In tema di attività medica, nel caso di violazione dell’obbligo, gravante sul sanitario, di fornire al paziente una completa informativa circa le caratteristiche ed i rischi derivanti dall’intervento (cd. consenso informato), occorre distinguere due ipotesi:
1) quella in cui l’omessa o l’incompleta informativa riguardi un intervento chirurgico dal quale non siano derivati danni alla salute, nel qual caso non sarà dovuto alcun risarcimento;
2) quella in cui l’omessa o l’incompleta informativa sanitaria, malgrado l’assenza di danno alla salute, abbia impedito al paziente di accedere ad ulteriori e diversi accertamenti sanitari volti anche alla valutazione di cure alternative. In tal caso sarà risarcibile, in quanto leso, il diritto costituzionale all’autodeterminazione laddove il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo il ricorrente lamenta: “difetto di motivazione rispetto ad un fatto decisivo per la controversia. Contraddittorietà della motivazione. Violazione dell’art. 111 Cost.italiana”. Denuncia in particolare, la erroneità della sentenza nella parte in cui la corte d’appello ha negato che il creditore-attore avesse offerto la dimostrazione del nesso di causalità materiale tra la prestazione medica ricevuta presso la struttura e l’evento di danno lamentato. Nella specie, si sarebbe trattato di un intervento – di semplice esecuzione – di resezione di un lipoma al piede, a seguito del quale si era sviluppata nel tempo una patologia batterica a carico delle ossa (o s teomielite). Secondo il ricorrente, la sentenza sarebbe errata perché i giudici dell’appello hanno ritenuto che il nesso di causalità tra condotta ed evento non fosse stato dimostrato dal danneggiato, e ciò in quanto, a giudizio della Corte territoriale, le sequele infettive sarebbero derivate in via esclusiva da una patologia strutturale, il diabete, di cui il S. sarebbe diventato portatore solo dopo l’intervento dell’ottobre del 2003. 4.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta: “difetto di motivazione rispetto ad un fatto decisivo per la controversia. Contraddittorietà della motivazione. Violazione o falsa applicazione dell’art. 32 Cost.“. Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello non avrebbe adeguatamente considerato la carenza di consenso informato e avrebbe invertito l’onere probatorio ritenendo che spetti al paziente dimostrare di non aver ricevuto idonee informazioni. Inoltre, la presenza di concause, come il diabete, avrebbe dovuto condurre la struttura e i medici a fornire la migliore informazione possibile al paziente, il quale invece avrebbe visto leso il suo diritto all’autodeterminazione proprio per la carenza informativa circa l’intervento e le conseguenze post-operazione. I motivi sono entrambi inammissibili perché non colgono la ratio decidendi della pronuncia impugnata. La Corte d’appello ha rigettato il gravame per la mancata prova del nesso causale tra la condotta dei sanitari e l’evento di danno lamentato dal ricorrente. Tale onere probatorio, riguardante la causalità materiale, grava sul creditore e solo in seguito a tale prova grava sul debitore provare l’assenza di colpa, ovvero che l’inadempimento sia derivato da una causa non imputabile al debitore (i.e. da un fattore imprevedibile e inevitabile: (Cass. 18392/2017; Cass. n. 28991 e 28992/2019). La Corte d’appello si è attenuta ai predetti principi. Decisive in tal senso, per i giudici di seconde cure, dovevano ritenersi le risultanze della perizia redatta dal C.T.U., secondo la quale i danni lamentati dal ricorrente erano etiologicamente riconducibili esclusivamente alla patologia di cui egli era affetto, e cioè il diabete. Inoltre, la Corte d’appello ha ritenuto irrilevanti le doglianze relative alla mancanza della cartella clinica con adeguata motivazione, in quanto i danni lamentati non risultavano compatibili con l’operazione, seguita peraltro da una terapia ritenuta idonea dallo stesso consulente. In definitiva, l’affermazione dell’insussistenza di un qualsivoglia rapporto di causalità tra l’intervento e il percorso post-operatorio, da un canto, e la patologia diagnosticata a distanza di un anno, dall’altro – correttamente argomentata dalla Corte territoriale con motivazione scevra da qualsivoglia vizio logico-giuridico – non risulta efficacemente contrastata dal ricorrente, che si limita a sovrapporre le proprie, soggettive considerazioni a quelle correttamente esposte nella sentenza impugnata. Quanto, in particolare, alla valutazione della consulenza all’interno del giudizio di merito, è ius receptum presso questa Corte regolatrice quello secondo il quale tale attività rappresenta un giudizio di fatto, come tale non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della motivazione apparente, ovvero insanabilmente ed illogicamente contraddittoria, così come non lo è la possibilità per il giudice di integrare il materiale probatorio a disposizione all’interno del giudizio. A fronte di ciò, la decisione della Corte d’appello appare insindacabile sotto i profili censurati dal ricorrente, il quale, da un lato, non coglie la ratio decidendi della pronuncia, dall’altro mira a censurare profili fattuali non sindacabili in questa sede. Anche privo di fondamento è il motivo nella parte in cui lamenta l’assenza di informazione adeguata in merito all’intervento ed ai relativi postumi patiti dal ricorrente. In tema di attività medico-chirurgica, questa Corte, con la sentenza n. 28985/2019, confermata da Cass. n. 9706/2020e Cass. n. 24471/2020, ha affermato i seguenti principi (cui il collegio intende dare seguito): 1) la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2,13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2; 2) sebbene l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente – che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del risanamento del soggetto – non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l’inadempimento dell’obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori “concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all’omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose; 3) qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell’individuazione della causa “immediata” e “diretta” (ex art. 1223 c.c.) di tale danno-conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre, se egli avrebbe negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell’obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all’errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza; 4) le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit (Cass. 2847/2010 e successive conformi): al riguardo, la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall’omessa informazione. Pertanto, i confini entro cui ci si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato sono i seguenti: a) nell’ipotesi di omessa o insufficiente informazione riguardante un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente e al quale è egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, nessun risarcimento sarà dovuto; b) nell’ipotesi di omissione o inadeguatezza informativa che non abbia cagionato danno alla salute del paziente ma che gli ha impedito tuttavia di accedere a più accurati attendibili accertamenti, il danno da lesione del diritto costituzionalmente tutelato all’autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici. Ebbene nel caso di specie il ricorrente ha erroneamente censurato la sentenza impugnata in quanto con il motivo di ricorso ha riproposto l’ipotesi di risarcibilità correlata a un danno biologico che, come sinora esposto, non si colloca in rapporto causale nè con l’intervento iniziale, nè con il suo decorso post operatorio. Per questo motivo il giudice dell’appello lo ha rigettato rilevandone la insufficienza in termini di prova (cfr. pag. sentenza impugnata). 4.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta “violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. – erronea motivazione della condanna alle spese di giudizio”, in quanto la Corte d’Appello avrebbe erroneamente condannato il ricorrente alla condanna delle spese sulla base di una infondata soccombenza. Il rigetto dei primi due motivi assorbe il terzo e ultimo motivo. 5. L’indefensio degli intimati non richiede la condanna alle spese. 5.1. Infine, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione.
Cass. civ., III, sent., 07.10.2021, n. 27268