Cass. pen., V, ud. dep. 21.08.2021, n. 35267
PRINCIPIO DI DIRITTO
“In merito alla natura di atto pubblico dell’autocertificazione rilasciata ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. n. 445 del 2000, nella giurisprudenza di legittimità si osserva che il concetto di atto pubblico agli effetti della tutela penale ha una portata più ampia rispetto ai parametri normativi dettati, in ambito civilistico, dall’art. 2699 c.c., sicché rientrano in detta nozione non soltanto i documenti redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma anche quelli formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purché aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione.”
- Il ricorso è fondato.
- Nessun dubbio sussiste in merito alla non veridicità delle circostanze indicate dagli imputati nei modelli di autodichiarazioni al fine di giustificare i rispettivi spostamenti durante il periodo interessato dalla pandemia da Covid-19. Il Tribunale di Asti ha ricondotto i modelli di autocertificazione, compilati e sottoscritti dagli imputati, nella categoria degli atti elencati dall’ 47 D.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000e non in quella di cui al precedente art. 46.
- Invero, l’art. 46 del decreto citato, intitolato “Dichiarazioni sostitutive di certificazioni”, elenca la gamma delle dichiarazioni che l’interessato può sottoscrivere e produrre in sostituzione delle normali certificazioni, là dove, invece, il successivo art. 47, intitolato “Dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà”, concerne “stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato”, non espressamente indicati nell’art. 46, di cui il soggetto dichiarante rende edotto il destinatario mediante una dichiarazione sottoscritta.
- Nel caso di specie, in cui gli imputati hanno reso noto ai militi che li controllavano “un fatto” rappresentato dal motivo per il quale, in orario non consentito dalla normativa volta al contenimento del contagio da Covid-19, si trovavano fuori dalla loro abitazione, appare corretto l’inquadramento dei documenti redatti nella categoria di quelli elencati dall’ 47 D.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000.
- È opportuno evidenziare che, comunque, l’inquadramento dell’attestazione resa dagli imputati nell’una o nell’altra delle categorie indicate agli 46e 47 D.P.R. n. 445 del 2000 non rileva ai fini della valutazione della pronuncia in verifica, in quanto l’art. 76 del citato decreto, che attribuisce rilevanza penale alla condotta di colui che “rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico”, prevede il medesimo trattamento sanzionatorio sia nel caso in cui il mendacio sia reso nelle dichiarazioni elencate nell’art. 46, sia nel caso in cui si tratti di dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 47.
- Ciò premesso, è consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui integra il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta di colui che dichiara il falso in sede di dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell’ 47 D.P.R. n. 445 del 2000(Sez. 5, n. 24866 del 25/2/2011, Antibo, Rv. 250915; Sez. 5, n. 7857 del 26/10/2017, dep. 2018, Marchetti, Rv. 272277; Sez. 5, n. 30099 del 15/3/2018, Gaiera, Rv. 273806).
- Infatti, in merito alla natura di atto pubblico dell’autocertificazione rilasciata ai sensi degli 46e 47 D.P.R. n. 445 del 2000, nella giurisprudenza di legittimità si osserva che il concetto di atto pubblico agli effetti della tutela penale ha una portata più ampia rispetto ai parametri normativi dettati, in ambito civilistico, dall’art. 2699 c.c., sicché rientrano in detta nozione non soltanto i documenti redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma anche quelli formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purché aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep.2019, Esposito, Rv. 275415; Sez. 5, n. 9358 del 24/4/1998, Tisato, Rv. 211440; Sez. 5, n. 15901 del 15/02/2021, Pizzuto, Rv. 281041).
- Ne deriva che sono atti pubblici anche gli atti interni e quelli preparatori di una fattispecie documentale complessa, come le autocertificazioni redatte dal privato ai sensi degli 46e 47 D.P.R. n. 445 del 2000 e rese a pubblico ufficiale, essendo la qualità del destinatario del tutto idonea a sancirne la destinazione a essere trasfuse in atto pubblico e, dunque, a dimostrare “stati, qualità personali o fatti che siano nella diretta conoscenza” del dichiarante.
