Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza 21 agosto 2024, n. 32770
PRINCIPIO DI DIRITTO
Le molestie sessuali possono concretizzare il reato di molestie di cui all’articolo 660 cod. pen., ovvero di atti persecutori (o stalking) di cui all’articolo 612-bis cod. pen. Il criterio distintivo tra i due reati non consiste tanto nella condotta dell’agente di reato, che può essere la medesima, bensì nel diverso atteggiarsi delle “conseguenze” della condotta, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. solo qualora alle condotte molestatrici acceda uno degli eventi tipici del delitto di stalking (i.e. quando le condotte siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita), mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Preliminarmente, il Collegio evidenzia come in materia cautelare, pur non potendosi parlare di “doppia conforme”, laddove le due ordinanze cautelari pervengano a conclusioni sovrapponibili, seguendo i medesimi passaggi argomentativi (come nel caso di motivazione per relationem), esse si integrano, formando un unicum.
In tal senso, la giurisprudenza della Corte ritiene (Sez. 2, n. 672 del 23/01/1998, dep. 1999, Trimboli, Rv. 212768 – 01) che ” in tema di motivazione dei provvedimenti cautelari, così come la motivazione del Tribunale del riesame può integrare e completare la motivazione elaborata dal giudice che ha emesso il provvedimento restrittivo, quest’ultima ben può, a sua volta, essere utilizzata per colmare le eventuali lacune del successivo provvedimento; infatti, trattandosi di ordinanze complementari e strettamente collegate, esse, vicendevolmente e nel loro insieme, connotano l’unitario giudizio di sussistenza in ordine ai presupposti di applicabilità della misura cautelare”.
Analogamente, Sez. 6, n. 32359 del 06/05/2003, Scandizzo, Rv. 226517 – 01, ha ritenuto che il provvedimento del Tribunale del riesame integra e completa quello del giudice che ha emesso l’ordinanza applicativa, purché questa (come in questo caso) contenga le ragioni logiche e giuridiche che ne hanno determinato l’emissione, con la mera esclusione (Sez. 6, Sentenza n. 18476 del 12/12/2014, dep. 2015, Taiani, n.m.) del caso in cui il provvedimento custodiale sia mancante di motivazione in senso grafico oppure ove, pur esistendo materialmente una motivazione, essa si risolva in clausole di stile o in una motivazione meramente apparente e cioè tale da non consentire di comprendere l’itinerario logico-giuridico esperito dal giudice.
Le due ordinanze, quindi, andranno considerate unitariamente ai fini di valutare l’ammissibilità e la fondatezza dei motivi di ricorso.
- Ciò premesso, il ricorso del Procuratore della Repubblica è fondato. I primi due motivi possono essere analizzati congiuntamente in ragione della loro stretta interdipendenza.
2.1. L’ordinanza impugnata fonda il suo giudizio su due elementi fondamentali, uno di carattere metodologico, l’altro “di contesto”.
Quanto al primo aspetto, dopo aver premesso in via generale di voler escludere “manicheistiche enfatizzazioni” (pag. 5), il riesame evidenzia programmaticamente che i capi B) e C) in rubrica sono caratterizzati da “evidente ipertrofia contestatoria da parte della pubblica accusa” (pag. 10), con un “livellamento indiscriminato verso l’alto” delle condotte contestate, laddove “molte delle condotte potenzialmente in rilievo hanno… dei contorni sfumati e per certi versi di difficile decifrazione sul piano oggettivo e soggettivo”, con conseguente “eticizzazione del rimprovero e aticipizzazione delle imputazioni”.
Quanto al secondo aspetto, il provvedimento aderisce alla argomentazione difensiva secondo cui (pag. 12) molti dei comportamenti contestati al A.A. erano in realtà ascrivibili alla sua origine geografica (meridionale), “alla sua indole espansiva e naturalmente portata alla confidenza e a gesti affettuosi volti ad esprime(re) incoraggiamento e stima per il lavoro e la formazione in essere”.
Tale motivazione non fà buon governo dei principi stabiliti da questa Corte nella materia in esame, sotto diversi e convergenti profili.
Coglie nel segno, infatti, il ricorrente pubblico ministero laddove, per un verso, sottolinea che il Tribunale ha effettuato una valutazione di carattere generale senza analizzare le singole condotte relative alle singole persone offese (contrariamente all’ordinanza genetica); nonché laddove, per altro verso, evidenzia che la nozione di “atto sessuale” è radicata su elementi “oggettivi”, così come la distinzione tra molestie sessuali, da un lato, e violenza sessuale, in forma consumata o tentata, dall’altro, e non anche su elementi marcatamente soggettivi quali quelli evidenziati dal provvedimento impugnato.
2.2. Sotto tale secondo profilo è stato infatti chiarito da questa Corte (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 43423 del 18/09/2019, P., Rv. 277179 – 01) che rientra nell’accezione di “atto sessuale”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609-bis cod. pen., non soltanto ogni forma di “congiunzione carnale”, ma altresì qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, non avendo rilievo determinante, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale (Sez. 3, n. 33464 del 15/06/2006- dep. 05/10/2006, Beretta, Rv. 234786; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014 – dep. 21/05/2015, Rv. 263738).
Ed infatti, essendo il reato in esame posto a presidio della libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere o ricevere atti sessuali in assoluta autonomia e nella pienezza dei propri poteri di scelta contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, tale configurazione si riflette necessariamente sulla natura dell’atto in cui si estrinseca la condotta materiale dell’agente, avuto riguardo alla sua ambivalenza che, al di là dell’intendimento perseguito dal suo autore, ricade comunque sulla vittima.
È perciò dalla stessa natura del bene giuridico protetto che deve ricavarsi la natura sessuale del gesto tutte le volte in cui lo stesso, pur concretizzandosi in un contatto corporeo, attinge parti che non necessariamente rientrano in quelle tradizionalmente definite come “erogene” (ove la natura sessuale dell’atto è indiscussa), essendo la sfera della sessualità, che non resta confinata sul piano strettamente fisico ma involge anche la sfera psichica e quella emotiva, suscettibile di modularsi diversamente in relazione ai valori del comune sentire che si consolidano nello specifico contesto storico, culturale e sociale di riferimento.
