Corte Costituzionale, sentenza 09 febbraio 2023, n. 15
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 5, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76 – come sostituito dall’art. l, comma l, lettera b), del decreto-legge 26 novembre 2021, n. 172 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19 e per lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 21 gennaio 2022, n. 3 – sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con l’ordinanza iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2022;
Vanno, inoltre, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, e dell’art. 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito – come modificati dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e dal decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza, e altre disposizioni in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 19 maggio 2022, n. 52 – sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost., dal Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2022;
Vanno dichiarate non fondate altresì le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito – come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, nonché come richiamato dall’art. 4-ter, comma 2, del medesimo d.l. n. 44 del 2021 – sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost., dal Tribunale ordinario di Brescia e dal Tribunale ordinario di Padova, entrambi in funzione di giudici del lavoro, con le ordinanze iscritte ai numeri 71, 76, 77, 107 e 108 del registro ordinanze 2022;
Vanno, da ultimo, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-ter, comma 4, e 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, il secondo come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 172 del 2021, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Brescia e dal Tribunale ordinario di Catania, entrambi in funzione di giudici del lavoro, con le ordinanze iscritte ai numeri 47, 70, 71, 101, 102, 107 e 108 del registro ordinanze 2022.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.– Il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro (nei giudizi iscritti ai numeri 47, 71, 77, 101, 102, 107 e 108 reg. ord. 2022), il Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro (nel giudizio iscritto al n. 70 reg. ord. 2022), il Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro (nel giudizio iscritto al n. 76 reg. ord. 2022), ed il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (nel giudizio iscritto al n. 86 reg. ord. 2022) hanno sollevato, con riferimento ai parametri di volta in volta evocati e comunque complessivamente riconducibili agli artt. 2, 3, 4, 32, secondo comma, e 35 Cost., identiche o analoghe questioni di legittimità costituzionale:
- a) dell’art. 4, comma 7, nonché dell’art. 4-ter, comma 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e per il personale che svolge la propria attività lavorativa nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, limitano ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, e non prevedono che la medesima ipotesi si applichi anche nei confronti del personale rimasto privo di vaccinazione per una libera scelta individuale;
- b) dell’art. 4, comma 5, nonché dell’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», escludono, in relazione agli esercenti le professioni sanitarie e agli operatori di interesse sanitario, nonché al personale di cui alla lettera a) (personale scolastico) ed alla lettera c) (personale occupato nelle strutture di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992) del comma 1 dell’art. 4-ter, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva di categoria in caso di sospensione cautelare o disciplinare nel periodo di sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
L’ordinanza di rimessione proveniente dal Tribunale di Padova (iscritta al n. 76 reg. ord. 2022) riguarda poi anche gli artt. 4-bis, comma 1, e 4, commi 1, 4 e 5 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, modificati dapprima dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi dal d.l. n. 24 del 2022, come convertito, nella parte in cui prevedono per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie l’obbligo vaccinale, anziché l’obbligo di sottoporsi indifferentemente al test molecolare, al test antigenico da eseguire in laboratorio, oppure al test antigenico rapido di ultima generazione, per la rilevazione di SARS-CoV-2.
2.– Per l’ampia coincidenza delle questioni sollevate e dei parametri evocati, i dieci giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
3.– In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza dibattimentale, allegata a questa sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati da D. T. ed altri cinque, A. R., D. D.P. ed altri otto, L. B., M. A. ed altri ventotto, V. B. ed altri quarantanove, I. D. e C. M., P. C. ed altri cinque, e dalla Azienda ULSS n. 8 Berica nel giudizio di legittimità costituzionale iscritto al n. 76 reg. ord. 2022.
Non può, peraltro, accogliersi la richiesta, formulata in via subordinata da alcuni intervenienti, di valutare i loro atti di intervento come opinioni scritte ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative, vigente ratione temporis: da un lato, infatti, possono rivestire, in forza di tale disposizione, la qualità di amici curiae unicamente le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità; dall’altro, due istituti, (l’intervento e l’opinio dell’amicus curiae) significativamente diversi quanto a presupposti e modalità processuali, non possono concorrere nello stesso atto, né in via alternativa né subordinata.
Del resto, questa Corte ha già più volte sottolineato che la ratio dell’intervento nel giudizio costituzionale è radicalmente diversa, anche sotto il profilo della legittimazione, da quella sottesa alle opinioni degli amici curiae, come diversi sono i termini per l’ingresso in giudizio e le relative facoltà processuali (sentenze n. 259, n. 221 e n. 121 del 2022).
4.– Non sono fondate le eccezioni di inammissibilità svolte negli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Le ordinanze di rimessione recano una adeguata motivazione, in punto di non manifesta infondatezza, delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, indicando le ragioni per le quali sono evocati i parametri di volta in volta menzionati.
I rimettenti hanno, inoltre, ritenuto preclusa l’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, in ragione della loro univoca formulazione letterale, e ciò consente di superare il vaglio di ammissibilità delle questioni incidentali sollevate, attenendo invece al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza delle questioni stesse, la correttezza o meno dell’esegesi presupposta (ex multis, sentenze n. 219 e n. 174 del 2022, n. 204 e n. 172 del 2021, n. 150 del 2020 e n. 189 del 2019).
Infine, non possono essere accolte le eccezioni di inammissibilità formulate per l’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata con riguardo alla previsione di un obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori ed alle conseguenze che le norme censurate riconnettono all’inadempimento di tale obbligo, quanto, in particolare, alla mancata erogazione di un assegno alimentare in favore del lavoratore sospeso ed alla mancata adibizione dello stesso a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione: invero, i rimettenti hanno chiesto di colmare le lacune conseguenziali all’eventuale accoglimento delle questioni, riconoscendo tali diritti ai lavoratori sospesi per mancato assolvimento dell’obbligo di vaccinazione, mentre l’aspetto inerente alla correttezza di siffatte integrazioni afferisce al merito delle questioni (ex multis, sentenza n. 233 del 2018).
5.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Lombardia con l’ordinanza iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2022 sono inammissibili.
Il Tribunale rimettente, invero, disattendendo la contraria eccezione proposta dai resistenti, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, pur rientrando il rapporto di lavoro dedotto nel giudizio a quo nell’ambito dell’impiego pubblico privatizzato, il petitum sostanziale della controversia contesta l’effetto legale automatico conseguente all’esercizio del potere vincolato di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, ovvero l’immediata sospensione dal servizio senza la previsione di una retribuzione, ancorché ridotta, e senza l’attribuzione di adeguate misure di sostegno. Pertanto, ad avviso del TAR, pur a fronte di un’attività amministrativa priva di margini di valutazione discrezionale, quale quella delineata dalla disciplina in oggetto a tutela dell’interesse pubblico, si configurerebbe una situazione soggettiva di interesse legittimo del privato, tale da radicare la giurisdizione del giudice amministrativo.
5.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il difetto di giurisdizione del giudice a quo determina l’inammissibilità delle questioni, per difetto di rilevanza, quando sia palese e rilevabile ictu oculi (ex plurimis, sentenze n. 79 del 2022, n. 65 e n. 57 del 2021, n. 267 e n. 99 del 2020, n. 189 del 2018, n. 106 del 2013 e n. 179 del 1999).
Qualora sussista l’evidenza del vizio, o nel giudizio a quo siano state sollevate specifiche eccezioni a riguardo, come nel caso di specie, è richiesta al giudice rimettente una motivazione esplicita (sentenze n. 65 del 2021 e n. 267 del 2020), rispetto alla quale spetta a questa Corte una verifica esterna e strumentale al riscontro della rilevanza delle questioni (sentenze n. 24 del 2020, n. 52 del 2018 e n. 269 del 2016).
