Corte Costituzionale, sentenza 23 settembre 2021 n. 185
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189; 2) va invece dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, secondo periodo, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Trapani.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– La norma denunciata si colloca nell’articolato quadro delle misure intese a contrastare il fenomeno – diffusosi in parallelo al progressivo aumento dell’offerta ludica consentita, sino ad assumere dimensioni allarmanti – della “dipendenza da gioco d’azzardo” (cosiddetto gioco d’azzardo patologico o ludopatia): «fenomeno da tempo riconosciuto come vero e proprio disturbo del comportamento, assimilabile, per certi versi, alla tossicodipendenza e all’alcoolismo» (sentenza n. 108 del 2017), con riflessi, talvolta gravi, sulle capacità intellettive, di lavoro e di relazione di chi ne è affetto, e con ricadute negative altrettanto rilevanti sulle economie personali e familiari.
Esclusa dal legislatore una risposta di tipo “proibizionistico”, le misure considerate si muovono su una pluralità di piani.
Vi rientrano, così, le misure di “prevenzione logistica”, prefigurate dall’art. 7, comma 10, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, e ampiamente diffuse a livello di legislazione regionale, consistenti nell’imposizione di distanze minime delle sale da gioco rispetto a luoghi cosiddetti “sensibili”: frequentati, cioè, da categorie di soggetti che si presumono particolarmente vulnerabili – per le loro condizioni personali – di fronte «alla capacità suggestiva dell’illusione di conseguire, tramite il gioco, vincite e facili guadagni» (sentenza n. 300 del 2011).
Una misura più radicale è prevista al fine di tutelare i minori di età, i quali non possono essere ammessi a partecipare ai giochi pubblici con vincita in denaro: precetto la cui violazione è sanzionata, in capo al titolare dell’esercizio commerciale, del locale o del punto di offerta del gioco, con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a ventimila euro e con la chiusura dell’esercizio, del locale o del punto di offerta da dieci a trenta giorni, nonché con la revoca di qualsiasi autorizzazione o concessione nel caso di commissione di tre violazioni nel corso di un triennio (art. 24, commi 20 e 21, del d.l. n. 98 del 2011, come convertito).
La legge ha, inoltre, dapprima fortemente limitato la pubblicità concernente i giochi con vincite in denaro, punendo il committente del messaggio pubblicitario non consentito e il proprietario del mezzo di diffusione con una sanzione amministrativa da centomila a cinquecentomila euro (art. 7, commi 4 e 6, primo periodo, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito); successivamente, ha vietato la pubblicità relativa, tanto ai giochi, quanto alle scommesse, pena il pagamento di una sanzione di importo pari al venti per cento del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a cinquantamila euro (art. 9 del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96).
In questo contesto, si è anche inteso responsabilizzare i concessionari del gioco e i titolari delle sale, introducendo in capo a essi obblighi di informazione sui rischi di cadere nella dipendenza: il riferimento è proprio alle prescrizioni di cui all’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, la cui inosservanza è punita dalla norma censurata nel presente giudizio.
Il citato art. 7, comma 5, prevede, in particolare, che formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro debbano figurare (unitamente all’indicazione delle relative probabilità di vincita) sulle schedine, ovvero sui tagliandi di tali giochi; che le medesime formule di avvertimento debbano essere applicate sugli apparecchi da gioco di cui all’art. 110, comma 6, lettera a), del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza); che esse debbano essere altresì riportate su apposite targhe esposte nelle aree o nelle sale in cui sono installati i videoterminali per il gioco di cui all’art. 110, comma 6, lettera b), del r.d. n. 773 del 1931 (d’ora in avanti: TULPS), nonché nei punti di vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse su eventi sportivi e non; che debbano inoltre comparire, in modo chiaramente leggibile, all’atto di accesso ai siti internet destinati all’offerta di giochi con vincite in denaro; che, infine, i gestori di sale da gioco e di esercizi, in cui vi sia offerta di giochi pubblici o scommesse, debbano esporre, all’ingresso e all’interno dei locali, il materiale informativo predisposto dalle aziende sanitarie locali, diretto a porre in evidenza i rischi correlati al gioco e a segnalare la presenza sul territorio dei servizi di assistenza dedicati alla cura e al reinserimento sociale delle persone con patologie collegate al gioco d’azzardo.
