Consiglio di Stato, III Sezione, sentenza 19 aprile 2022, n. 2928
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
Entrambi i motivi, che si andranno ad esaminare congiuntamente perché connessi tra loro, non sono suscettibili di favorevole apprezzamento.
Anzitutto, nella prospettazione di parte appellante, il provvedimento amministrativo sarebbe illegittimo perché reso da un “organo strumentale” anziché dal competente Ministero della Salute. La prospettazione di parte appellante, come sottolineato anche nelle memorie di costituzione delle parti appellate, è smentita dal combinato disposto delle norme richiamate per come interpretate da costante giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui, “il complesso delle disposizioni legislative affida all’AIFA le funzioni relative al rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio di medicinali, alla loro classificazione, alle relative indicazioni terapeutiche (e, quindi, all’equivalenza terapeutica con altri farmaci), ai criteri delle pertinenti prescrizioni, alla determinazione dei prezzi, al regime di rimborsabilità ed al monitoraggio del loro consumo; tali competenze sono state ripetutamente ed univocamente qualificate come esclusive — nel senso che le suddette funzioni (legislative ed amministrative) spettano solo all’Autorità statale — sia dalla giurisprudenza costituzionale che da quella amministrativa, là dove hanno precisato che resta preclusa alle Regioni la previsione di un regime di utilizzabilità e di rimborsabilità contrastante ed incompatibile con quello stabilito in via generale (e sulla base dei pareri emessi dalla competente Commissione Consultiva Tecnico Scientifica) dall’AIFA a livello nazionale” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. Terza, sentenza n. 2229, 13 aprile 2018 e ribadite, di recente, dalla sentenza n. 3185, 21 aprile 2021).
Quanto alla competenza del Direttore Generale AIFA, si rileva che la sentenza appellata resiste alle censure di parte appellante. Ed invero, il combinato disposto di cui agli artt. 48, co. 6 DL 269/2003 e artt. 6, 10, co 2 DM n. 2445/2004 consegna un quadro di divisione delle competenze ben definito. Al Consiglio di Amministrazione dell’AIFA spettano le determinazioni di cui alle lettere c), d), e), f) del comma 5 dell’art. 48, segnatamente: “c) provvedere entro il 30 settembre di ogni anno, o semestralmente nel caso di sfondamenti del tetto di spesa di cui al comma 1, a redigere l’elenco dei farmaci rimborsabili dal Servizio Sanitario Nazionale (..), d) prevedere, nel caso di immissione di nuovi farmaci comportanti, a parere della struttura tecnico scientifica individuata dai decreti di cui al comma 13, vantaggio terapeutico aggiuntivo, in sede di revisione ordinaria del prontuario, una specifica valutazione di costo-efficacia (…); e) provvedere alla immissione di nuovi farmaci non comportanti, a parere della predetta struttura tecnico scientifica individuata dai decreti di cui al comma 13, vantaggio terapeutico (…); f) procedere in caso di superamento del tetto di spesa di cui al comma 1, in concorso con le misure di cui alle lettere b), c), d), e) del presente comma, a ridefinire, anche temporaneamente, nella misura del 60 per cento del superamento, la quota di spettanza al produttore”.
Le competenze del consiglio di Amministrazione, precisa la Corte, sono poi ulteriormente specificate dall’art. 6 DM n. 245 del 20 settembre 2004. Tra queste non rientra l’adozione di provvedimenti riferibili alla questione oggetto del presente gravame. L’art. 10 del medesimo decreto ministeriale conferma questa ricostruzione definendo il direttore generale quale legale rappresentante. Secondo la disposizione “egli ha tutti i poteri di gestione dell’Agenzia e ne dirige l’attività, emanando i provvedimenti che non siano attribuiti agli altri organi della stessa”.
Tali motivi di appello sono ritenuti infondati.