Orbene, la motivazione, alla stregua della quale il rimettente ha ritenuto di disattendere l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, non supera il vaglio della non implausibilità al quale si attiene questa Corte in relazione alla verifica della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale.
Invero, nel giudizio principale è stato chiesto l’annullamento degli atti di accertamento del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale e di sospensione dal lavoro adottati, nei confronti di una operatrice sociosanitaria, da un’azienda sanitaria pubblica. Come riconosciuto dallo stesso TAR rimettente, i provvedimenti in questione sono stati emessi nell’ambito di un rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, in relazione al quale la giurisdizione spetta, in via generale, al giudice ordinario. In particolare, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario qualora la domanda del dipendente pubblico, individuata sulla base del petitum sostanziale in funzione della causa petendi, miri alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti al rapporto di lavoro, asseritamente violate da atti illegittimi, tra cui un atto di sospensione dal servizio.
Del resto, le sezioni unite civili della Corte di cassazione, con ordinanza 29 settembre 2022, n. 28429, hanno affermato, in un caso analogo a quello in questa sede in esame, che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l’annullamento dell’atto di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria per mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, venendo primariamente in rilievo il diritto soggettivo a continuare ad esercitare la professione sanitaria.
In conformità a tale orientamento, l’evidente carenza di giurisdizione del giudice rimettente comporta l’inammissibilità delle questioni sollevate dal TAR Lombardia.
6.– In via di preliminare definizione del thema decidendum, occorre richiamare il costante orientamento di questa Corte, secondo cui l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, con esclusione della possibilità di ampliare lo stesso al fine di ricomprendervi questioni formulate dalle parti (ex plurimis, sentenze n. 198 del 2022, n. 230, n. 203, n. 147 e n. 49 del 2021, n. 186 del 2020 e n. 7 del 2019).
Non può quindi essere esaminata la distinta questione prospettata dalla parte costituita nel giudizio iscritto al n. 76 reg. ord. 2022, volta a denunciare il contrasto dell’art. 4-bis del d.l. n. 44 del 2021, come modificato dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, con l’art. 52 (recte: 53) CDFUE. Né, tanto meno, possono essere prese in considerazione le richieste avanzate dall’ANIEF, amicus curiae nel giudizio iscritto al n. 47 reg. ord. 2022, di verificare la legittimità costituzionale dell’art. 4-ter.2 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dal d.l. n. 24 del 2022, in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE.
7.– Prima di procedere all’esame delle questioni nel merito, appare opportuno effettuare una sia pur sintetica ricostruzione del quadro normativo, caratterizzato da una rapida evoluzione, connessa all’andamento della crisi pandemica da COVID-19 e alle progressive acquisizioni scientifiche validate dagli organismi tecnici preposti.
7.1.– Le disposizioni sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale sono contenute nell’ambito delle misure in materia di tutela della salute adottate per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, valutata come «pandemia» dalla dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dell’11 marzo 2020, in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello globale. Il d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in particolare, era volto, tra l’altro, a disciplinare in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette al contenimento dell’epidemia e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica, con riferimento soprattutto alle categorie più fragili, anche alla luce dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche acquisite.
7.2.– La relazione al d.l. n 44 del 2021 affermava, così, che «[i]n considerazione dei dati sulla diffusione del SARS-CoV-2 sul territorio nazionale, in termini di numero di casi e dell’indice di trasmissibilità dell’infezione, nonché in relazione al tasso di occupazione delle strutture ospedaliere e dei reparti di terapia intensiva, è ormai evidente come la vaccinazione costituisca un’arma imprescindibile nella lotta alla pandemia, configurandosi come un’irrinunciabile opportunità di protezione individuale e collettiva». In prosieguo la relazione aggiungeva: «[l]’introduzione di un siffatto obbligo per le categorie professionali considerate nasce dalla constatazione che la vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente alle altre misure di protezione collettiva e individuale per la prevenzione della trasmissione degli agenti infettivi nelle strutture sanitarie e negli studi professionali, ha valenza multipla: consente di salvaguardare l’operatore rispetto al rischio infettivo professionale, contribuisce a proteggere i pazienti dal contagio in ambiente assistenziale e serve a difendere l’operatività dei servizi sanitari, garantendo la qualità delle prestazioni erogate, e contribuisce a perseguire gli obiettivi di sanità pubblica».
Con l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, «in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2» è stato introdotto l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza».
Il comma 1 stabilisce che «[l]a vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati».
Il comma 2 prevede che la vaccinazione può essere omessa e differita in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate attestate dal medico di medicina generale.
Nell’iniziale formulazione dell’art. 4 era previsto, al comma 6, che «[l]’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale [dell’inadempimento all’obbligo vaccinale] determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2». Il successivo comma 8 stabiliva che il datore di lavoro provvedesse ad adibire «il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate», sicché solo quando non fosse possibile l’assegnazione a mansioni diverse, non comportanti rischi di diffusione del contagio, non era dovuta la retribuzione, né «altro compenso o emolumento, comunque denominato».
L’originario comma 10 dell’art. 4, con riguardo ai soggetti per i quali la vaccinazione dovesse essere omessa o differita, onerava invece il datore di lavoro di assegnare comunque i lavoratori a mansioni anche diverse, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, «senza decurtazione della retribuzione».
Il d.l. n. 172 del 2021, come convertito, ha prorogato la durata dell’obbligo vaccinale, estendendola di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021; ha ampliato la platea dei destinatari dell’obbligo di vaccinazione; ha mutato competenze e procedimento in ordine all’accertamento del mancato adempimento dell’obbligo vaccinale; ha disposto che l’atto di accertamento dell’inadempimento, adottato da parte dell’Ordine professionale territorialmente competente, «ha natura dichiarativa e non disciplinare»; ha ricondotto ad esso l’effetto della «immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie»; ha stabilito che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati» (art. 4, comma 5); ha limitato l’obbligo datoriale di adibire a mansioni anche diverse con riguardo ai soli lavoratori ai quali, a causa di accertato pericolo per la salute, la vaccinazione debba essere omessa o differita (art. 5, comma 7).