Il successivo comma 6 dell’art. 7 del d.l. n. 158 del 2012, oggi censurato, dopo aver previsto, al primo periodo, la sanzione per la violazione delle limitazioni ai messaggi pubblicitari di cui in precedenza si è detto, al secondo periodo – che è quello contro il quale, in effetti, specificamente si rivolgono le doglianze del giudice rimettente – stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 5 è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro. Tale sanzione si applica nei confronti del concessionario del gioco pubblico; ovvero, per le violazioni relative agli apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, lettere a) e b), TULPS, nei confronti del solo soggetto titolare della sala o del punto di raccolta dei giochi; ovvero ancora, per le violazioni realizzate nei punti di vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse, nei confronti del titolare del punto vendita, se diverso dal concessionario.
Sulla materia è poi tornato anche l’art. 9-bis del d.l. n. 87 del 2018, come convertito, stabilendo che avvertenze relative ai rischi connessi al gioco d’azzardo debbano figurare nei tagliandi delle lotterie istantanee (comma 1) e ribadendo che omologhe formule di avvertimento debbano essere applicate sugli apparecchi da gioco e nelle aree e nei locali in cui questi sono installati (comma 4), senza, peraltro, che ciò implichi abrogazione implicita del citato art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, il cui disposto viene espressamente lasciato «fermo» (comma 5).
3.– Ciò posto, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, sul rilievo che il giudice a quo si sarebbe limitato a denunciare l’illegittimità costituzionale della norma censurata, senza affatto indicare se e come la lacuna che conseguirebbe alla sua ablazione possa essere colmata: con il risultato che, ove le questioni fossero accolte, comportamenti «di incontestabile gravità», quali quelli considerati, incidenti sulla tutela del fondamentale diritto alla salute, rimarrebbero privi di qualsiasi sanzione. Verrebbe pertanto a crearsi, «inammissibilmente», un vuoto normativo, non colmabile – in attesa di una nuova previsione legislativa – «da altra disposizione vigente se non attraverso l’intervento additivo [di questa] Corte»: intervento da ritenere, «però, non consentito».
L’eccezione non è fondata.
In linea di principio, per risalente rilievo di questa Corte, non può essere ritenuta «preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina […] che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958)» (sentenza n. 242 del 2019). Spetterà – laddove ne ricorrano le condizioni – ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, e, comunque sia, al legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che – in conseguenza della decisione stessa – apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione (sentenza n. 113 del 2011).
Tale principio è riferibile – con la riserva di cui subito appresso si dirà – anche ai casi in cui lo scrutinio di legittimità costituzionale verta su una norma sanzionatoria e le censure investano l’entità o la strutturazione del trattamento punitivo. Questa Corte, nelle prime occasioni in cui dichiarò costituzionalmente illegittima una disposizione penale in ragione della sua cornice edittale, non esitò, in effetti, a rimuovere puramente e semplicemente la norma sottoposta a scrutinio, lasciando al legislatore il compito di rimodulare la sanzione in accordo con i principi costituzionali (sentenza n. 218 del 1974, con cui fu censurata l’omologazione, nel medesimo trattamento sanzionatorio, di violazioni di gravità palesemente diversa in tema di obbligo di assicurazione per l’esercizio dell’attività venatoria; analogamente, sentenza n. 176 del 1976).
L’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di «insostenibili vuoti di tutela» per gli interessi protetti dalla norma incisa (sentenza n. 222 del 2018): come, ad esempio, quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali. In simili ipotesi, il vuoto normativo conseguente alla rimozione pura e semplice della disposizione scrutinata non sarebbe tollerabile, neppure temporaneamente: ciò, tanto più alla luce della considerazione che un intervento legislativo inteso a colmare la lacuna, per quanto immediato, opererebbe, di necessità, solo per il futuro (stante l’inderogabile principio di irretroattività della norma sfavorevole in materia punitiva).
Esso non avrebbe, quindi, alcun effetto sui fatti pregressi, i quali, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, diverrebbero automaticamente e definitivamente privi di ogni rilievo penale, persino in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, i cui effetti verrebbero a cessare (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»): disciplina, questa, da ritenere riferibile anche ai fatti colpiti con sanzioni amministrative a carattere punitivo (sentenza n. 68 del 2021).
È in tali casi che la rimozione del vulnus costituzionale resta necessariamente condizionata all’individuazione di soluzioni sanzionatorie che – nel rispetto dei limiti ai poteri di questa Corte, che escludono interventi di tipo “creativo” – possano sostituirsi a quella censurata: soluzioni rinvenibili – secondo la più recente giurisprudenza della Corte stessa, ispirata dall’esigenza di evitare la creazione di “zone franche” intangibili dal controllo di legittimità costituzionale – anche fuori dal tradizionale schema delle “rime obbligate”, facendo leva su «precisi punti di riferimento» offerti dal sistema normativo vigente, anche alternativi tra loro, salvo un sempre possibile intervento legislativo di segno differente, purché rispettoso della Costituzione (sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016; nello stesso senso, sentenza n. 99 del 2019).
Una simile ipotesi non è, peraltro, ravvisabile nella fattispecie oggetto dell’odierno giudizio. La tutela della salute, nella cui cornice si inscrivono le misure intese a contrastare il gioco d’azzardo patologico (sentenze n. 27 del 2019, n. 108 del 2017 e n. 300 del 2011), è obiettivo di sicuro rilievo costituzionale e i precetti sanzionati dalla norma censurata sono in grado di svolgere un ruolo indubbiamente apprezzabile in questo contesto.
Nondimeno, si resta pur sempre di fronte a condotte sensibilmente antecedenti la concreta offesa all’interesse protetto: discutendosi di inosservanze a obblighi informativi, o di “richiamo dell’attenzione”, a carattere preventivo (apposizione di formule di avvertimento su schedine, tagliandi o apparecchi da gioco, affissione di targhe, messa a disposizione di materiale informativo), finalizzati a mettere sull’avviso chi già pratica, o sarebbe intenzionato a praticare, forme di gioco consentite dalla legge sulle possibili derive patologiche di tale pratica, fidando che ciò giovi a dissuaderlo (se non dall’intento di praticare il gioco, quantomeno) dagli abusi.
Il deficit di tutela conseguente all’ablazione della norma denunciata non attinge, dunque, a quei livelli che rendono indispensabile la ricerca – e l’indicazione, da parte del giudice rimettente (sentenze n. 115 del 2019 e n. 233 del 2018) – di soluzioni sanzionatorie alternative, costituzionalmente adeguate, suscettibili di essere sostituite, ad opera di questa Corte, a quella sospettata di illegittimità costituzionale, in attesa di un intervento legislativo.
4.– L’Avvocatura dello Stato ha eccepito, per altro verso, l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 41 e 42 Cost. e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU e agli artt. 16 e 17 CDFUE. Secondo la difesa dello Stato, il giudice a quo avrebbe prospettato una irragionevole incidenza della sanzione censurata sul diritto di proprietà e sul diritto d’impresa dell’autore dell’illecito in termini del tutto generici e di «mera petizione di principio, […] senza alcun supporto fattuale e giuridico concreto».
Anche tale eccezione, così come formulata, non è fondata.
È ben vero che l’ordinanza di rimessione non sviluppa autonome e specifiche argomentazioni a sostegno della dedotta violazione dei parametri dianzi indicati (di là dall’accenno alla possibilità che l’applicazione della sanzione determini, per il suo importo, «un’irreversibile crisi aziendale»): ma ciò in quanto – nella prospettazione del rimettente – il riferimento a tali parametri ha la semplice funzione di individuare le norme costituzionali che, in combinato disposto con l’art. 3 Cost., fornirebbero nel caso in esame la base normativa del principio di proporzionalità della sanzione; principio la cui denunciata violazione è ampiamente argomentata.
La prospettazione del giudice a quo riflette le indicazioni di questa Corte – specificamente richiamate nell’ordinanza di rimessione – in punto di applicabilità del principio di proporzionalità, fuori dai confini della materia penale, anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo (sentenza n. 112 del 2019). Tali sanzioni condividono, infatti, con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto (diverso dalla libertà personale, la cui compressione in chiave sanzionatoria è riservata alla pena); restrizione che trova, dunque, la sua “causa giuridica” proprio nell’illecito che ne costituisce il presupposto.
Allo stesso modo che per le pene – pur a fronte dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione degli illeciti e nella scelta del relativo trattamento punitivo – anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata.
Diversamente che per le pene, peraltro, rispetto alle sanzioni amministrative il principio di proporzionalità trova la sua base normativa non già nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con l’art. 27 Cost., nella parte in cui enuncia i principi di personalità della responsabilità e della funzione rieducativa della pena (principi riferibili alla sola materia penale in senso stretto), ma nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti a volta a volta incisi dalla sanzione (sentenza n. 112 del 2019); diritti che, nel caso in esame, il giudice a quo identifica, per l’appunto, nel diritto di proprietà e nella libertà di iniziativa economica.
Resta peraltro salva la successiva verifica, nel merito, della correttezza di tale individuazione.
5.– La questione sollevata in relazione agli artt. 16 e 17 CDFUE, quali parametri interposti rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., è però inammissibile per una distinta e più specifica ragione.
Come più volte affermato da questa Corte, affinché la CDFUE possa essere invocata quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre che il giudice a quo dia conto della riconducibilità della fattispecie regolata dalla legislazione interna all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, ciò che condiziona la stessa applicabilità delle norme della Carta (ex plurimis, sentenze n. 33 e n. 30 del 2021). Il giudice a quo non fornisce alcuna motivazione in proposito, lasciando dunque inadempiuto l’onere in discorso.
6.– Nel merito, le questioni sollevate in riferimento all’art. 3, in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, sono fondate.
La norma censurata punisce indistintamente l’inosservanza dei plurimi obblighi di condotta contemplati dall’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, con una sanzione amministrativa pecuniaria di considerevole severità e, al tempo stesso, fissa; dunque, non suscettibile di graduazione da parte dell’autorità amministrativa, e del giudice poi, in correlazione alle specifiche circostanze del caso concreto secondo i criteri indicati dall’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Con riguardo alle sanzioni penali, questa Corte ha posto da tempo in luce come la «mobilità» (sentenza n. 67 del 1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della pena – tramite l’attribuzione al giudice di un margine di discrezionalità nella sua commisurazione all’interno di una forbice edittale, così da poterla adeguare alle particolarità della fattispecie concreta – costituisca «naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale» (sentenza n. 50 del 1980), al lume dei quali «l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità» (così, ancora, la sentenza n. 104 del 1968).
Ciò implica che, in via di principio, «previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il “volto costituzionale” del sistema penale», potendo il dubbio di illegittimità costituzionale essere superato, caso per caso, solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980).
Secondo quanto più di recente chiarito da questa Corte, tale affermazione si presta ad essere estesa, mutatis mutandis, anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo.
Pure in questo campo, infatti, «previsioni sanzionatorie rigide, […] che colpiscono in egual modo, e quindi equiparano, fatti in qualche misura differenti, debb[o]no rispondere al principio di ragionevolezza»: donde l’esigenza di verificare «se anche le infrazioni meno gravi», tra quelle comprese nel perimetro applicativo della previsione sanzionatoria, «siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente […] sproporzionata la sanzione amministrativa» comminata (sentenza n. 212 del 2019). In simile prospettiva, questa Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione di sanzioni amministrative rigide e di rilevante incidenza sui diritti dell’interessato per ipotesi di gravità marcatamente diversa (sentenza n. 88 del 2019), o suscettibili, comunque sia, di condurre, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori palesemente eccedenti il limite della proporzionalità rispetto all’illecito commesso (sentenza n. 112 del 2019).
Una evenienza analoga è riscontrabile nel caso oggi in esame.
La fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti, che è in funzione dell’ampiezza dell’offerta di gioco e del tipo di violazione commessa. Un conto è l’omissione delle formule di avvertimento in schedine o tagliandi di giochi soggetti ad ampia diffusione, altro conto le inadempienze relative a sale da gioco o esercizi in cui vi sia offerta di giochi pubblici, la cui gravità varia in modo rilevante secondo la dimensione e l’ubicazione della sala o dell’esercizio, il grado di frequentazione, il numero di apparecchiature da gioco presenti e la circostanza che si sia di fronte a una violazione totale, ovvero solo parziale, degli obblighi previsti.
Tutto ciò fa sì che la reazione sanzionatoria possa risultare manifestamente sproporzionata per eccesso rispetto al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma, come attesta in modo esemplare il caso oggetto del giudizio a quo. Nella specie, il titolare di un bar, nel quale è presente un unico apparecchio da gioco, si trova esposto all’applicazione di una sanzione di cinquantamila euro per il solo fatto di non aver esposto in modo visibile nel locale una targa di avvertimento sui rischi della dipendenza da gioco d’azzardo: ciò, pur essendo egli risultato adempiente agli altri obblighi posti a suo carico in chiave di prevenzione delle ludopatie, tra cui quello di esposizione del materiale informativo in materia, predisposto dall’azienda sanitaria locale.
Contrariamente a quanto assume l’Avvocatura dello Stato, la validità della conclusione non è inficiata dalla circostanza che l’autore dell’illecito possa mitigare l’importo della sanzione ricorrendo all’istituto del pagamento in misura ridotta (art. 16 della legge n. 689 del 1981). Da un lato, infatti, il difetto di proporzionalità della sanzione non può essere contestato facendo leva sulla fruibilità di tale istituto, costituente una forma di definizione della contestazione puramente eventuale e che implica la rinuncia al diritto di difendersi in giudizio; dall’altro lato, e in ogni caso, il possibile ricorso all’istituto in questione non esclude che la sanzione, di importo significativo anche dopo la riduzione, resti di per sé fissa e tale da accomunare violazioni di disvalore sensibilmente differenziato.
Giova rilevare, per altro verso, che – come emerge dal rapido excursus condotto in principio – le sanzioni amministrative introdotte dal legislatore per contrastare la diffusione dei disturbi da gioco d’azzardo sono improntate a marcata severità, ma risultano in genere graduabili: il che conferma anche sotto altro profilo l’irragionevolezza della diversa scelta operata con la norma oggi in esame.
Quest’ultima va dichiarata, quindi, costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, con assorbimento della questione relativa all’art. 41 Cost.
7.– Nel sistema vigente non si rinvengono soluzioni sanzionatorie che possano essere sostituite, ad opera di questa Corte, a quella dichiarata costituzionalmente illegittima, in ragione dell’assimilabilità delle condotte sanzionate. In particolare, non soccorre la soluzione – che pure sembra ipotizzata dall’ordinanza di rimessione – di sostituire, alla sanzione colpita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, quella prevista nei confronti di chi consenta la partecipazione al gioco a minori di anni diciotto: all’evidenza, le fattispecie non sono assimilabili, stante l’eterogeneità delle condotte punite. Per la violazione ora indicata sono d’altro canto previste, in aggiunta alla sanzione amministrativa pecuniaria, di minor importo e graduabile (da cinquemila a ventimila euro), sanzioni accessorie di significativo spessore (chiusura temporanea dell’esercizio, del locale o del punto di offerta; in determinati casi di recidiva, revoca delle autorizzazioni e delle concessioni amministrative), la cui estensione ai comportamenti che qui interessano sarebbe contraria allo stesso “verso” delle questioni e certamente estranea, comunque sia, alle competenze di questa Corte.
Per le ragioni già indicate al punto 3 che precede, ciò non rappresenta tuttavia ostacolo alla declaratoria di illegittimità costituzionale, la quale dovrà assumere un contenuto meramente ablativo. Spetterà al legislatore determinare, nel rispetto dei principi costituzionali, una diversa sanzione per i comportamenti considerati, stabilendone i relativi limiti minimo e massimo.