- La norma penale di riferimento per le condotte vietate dall’ 76 D.P.R. n. 445 del 2000, che punisce “ai sensi del codice penale” il privato che, ai sensi degli artt. 46 e 47 del medesimo decreto, rilascia dichiarazioni mendaci o forma atti falsi o ne fa uso, si individua nell’art. 483 c.p..
- Infatti, il delitto di falsità ideologica di cui all’ 483 c.p.sussiste qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente (Sez. U, n. 6, del 17/2/1999, Lucarotti, Rv. 212782; Sez. U, n. 28 del 15/12/1999, Gabrielli, Rv. 215413; Sez. 5, n. 5365 del 15/1/2018, Guidi, Rv. 272110; Sez. 5, n. 39215 del 4/6/2015, Cremonese, Rv. 264841; Sez. 5, n. 18279 del 2/4/2014, Scalici, Rv. 259883).
- La fattispecie concreta posta all’esame del Collegio – nella quale gli imputati, in occasione di un controllo da parte dei militi, attestavano circostanze risultate non corrispondenti al vero al fine di giustificare la loro presenza per strada per ragioni e in orari non consentiti dalla normativa di contenimento della pandemia da Covid-19 – rientra nei parametri ermeneutici appena descritti attesa l’evidente e specifica funzione probatoria della dichiarazione resa ai sensi dell’ 47 D.P.R. n. 445 del 2000, dimostrativa di “stati, qualità personali o fatti che siano nella diretta conoscenza dell’interessato”, che solo quest’ultimo può documentare, della quale il pubblico ufficiale prende semplicemente cognizione attraverso l’attestazione del privato, tenuto all’obbligo di verità (Sez. U, n. 28 del 15/12/1999, dep. 2000, Gabrielli, Rv. 215413; Sez. 2, n. 4970 del 12/01/2012, Yu, Rv. 251815; Sez. 6, n. 23587 del 28/02/2013, Ceciliani, Rv. 256259; Sez. 5, n. 5365 del 15/01/2018, Guidi, Rv. 272110).
- Ciò detto, l’accertata non veridicità delle circostanze attestate dagli imputati nelle rispettive autocertificazioni, impone una riflessione in merito alla rilevanza, nel caso di specie, del canone nemo tenetur se detegere, sul quale si è espresso anche il Giudice delle leggi affermando che lo ius tacendi, pur non espressamente riconosciuto nella Carta fondamentale, costituisce un valore costituzionale in quanto corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’ 24, comma 2, Cost. Sul tema – sia pur con riferimento a questioni differenti da quella oggetto della sentenza in verifica – si è affermato che, al di fuori di espresse previsioni normative operanti nel campo sostanziale, il principio del nemo tenetur se detegere si qualifica come diritto di ordine processuale che non dispiega i suoi effetti al di fuori del processo penale, ma opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato, (Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010, Bassi, Rv. 246157; Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi, Rv. 253545; Sez. 5, n. 9746 del 12/12/2014, Fedrizzi, Rv. 262941; Sez. 3, n. 37107 del 7/3/2017, Griotti, non mass.), senza che, tuttavia, ciò determini la violazione di norme costituzionali e convenzionali (Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, dep. 2015, Strazimiri, Rv. 263034).
- Ne deriva che il canone nemo tenetur se detegere, posto a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo, se, per un verso, giustifica la non assoggettabilità dell’individuo ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione e, per altro verso – proprio in ragione della sua ratio, consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità – opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato e non nella fase ad esso precedente e relativa alla commissione di un reato, tuttavia non legittima anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva (Sez. 3, n. 53137 del 22/09/2017, Cecchini, Rv. 271827; Sez. 3, n. 53656 del 03/10/2018, A., Rv. 275452).
- Il principio processuale del nemo tenetur se detegere, dunque, non dispiega efficacia nel caso di compilazione mendace dell’autocertificazione, trattandosi di una dichiarazione di rilievo meramente amministrativo – che non costituisce ex se una denuncia a proprio carico – alla quale, solo in via eventuale, potranno seguire accertamenti in merito alla veridicità o meno dei fatti ivi attestati e alla loro possibile rilevanza penale.
- Alla luce dei suesposti canoni interpretativi, si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata in merito alla configurabilità del reato di cui all’ 483 c.p., con rinvio per nuovo esame sul punto alla corte di appello territorialmente competente.