Come evidenziato dalla citata sentenza 43423/2019, oltre agli atti di inequivoca valenza sessuale in ragione delle parti corporee coinvolte (zone genitali o comunque erogene) esiste, nella realtà fenomenica, una “zona grigia” comprensiva di quegli atti che, per il loro carattere ambivalente (ovverosia per le diverse finalità di cui possono essere, in astratto, espressione), che ne impone una necessaria opera di decodificazione.
In tali casi, la riconducibilità alla dimensione sessuale degli atti rivolti al soggetto passivo, deve costituire oggetto di accertamento da parte del giudice del merito, secondo una valutazione chÈ tenga conto della condotta nel suo complesso, del “contesto sociale e culturale” in cui l’azione è stata realizzata, della sua ” incidenza sulla libertà sessuale” della persona offesa, del “contesto relazionale” intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante (Sez. 3, n. 964 del 26/11/2014- dep. 13/01/2015, R, Rv. 261634).
Con specifico riferimento al “bacio”, in particolare, la giurisprudenza di questa Corte è uniformemente orientata nel ritenerlo quale “atto sessuale” anche nel caso in cui si risolva nel semplice contatto delle labbra (Sez. 3 n. 41536, 29 ottobre 2009, non massimata; Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007- dep. 02/07/2007, Greco, Rv. 236964, in cui si è sottolineata l’irrilevanza di distinzioni fondate sull’intensità dell’atto), mentre in altra occasione si è ritenuta la natura di atti sessuali in riferimento ad una serie ripetuta di baci da parte dell’agente nei confronti della vittima, non implicanti alcun contatto con le zone erogene (Sez. 3, n. 10248 del 12/02/2014, M, Rv. 258588, relativa ad un caso simile al presente, in cui un preside aveva ripetutamente abbracciato e baciato sulle guance un’alunna in luoghi appartati, trattenendola per i fianchi, chiedendole di baciarlo e rivolgendole apprezzamenti per il suo aspetto fisico).
Conclusivamente, per decifrare il significato di “atto sessuale” è necessario fare riferimento sia ad un criterio oggettivistico-anatomico (parti del corpo attinte) e sia ad un criterio oggettivistico-contestuale, che tenga conto cioè del “contesto di azione”, in maniera che dalle modalità della condotta nel suo complesso e da altri elementi significativi si accerti se vi sia stata o meno una indebita compromissione della libera determinazione della sfera sessuale altrui (Sez. 3, n. 35591 del 11/05/2016, Feliciani. Rv. 267647 – 01).
Valutazione, questa, che il provvedimento impugnato ha omesso di operare, fermandosi a profili di carattere generale e squisitamente soggettivi (provenienza geografica e temperamento dell’agente).
2.3. Il provvedimento impugnato merita censura anche sotto il profilo della qualificazione degli atti posti in essere dall’indagato nei confronti delle persone offese. Ed infatti, in relazione alle modalità di estrinsecazione della condotta, l’orientamento di questa Corte (Sez. 3, n. 43617 del 15/09/2021, Hladun, n.m.), che il Collegio condivide e ribadisce, è nel senso che l’espressione “atti sessuali” comprenda tutti quegli atti che (tramite violenza, minaccia, induzione o abuso di autorità) “siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale”.
Il concetto di violenza, in particolare, ricomprende al suo interno non solo le esplicazioni di energia fisica direttamente realizzate sulla persona offesa e volte a vincere la resistenza opposta dalla stessa, ma anche qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, in tal modo costretto a subire atti sessuali contro la propria volontà (Sez. 3, n. 6643 del 12/01/2010, C., Rv. 246186).
Il delitto in esame, inoltre, non necessita di una violenza tale da porre il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre resistenza, essendo sufficiente che l’azione si compia in modo insidiosamente rapido, tanto da superare la volontà-contraria della vittima.
Ne consegue che, in tema di violenza sessuale, vanno considerati atti sessuali anche quelli insidiosi e rapidi, che riguardino zone erogene su persona non consenziente come palpamenti, sfregamenti, baci (Sez. 3, n. 42871 del 26/09/2013, Z., Rv. 256915). Non si richiede pertanto che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che la volontà risulti coartata e che, di conseguenza, l’invasione della sera sessuale non sia voluta dalla vittima.
Caratteristica, questa, comune a tutte le imputazioni contestate al A.A. al capo B), con il cui contenuto il provvedimento impugnato si confronta in termini assolutamente generici e non conformi alla citata giurisprudenza di questa Corte.
2.4. Il Collegio evidenzia altresì che, per i c.d. “toccamenti”, vale il principio secondo il quale questi debbano considerarsi atti idonei in modo non equivoco (e quindi integranti il delitto tentato di violenza sessuale) a ledere la libertà sessuale della vittima ove riguardino parti corporee diverse da quelle genitali od erogene allorché, per cause indipendenti dalla propria volontà (pronta reazione della vittima o per altre ragioni), l’agente non riesca a toccare la parte corporea intima della persona presa di mira ovvero non abbia provocato un contatto di quest’ultima con le proprie parti intime (Sez. 3, n. 17414 del 18/02/2016 – dep. 28/04/2016, F, Rv. 266900).
In altre pronunce si è affermato (Sez. 3, n. 43617 del 15/09/2021, Hladun, citata) che il discrimen esistente tra la fattispecie di violenza sessuale tentata e quella consumata è costituito dalla concreta intrusione dell’agente nella sfera sessuale della vittima, arrestandosi il fatto allo stadio di tentativo solo nel caso in cui “la materialità degli atti – pur giudicati idonei ad inserirsi in una serie causale indirizzata in modo non equivoco alla commissione del reato in questione -non sia pervenuta sino al contatto fisico con il corpo della vittima (Cass. pen., Sez. Ili, sent. n. 38926/2018).