L’obbligo vaccinale è stato poi esteso:
– ai lavoratori comunque impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie (art. 4-bis del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dal d.l. n. 122 del 2021, poi sostituito dalla legge n. 133 del 2021, di conversione del d.l. n. 111 del 2021, poi modificato dal d.l. n. 172 del 2021 e dal d.l. n. 24 del 2022 e rispettive leggi di conversione); per questo personale il comma 4 dell’art. 4-bis, mediante rinvio al comma 3 dell’art. 4-ter, ha comportato sempre che l’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale determina l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; e che, per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati; non è contemplato l’onere datoriale di adibire ad altre mansioni il lavoratore che non abbia voluto vaccinarsi;
– al personale delle strutture sanitarie e sociosanitarie di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 (art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito); per questo personale il comma 3 dell’art. 4-ter prevede sempre che l’atto di accertamento dell’inadempimento determina l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; e che per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati; non è contemplato l’onere datoriale di adibire ad altre mansioni il lavoratore che non abbia voluto vaccinarsi;
– al personale scolastico del sistema nazionale di istruzione, delle scuole non paritarie, dei servizi educativi per l’infanzia di cui all’art. 2 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65 (Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera e), della legge 13 luglio 2015, n. 107), dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, dei sistemi regionali di istruzione e formazione professionali e dei sistemi regionali che realizzano i percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (art. 4-ter, comma 1, lettera a, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall’art. 1 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito); per tale personale, il comma 3 del medesimo art. 4-ter prevedeva che l’atto di accertamento dell’inadempimento determinasse l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro e che, per il periodo di sospensione, non fossero dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati. Il comma 4 del medesimo art. 4-ter prevedeva, poi, che i dirigenti scolastici e i responsabili delle dette istituzioni provvedessero alla sostituzione del personale docente, educativo ed amministrativo, tecnico e ausiliario sospeso, mediante l’attribuzione di contratti a tempo determinato, destinati a risolversi di diritto nel momento in cui i soggetti sostituiti potessero riprendere l’attività lavorativa, avendo nel frattempo adempiuto all’obbligo vaccinale. L’art. 8, comma 4, del d.l. n. 24 del 2022, come convertito, ha introdotto, in una fase di regressione della pandemia (vedi relazione al disegno di legge di conversione di tale decreto-legge), l’art. 4-ter.1, che non ha più previsto il divieto di svolgimento dell’attività lavorativa, e l’art. 4-ter.2, che ha invece dettato una specifica disciplina per il personale docente ed educativo della scuola, imponendo al dirigente scolastico, in caso di inosservanza dell’obbligo vaccinale, di utilizzare il docente in attività di supporto all’istituzione scolastica; attività, questa, giova aggiungere, delineata dalla contrattazione collettiva di settore;
– al personale del comparto difesa, sicurezza e soccorso pubblico, della polizia locale, degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124, recante «Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto», (art. 4-ter, comma 1, lettera b, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito). Per questo personale, il comma 3 dell’art. 4-ter prevedeva sempre che l’atto di accertamento dell’inadempimento determinasse l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; e che per il periodo di sospensione, non fossero dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati; non era contemplato l’onere datoriale di adibire ad altre mansioni il lavoratore che non avesse voluto vaccinarsi. Anche tale personale è stato poi assoggettato alla disciplina dell’art. 4-ter.1;
– al personale che svolge a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa alle dipendenze del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori (art. 4-ter, comma 1, lettera c, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi art. 4-ter.1);
– al personale delle università, delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica degli istituti tecnici superiori, nonché dei Corpi forestali delle regioni a statuto speciale (art. 2, comma 1, lettera a, del d.l. n. 1 del 2022, come convertito); in considerazione della tecnica normativa utilizzata (inserimento nell’art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, del comma 1-bis), anche a questo personale si applicavano le già ricordate disposizioni di cui al comma 3 del medesimo art. 4-ter, per essere poi assoggettato alla disciplina dell’art. 4-ter.1;
– agli studenti dei corsi di laurea impegnati nello svolgimento di tirocini pratico-valutativi finalizzati al conseguimento dell’abilitazione all’esercizio di professioni sanitarie (comma 1-bis dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dalla legge n. 3 del 2022, di conversione del d.l. n. 172 del 2021); per questa categoria, la previsione dell’obbligo mediante inserimento nell’ambito dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, comporta l’applicabilità alla stessa delle disposizioni per cui la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione, l’accertamento del mancato assolvimento dell’obbligo determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie e per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato;
– agli ultracinquantenni (art. 4-quater del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dal d.l. n. 1 del 2022, convertito, con modificazioni, nella legge n. 18 del 2022); l’art. 4-sexies del d.l. n. 44 del 2021, inserito dal medesimo d.l. n. 1 del 2022, ha previsto l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di euro cento in caso di inosservanza degli obblighi vaccinali imposti dall’art. 4-quater, nonché dagli artt. 4, 4-bis e 4-ter, sulla base di vari riferimenti temporali, questa sanzione è stata poi estesa, in forza del d.l. n. 24 del 2022, ai casi di inosservanza dell’obbligo di cui agli artt. 4-ter.1 e 4-ter.2.
7.3.– Quanto alla durata dell’obbligo vaccinale, questa è stata originariamente stabilita sino alla completa attuazione del piano vaccinale di cui all’art. 1, comma 457, della legge n. 178 del 2020 (nell’ambito del quale erano stati individuati gli operatori sanitari e sociosanitari sia pubblici che privati tra le categorie prioritarie, in considerazione del rischio più elevato di esposizione all’infezione da COVID-19 e di trasmissione della stessa a pazienti suscettibili e vulnerabili in contesti sanitari e sociali), e comunque non oltre il 31 dicembre 2021; è stata poi prorogata al 15 giugno 2022 per effetto dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e ancora al 31 dicembre 2022; questo termine è stato infine anticipato al 1° novembre 2022, con il decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199, in considerazione, per quanto si legge nel preambolo dello stesso, «dell’andamento della situazione epidemiologica che registra una diminuzione dell’incidenza dei casi di contagio da COVID-19 e una stabilizzazione della trasmissibilità sebbene al di sopra della soglia epidemica [e della] necessità di riavviare un progressivo ritorno alla normalità nell’attuale fase post pandemica, nella quale l’obiettivo da perseguire è il controllo efficace dell’endemia».
8.– Le questioni di legittimità costituzionale, indicate nel precedente punto 1 attengono, dunque, alla disciplina degli obblighi vaccinali, e alle conseguenti ricadute sul rapporto di lavoro in caso di inosservanza dell’obbligo, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socioassistenziali e sociosanitarie nonché nelle strutture di cui all’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 e per il personale scolastico.
9.– Per il loro carattere logicamente preliminare, perché aventi ad oggetto l’introduzione dell’obbligo vaccinale come tale per le riferite categorie di lavoratori del settore della sanità, devono essere scrutinate dapprima le questioni sollevate dal Tribunale di Padova nei confronti dell’art. 4-bis, comma 1, e all’art. 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, modificati dapprima dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, e poi dal d.l. n. 24 del 2022, come convertito, censurati in riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost.
10.– Tali questioni non sono fondate in riferimento ad alcuno dei parametri evocati.
10.1.– Occorre, innanzitutto, precisare che tra questi parametri non possono essere considerati quelli desumibili dal regolamento UE n. 953/2021 e dal principio di proporzionalità, di cui all’art. 52, paragrafo 3, CDFUE. Difetta, invero, ogni riferimento, tanto nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, quanto nella sua motivazione, all’art. 117, primo comma, Cost., eventualmente invocato insieme all’art. 11 Cost., che costituiscono il tramite attraverso il quale è possibile dedurre, in un giudizio di legittimità costituzionale, la violazione, da parte di una disposizione di legge nazionale, della normativa europea (ordinanza n. 215 del 2022).
Deve, pertanto, ritenersi che gli indicati richiami contenuti nell’ordinanza di rimessione altro valore non abbiano che quello di concorrere a delineare la portata e il significato delle disposizioni costituzionali evocate.
10.2.– Giova preliminarmente ricordare che, in base alla costante giurisprudenza costituzionale, l’imposizione di un trattamento sanitario, e di un obbligo vaccinale, in particolare, può ritenersi compatibile con l’art. 32 Cost., al ricorrere di tre presupposti: «a) “se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale” (cfr. sentenza n. 307 del 1990); b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili” (ivi); c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr. sentenza 307 cit. e v. ora legge n. 210/1992)» (sentenza n. 258 del 1994; nello stesso senso, sentenza n. 5 del 2018).
10.2.1.– Il Tribunale di Padova dubita che ricorra il primo di tali presupposti, cioè che, nella specie, il trattamento imposto con l’obbligo vaccinale sia stato diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è stato assoggettato e quello degli altri consociati.
A differenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (ordinanza iscritta al n. 38 reg. ord. 2022, anch’essa discussa nella udienza pubblica del 30 novembre, su cui questa Corte si è pronunciata con la sentenza n. 14 del 2023), il Tribunale di Padova non prospetta dubbi di legittimità costituzionale quanto alla incidenza negativa sullo stato di salute di colui che è assoggettato al trattamento sanitario obbligatorio.
L’ordinanza di rimessione, infatti, sul rilievo che per il personale soggetto all’obbligo vaccinale (nel caso di specie, lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie) il trattamento sanitario è stato imposto non a tutela della salute dei lavoratori, ma di quella degli ospiti che ricevono cura ed assistenza in tali strutture, ritiene che quell’obbligo non sarebbe idoneo a raggiungere lo scopo di preservare la salute degli ospiti, essendo notorio il fatto che la persona che si è sottoposta al ciclo vaccinale può comunque contrarre il virus e quindi contagiare gli altri. Gli stessi dati offerti dall’ISS nei rapporti relativi all’andamento delle infezioni e alla efficacia vaccinale pubblicati il 21 gennaio e il 6 aprile 2022 denoterebbero una progressiva diminuzione dell’efficacia dei vaccini. In questo contesto, sostiene il Tribunale, la garanzia che un lavoratore che si sia sottoposto a vaccinazione non si infetti successivamente e non possa quindi contagiare nessuno sarebbe pari a zero; al contrario, sia pure per un tempo limitato, l’effettuazione di un tampone con risultato negativo offrirebbe una garanzia della inesistenza del virus e della impossibilità di contagiare certamente superiore a zero.
La compressione del diritto alla salute, sub specie di diritto all’autodeterminazione terapeutica, non troverebbe, quindi, giustificazione nell’esigenza di tutelare l’interesse della collettività, e segnatamente l’interesse alla salute degli ospiti delle strutture considerate, con conseguente violazione dell’art. 32 Cost. e irragionevolezza della misura.
Il rimettente sottopone, quindi, a questa Corte il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma che ha introdotto l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, così privilegiando la tutela della salute come interesse della collettività, a scapito della tutela della salute del singolo individuo.
10.3.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il contemperamento del diritto alla salute del singolo (comprensivo del profilo negativo di non essere assoggettato a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con l’interesse della collettività costituisce il contenuto proprio dell’art. 32 Cost. (sentenze n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990) e rappresenta una specifica concretizzazione dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nella quale si manifesta «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (sentenza n. 75 del 1992).
E la sentenza n. 218 del 1994 ha avuto modo di affermare che la tutela della salute implica anche il «dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell’interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari».
10.3.1.– Le misure approntate dal legislatore non possono, nel caso di specie, non essere valutate tenendo conto della situazione determinata da «un’emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari» (sentenza n. 37 del 2021).
Peculiarità, si deve sottolineare, risultante anche e soprattutto dalle indicazioni formulate dai competenti organismi internazionali.
Invero, l’OMS, con la dichiarazione del 30 gennaio 2020, ha valutato l’epidemia da COVID-19 come un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale.
Successivamente, in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello globale, con la dichiarazione dell’11 marzo 2020, l’OMS ha valutato la situazione sanitaria come «pandemia».
L’OMS, la Commissione europea ed altri organismi internazionali si sono impegnati da subito per il coordinamento della ricerca scientifica e la successiva somministrazione del vaccino.
Già il 20 aprile 2020 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione volta a consentire che gli Stati agissero in modo unito e coordinato contro la pandemia, auspicando un rafforzamento della cooperazione internazionale finalizzata in particolare alla ricerca di trattamenti farmacologici specifici.
Il 19 maggio 2020 l’Assemblea dell’OMS ha invitato gli Stati membri a promuovere attività di ricerca volte alla scoperta di un vaccino da rendere disponibile alle popolazioni di tutti gli Stati.
La Commissione europea, quindi, ha elaborato una strategia comune per l’impiego dei vaccini attraverso le Comunicazioni del 17 giugno 2020 (Strategia dell’Unione europea per i vaccini contro la Covid-19) e del 15 ottobre 2020 (Preparazione per le strategie di vaccinazione e la diffusione di vaccini contro la COVID-19).
Il Consiglio d’Europa ha poi approvato la risoluzione n. 2361/2021 del 27 gennaio 2021, relativa alla distribuzione e alla somministrazione dei vaccini, sottolineando la necessità della massima collaborazione fra gli Stati per assicurare una campagna vaccinale efficiente.
In Italia, il Consiglio dei ministri, con deliberazione del 31 gennaio 2020, ha dichiarato, unicamente ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, comma 1, lettera c), e dell’art. 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), lo stato di emergenza sanitaria sul territorio nazionale, per sei mesi, proprio in relazione al rischio connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.
Lo stato di emergenza è stato poi prorogato con diversi provvedimenti fino al 31 marzo 2022, e solo con il d.l. n. 24 del 2022, come convertito, ne è stata disposta la cessazione.
Proprio per effetto dell’intervento pubblico e del sostegno dato alla ricerca scientifica, sono stati approntati – in tempi particolarmente rapidi – vari vaccini finalizzati a contrastare la diffusione del virus. Una volta che questi sono divenuti disponibili, si è quindi proceduto alla predisposizione di uno specifico piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 (decreti del Ministro della salute 2 gennaio e 12 marzo 2021, adottati ai sensi dell’art. 1, comma 457, della legge n. 178 del 2020) e, solo nell’aprile del 2021, è stato introdotto l’obbligo vaccinale qui in discussione.
È importante sottolineare sin d’ora che l’obbligo di vaccinazione è stato gradualmente introdotto dal legislatore solo dopo alcuni mesi dall’avvio della campagna vaccinale di cui al citato piano, tenendo conto, evidentemente, della non completa adesione allo stesso nell’ambito delle categorie interessate. Il legislatore ha quindi reputato necessaria l’imposizione dell’obbligo «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» (art. 4, comma 1, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito).
Alla luce di tale premessa, questa Corte è chiamata a valutare se l’imposizione dell’obbligo vaccinale fosse compatibile con i principi costituzionali.
10.3.2.– In questa prospettiva – nel complesso presa in esame, unitamente alla presente pronuncia, anche e più ampiamente dalla richiamata sentenza n. 14 del 2023 –, l’evoluzione della ricerca scientifica e le determinazioni assunte dalle autorità, sovranazionali e nazionali preposte alla tutela della salute, assumono un rilievo assai significativo. È costante, infatti, nella giurisprudenza costituzionale l’affermazione per cui il sindacato sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di incidere sul diritto fondamentale alla salute, anche sotto il profilo della libertà di autodeterminazione, va effettuato alla luce della concreta situazione sanitaria ed epidemiologica in atto. Invero, nelle ipotesi di conflitto tra i diritti contemplati dall’art. 32 Cost., la discrezionalità del legislatore «deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte» (sentenze n. 5 del 2018 e n. 268 del 2017). Significative sono altresì le «acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)» (sentenza n. 5 del 2018).
Un intervento in tali ambiti, dunque, «non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati» (sentenze n. 162 del 2014 e n. 8 del 2011), anche in ragione dell’«“essenziale rilievo” che, a questi fini, rivestono “gli organi tecnico-scientifici” (cfr. sentenza n. 185 del 1998); o comunque dovrebbe costituire il risultato di una siffatta verifica» (sentenza n. 282 del 2002).
Di tali presupposti risulta, del resto, essere stata pienamente consapevole l’autorità competente in materia. Si legge, infatti, nel Piano strategico nazionale dei vaccini approvato con il citato d.m. 12 marzo 2021, che «[L]e raccomandazioni [sui gruppi target a cui offrire la vaccinazione] saranno soggette a modifiche e verranno aggiornate in base all’evoluzione delle conoscenze e alle informazioni su efficacia vaccinale e/o immunogenicità in diversi gruppi di età e fattori di rischio, sulla sicurezza della vaccinazione in diversi gruppi di età e gruppi a rischio, sull’effetto del vaccino sull’acquisizione dell’infezione, e sulla trasmissione o sulla protezione da forme gravi di malattia […]».
10.3.3.– Il fatto che il legislatore abbia operato le proprie scelte sulla base di valutazioni e di dati di natura medico-scientifica, tuttavia, non vale a sottrarre quelle scelte al sindacato di questa Corte, ma comporta che lo stesso dovrà avere ad oggetto l’accertamento della non irragionevolezza e della proporzionalità della disciplina rispetto al dato scientifico posto a disposizione.
Già la sentenza n. 114 del 1998, infatti, ha chiarito che quando la scelta legislativa si fonda su riferimenti scientifici, «perché si possa pervenire ad una declaratoria di illegittimità costituzionale occorre che i dati sui quali la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice».
10.3.4.– Si deve allora verificare se la scelta del legislatore di introdurre l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, anche alla luce della situazione pandemica esistente, sia coerente rispetto alle conoscenze medico-scientifiche del momento (sentenza n. 5 del 2018), quali risultanti dalle rilevazioni e dagli studi elaborati dagli organismi (nazionali e sovranazionali) istituzionalmente preposti al settore, e in particolare dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), dall’ISS e dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA).
Si sono già ricordati, sia pure sinteticamente (punto 10.3.1.), l’importanza attribuita alla ricerca scientifica finalizzata alla predisposizione di vaccini efficaci contro il virus SARS-CoV-2 e l’impegno degli organismi sovranazionali nel rendere possibile la vaccinazione della popolazione nella misura più ampia. È opportuno rilevare anche che la ridotta disponibilità iniziale di dosi ha reso necessario procedere all’attuazione del piano vaccinale prevedendo, appunto, la vaccinazione del personale sanitario in via prioritaria (alla possibile, assai limitata disponibilità delle dosi di vaccino all’inizio dell’attuazione del programma vaccinale fa riferimento il già citato Piano strategico vaccinale). L’introduzione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario deve quindi essere collocata in una fase nella quale il legislatore ha dovuto, dapprima, tenere conto della effettiva disponibilità di trattamenti vaccinali e successivamente, estendere l’obbligo in questione a ulteriori categorie, secondo valutazioni fondate sul necessario bilanciamento tra costi e benefici.
La disciplina introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, ha poi subito nel tempo diverse modifiche, in relazione sia alle categorie alle quali doveva essere esteso l’obbligo vaccinale, sia alle conseguenze legate all’inadempimento dello stesso, sia, infine, all’individuazione della sua durata, sulla base del più generale presupposto – già ricordato – che gli interventi normativi finalizzati alla riduzione della circolazione del virus dovessero essere calibrati rispetto all’andamento della situazione sanitaria e delle acquisizioni scientifiche.
In particolare, la disposizione censurata, nella sua versione originaria, prevedeva una precisa scadenza dell’obbligo vaccinale, fissata al 31 dicembre 2021.
L’ambito soggettivo era limitato dal comma 1 dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 agli «esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali». In sede di conversione, l’obbligo è stato riferito agli «esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali». Nel tempo, e sulla base dell’andamento dell’evoluzione della pandemia, nonché di scelte conseguenti alle determinazioni circa la frequenza delle scuole in presenza, alle categorie indicate al precedente punto 7.2.
La durata dell’obbligo è stata più volte modificata, sempre in base all’andamento dei contagi e all’evoluzione della pandemia, subendo diverse proroghe fino al 31 dicembre 2022, per poi essere infine anticipata, come detto, al 1° novembre 2022.
11.– Tanto premesso, si può ora procedere all’esame delle censure formulate dal Tribunale di Padova.
11.1.– Contrariamente all’assunto del giudice rimettente, gli stessi dati esposti nei rapporti dell’ISS menzionati nell’ordinanza di rimessione, lungi dall’evidenziare la inutilità dei vaccini, dimostrano come, soprattutto nella fase iniziale della campagna di vaccinazione, l’efficacia del vaccino – intesa quale riduzione percentuale del rischio rispetto ai non vaccinati – sia stata altamente significativa tanto nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, quanto nell’evitare casi di malattia severa; e come tale efficacia sia aumentata in rapporto al completamento del ciclo vaccinale.
«[I]n presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque (sentenza n. 127 del 2022)», la decisione del legislatore di introdurre l’obbligo vaccinale in esame (nei limiti soggettivi e temporali di cui si è detto) non può, dunque, reputarsi irragionevole, in quanto è sorretta dalle indicazioni delle competenti Autorità nazionali e sovranazionali alla luce della gravità della situazione che tale vaccinazione era destinata ad affrontare.
La scelta si è rivelata, altresì, ragionevolmente correlata al fine perseguito di ridurre la circolazione del virus attraverso la somministrazione dei vaccini.
La stessa circostanza, evidenziata dal rimettente, che il Ministero della salute abbia dichiarato «tassativamente falsa l’affermazione secondo cui se ho fatto il vaccino contro SARS-CoV-2 e anche il richiamo con la terza dose non posso ammalarmi di Covid-19 e non posso trasmettere l’infezione agli altri», non vale ad inficiare la scelta operata dal legislatore di prescrivere, per le diverse categorie degli operatori sanitari, l’obbligo vaccinale, ma solo a rendere consapevoli i soggetti vaccinati della inevitabile impossibilità di restare del tutto immuni dalla malattia e, ancora prima, dal contagio. Invero, l’affermazione che un vaccino sia efficace solo se esso produca una immunizzazione pari al 100 per cento delle somministrazioni, da un lato, non può ritenersi sorretta da un’adeguata dimostrazione scientifica; dall’altro, non esclude affatto che, in una situazione caratterizzata da una rapidissima circolazione del virus, i vaccini fossero idonei a determinare una significativa riduzione di quella circolazione, con ricadute tanto più apprezzabili in ambienti o in luoghi destinati ad ospitare persone fragili o, comunque, bisognose di assistenza.
Come osservato dall’ISS, «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al 100 per cento (come del resto per tutti gli altri vaccini), l’elevata circolazione del virus SARS CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile mediante la somministrazione dei vaccini» (sul punto, e più in generale sui dati medico-scientifici a disposizione del legislatore, si veda anche la sentenza n. 14 del 2023, punti 10 e seguenti).
In base a tali considerazioni, l’imposizione di un obbligo vaccinale selettivo, come condizione di idoneità per l’espletamento di attività che espongono gli operatori ad un potenziale rischio di contagio, e dunque a tutela della salute dei terzi e della collettività, si connota quale misura sufficientemente validata sul piano scientifico.
11.2.– Può quindi affermarsi che le disposizioni qui censurate hanno operato un contemperamento del diritto alla libertà di cura del singolo con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività. L’estensione dell’obbligo vaccinale ai lavoratori impiegati in strutture residenziali, socioassistenziali e sociosanitarie (le quali vengono in rilievo nel giudizio a quo, potendosi comunque riferire la medesima valutazione a tutte le strutture sanitarie, pubbliche e private) ha costituito, in tale prospettiva, attuazione dell’art. 32 Cost., inteso quest’ultimo come comprensivo del dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, prevenendo il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 in danno delle categorie più fragili.
E si è trattato di decisione idonea allo scopo che il legislatore si era prefisso, in quanto l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari ha consentito di perseguire, oltre che la tutela della salute di una delle categorie più esposte al contagio, «il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività» (sentenza n. 268 del 2017).
In particolare, era necessario assumere iniziative che, nel loro complesso, consentissero di proteggere la salute dei singoli e, ad un tempo, di porre le strutture sanitarie al riparo dal rischio di non poter svolgere la propria insostituibile funzione per la mancanza di operatori sanitari. In proposito, è agevole rilevare che il contagio subito dal personale sanitario ha ricadute non solo sulla salute dei singoli, potendo dallo stesso derivare la compromissione del funzionamento del servizio sanitario nazionale in un periodo in cui, come visto, era indispensabile poter su di esso fare affidamento per assicurare cure adeguate ad una imprevedibile quantità di malati.
Del resto, questa Corte – esaminando una legge regionale che ha previsto la facoltà della Giunta regionale di individuare i reparti dove consentire l’accesso ai soli operatori che si fossero attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale – ha già avuto modo di valorizzare, con riferimento alla vaccinazione degli operatori sanitari, lo «scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività. Tale finalità […] è del resto oggetto di attenzione da parte delle società medico-scientifiche, che segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure» (sentenza n. 137 del 2019).
11.3.– Non può certamente ritenersi che la previsione, per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, dell’obbligo di sottoporsi a test diagnostici dell’infezione da SARS-CoV-2 con una elevata frequenza, anziché al vaccino, costituisca un’alternativa idonea ad evidenziare la irragionevolezza o la non proporzionalità della soluzione prescelta dal legislatore.
Invero, la soluzione alternativa proposta dal rimettente è stata utilizzata in ambiti più generali, per l’accesso ai luoghi pubblici da parte di persone non appartenenti a categorie soggette a vaccinazione obbligatoria. Tuttavia, non può non considerarsi, innanzitutto, che, nel caso degli operatori sanitari, tale soluzione sarebbe stata del tutto inidonea a prevenire la malattia (specie grave) degli stessi operatori, con il conseguente rischio di compromettere il funzionamento del servizio sanitario nazionale. Inoltre, l’effettuazione periodica di test antigenici con una cadenza particolarmente ravvicinata (e cioè ogni due o tre giorni) avrebbe avuto costi insostenibili e avrebbe comportato uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia (in tal senso vedi anche le considerazioni contenute nella sentenza n. 14 del 2023).
La circostanza – evidenziata dal rimettente – che i tamponi possono essere effettuati anche presso le farmacie e che il costo degli stessi è a carico del lavoratore interessato, non tiene conto del fatto che la gestione dei tamponi grava interamente sul servizio sanitario nazionale (si veda, in proposito, la sentenza n. 171 del 2022, con la quale è stata ritenuta non irragionevole la scelta del legislatore nazionale di escludere le parafarmacie dalla possibilità di effettuare tamponi per l’accertamento del virus SARS-CoV-2, proprio sul rilievo dell’inserimento del sistema delle farmacie, e solo di queste, nell’ambito del servizio sanitario nazionale).
Non appare perciò irragionevole la scelta legislativa di estendere l’obbligo vaccinale ai lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, e, in genere, ai lavoratori del settore della sanità, per aver indebitamente e sproporzionatamente sacrificato la libera autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti ed evitato di propendere per l’opzione alternativa, propugnata dal Tribunale di Padova, di prescrivere la sottoposizione dei lavoratori di tale comparto a periodici test molecolari o antigenici per la rilevazione di SARS-CoV-2.
11.4.– La decisione del legislatore risulta altresì non sproporzionata.
La conseguenza del mancato adempimento dell’obbligo è rappresentata dalla sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, che è destinata a venire meno in caso di adempimento dell’obbligo e, comunque, per la cessazione dello stato di crisi epidemiologica. Il correlato sacrificio del diritto dell’operatore sanitario non ha la natura e gli effetti di una sanzione (come di seguito si chiarirà ai punti 12.1. e 14.4.), non eccede quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria e si rivela altresì idoneo e necessario a questo stesso fine.
11.5.– Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, deve essere dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 4, commi 1, 4 e 5, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito e successivamente modificato.
12.– La questione è altresì non fondata con riferimento agli artt. 4 e 35 Cost.
12.1.– All’inosservanza dell’obbligo vaccinale, la legge impositiva dello stesso attribuisce rilevanza meramente sinallagmatica, cioè solo sul piano degli obblighi e dei diritti nascenti dal contratto di lavoro, quale evento determinante la sopravvenuta e temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere attività lavorative che comportassero, in qualsiasi altra forma e in considerazione delle necessità dell’ambiente di cura, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
Essendo la vaccinazione elevata dalla legge a requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati, il datore di lavoro, messo a conoscenza della accertata inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte del lavoratore, è stato tenuto ad adottare i provvedimenti di sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale, ovvero fino al completamento del piano vaccinale nazionale o comunque fino al termine stabilito dalla stessa legge.
In tal senso, la sospensione del lavoratore non vaccinato, prevista dalla disposizione censurata, è in sintonia con l’obbligo di sicurezza imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 del codice civile e dall’art. 18 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), con valenza integrativa del contenuto sinallagmatico del contratto individuale di lavoro. Avendo riguardo alla posizione dei lavoratori, la vaccinazione anti SARS-CoV-2 ha, a sua volta, ampliato il novero degli obblighi di cura della salute e di sicurezza prescritti dall’art. 20 del d.lgs. n. 81 del 2008, nonché degli obblighi di prevenzione e controllo stabiliti dal successivo art. 279 per i lavoratori addetti a particolari attività.
12.2.– Il diritto fondamentale al lavoro, garantito nei principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost., avuto riguardo al dipendente che abbia scelto di non adempiere all’obbligo vaccinale, nell’esercizio della libertà di autodeterminazione individuale attinente alle decisioni inerenti alle cure sanitarie, tutelata dall’art. 32 Cost., non implica necessariamente il diritto di svolgere l’attività lavorativa ove la stessa costituisca fattore di rischio per la tutela della salute pubblica e per il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Non è dunque in discussione il diritto del lavoratore, esercente una professione sanitaria o operatore di interesse sanitario, o impiegato in strutture residenziali, socioassistenziali e sociosanitarie, che non abbia inteso assolvere all’obbligo vaccinale, di rendere la propria prestazione lavorativa. È piuttosto da verificare se il legislatore, disponendo la sospensione del lavoratore dal servizio fino all’assolvimento di detto obbligo, o fino al completamento del piano vaccinale nazionale, o ancora fino al termine stabilito dalla stessa normativa, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui dispone al fine di dettare i tempi ed i modi del bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., abbia trascurato il rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenze n. 125 del 2022, n. 59 del 2021 e n. 194 del 2018).
Il che, per le ragioni esposte (supra, punti 11.1. e seguenti), deve escludersi.
13.– Devono ora affrontarsi le questioni relative all’art. 4, comma 7, nonché all’art. 4-ter, comma 2, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sollevate, in riferimento complessivamente agli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost. nei giudizi di cui ai numeri 71, 76, 77, 107 e 108 reg. ord. 2022, nella parte in cui, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e per il personale che svolge la propria attività lavorativa nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, limitano ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, e non prevedono che la medesima disciplina si applichi anche nei confronti del personale rimasto privo di vaccinazione per una libera scelta individuale.
13.1.– I rimettenti osservano che le disposizioni censurate discriminano ingiustificatamente, ai fini della ricollocazione, coloro che scelgano di non vaccinarsi, a differenza di quanto stabilito per i soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita, oppure per il personale docente ed educativo della scuola, con riferimento al quale è imposto al dirigente scolastico di utilizzare il lavoratore inadempiente all’obbligo vaccinale in attività di supporto alla istituzione scolastica.
13.2.– Anche tali questioni devono essere dichiarate non fondate.
13.3.– Si sono delineati nel precedente punto 7 i tratti caratterizzanti del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in forza del quale il legislatore ha imposto temporaneamente un obbligo selettivo di vaccinazione a lavoratori che prestano servizio in alcuni settori connotati da una percentuale di rischio di contagio da SARS-CoV-2, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 e allo scopo altresì di mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza. Connotandosi la vaccinazione come «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati», la mancata sottoposizione ad essa ha dato luogo a una sopravvenuta provvisoria impossibilità per il dipendente di svolgere attività lavorative comportanti il rischio di diffusione del contagio. Il datore di lavoro, venuto a conoscenza della inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte del lavoratore, è stato vincolato ad adottare il provvedimento di sospensione dal servizio.
13.4.– A fronte dell’iniziale soluzione prescelta nella versione originaria dell’art. 4, comma 8, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, che onerava il datore di lavoro ad adibire, «ove possibile, a mansioni, anche inferiori», purché diverse da quelle che implicassero contatti interpersonali o comportassero il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, a seguito della modifica introdotta dal d.l. n. 172 del 2021, come convertito, sulla base dei dati prodotti dall’ISS nel novembre 2021, il legislatore ha scelto di non esigere più dal datore di lavoro, nei rapporti riguardanti lavoratori esercenti le professioni sanitarie o operatori di interesse sanitario, o impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie (a differenza di quanto stabilito per il personale docente ed educativo della scuola), uno sforzo di cooperazione volto alla utilizzazione del personale inadempiente in altre mansioni, mediante adozione di diverse modalità di esecuzione delle rispettive prestazioni lavorative.
La disciplina censurata poggia, quindi, sull’evidente presupposto che per i menzionati comparti lavorativi, con riferimento ai quali la legge ha avvertito la speciale esigenza di mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, ovvero di servizi svolti a contatto con persone in situazione di fragilità, non poteva obbligarsi il datore di lavoro ad adibire i soggetti che non avessero inteso vaccinarsi a mansioni comunque idonee ad evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, come è invece richiesto dall’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, per i soggetti che avessero dovuto omettere o differire la vaccinazione in ragione di un accertato pericolo per la salute.
La disposizione censurata si fonda sul rilievo che un più ampio dovere datoriale di cosiddetto repêchage, quale quello auspicato dai rimettenti, non fosse compatibile con le specificità di tali organizzazioni aziendali, se non al rischio di mettere in pericolo la salute del lavoratore stesso, degli altri lavoratori e dei terzi, portatori di interessi costituzionali prevalenti sull’interesse del dipendente di adempiere per poter ricevere la retribuzione. Le disposizioni censurate hanno escluso, cioè, l’opportunità di addossare al datore un obbligo generalizzato di adottare accomodamenti organizzativi, non ravvisando, in rapporto alle categorie professionali in esame, le condizioni della fungibilità e della sia pur parziale idoneità lavorativa residua del dipendente non vaccinato, condizioni sempre necessarie, in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione, per giustificare la permanenza di un apprezzabile interesse datoriale a una diversa prestazione lavorativa.
13.5.– È vero, del resto, che la situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa in cui si viene a trovare il dipendente che non abbia adempiuto all’obbligo vaccinale deriva pur sempre da una scelta individuale di quest’ultimo e non da un fatto oggettivo. Nondimeno il legislatore, proprio nel rispetto della eventuale scelta del lavoratore di non attenersi all’obbligo vaccinale, si è limitato a prevedere la sospensione del rapporto di lavoro, disciplinando la fattispecie alla stregua di una impossibilità temporanea non imputabile. Di conseguenza, poiché la prestazione offerta dal lavoratore che non si è sottoposto all’obbligo vaccinale non è conforme al contratto, come integrato dalla legge, è certamente giustificato il rifiuto della stessa da parte del datore di lavoro e lo stato di quiescenza in cui entra l’intero rapporto è semplicemente un mezzo per la conservazione dell’equilibrio giuridico-economico del contratto.
Parimenti, poiché il datore di lavoro può eccepire l’inosservanza dell’obbligo di sicurezza da parte del lavoratore e pertanto rifiutarsi di ricevere la sua prestazione fino a quando questi non provveda a vaccinarsi, neppure egli è stato costretto dal legislatore ad adeguare la propria organizzazione per assegnare al dipendente mansioni che non comportassero il rischio di contagio da SARS-CoV-2; ciò tanto più comprensibilmente nel contesto di quegli specifici comparti normativamente selezionati per la particolare incidenza del fine di tutela della salute pubblica e del mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione dei rispettivi servizi, svolti a contatto con soggetti in situazione di fragilità.
Per effetto del d.l. n. 172 del 2021, come convertito, che ha fatto venir meno il dovere datoriale di repêchage a mansioni disponibili non comportanti un rischio di contagio (se non per i soggetti esentati dalla vaccinazione per motivi di salute), il datore di lavoro che rifiuta la prestazione del lavoratore non versa, pertanto, in mora credendi, essendo, piuttosto, tale rifiuto implicato dalla carenza di un requisito essenziale di carattere sanitario per lo svolgimento della prestazione stessa.
13.6.– Il bilanciamento dei principi sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., realizzato dal legislatore nella individuazione dei tempi e dei modi della vaccinazione, risulta perciò esercitato negli artt. 4, comma 7, e 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in modo non irragionevole.
La scelta operata di non prevedere per i lavoratori, esercenti le professioni sanitarie o operatori di interesse sanitario, o impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, che avessero deciso di non vaccinarsi, un obbligo del datore di lavoro di adibizione a mansioni anche diverse, a differenza di quanto invece stabilito per coloro che dovessero omettere o differire la vaccinazione a causa di accertato pericolo per la salute o per il personale docente ed educativo della scuola, non risulta contraria ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Tale scelta, giacché correlata alle condizioni di idoneità richieste per l’espletamento di peculiari attività lavorative, appare, piuttosto, suffragata dalla necessità dell’adozione di misure provvisorie, indispensabilmente collegate alla evoluzione delle conoscenze scientifiche, culminando in un bilanciamento tra il diritto fondamentale al lavoro del dipendente, la libertà di autodeterminazione individuale attinente alle decisioni inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute pubblica, cui si correla l’esigenza di mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Il diverso trattamento normativo cui sono soggetti i lavoratori esercenti le professioni sanitarie o operatori di interesse sanitario, o impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, è giustificato dal maggior rischio di contagio sia per se stessi che per le persone particolarmente fragili in relazione al loro stato di salute o all’età avanzata; e ciò costituisce ragione sufficiente per regolare diversamente le conseguenze della mancata sottoposizione a vaccinazione rispetto a lavoratori, quali quelli occupati negli istituti scolastici, che rendono le loro prestazioni in situazioni non omogenee, così come rispetto a lavoratori che siano esentati dalla vaccinazione per motivi di salute.
Alla scelta del legislatore non è stata verosimilmente estranea neppure la considerazione che l’obbligo di ripescaggio costituisce per il datore di lavoro un significativo fattore di rigidità organizzativa, dal quale, non irragionevolmente, si sono volute sollevare le strutture sanitarie e assistenziali, quelle più esposte, cioè, all’impatto della pandemia.
13.7.– Non può, del resto, non considerarsi che la adibizione a mansioni diverse, prescritta invece dall’art. 4, comma 7, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in favore dei soggetti che avessero dovuto omettere o differire la vaccinazione per motivi di salute, costituisce misura eccezionale di natura solidaristica, imposta dalla legge al datore di lavoro anche ove non fossero concretamente disponibili nell’organizzazione aziendale posti idonei ad evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, facendo così salvo il diritto del lavoratore alla retribuzione pur ove questi non rendesse effettivamente la sua prestazione.
Anche tali questioni, pertanto, devono essere dichiarate non fondate.
14.– Devono infine esaminarsi le questioni relative all’art. 4, comma 5, nonché all’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, sollevate, in riferimento complessivamente agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., nei giudizi di cui ai numeri 47, 70, 71, 101, 102, 107 e 108 reg. ord. 2022, nella parte in cui tali norme, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», escludono, in relazione al personale di cui al comma 1 della citata disposizione, nonché al personale di cui alle lettere a) e c) del comma 1 dell’art. 4-ter, l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva in caso di sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per il mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.
Per i rimettenti tale scelta legislativa sarebbe contraria al canone di ragionevolezza e discriminatoria.
14.1.– Le considerazioni sinora svolte inducono a ritenere non fondate anche tali questioni.
14.2.– Si è già evidenziato che, nel meccanismo degli artt. 4, 4-bis e 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, e sue successive modifiche, la mancata sottoposizione a vaccinazione ha determinato la sopravvenuta e temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere le proprie mansioni, e la sospensione del medesimo lavoratore ha rappresentato per il datore di lavoro l’adempimento di un obbligo nominato di sicurezza, inserito nel sinallagma contrattuale.
L’effetto stabilito dalle norme censurate, secondo cui al lavoratore che decida di non sottoporsi alla vaccinazione non sono dovuti, nel periodo di sospensione, «la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», giustifica, pertanto, anche la non erogazione al lavoratore sospeso di un assegno alimentare (in misura non superiore alla metà dello stipendio, come, ad esempio, previsto per gli impiegati civili dello Stato dall’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957, e in altri casi dalla contrattazione collettiva), considerando che il lavoratore decide di non vaccinarsi per una libera scelta, in ogni momento rivedibile.
14.3.– In sostanza, poiché nel periodo di sospensione del dipendente non vaccinato, pur essendo formalmente in essere il rapporto, è carente medio tempore la sussistenza del sinallagma funzionale del contratto, la negazione altresì del diritto all’erogazione di un assegno alimentare in favore del lavoratore inadempiente all’obbligo vaccinale, che i rimettenti riconducono all’applicazione delle norme censurate, si giustifica quale conseguenza del principio generale di corrispettività, essendo il diritto alla retribuzione, come ad ogni altro compenso o emolumento, comunque collegato alla prestazione lavorativa, eccetto i casi in cui, mancando la prestazione lavorativa in conseguenza di un illegittimo rifiuto del datore di lavoro, l’obbligazione retributiva sia comunque da quest’ultimo dovuta.
14.4.– L’interpretazione delle disposizioni in esame prescelta dai rimettenti valorizza la portata onnicomprensiva del riferimento testuale a ogni emolumento, inteso come ogni entrata o beneficio che trovi causa nel rapporto di lavoro, tale perciò da escludere altresì il diritto all’assegno alimentare del lavoratore non vaccinato. Questa interpretazione non può comunque dirsi costituzionalmente illegittima con riguardo al diverso trattamento riservato alle situazioni del lavoratore del quale sia stata disposta la sospensione dal servizio a seguito della sottoposizione a procedimento penale o disciplinare, in base all’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 o al sopravvenuto contratto collettivo di comparto, come stabilito dall’art. 59 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421) e poi dall’art. 55 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
La disciplina dell’assegno alimentare invocata nelle ordinanze di rimessione, quale fattispecie cui raffrontare le norme censurate per verificarne la ragionevolezza, configura la sospensione come misura provvisoria, priva di carattere sanzionatorio e piuttosto disposta cautelarmente nell’interesse pubblico (ordinanze n. 541 e n. 258 del 1988), destinata ad essere travolta dall’esaurimento dei paralleli procedimenti, il che rende improponibile la comparazione. Invero, la scelta del legislatore di equiparare quei determinati periodi di inattività lavorativa alla prestazione effettiva trova lì giustificazione nella esigenza sociale di sostegno temporaneo del lavoratore per il tempo occorrente alla definizione dei relativi giudizi e alla verifica della sua effettiva responsabilità, ancora non accertata.
Se, quindi, in tali casi, il riconoscimento dell’assegno alimentare si giustifica alla luce della necessità di assicurare al lavoratore un sostegno allorquando la temporanea impossibilità della prestazione sia determinata da una rinuncia unilaterale del datore di lavoro ad avvalersene e da atti o comportamenti che richiedono di essere accertati in vista della prosecuzione del rapporto, ben diverso è il caso in cui, per il fatto di non aver adempiuto all’obbligo vaccinale, è il lavoratore che decide di sottrarsi unilateralmente alle condizioni di sicurezza che rendono la sua prestazione lavorativa, nei termini anzidetti, legittimamente esercitabile.
14.5.– I rimettenti fanno leva, altrimenti, sull’argomento che l’assegno alimentare, concesso ai sensi dell’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957 o previsto dalla contrattazione collettiva, secondo diffusa interpretazione giurisprudenziale, non ha natura retributiva, ma assistenziale, in quanto non rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa svolta, ma trova fondamento nell’assicurazione delle esigenze di vita di colui che risulta comunque medio tempore dipendente. Avendo l’assegno alimentare lo scopo di fornire una fonte di reddito al dipendente pubblico e alla sua famiglia, di carattere temporaneo, in quanto limitato al periodo di efficacia della sospensione dal servizio, si reputa dai giudici a quibus che la relativa corresponsione spetti ope legis e indipendentemente dalla sua specifica previsione nel provvedimento di sospensione. In tale prospettiva, l’assegno alimentare in favore dell’impiegato sospeso costituirebbe un diritto soggettivo di automatica applicazione, nonostante la temporanea interruzione del termine sinallagmatico dello svolgimento della prestazione da parte del lavoratore.
Anche muovendo da tale premessa interpretativa, tuttavia, rimane smentita la conclusione che configuri quale soluzione costituzionalmente obbligata l’accollo al datore di lavoro della erogazione solidaristica, in favore del lavoratore che non abbia inteso vaccinarsi e che sia perciò solo temporaneamente inidoneo allo svolgimento della propria attività lavorativa, di una provvidenza di natura assistenziale, esulante dai diritti di lavoro, atta a garantire la soddisfazione delle esigenze di vita del dipendente e della sua famiglia.
Posto cioè che l’erogazione dell’assegno alimentare rappresenta per il datore di lavoro un costo netto, senza corrispettivo, non è irragionevole che il legislatore ne faccia a lui carico quando l’evento impeditivo della prestazione lavorativa abbia carattere oggettivo, e non anche quando l’evento stesso rifletta invece una scelta – pur legittima – del prestatore d’opera.
Anche tali questioni, pertanto, devono essere dichiarate non fondate.