Con il terzo e il quinto motivo di appello, prosegue la Corte, viene sollevata la violazione delle disposizioni normative in materia di consenso informato di cui alla legge 219/2017. Questi motivi di appello, per la loro stretta connessione, saranno trattati congiuntamente. Rilevano le appellanti che la determina del Direttore AIFA sarebbe illegittima perché in contrasto con la normativa in materia di consenso informato per la somministrazione di un trattamento sanitario. Più precisamente, l’eliminazione della prescrizione medica violerebbe, da un lato, il diritto del minore ad una corretta informazione (non essendo sufficiente il foglio illustrativo di accompagnamento), dall’altra, il diritto dei titolari della responsabilità genitoriale ovvero di chi ne fa le veci a sostituirsi al minore – pur tenendo in considerazione la sua volontà – in relazione all’età, al grado di maturità, avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità.
Le associazioni, in particolar modo, censurano la motivazione resa dal Giudice di prime cure secondo cui la normativa sopra richiamata “si riferisce tuttavia all’area dei trattamenti sanitari e degli accertamenti diagnostici, non anche a quella della commercializzazione e della dispensazione delle specialità medicinali e dei farmaci da banco (oggetto di più specifica contestazione in questa sede)”. Tale affermazione merita una riflessione che coinvolge anzitutto la definizione di trattamento sanitario che non trova un addentellato normativo – almeno specifico e riferibile al caso di specie – e non può che essere, quindi, ricostruita utilizzando i criteri ermeneutici, facendo riferimento all’inquadramento del diritto alla salute ai sensi dell’art. 32 della Costituzione e alla nozione di trattamento sanitario obbligatorio.
Punto di partenza nell’analisi, osserva la Corte, è rappresentato senza dubbio dall’art. 32 della Costituzione a mente del quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Diritto alla salute è, tra l’altro, diritto all’integrità psico-fisica, diritto a vivere in un ambiente salubre, diritto a fruire delle prestazioni sanitarie, gratuite per gli indigenti, diritto a non ricevere trattamenti sanitari, se non di carattere obbligatorio, volti a tutelare non solo il destinatario ma soprattutto la collettività, come nel caso degli interventi effettuati per la salute mentale. A tale proposito, infatti, la legge dedica specifica attenzione alla disciplina in tema di trattamento sanitario obbligatorio che, per gli interessi coinvolti, merita un bilanciamento e una più approfondita analisi.
Ciò nonostante, neppure la legge istitutiva del sistema sanitario nazionale definisce, in via generale, il trattamento sanitario. L’art. 33 della Legge 23 dicembre 1978, n. 833 prevede che i “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”, senza però specificare che cosa sia accertamento e che cosa sia trattamento sanitario. Pur senza definizione, la legge colloca il trattamento sanitario in connessione costante con il concetto di “cura”, benessere psico-fisico. In tale contesto, mancando una definizione utile ai fini della presente fattispecie, per “trattamento sanitario” deve quindi intendersi ogni attività prodromica alla tutela della salute intesa, in senso lato, come benessere psico-fisico.
Più specificatamente, precisa la Corte, anche utilizzando un criterio di natura letterale, per trattamento sanitario deve intendersi ogni atto prescritto da personale sanitario, sia esso diagnostico ovvero terapeutico. Correttamente il Giudice di prime cure ha escluso la dispensazione delle specialità medicinali e dei farmaci da banco – quindi non soggetti alla prescrizione medica – dal novero dei trattamenti sanitari in senso stretto che coinvolgono tutta una serie di questioni specifiche – tra cui quella del consenso e più in generale della relazione tra medico e paziente – che però in questa sede non vengono in rilievo.
Come correttamente rilevato anche dalla difesa di AIFA, applicare la disciplina di cui alla legge 219/17 al caso di specie, implicherebbe una inversione del rapporto tra trattamento e consenso. Nel caso che ci occupa, non viene in rilievo un atto medico somministrato ad un paziente – che deve scegliere previa prestazione di consenso personale, libero, esplicito, consapevole, specifico, attuale e revocabile in ogni momento – bensì di volontaria assunzione di un farmaco per il quale, con decisione che questo Giudice ritiene legittima e comunque estranea al proprio sindacato nel merito, le Autorità sanitarie non hanno previsto la prescrizione medica, qualificando lo stesso come farmaco da banco. Diversamente opinando, ogni farmaco da banco richiederebbe l’attivazione del meccanismo di tutela del minore con la contestuale prestazione di consenso da parte dei genitori o di chi ne fa le veci.
Peraltro, soggiunge la Corte, una lettura costituzionalmente orientata della disciplina del consenso informato – che, si ribadisce, non viene in rilievo nel caso di specie – impone comunque la protezione del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’auto-determinazione della persona, diritto quest’ultimo che sarebbe esposto al concreto rischio di frustrazione nel caso in cui si pretendesse, limitatamente al caso di specie – che attiene alla libertà sessuale e, più in generale, alla sfera privata – la necessità del consenso dei genitori o dei tutori.
La sentenza appellata, osserva la Corte, merita conferma anche sotto il profilo del giudizio sul sindacato tecnico discrezionale sulla determinazione di esclusione della prescrizione medica per le giovani donne minorenni. Secondo parte appellante tale decisione sarebbe illogica e non proporzionata perché non avrebbe preso in considerazione tutta una serie di elementi: assenza di studi e sperimentazioni, possibili effetti abortivi del medicinale che sfuggono alle garanzie imposte dalla disciplina sull’interruzione volontaria di gravidanza, “effetti collaterali” quali danni al fegato e possibili gravidanze extrauterine. Emerge dagli atti che l’amministrazione competente ha posto alla base della propria decisione studi scientifici di cui ben dà contezza il Giudice di prime cure la cui motivazione trova a parere del Collegio piena condivisione.
Da tale quadro emerge chiaramente – e questo permette l’analisi congiunta di questo motivo di appello con il successivo attinente alla violazione della legge 194/1978 – che il farmaco “ElleOne” non deve essere confuso con il regime farmacologico usato per l’interruzione volontaria della gravidanza. L’Amministrazione, al termine di un articolato percorso istruttorio che, rispondendo a criteri di credibilità, adeguato approfondimento e ragionevolezza, si sottrae al sindacato giurisdizionale di questo Giudice, ha ritenuto che il meccanismo d’azione del farmaco è antiovulatorio, vale a dire che agisce prima dell’impianto dell’embrione. Nessuna violazione della normativa sull’interruzione volontaria di gravidanza è quindi configurabile.
In particolare, dalla relazione sulla valutazione del farmaco “EllaOne” da parte dell’EMA (cfr. doc. 8 nella produzione di (…) S.R.L.), procedure No: EMEA/H/C/001027/II/0021, emerge che la sicurezza e la qualità del prodotto sono stati assicurati su un campione di giovani donne maggiori di anni tredici unitamente ad un campione di donne adulte maggiori di anni diciotto (2.3.1. Methods – analysis of data submitted): “this post-authorization Phase IV observational study has been undertaken with the objective of assessing safety, tolerability and efficacy in routine conditions of use for EC in postmenarcheal, adolescent girls and adult women. Postmenarcheal adolescents or adult women were included in Sweden, France, the United-States and Germany and aged from 13 years old in the United Kingdom (….). As agreed with the Paediatric Committee (PDCO) during the PIP procedure (EMEA-000305-PIP01-08-M02), the sample size of this study was estimated to provide enough safety information on paediatric population exposed to EllaOne”.
La scelta discrezionale dell’Amministrazione, intervenuta sei anni dopo la raccomandazione dell’EMA rispetto alla quale l’Italia era rimasta l’unico Stato membro indifferente insieme all’Ungheria – circostanza questa peraltro già di per sé significativa – non può dirsi affetta da irragionevolezza e sproporzione. A questo proposito, non è condivisibile il richiamo che le associazioni appellanti fanno al parere del Consiglio Superiore di Sanità del 2015 (allegato n. 4 al ricorso in appello) né a tutti gli studi maturati nei primi anni 2000 perché precedenti all’adozione della delibera qui contestata e non idonei a superare la soglia di irragionevolezza e sproporzione richiesta per il sindacato sulla discrezionalità tecnica che, come ricostruito da recenti pronunce di questa Sezione, “deve svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo. Non si tratta di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie.
Per quanto attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’autorità indipendente, chiarisce la Corte, il giudice amministrativo non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della salute che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato. Il sindacato giurisdizionale è volto a verificare se l’autorità abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito al giudice amministrativo, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali” (Consiglio di Stato, Sezione Terza, ordinanza 11 dicembre 2020, n. 7097).
Tale specifico quadro è dirimente, poi, con riferimento ad altre due questioni.
Anzitutto, la compatibilità della scelta dell’Amministrazione con il principio di precauzione. Come rilevato dal Giudice di primo grado, infatti, il principio di precauzione, in casi di incertezza, impone la scelta di misure restrittive perché non si può accettare il rischio di adottare scelte che mettano in pericolo la vita umana. Nel caso specifico, allo stato della conoscenza scientifica, di un tale rischio di incertezza parte appellante non ha dato adeguata prova. Al contrario, la letteratura richiamata dall’Amministrazione e dalla casa farmaceutica appellate e posta, peraltro, alla base della scelta dell’Unione Europea, non risulta affetta da incertezza o lacune.
Per tale ragione – venendo quindi al secondo aspetto – il Collegio non ritiene necessario accogliere – ai fini del decidere – le istanze istruttorie di parte appellante che vanno pertanto disattese.
A riguardo va peraltro messo in rilievo che il Collegio di prime cure ha preso in esame in modo analitico tutti i presunti rischi alla salute dedotti da parte appellante, escludendo, con una motivazione che questo Giudice condivide integralmente, che la valutazione compiuta dall’Amministrazione in ordine alla loro irrilevanza fosse affetta da vizi di irragionevolezza e sproporzione idonei a radicare il sindacato giurisdizionale.
Con l’ultimo motivo di appello, le associazioni lamentano la dichiarazione di inammissibilità della censura proposta in primo grado sulla violazione di legge, segnatamente rispetto agli artt. 21 e 22 del D.lgs. 6 settembre 2006, n. 205, codice del consumo. Le norme richiamate sono contenute nel titolo terzo, capo secondo, sezione prima rubricata “pratiche commerciali ingannevoli” del codice del consumo secondo il quale è ingannevole la pratica commerciale che non risponde al vero ovvero, pur essendo in astratto corretta, comunque induce in errore il consumatore.
La censura non merita accoglimento per due ordini di ragione.
Emerge dallo stesso atto di appello come “le associazioni in epigrafe indicate hanno tra i propri scopi statutari la difesa del principio di sussidiarietà e con esso la promozione della vita nascente, della famiglia, della genitorialità responsabile, nonché delle migliori condizioni di salute della donna e della maternità” (cfr. pag. 3, riassunto preliminare di sintesi dell’atto di appello). Merita conferma la sentenza nella parte in cui ha ritenuto il motivo di ricorso inammissibile perché estraneo agli scopi statutari delle associazioni. Le associazioni appellanti, al punto VIII).1.2, censurano la sentenza del Tribunale Amministrativo regionale competente “sul profilo di illegittimità n. 7) esposto nel ricorso introduttivo ed al quale espressamente si rinvia”.
Nel ricorso introduttivo, precisa la Corte, viene dedotto che “alla luce di quanto esposto nei precedenti vizi, devesi censurare il carattere ingannevole, omissivo e fuorviante delle avvertenze riprodotte nel foglio illustrativo del farmaco EllaOne e di quelle contenute nell’Allegato 1 alla determina AIFA dell’8 ottobre 2020, che si riverbera anche sotto il profilo della scorretta appetibilità commerciale del prodotto.” Anche a volerne ammettere l’ammissibilità, cosa che si esclude non solo sotto il profilo dell’inferenza del diritto dei consumatori ai fini statutari protetti dalle associazioni ma anche sotto quello della specificità dei motivi di ricorso, prima, e di appello poi, il motivo di gravame sarebbe comunque infondato nel merito per le ragioni su esposte in riferimento all’esaustività dell’informativa contenuta nel foglio illustrativo e alla compatibilità – sub specie estraneità applicativa – della determina impugnata rispetto alla disciplina del consenso informato.
La lamentata violazione della disciplina del consumatore, conclude la Corte, nulla aggiunge rispetto alle censure sulla violazione della disciplina del consenso e, ancora prima, sulla necessità che gli effetti pregiudizievoli dichiarati nel foglio informativo siano soggetti alla disciplina di cui all’art. 89 D.lgs. 219/2006 (parte seconda, lett. e), IV motivo di appello).
Conclusivamente, per quanto precede, l’appello deve essere respinto. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
La novità delle questioni sottese all’appello giustifica la compensazione delle spese e degli onorari del giudizio.