Nell’ambito del tentativo di violenza sessuale, inoltre, la prova della specifica finalità perseguita dall’aggressore può essere desunta da elementi esterni alla condotta tipica e sussiste anche quando, pur in assenza di un contatto fisico tra imputato e vittima, la condotta assunta risulti sintomatica dell’intenzione di appagare i propri istinti sessuali (Cass. pen., Sez. 3, sent. n. 45698/2001)”.
Diversa è la qualificabilità del fatto allorquando si tratti del bacio, che di per sé può comportare, indipendentemente dalla zona corporea che viene attinta, il coinvolgimento della dimensione sessuale della vittima atteso il diverso significato e la conseguente valenza che è suscettibile di assumere nel rapporto interpersonale, e che pertanto rientra, valutato il contesto di riferimento, nel delitto in esame nella forma consumata.
Appare quindi corretta la doglianza del ricorrente pubblico ministero laddove evidenzia che la distinzione, operata dal costante orientamento della Corte, tra “concreta intrusione” o meno nella sfera sessuale della vittima non concerne la possibilità di ri-qualificazione del fatto ai sensi dell’articolo 660 cod. pen., bensì la distinzione tra forma tentata e forma consumata del delitto di cui all’articolo 609-bis cod. pen.
Per conseguenza, il Collegio ribadisce i seguenti principi – la condotta sanzionata dall’articolo 609-bis cod. pen. comprende qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se “fugace” ed “estemporaneo” (i.e. “repentino”), tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest’ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale.
La valenza sessuale del contatto è indiscussa e indiscutibile ove si tratti di organi genitali o zone erogene (ivi comprese le labbra, sia della vittima che dell’agente di reato), mentre, negli altri casi, sarà frutto di un accertamento di fatto che tenga conto del contesto sociale e culturale in cui l’azione è stata realizzata, della sua incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante; – l’atto deve essere definito come “sessuale” sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell’agente.
Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l’atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude (Sez. 3, n. 13278 del 12/03/2021, P.M. in proc. Luqari. n.m.; Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007, Rv. 236964; Sez. 3, n. 35625 del 11/07/2007, Polifrone. Rv. 237294); – il delitto di violenza sessuale si esprime in forma tentata quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo si estrinseca nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a subire atti di valenza sessuale, accompagnato dal requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale (Sez. 3, n. 34128 del 23/05/2006, Rv. 234778; Sez. 3, n. 45698 del 26/10/2011, Rv. 251612), e non la mera “tranquillità” della stessa; – il reato di molestia sessuale (art. 660 c.p.), è invece integrato solo in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall’abuso sessuale (Sez. 3, n. 38719 del 26/09/2012, M.A., non massimata), ove lo “sfondo sessuale” costituisce soltanto un motivo e non un elemento della condotta (Sez. 3, n. 51427 del 22/06/2023, Barry, n.m.; Sez. 5, n. 7993 del 09/12/2020, Rv. 280495; Sez. 3, n. 41755 del 06/07/2021, Rv. 282670; Sez. 3, n. 1040 del 15/11/1996, dep. 1997, Coro. Rv. 207299 – 01).
Ciò premesso, nel caso in esame, la inusuale condotta del A.A., che si è lasciato andare, ripetutamente e con diversi soggetti, a toccamenti, baci e gesti posti in essere in un contesto (quello formativo/accademico) che non giustificava alcuna effusione di quel tipo, non poteva essere certamente giustificata o ridotta a meri gesti ” inopportuni” in considerazione di elementi squisitamente soggettivi, quali il carattere estroverso o la provenienza geografica dell’indagato.
Nessun dubbio sussiste, poi, in ordine alla sussistenza della contestata aggravante, avendo la Corte nella sua massima composizione (Sez. U, n. 27326 del 16/07/2020, U. Rv. 279520 -01) chiarito che, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis cod. pen., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali, situazione certamente ricorrente nel caso in esame.
L’ordinanza va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale del riesame di Torino.
- Il terzo motivo è del pari fondato. Come noto, con la locuzione “molestie sessuali” la legislazione civilistica intende quei “comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” (art. 2, comma 1, lett. c, D.Lgs. n. 145/2005, ora trasfuso nell’art. 26, comma 2, del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198).
Sotto il profilo penalistico, dette molestie sessuali possono concretizzare il reato di molestie di cui all’articolo 660 cod. pen., ovvero di atti persecutori (o stalking) di cui all’articolo 612-bis cod. pen. Il criterio distintivo tra i due reati non consiste tanto nella condotta dell’agente di reato, che può essere la medesima, bensì nel diverso atteggiarsi delle “conseguenze” della condotta, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. solo qualora alle condotte molestatrici acceda uno degli eventi tipici del delitto di stalking (i.e. quando le condotte siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita), mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 27909 del 10/05/2021, Roberto, n.m.; Sez. 6, n. 23375 del 10/7/2020, M., Rv. 279601; Sez. 5, n. 15625 del 9/2/2021, R., n.m.; Sez. 6, n. 23375 del 10/07/2020, Madonno. Rv. 279601 – 01).
Nel caso di specie, la ritenuta insussistenza del reato di stalking costituisce naturale portato del ridimensionamento delle accuse di violenza sessuale contestate all’indagato (a pag. 14 si definisce espressamente come “forzata” la contestazione in esame), sì da ricondurre le condotte (il corsivo è del provvedimento impugnato) a “un atteggiamento abituale e generalizzato da parte del A.A. al più sconveniente.
Le conseguenti “precauzioni” a cui alludono alcune specializzande (come il non vestirsi in modo particolarmente succinto) non assurgono, dunque, alla significanza penale dell’evento tipico delle “alterazioni delle abitudini di vita” rispetto peraltro (come detto) ad un’azione che non risulta sistematicamente e preordinatamente persecutoria”.
Ora, nel premettere coglie nel segno il. ricorrente laddove afferma che mai, nell’ordinanza genetica, si legge che alcuna delle ragazze escusse ha affermato di vestirsi, prima delle attenzioni sessuali dell’indagato, in modo “particolarmente succinto”, va evidenziato che il provvedimento si pone in termini assertivi e solo apparentemente motivati, omettendo di confrontarsi con il provvedimento del GIP.
Il quale esordisce con un “cappello” di carattere generale (pag. 71) in cui parla di “contatti fisici non richiesti (ancorché non riconducibili a veri e propri atti sessuali, come ad esempio i massaggi sulle spalle, i grattini, il fatto di cingere il collo o la vita delle ragazze, motivo per cui non sono stati contestati nel capo B), battute, commenti, telefonate, conversazioni, espressioni anche provocatorie a sfondo sessuale rivolti alle ragazze anche di fronte a terzi, atti di molestia e di corteggiamento che il professore continuava a porre in essere in maniera sistematica nonostante sapesse di non essere ricambiato e del tutto incurante del fatto di risultare sgradito”.
Successivamente, il giudice inquadra il rapporto che legava il A.A. alle specializzande (pag. 72 lo “specifico contesto, che era non soltanto lavorativo, ma anche gerarchico e di formazione, in cui l’indagato ricopriva innegabilmente un ruolo sovraordinato, in grado di incidere sul percorso scolastico e dunque sul futuro delle destinatarie delle sue attenzioni, le quali, proprio per questo, si trovavano in una situazione di oggettiva difficoltà a ribellarsi o comunque a reagire come avrebbero fatto al di fuori di quell’ambiente e nei confronti di un uomo che non fosse stato il loro “Professore””), per poi passare, da pagina 72, ad analizzare una per una le posizioni delle singole persone offese, operazione negletta in sede di riesame.
In conclusione, a pagina 77, il provvedimento genetico della misura evidenzia che le ragazze erano costrette “a trovare sotterfugi ed escamotage per minimizzare le eventualità che tutto questo si ripetesse.
Il senso di totale impotenza di fronte ai comportamenti indesiderati tenuti dal Professore (emerso in maniera palpabile dalle s.i.t. faticosamente rese agli inquirenti) era peraltro giustificato da quella sorta di ” intoccabilità” che aleggiava intorno alla figura del A.A., il quale si permetteva qualunque tipo di considerazione, anche esagerata e volgare, nella assoluta convinzione che non sarebbe mai stato chiamato a risponderne.
La circostanza è emersa dalle s.i.t. delle specializzande, le quali si sono sentite costrette a tollerare la situazione e a tacere, pur di salvaguardare la propria posizione professionale/lavorativa”.
Conclude l’ordinanza genetica nel senso che “devono pertanto ritenersi verificate non soltanto le condotte, consapevoli e reiterate, previste dal reato contestato, ma anche l’evento degli atti persecutori, essendo innegabile che le persone offese, a causa dei comportamenti di A.A. e delle conseguenti ripercussioni psicologiche, avessero modificato le abitudini di vita, come non entrare più da sole nell’ufficio di A.A., preferendo farsi accompagnare dai colleghi di sesso maschile, evitare il più possibile di intrattenersi in ospedale fino a tarda ora con lui, proprio per non esporsi a condotte simili, e porre attenzione all’abbigliamento, in modo da non dare adito ai commenti sgraditi.
La Y.Y. ha anche riferito di avere saputo che alcune specializzande, oppresse dagli atteggiamenti di A.A., avevano iniziato ad assumere lo Xanax “per la paura di dover restare da sola in compagnia del Prof. A.A.” (s.i.t. Y.Y. del 7/11/2022).
Al contempo, le specializzande, si erano viste costrette a recidere il rapporto confidenziale instaurato con i propri tutor, ossia i medici strutturati della Scuola, non fidandosi più di loro, considerandoli “alleati” del A.A., posto che invece di redarguirlo o anche soltanto dissociarsi da quei comportamenti, nella migliore delle ipotesi restavano del tutto indifferenti e nella peggiore lo appoggiavano, ridendo e scherzando con lui come se tutto questo, in un ambito formativo, fosse “normale”.
Allo stesso modo, le persone offese non ritenevano di poter trovare appoggio nelle figure istituzionali in posizione sovraordinata al A.A. e perciò in grado di intervenire efficacemente, come ad esempio O.O…. (omissis)… Il profondo senso di oppressione e di imbarazzo emerso anche nel corso delle s.i.t. costituisce ennesima conferma della natura persecutoria delle condotte poste in essere dall’indagato, mentre quanto accaduto agli specializzandi “dissidenti” (oggetto del capo D) restituisce la misura di quello che, davvero, il Professore poteva arrivare a fare a coloro che osavano osteggiarlo o contraddirlo”.
L’ordinanza impugnata si limita a negare in via generale la sussistenza del reato, senza confrontarsi con il contenuto del provvedimento genetico, conseguenza, questa, del reciso (ma erroneo) ridimensionamento del perimetro di illiceità delle condotte contestate. Si impone quindi l’annullamento con rinvio al Tribunale del riesame di Torino per nuovo esame sul punto.
I giudici del rinvio dovranno in particolare verificare se le molestie poste in essere nei confronti delle persone offese rivestano i caratteri dell’abitualità e, in caso affermativo, se per effetto delle suddette condotte moleste, in danno delle singole persone offese si siano verificati alcuni degli eventi indicati dall’articolo 612-bis cod. pen.
- Il ricorso di A.A. è complessivamente infondato.
- Il primo motivo è infondato. II Collegio evidenzia in via preliminare che, in materia cautelare, il concetto di “gravità indiziaria” non coincide con lo standard probatorio imposto dall’articolo 192 cod. proc. pen. in materia di valutazione della prova logica (Sez. 4, n. 53369 del 09/11/2016, Jovanovic, Rv. 268683; Sez. 4, n. 38466 del 12/07/2013, Kolgjini, Rv. 257576).
Al fine dell’adozione della misura, invero, è sufficiente l’emersione di qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in ordine ai reati addebitati. I detti indizi, pertanto, non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio di merito, dall’art. 192 cod. pen. proc., comma 2 (per questa ragione l’art. 273 cod. proc. pen., comma 1 -bis richiama l’art. 192 cod. proc. pen., commi 3 e 4, ma non il comma 2 del medesimo articolo, il quale, oltre alla “gravità”, richiede la “precisione” e “concordanza” degli indizi).
Ne deriva, quindi, che “ai fini delle misure cautelari, gli indizi non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., e cioè con i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza (cfr. ancora, Cass, Sez. IV, 4 luglio 2003, Pilo; nonché, più di recente, Sez. IV, 21 giugno 2005, Tavella)”.
5.1. Tanto debitamente rammentato, l’ordinanza impugnata chiarisce (pagg. 3-5) che sussistono, in riferimento al reato di falso, almeno sei profili di gravità indiziaria – i dati relativi agli standard inseriti su indicazione del A.A. negli anni 2017-2021 erano da un lato sempre gli stessi tra loro e dall’altro perfettamente identici a quelli richiesti dal MIUR; – era emersa una discrepanza tra i dati inseriti in banca dati nel 2021 per gli anni 2019-2021 (150 standard specifici assistenziali) e quelli inseriti nel documento di budget sottoscritto dal direttore Scaramuzzino (55 attività complessive di cui 30 autopsie e 25 riscontri diagnostici); – su richiesta del Dr. J.J., il A.A. inviava un documento relativo all’attestazione dei flussi degli anni 2020- 2021 in cui risultavano una decina di attività necrosettorie e un documento di budget in cui risultavano 31 attività necrosettorie e 1748 visite necroscopiche; – le dichiarazioni del Dr. J.J. e quelle degli specializzandi (oltre ai loro libretti) confermavano che la Scuola non garantiva il numero minimo di “attività professionali obbligatorie”; – lo stesso A.A. forniva ai NAS dati che confermavano le dichiarazioni degli specializzandi; – allorquando il Dr. J.J. faceva inserire, nel 2023, il numero effettivo di attività necrosettorie svolte (31 attività), per la prima volta la Scuola non otteneva l’accreditamento dal MIUR. Tali elementi si ricavavano dall’escussione dei sommari informatori, dalle acquisizioni documentali e dalle intercettazioni telefoniche e ambientali.
A tale ultimo proposito, a pagina 7 l’ordinanza aggiunge, quanto all’elemento psicologico del reato, che la conferma della consapevolezza della falsità in capo al A.A. si desume anche dai contenuti di una conversazione (n. 1830 del 18/07/2023), in cui si evince anche l’ostilità dell’indagato a stipulare convenzioni con gli obitori e in generale con altri istituti, verosimilmente per il timore di perdere potere.
5.2. A ciò devesi aggiungere quanto affermato nell’ordinanza genetica, la quale chiarisce da pag. 22 (circostanze confermate anche dal Prof. J.J.). che “l’attività necrosettoria (ovvero l’autopsia) è considerata, per ovvi motivi, l’Attività Professionalizzante Obbligatoria per antonomasia della disciplina di medicina legale e, in quanto tale, deve essere svolta presso le strutture della rete formativa e dai singoli specializzandi in un determinato numero minimo, per garantire il rispetto sia degli standard specifici che dei requisiti specifici assistenziali”.
In particolare, si afferma che ” il decreto interministeriale 402/2017 prescrive, quantoagli standard assistenziali specifici (allegato 1), che presso la struttura di sede si svolgano almeno 150 attività necrosettorie all’anno, (tant’è che nella Banca Dati compare automaticamente il numero “zero” con riferimento a tale attività svolta presso le strutture collegate) e, quanto ai requisiti assistenziali specifici (allegato 2), occorre che ogni specializzando partecipi, durante l’intero percorso formativo, ad almeno 100 accertamenti necroscopici completati dalla sezione cadaverica, eseguendone interamente ed in prima persona (esame esterno, sezione e determinazione finale della causa di morte) almeno 20″.
La normativa prevede poi, come già detto, una serie di requisiti assistenziali minimi sia della rete formativa nel suo complesso, sia ai fini dell’attivazione della Scuola. In particolare, le strutture inserite nella rete formativa devono garantire, annualmente e per ogni specializzando, un “volume minimo” di attività assistenziali pari a cinque volte i dati numerici precedentemente indicati (e, dunque, 500 accertamenti necroscopici completi), mentre per l’attivazione della Scuola viene ritenuto sufficiente un volume minimo di attività assistenziali annue tale da consentire la formazione di tre specializzandi, e, dunque, 1.500 accertamenti necroscopici completi.
Con riferimento alle annualità oggetto della Banca Dati del 2023, il Ministero ha abbassato le soglie dei requisiti specifici assistenziali, fissando il limite in 1/5 dei numeri precedentemente richiesti, senza però cambiare nulla con riferimento agli standard specifici assistenziali, che hanno continuato ad essere richiesti nel numero minimo di 150 attività necrosettorie, tutte da svolgersi presso la struttura di sede.
A pag. 23 evidenzia l’ordinanza GIP che, con riferimento ai valori inseriti in Banca Dati negli anni precedenti al 2023, ossia sotto la direzione del A.A., le indagini hanno evidenziato una serie di incongruenze riferibili sia agli standard che ai requisiti assistenziali specifici della Scuola di Medicina Legale di Torino, tali da fare concludere che fossero state commesse, in maniera preordinata e consapevole, delle vere e proprie falsità.
Ed infatti, poiché la normativa prevede espressamente che vengano effettuate le attività “necrosettorie”, devono ritenersi escluse le c.d. “visite necroscopiche”, ossia tutte quelle attività che i medici legali compiono, nell’ordine di migliaia all’anno, de visu, finalizzate ad accertare la morte della persona, senza procedere ad alcuna attività propriamente “settoria”, ossia di sezione cadaverica.
La precisazione è rilevante in quanto il A.A., in occasione dell’apertura della Banca Dati del 2023, quando Direttore era ormai J.J., aveva tentato di fargli inserire il dato numerico di 1779, comprensivo di 1748 visite necroscopiche, tanto che J.J. si era addirittura rivolto alla sua conoscente e collega K.K., Direttrice della Scuola di Medicina Legale di Bologna, per avere l’ulteriore e definitiva conferma del fatto che negli standard assistenziali non potessero essere ricomprese le visite necroscopiche (v. progr. 323 del 20/04/2023).
In secondo luogo, il A.A. ha fatto inserire in Banca Dati dei numeri relativi ai “riscontri diagnostici”, che però non attengono alla disciplina medico-legale e dunque non dovevano essere conteggiati. Evidenzia in proposito l’ordinanza GIP che, sebbene il concetto di “attività necrosettoria” comprenda sia le autopsie giudiziarie che i riscontri diagnostici, trattandosi di attività entrambe basate sulla tecnica settoria, questo non significa che le due attività siano equipollenti, men che meno ai fini delle quantificazioni degli standard specifici assistenziali rilevanti per la Scuola di Medicina Legale, avendo due finalità profondamente diverse (vedi s.i.t. Proff. P.P. e Q.Q.).
I riscontri diagnostici – prosegue l’ordinanza GIP – sono infatti di esclusiva pertinenza dell’istituto di “Anatomia patologica” e, per essere conteggiati ” in quota” medicina legale, si sarebbe dovuta stipulare una convenzione tra i due istituti (come evidenziato dallo stesso ricorrente), di talché l’istituto di anatomia patologia sarebbe diventato una “struttura complementare” (e per tale motivo essere segnalata in banca dati dall’Università e comunicata all’Osservatorio), circostanze non verificatesi nel caso di specie.
In conclusione (pagg. 23-24), i riscontri diagnostici costituiscono la materia principale degli anatomopatologi e non sono di certo funzionali alla formazione degli specializzandi di Medicina Legale che vogliano imparare l’arte della autopsia. Trattasi di due attività non equiparabili ai fini delle c.d. “A.P.O.” e la circostanza trova conferma nel fatto che, come evidenziato dai sommari informatori P.P. dott. R.R. e (ex) specializzanda E.E., i medici legali che presenziano talvolta ai riscontri diagnostici svolti dagli anatomopatologi, lo fanno in qualità di meri spettatori e non come aiuto al primo operatore.
Ulteriore conferma di ciò si rinviene documentalmente, nel fatto che i (pochi) riscontri diagnostici svolti dagli strutturati di Medicina Legale (vedasi, ad esempio, l’esame istologico nr. 2023/1 0805/1, relativo alla defunta S.S.) recano pur sempre l’intestazione di Anatomia e Istologia Patologica, a dimostrazione del fatto che trattasi di attività di pertinenza esclusiva di quella Struttura Complessa e della relativa Scuola di Specializzazione.
Nel caso di specie (v. pag. 24) si è poi accertato l’inserimento in Banca Dati, da parte di A.A., dei riscontri diagnostici ai fini del raggiungimento del numero dì 150 attività necrosettorie da lui attestate quali attività della Scuola dì Medicina Legale, nonostante tale numero, oltre a riferirsi alle autopsie svolte complessivamente negli ospedali della Città della Salute da parte di tutte le strutture e non solamente dalla Medicina Legale, rientrassero nelle attività formative già attestate dalla Scuola di Specializzazione di Anatomia Patologica per la sua rete formativa, con la conseguenza che A.A., di fatto, ha utilizzato dati che appartengono al piano formativo di un’altra scuola (cfr. s.i.t. dott. R.R.).
Peraltro, sul punto, l’ordinanza genetica sottolinea come il prof. Q.Q. abbia ritenuto alquanto singolare la posizione torinese, posto che, altrove (ad esempio a Roma), la situazione risulta completamente rovesciata, nel senso che è la Scuola di Anatomopatologia che usufruisce dei dati di Medicina Legale per il raggiungimento dei propri numeri, anche perché solitamente (come avviene a Milano) la Scuola di Medicina Legale è convenzionata con l’obitorio civico, dove viene effettuato un numero di autopsie anche superiori rispetto alla soglia minima richiesta.
La consapevolezza in capo al A.A. che tali attività fossero diverse e non equiparabili emergerebbe anche dalla conversazione progr. nr. 976 del 6 giugno 2023 (RIT 117), dove il A.A. parla di “scippare” tali attività all’istituto di anotomopatologia, nonchédal documento datato 18 luglio 2022, a firma dello stesso prof. A.A., relativo all’anno 2021, in cui compariva la seguente dicitura “necrosettoria (+visite necroscopiche) n. 31 (+1748)”.
5.3. La difesa del ricorrente, anche nel corso della discussione orale, ha insistito sulla necessità di considerare non solo l’istituto di Medicina legale, ma tutto il plesso ospedaliero. Sul punto, il Collegio evidenzia come a pag. 27 della prima ordinanza si dia atto che il prof. Q.Q. “ha segnalato alcune vicissitudini relative al mancato invio dei documenti di budget, in conseguenza del quale alcune delle strutture operative (CTO, Sant’Anna e Regina Margherita) non sono state accreditate ma sono state declassate a strutture complementari.
Si ha motivo di ritenere che il mancato invio sia ricollegabile ad una certa resistenza da parte dell’adora Direttore A.A. a svelare la realtà documentale, che avrebbe inevitabilmente comportato il mancato accreditamento della struttura di sede”. Non è quindi corretto considerare unitariamente tutta la struttura ospedaliera e la doglianza, che non si confronta con il primo provvedimento, è pertanto infondata.
5.4. Conclusivamente, dalla lettura congiunta dei due provvedimenti non appare sussistere, in tutta evidenza, alcuna illogicità o contraddittorietà di motivazione, integrandosi le due ordinanze in modo complementare nel rappresentare la sussistenza di un quadro di gravità indiziaria idoneo e sufficiente a sostenere l’editto accusatorio provvisoriamente contestato.
- Il secondo motivo è del pari infondato. In relazione al capo D), di c.d. “stalking lavorativo”, la giurisprudenza di questa Corte (Cass. pen. 31273 del 14/09/2020, Fornasieri, Rv. 279752 – 01), che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che sussista il reato di atti persecutori in caso di “mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro, tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, cosi realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis cod. pen. (Fattispecie in cui il lavoratore era stato esposto a plurimi atti vessatori, quali il fisico impedimento a lasciare la sede di lavoro e l’abuso del potere disciplinare, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, tale da far insorgere nello stesso uno stato di ansia e di paura ed indurlo a modificare le proprie abitudini di vita)”.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che, soprattutto in ragione della fluidità che caratterizza la fase cautelare, le due ordinanze, complessivamente e unitariamente considerate, diano sufficiente conto della sussistenza di uno degli eventi tipici del delitto di cui all’articolo 612-bis cod. pen., frutto di una condotta del A.A. posta sistematicamente in essere nei confronti degli specializzandi “dissidenti” con finalità sia “ritorsive” che “difensive” (come si vedrà più ampiamente in appresso), ferma restando la necessità che, nello sviluppo del procedimento, tale aspetto costituisca oggetto di individualizzata e precisa dimostrazione.
6.1. Ed infatti, l’ordinanza impugnata (pag. 16) precisa che sussistono convergenti dichiarazioni di numerosi specializzandi circa reiterate condotte vessatorie da parte del A.A., concretizzatesi in un comportamento ostile ed emarginatolo nei confronti di coloro che egli riteneva essere “contro” di lui, convinzione scaturente dall’avere detti specializzandi formulato rilievi critici, sia per iscritto, nei questionari anonimi, sia oralmente, avanzando richiesta di ampliare la loro rete formativa (posto che la Scuola non era in grado di garantire gli standard minimi professionali), sia rifiutandosi di portare a termine da soli attività che non potevano svolgere senza tutoraggio (come la certificazione di morte encefalica).
Non coglie nel segno la censura di indeterminatezza formulata dal ricorrente, in quanto, a fronte di un capo di imputazione che (anche in ragione della fluidità della fase cautelare) parla di “specializzandi del terzo anno”, è pur vero che sono specificamente indicati quali persone offese D.D., T.T., L.L., C.C.., U.U.e E.E. L’ordinanza impugnata, inoltre, analizza (pag. 17-18) le posizioni di singoli specializzandi mobbizzati dapprima la posizione di D.D., poi quella di L.L., quindi quella di B.B., indi N.N. e infine E.E., descrivendo le condotte marginalizzanti e persecutorie tenute nei confronti di ciascuno.
Passa quindi a disattendere la doglianza difensiva, riprodotta come motivo di ricorso, secondo cui mancherebbe nel caso di specie uno degli eventi tipici del reato di stalking. A pagina 18-19, infatti, si legge che sotto il profilo sostanziale “è caratterizzante l’azione di preordinata e sistematica marginalizzazione, il porre la vittima in una situazione di obiettiva impossibilità o grave difficoltà a proseguire la sua attività lavorativa/formativa (si vedano le qui riferite esclusioni dall’accesso alla Scuola, alla postazione lavorativa, etc.) e di prostrazione psicologica (vieppiù marcata in questo caso, peraltro, dove le vittime sono specializzandi che devono formarsi e il cui futuro occupazionale è in fieri si vedano esemplificativamente le ripercussioni psicologiche sulla D.ssa E.E.).
Situazione che è tale, dunque, da “costringere” la persona offesa a cercare e intraprendere nuove strade, come di fatto in molti casi è qui avvenuto”. La doglianza difensiva, secondo cui l’allontanamento dalla Scuola precederebbe, e non seguirebbe, le condotte mobbizzanti, è pertanto destituito di fondamento, non confrontandosi con il provvedimento impugnato.
6.2. L’ordinanza genetica, dal canto suo, evidenzia (pag. 78) che l’ostilità del A.A. era in particolare rivolta verso gli specializzandi “dissidenti” che non volevano o non avevano voluto allinearsi ai suoi diktat e avevano osato criticare apertamente l’operato del professore per quelle medesime ragioni che hanno poi portato alla contestazione di falso in atto pubblico a causa dei numeri delle attività assistenziali dichiarati in Banca Dati e non corrispondenti al vero.
In particolare, gli specializzandi, a fronte delle carenze formative riscontrate nella Scuola, avevano reiteratamente chiesto a A.A. di convenzionarsi con il Civico Obitorio, ricevendo sempre risposta negativa, a causa, come si è visto, dell’astio personale nutrito dal professore nei confronti del dott. R.R.. Gli specializzandi avevano quindi riversato le loro critiche (rimaste inascoltate dal A.A.) nei questionari anonimi inviati all’Osservatorio nazionale del Ministero in occasione dell’apertura della Banca Dati del 2021, denunciando una serie di carenze dell’attività formativa, sia sotto il profilo didattico che assistenziale.
L’ordinanza precisa, quanto alla condotta di stalking e all’evento del reato (pag. 79), che le iniziative assunte dall’indagato contro i “dissidenti” consistevano ” in rimproveri verbali più o meno accesi, inviti a cambiare Scuola, fino ad arrivare alle aperte minacce e alla totale estromissione dalle attività accademiche e ospedaliere”.
La circostanza veniva propalata da plurimi specializzandi, i quali “riferivano che chi nella Scuola si azzardava a lamentarsi veniva di fatto estromesso da A.A. da tutte le attività connesse e correlate e non gli veniva assegnato più alcun caso, venendo allontanato dalla scuola, come accaduto con la L.L. e con D.D. In sostanza, “l’atteggiamento di A.A. è quello di escludere dalle attività chi non si comporta come vuole lui. Questo vale sia per le donne che per gli uomini” (s.i.t. V.V. 6/5/2022 e 14/6/2022)”.
Di più, “chi osava chiedere di effettuare tirocini extra rete per colmare le lacune formative, diventava destinatario, da parte di A.A. e degli strutturati a lui fedeli, di vere e proprie pressioni psicologiche, connotate da un chiaro aut aut o scegli me o scegli la rete formativa” e dalla prospettiva di vedere irrimediabilmente compromessa la carriera professionale e lavorativa in caso di predilezione della rete formativa (come ad esempio espressamente accaduto tra lo specializzando C.C.C. e la sua tutor W.W. e ancora tra N.N. e W.W., cfr. s.i.t. N.N. 11110/2022).
Ancora, laddove gli specializzandi si rifiutavano di svolgere in autonomia le procedure richieste da A.A., per le quali, però, non erano autorizzati per legge (come ad es. le certificazioni di morte encefalica, attività disciplinata dalla Legge 578/1993 e non delegabile agli specializzandi, come confermato anche dal dott. R.R. nelle s.i.t. dell’11/12/2022 alle quali si rimanda), venivano sottoposti a pressione psicologica ed estromessi anche dalle altre attività (s.i.t. N.N. 9/5/2022).
Eloquenti sono poi i commenti della X.X. (s.i.t. 10/6/2022), che senza mezzi termini riferiva che “là dentro c’è aria pesante di mobbing se tu non fai quello che vuole lui, lui reagisce così, estromettendoti da tutto””. I comportamenti minacciosi e mobbizzanti del A.A. erano continuati anche dopo la nomina del Dr. J.J. a Direttore della Scuola (che aveva autorizzato gli specializzandi a svolgere tirocini extra rete) e nonostante la conoscenza dell’apertura del procedimento penale nei suoi confronti. Significative in proposito, secondo la prima ordinanza, erano le dichiarazioni del Dr. R.R.. il quale, escusso a s.i.t., riferiva che attualmente lavoravano con lui, presso l’ASL, E.E., diventata dirigente medico, nonché quattro specializzande, ossia B.B., N.N., V.V. e I.I.
Tutte erano apparse, al loro arrivo, “profondamente preoccupate e traumatizzate per quanto era accaduto all’interno della Scuola; E.E., addirittura, presentava i connotati tipici del disturbo reattivo, mentre le altre quattro pativano le conseguenze dell’estromissione dalla Scuola, nel senso che nonostante avessero vinto, da oltre un mese, il concorso per l’assunzione all’ASI, secondo il ed. “Decreto Calabria”. l’Università, per una sorta di “ostracismo”, non concedeva il nulla asta all’assunzione, adducendo una serie di ragioni pacificamente immotivate, posto che “la normativa non è cambiata da quando sono stati assunti D.D. e C.C. e analogamente a loro, decine di medici in tutta la Regione Piemonte”, determinando così una situazione di stallo del tutto ingiustificata e tale da comportare anche un aggravio economico nei confronti delle dottoresse”.
La natura mobbizzante della condotta, che sul piano dell’elemento soggettivo del reato concretizza il dolo generico richiesto dalla norma (v., ex plurimis, Sez. 5, n. 8915 del 07/11/2023, Baccinelli. dep. 2024, n.m., secondo cui ” il dolo nel delitto di cui all’art. 612-6/s, c.p., non richiede altro che la coscienza e volontà di porre ih essere condotte dotate di oggettiva idoneità persecutoria, in ragione del concreto svolgersi delle condotte stesse”, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa), si ricaverebbe (pag. 84) dalla conversazione ripresa in ambientale dallo stesso A.A. con la moglie (progr. nr. 93 del 23 giugno 2023 RIT 117, ambientale auto AUDI A7), il cui contenuto viene testualmente riportato, in cui lo stesso “confessa” la strategia ritorsiva attuata nei confronti degli specializzandi.
L’ordinanza analizza poi le singole posizioni delle persone offese, che il Collegio ometterà di ripercorrere. Ritiene conclusivamente questa Corte che, alla luce del tenore dei due provvedimenti, non possa porsi in discussione la sussistenza della gravità indiziaria in relazione al reato contestato, per cui la censura risulta infondata. 6. Il terzo motivo è infondato. L’ordinanza impugnata (pag. 22) ritiene sussistente la connessione teleologica tra il reato di cui al capo D) e quello di cui al capo A), essendo chiaramente emerso che “una delle ragioni (anche se non la sola) che ha animato il A.A. nella politica “mobbizzante” contro alcuni specializzandi era proprio relativa alla problematica autopsie/banca dati/questionari anonimi e l’interesse a non far emergere a ogni costo le criticità ad esse connesse”.
La prima ordinanza, a pagina 87, a sua volta precisa che risulta evidente “la connessione con il reato di falso in atto pubblico contestato al capo A), posto che le persecuzioni e il mobbing ha avuto causa e ragione nella “ribellione” degli specializzandi che avevano ravvisato e segnalato di non svolgere le attività formative previste per legge e falsamente indicate da A.A. nella Banca Dati, così portando al decreto di accreditamento soltanto provvisorio da parte del Ministero. Tale connessione con il reato di cui al capo A) comporta, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 612-bis c.p., la procedibilità d’ufficio”.
I due provvedimenti, complessivamente considerati, contengono una sufficiente – almeno nella attuale fase procedimentale – indicazione delle ragioni per cui si ritiene sussistente la connessione teleologica ex articolo 12, lettera c), cod. proc. pen. (che contempla, oltre alle ipotesi di concorso formale e reato continuato, anche quella in cui il reato “è stato commesso per eseguirne od occultarne un altro”), la quale viene integrata da un “effettivo legame finalistico” tra i reati (Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, P.G., