quel determinato contesto, oggetto di proficuo sfruttamento commerciale, così consentendo di ritenere integrato il requisito della patrimonialità della controprestazione (volendo richiamare analogicamente un contratto tipico, questo schema richiama, a ben vedere, la permuta). Del resto, va ricordata in questo contesto la Direttiva 2019/770/UE (solo come elemento che rafforza il convincimento espresso, in quanto essa è successiva ai fatti di causa e non ancora vigente) perché essa esprime principi pienamente coerenti con questa prospettiva interpretativa; tale direttiva – proprio allo scopo di regolare il fenomeno in esame oramai diffusissimo – è andata ad esplicitare i principi immanenti alla disciplina contrattuale all’esame, chiarendo in modo non equivoco che “il trasferimento di dati personali costituisce corrispettivo del contratto di fornitura di contenuti o servizi digitali e, dunque, è un’obbligazione assimilabile al pagamento del prezzo” (la direttiva 2019/770, che sarà in vigore dal gennaio 2022, si applica ai casi “in cui l’operatore economico fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si impegna a fornire dati personali all’operatore economico, fatto salvo il caso in cui i dati personali forniti dal consumatore siano trattati esclusivamente dall’operatore economico ai fini della fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale a norma della presente direttiva o per consentire l’assolvimento degli obblighi di legge cui è soggetto l’operatore economico e quest’ultimo non tratti tali dati per scopi diversi da quelli previsti” (art. 3, par. 1). Ivi è anche affrontato, forse debolmente, il paradosso sotteso a questa impostazione – al quale è utile fare un doveroso accenno – laddove si prospetta il rischio che i dati personali, la cui protezione è considerata un diritto fondamentale dell’uomo, possano finire con l’essere considerati una merce di scambio, prevedendo la necessità di “garantire rimedi contrattuali ai consumatori, nell’ambito di tali modelli commerciali” (considerato 24).
- Chiarito che il contratto è a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, sarà necessario ricordare che, come a tutti è noto, il contraente a titolo gratuito sia in genere tutelato con minor forza rispetto a colui che stipula a titolo oneroso (cfr. ad esempio, nella disciplina della compravendita gli artt. 1490, 1491, 1492, 1493, 1494, 1495 e 1496 c.c., rispetto a quella della donazione in cui il disponente, a meno che non sia in dolo, non risponde dei vizi dei quali sia affetta la cosa donata ex art. 798 c.c. o ancora al grado di tutela dell’acquirente con riferimento ai rimedi apprestati per le ipotesi di patologie del negozio).
- Prima di chiudere su questo punto, giova chiarire come nella specie la clausola contrattuale che attribuisce a (…) poteri di rimozione dei post e di sospensione degli account non possa essere ritenuta nulla. Al riguardo, l’appellato, ha riproposto le questioni di nullità della clausola nell’atto di costituzione e risposta (art. 346 c.p.c.) sia sotto il profilo codicistico che sotto il profilo della tutela consumeristica. A favore della natura non vessatoria della clausola reputa la Corte debba, sì, prendersi in considerazione la natura del contratto (per adesione) e la sua onerosità, ma debba anche valutarsi A) come l’adesione al contratto e il conseguente uso della piattaforma da parte degli utenti abbia ad oggetto la fruizione di un servizio non certo essenziale; B) che – sebbene in determinati ambiti e condizioni il profilo dell’utente possa restare noto solo ad una ristretta cerchia di persone (come pone in evidenza, in particolare, l’appellato) – ciò che si scrive è però sempre veicolato all’esterno da un soggetto giuridico diverso dall’autore di quelle espressioni, che è appunto (…); tali peculiarità consentono di ritenere non priva di ragionevolezza (ed anzi posta a tutela del sinallagma) la previsione in capo al proprietario e gestore del social network sul quale si manifestano le varie personali opinioni o si condividono contenuti del diritto di verificare che ciò avvenga nel rispetto dei valori condivisi posti alla base dell’adesione, chiarendosi come il successivo controllo giurisdizionale in ordine all’esercizio in concreto del potere di autotutela debba certamente essere volto alla verifica del rigoroso rispetto dei diritti delle parti, onde evitare abusi (cfr. del resto, i principi espressi, tra le altre, in cass. Sez. VI, 3 settembre 2015 n. 17579, in ambito diverso, trattandosi di un contratto di noleggio di apparecchiature da gioco, in cui comunque è stato negato il carattere vessatorio alla clausola che stabiliva in un quinquennio la durata del contratto senza possibilità di recesso anticipato, pur inserita in condizioni generali di contratto, non espressamente sottoscritta né oggetto di specifica contrattazione tra le parti). Facendo dunque applicazione dei principi di diritto espressi dalla suprema corte, deve affermarsi come la clausola mediante la quale – come nel presente caso – è attribuita ad una delle parti la facoltà di sospensione della prestazione in caso di inadempimento della controparte non rientri tra le clausole particolarmente onerose, essendo anzi assimilabile all’eccezione di inadempimento (non attribuisce cioè un potere unilaterale insindacabile di sospensione dell’esecuzione). Essa quindi non può considerarsi vessatoria perché non rientra tra le clausole che pongono in capo all’aderente “limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto” (art. 1341 c.2 c.c.), ma afferisce alla normale regolamentazione del contratto e non impedisce di sollevare le eccezioni che, in un contratto individuale, potrebbero proporsi (cfr. cass. ult. cit). L’eccezione di nullità della clausola, come riproposta dall’appellato, deve dunque essere respinta.
- Sulla base di quanto osservato, prima di procedere all’esame specifico delle censure mosse va, riassumendo, anzitutto esclusa la fondatezza della premessa posta dall’appellante a fondamento della sua ricostruzione critica, che, cioè, il contratto possa tout court definirsi a titolo gratuito (vds punto 8, supra). Va anche sottolineato come tra le parti sia intercorsa una regolamentazione contrattuale mediante il ricorso alla tipologia del contratto per adesione, nel cui ambito il contraente ha accettato, tra le altre, anche l’art. 1 delle Condizioni, che – nella sezione Lotta ai comportamenti dannosi, protezione e supporto della community di (…) – statuisce che: “Le persone creano community su (…) solo se si sentono al sicuro. (…) impiega team dedicati in tutto il mondo e sviluppa sistemi tecnici avanzati per rilevare usi impropri dei propri Prodotti, comportamenti dannosi nei confronti di altri e situazioni in cui potrebbe essere in grado di aiutare a supportare o proteggere la propria community. In caso di segnalazione di contenuti o condotte di questo tipo, (…) adotta misure idonee, ad esempio offrendo aiuto, rimuovendo contenuti, bloccando l’accesso a determinate funzioni, disabilitando un account o contattando le forze dell’ordine”. In tale contesto ed a tal fine, sottolinea l’appellante, “l’art. 3.2 delle Condizioni, rubricato “Elementi condivisibili e condotte autorizzate su (…)”, meglio dettaglia i criteri per la valutazione dei comportamenti non tollerati: “(…) desidera che i propri utenti possano esprimersi e condividere contenuti per loro importanti, ma senza pregiudicare la sicurezza e il benessere degli altri o l’integrità della propria community. Pertanto, l’utente accetta di non adottare le condotte descritte qui sotto (o di agevolare o supportare altri ad adottarle): l’utente non può usare i Prodotti per adottare condotte o condividere contenuti: – contrari alle Condizioni, agli Standard della community e ad altre condizioni e normative applicabili all’uso di (…) da parte dell’utente. – Contrari alla legge, ingannevoli, discriminatori o fraudolenti. – Contrari o in violazione dei diritti di altri utenti, compresi i loro diritti di proprietà intellettuale. (…) (…) può rimuovere o bloccare i contenuti che violano tali disposizioni…”. Tale clausola, sulla base dei fatti allegati, è da ritenersi validamente pattuita in quanto appare posta a salvaguardia del sinallagma contrattuale, cioè dell’equilibrio tra la possibilità per l’utente di esprimersi e condividere contenuti ritenuti importanti e il pregiudizio che determinate modalità espressive o determinati contenuti possano arrecare alla sicurezza e al benessere altrui o all’integrità della stessa community; il che è come dire che quelle modalità espressive sono accettate nella misura in cui non finiscano con il divenire un attentato alla sicurezza e al benessere di altri utenti e/o all’integrità dei valori della stessa community. La violazione dei criteri di equilibrio sopra descritti, che sono sostanzialmente regole di convivenza civile, può ben dunque essere valutata alla stregua di un inadempimento contrattuale che, ove esistente, abilita la controparte a sospendere la propria prestazione, rimuovendo o bloccando i contenuti che violino tali disposizioni contrattuali. La valutazione, ritiene questa corte, deve essere condotta in sede giurisdizionale con particolare rigore ed attenzione e con riferimento ad ogni singolo episodio, posto che, se, da un lato, il fatto che la piattaforma sulla quale si opera, pur presentando profili che possono gestirsi come privati, resti comunque di proprietà della società giustifica l’attribuzione dei poteri di autotutela riconosciuta contrattualmente (a livello di immagine pubblica, infatti, la società vede ripercuotersi sulla propria sfera di interessi le conseguenze che gli utenti determinano attraverso le proprie iniziative all’interno della community); d’altro canto, l’esercizio in concreto di tali poteri non deve sfociare in comportamenti apertamente violativi della sfera di libertà espressiva che, dietro concessione dell’autorizzazione all’uso di propri dati sensibili e non gratuitamente, costituisce il contenuto tipico e, per così dire, la ragion d’essere dell’adesione ad una piattaforma di questo tipo, la cui funzione è appunto quella di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti. Tanto più in un contesto nel quale non è neppure specificato con quali modalità si formuli il giudizio di congruità dell’espressione usata da parte di (…).
- Passando ora all’esame dei motivi d’appello, si ribadisce come lo stesso sia in parte fondato. Con il primo motivo di appello, la (…), ha denunciato l’erroneità della statuizione di primo grado, nella parte in cui ha omesso di applicare le condizioni e gli standard della comunità al rapporto oggetto di controversia, sostituendo la legislazione vigente alla volontà delle parti, in violazione del principio dell’autonomia privata ai sensi dell’art. 1322 c.c., valutando i contenuti pubblicati sulla piattaforma dal Sig. (…) esclusivamente alla luce della normativa sull’apologia del fascismo. La censura può dirsi in astratto fondata, ma a ben vedere non è idonea a comportare l’integrale riforma della sentenza impugnata. Si è detto infatti della necessità di ricostruire la fattispecie alla luce della disciplina contrattuale, che proprio allo scopo è stata sopra analizzata. Tale analisi, se consente di riportare alla volontà delle parti il codice di autodisciplina sopra illustrato, obbliga a considerare come siano soggetti a tale codice non solo i comportamenti “contrari alle Condizioni, agli Standard della community e ad altre condizioni e normative applicabili all’uso di (…) da parte dell’utente”, ma anche quei comportamenti “Contrari alla legge, ingannevoli, discriminatori o fraudolenti…. Contrari o in violazione dei diritti di altri utenti, compresi i loro diritti di proprietà intellettuale.”. Ora, fermo restando come secondo questa Corte resta prioritario in caso di comportamenti illeciti la segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza, di certo il contratto autorizza anche l’adozione di iniziative di sospensione ed altro, alle condizioni sopra analizzate. È corretto dunque sostenere che a legittimare l’esercizio di poteri di autotutela possa essere non solo il comportamento contrario alla legge (certamente rilevante, giusta l’espresso richiamo contrattuale) – e dunque ad esempio quel comportamento che integri, in ipotesi, il reato di apologia del fascismo – ma anche un comportamento diverso, non definibile come illecito. Del resto, è bene qui chiarirlo espressamente, che i comportamenti delineati dalla XII disposizione transitoria della Costituzione e dalla legge l. 20 giugno 1952, n. 645 costituiscano altrettante limitazioni dell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero in Italia è a tutti noto e ciò non potrebbe certo essere posto in discussione da una diversa regolamentazione contrattuale. A tal fine è bene qui ricordare che in base alla legislazione vigente “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista” (art. 1).
- Ciò chiarito in ordine a questo primo profilo di censura, gli altri motivi d’appello che di seguito si illustrano, possono essere congiuntamente esaminati e, come si diceva, si rivelano in parte fondati. Con il secondo motivo, la società appellante ha censurato l’ordinanza del Tribunale laddove aveva “omesso di accertare che i contenuti pubblicati dal Sig. (…) violavano gli standard della Comunità e che, di conseguenza, la società appellante aveva agito legittimamente rimuovendoli e sospendendo temporaneamente l’utenza, poiché le condizioni e gli standard della comunità prevedono la creazione di un ambiente di rispetto reciproco fra gli utenti, nell’ottica di una policy che vieta i gruppi e le organizzazioni che incitano all’odio. In particolare, l’appellante sottolineava il fatto che l’appellato aveva pubblicato diversi contenuti in supporto dell’ideologia fascista e, così facendo, aveva violato il divieto di esprimere supporto nei confronti di organizzazioni che incitano all’odio ai sensi degli standard della comunità”. Con un terzo motivo d’appello, (…) ha denunciato il contenuto dell’ordinanza nella parte in cui ha omesso di accertare il danno causato dalla condotta del (…) il quale aveva pubblicato un commento, rivolto ad un soggetto terzo, nella pagina intitolata “Una Bologna peggiore è possibile?” in violazione dei cd. standard della comunità in tema di bullismo ed intimidazione ai sensi dell’art. 9, in base al quale: “.Per quanto riguarda i privati, la protezione offerta è superiore: rimuoviamo i contenuti pubblicati con l’intento di denigrare o imbarazzare una persona.”. Con un quarto motivo, la società appellante si duole dell’erroneo riconoscimento da parte del Tribunale della sussistenza dei danni non patrimoniali lamentati dal Sig. (…), dal momento che, quest’ultimo, non ha dato prova dei danni lamentati, per il riconoscimento dei quali, ai sensi dell’art. 2697 c.c., la legge richiede che, chi agisce per il risarcimento del danno deve fornire prova rigorosa e dettagliata dei fatti posti a fondamento della domanda. Con il quinto ed ultimo motivo di appello, (…) si duole, in ogni caso, dell’entità, da ritenersi eccessiva, dell’importo liquidato a titolo risarcitorio dal primo giudice, per complessivi Euro 15.000,00, ritenuta dall’appellante illogica ed eccessivamente generosa, considerando che tale cifra “corrisponde quasi al reddito medio annuale degli italiani; seguendo, in via esemplificativa, la liquidazione del danno non patrimoniale operata dalle Tabelle di Milano, quella cifra verrebbe riconosciuta ad un giovane di trent’anni per gravi lesioni psicofisiche che comportano 8 giorni di inabilità.” Pertanto, invocava in caso di accoglimento della domanda la riduzione della misura del risarcimento entro la misura massima di Euro 5.000,00.
- L’esame del secondo e terzo motivo, da svolgersi congiuntamente, richiede l’analisi delle singole condotte (costituenti secondo FB altrettanti inadempimenti, sanzionati con il legittimo esercizio di quei poteri di autotutela). A tale riguardo, deve osservarsi che “il 28 luglio 2018 l’Appellato ha pubblicato una foto di (…) celebrativa del 135esimo anno della nascita ed elogiandone le “gesta”. Nel post di accompagnamento alla foto, l’appellato ha poi scritto quanto segue: “Oggi vorrei ricordare che se fosse passata la proposta di legge di un certo Fiano, scrivere – in realtà un grido che viene dal cuore – VIVA (…)! avrebbe comportato rischi di denunce e di processi. La proposta Fiano è diventata cacca sciolta, buona per i mosconi e gli scarafaggi. Mentre il nostro grido, che avremmo comunque lanciato, leggi o non leggi, è poesia e gioia. È amore per l’Italia. VIVA (…)!”. Ritiene la Corte che in questa ipotesi, conformemente alla tesi espressa dall’appellante, il tono delle espressioni usate per esprimere il proprio dissenso dai contenuti della legge Fiano (che – ove definitivamente approvata – avrebbe introdotto l’art. 293-bis c.p. riguardante il reato di propaganda del partito fascista o nazista effettuata anche attraverso la produzione, la distribuzione o la vendita di beni che raffigurano persone o simboli ad essi chiaramente riferiti, ovvero attraverso il richiamo in pubblico della relativa simbologia e gestualità) sia certamente un tono gratuitamente offensivo che non trova alcuna giustificazione nel contesto del messaggio espresso dal (…). Se lo stesso non viola la legislazione vigente in tema di apologia del partito fascista, viola certamente quegli standard della comunità più volte richiamati che impegnano l’utente ad esprimere il proprio pensiero senza irridere o danneggiare l’immagine o l’idea altrui. Nella specie, invece, la metafora usata esprime in maniera estremamente offensiva un concetto che invece avrebbe ben potuto e dovuto essere espresso con rispetto. Questa corte ritiene pertanto condivisibile la valutazione effettuata dall’appellante, frutto di una corretta applicazione delle clausole contrattuali, posto che nella comparazione dei contrapposti interessi nella specie appare evidente come la metafora utilizzata non avesse altro scopo che quello di offendere un’iniziativa parlamentare non condivisa, senza veicolare a sua volta alcun pensiero significativo; essa, dunque, si apprezza come un’offesa puramente gratuita. Questa prima sospensione dell’account per 30 giorni non può dunque valutarsi illegittima, nell’economia dei rapporti contrattuali. Egualmente legittima va ritenuta l’iniziativa della società con riferimento all’episodio verificatosi l’11 febbraio 2019, quando l’appellato ha scritto un commento in risposta ad altro commento di un altro utente, in cui così si esprimeva: “(l’utente) è un provocatore che si diverte così – Lo lascerei al suo posto esattamente come lascerei nella toponomastica di molte città via (…), via (…), via (…) etc etc; per dimostrare ai posteri la stupidità umana (L’utente) è rassicurante. Quando uno pensa di aver raggiunto l’abisso pensa che ci sono persone come (l’utente) e riacquista fiducia in sé”. Ora, non è noto il tenore della conversazione, che nessuna delle parti ha ritenuto di riportare per intero. Letta quindi così come è, l’espressione appare certamente superare il limite di una rispettosa manifestazione del proprio dissenso, sostanziandosi nel definire stupido il proprio interlocutore, con espressione certamente tagliente (come lo stesso appellato riconosce), denigratorio e sprezzante, del tutto fuori misura perché priva di giustificazione per quella che appare essere una mera divergenza di vedute e di appartenenza politica.
- In nessuno degli episodi successivi, invece, può ravvisarsi legittimo – sulla base, si ripete, della valutazione del tenore degli accordi negoziali – il ricorso da parte di (…) alle iniziative repressive adottate, in quanto le espressioni utilizzate, nella valutazione dei contrapposti interessi come dedotti in contratto, appaiono tutte mere espressioni del pensiero; il che costituisce in ultima analisi, come più volte ribadito anche dall’appellante, la principale funzione di (…) e la ragione stessa della proposta di adesione rivolta al pubblico degli utenti, quella cioè di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti (vds. supra, 9.1). In tal senso è la valutazione di questa Corte con riferimento dunque ai seguenti quattro episodi: A) il 19 dicembre 2018, (…) Ireland ha rimosso un contenuto che raffigurava la bandiera della Repubblica di Salò. Lamenta l’appellante che il (…), pur avendo ammesso tale circostanza, nel proprio ricorso non abbia riportato il testo completo della propria pubblicazione, che è il seguente: “Oggi è la giornata della bandiera italiana e questa è la mia bandiera. E non rompetemi gli zebedei colla storia delle origini massoniche perché questi colori sono stati anche i colori dell’Italia fascista e della Prima Repubblica, quindi sono anche i miei colori”. B) Pochi giorni dopo l’avviso del 19/12/2018, il Sig. (…) riceveva un terzo avviso con il quale (…) comunicava la rimozione, sempre per violazione dei cd. standard della comunità, di un’altra fotografia che riproduceva il (…), sul quale, nel 1939, era stata riprodotta la scritta “(…)”, attraverso la potatura di una pineta. C) Il 7 maggio 2019, l’appellato ha pubblicato una foto di (…), maggiore della Seconda guerra mondiale, con la seguente didascalia: “Il maggiore (…) e i suoi facevano parte di quei piloti che, aderendo alla RSI, difendevano le nostre città dai bombardamenti dei gangster volanti angloamericani”. La mera pubblicazione della foto con un commento che si limita all’espressione del proprio pensiero, con minimi riferimenti rilevanti ai soli fini di dare un contesto al fatto non si ritiene siano sufficienti a violare gli standard della comunità. Anche in questo caso, la didascalia appare evocare un pensiero di mera appartenenza politica cosicché la comminata sospensione di 30 gg. appare di conseguenza a questa Corte non giustificata. D) Il 23 agosto 2019 è stato pubblicato un post, rimosso da FB, che ha comminato anche una sospensione di 30 giorni – raffigurante una foto di (…) con la descrizione “viva (…)”, che, secondo l’appellante, avrebbe dovuto intendersi come celebrazione di (…) e, per implicito, del regime fascista di cui è stato l’artefice, e così – per questa via – fondare un giudizio di espressione violativa del divieto di pubblicazione di contenuti raffiguranti forme d’odio organizzato. In tutti questi casi, le espressioni non travalicano la manifestazione di un’opinione che, a prescindere dalla sua condivisibilità (che non è un parametro contrattualmente assunto a criterio di giudizio) deve essere consentita ove fine a sé stessa.
- Resta ora da valutare il danno, sia in ordine all’apprezzamento della sua sussistenza (IV motivo) che con riferimento alla sua entità (V motivo). In linea generale, sarà sufficiente rammentare che il danno non patrimoniale di cui è chiesto il ristoro, al di fuori dei casi determinati dalla legge, è ammesso quando venga accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona riconosciuto dalla Costituzione. Di esso deve distinguersi una doppia dimensione, sub specie di danno – relazione, quale proiezione esterna dell’individuo e il danno morale quale sofferenza interna ed intima della persona (Cass. civ. Sez. III, Ord. 14-11-2017, n. 26805). Nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio di natura non patrimoniale, cioè non suscettibile di valutazione economica, il giudice deve tener conto di tutte le conseguenze derivate dall’evento dannoso, nessuna esclusa, evitando di operare duplicazioni risarcitorie, ovvero attribuire nomi diversi a pregiudizi identici, cosicché, anche in presenza della lesione di diritti costituzionali inviolabili, non è ipotizzabile il risarcimento del danno non patrimoniale in mancanza della sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso, il quale deve essere allegato e provato e che oltretutto deve avere le caratteristiche della gravità e della non futilità (cfr. Cass. SS. UU. Sentenza 11 novembre 2008 n. 26972; Cass. sent. n. 349/16 del 13.01.2016; Cass. sent. n. 339/16 del 13.01.2016).
10.1. Nella specie, gli episodi descritti, nella misura in cui hanno rappresentato un’ingiustificata limitazione delle relazioni interpersonali e delle comunicazioni private dell’attore, conseguite a quattro illegittime azioni di rimozione di post e sospensioni temporanee del profilo dell’utente, rappresentano dunque comportamenti certamente idonei a produrre conseguenze dannose sia in termini di sofferenza interiore, che in termini di impedimento della possibilità di coltivare appunto quelle relazioni quotidiane costituenti manifestazione della personalità che avevano costituito la ragione stessa dell’adesione. Non ritiene la Corte che possa dunque ragionevolmente negarsi che sussista la prova di un danno morale sotto entrambi i profili della sofferenza interiore e del danno relazionale. Il quarto motivo d’appello è dunque infondato.
10.2. E’ invece in parte fondato il quinto motivo, con il quale (…) deduce che a tutto voler concedere il risarcimento accordato sia comunque da ritenere eccessivo. Ora, nella valutazione dell’entità del risarcimento dovrà tenersi conto del fatto che due dei cinque episodi oggetto del giudizio sono stati ritenuti legittimi da questo giudice, cosicché evidentemente la misura del danno andrà parametrata alle tre sospensioni illegittime, valutandone sia la durata (circa tre mesi) sia il fatto che tale periodo di forzata assenza dell’attore dalla piattaforma non è stato continuativo, nonché tenendo conto che l’attore ha lamentato di non aver potuto coltivare le sue relazioni, limitandosi ad allegarne il numero complessivo (circa 2.500 persone), senza però specificare se e quante di queste relazioni temporaneamente sospese fossero significative sul piano dei rapporti interpersonali né la frequenza dei contatti temporaneamente perduti e non altrimenti coltivabili. Non può dunque essere seguito l’attore laddove lo stesso invita la Corte a parametrare il pregiudizio subito in Euro 400 per ogni giorno di sospensione, misura che appare disancorata da qualsiasi parametro di valutazione affidabile. In considerazione di tutti questi elementi, si ritiene di stimare, in via equitativa, il danno patito mediante la liquidazione all’attualità di un importo di Euro 3.000.
- Ogni altra questione è assorbita.
- Il parziale accoglimento dell’appello circoscrive e riduce il perimetro di fondatezza della domanda e giustifica sia per il primo che per il secondo grado la compensazione delle spese di lite.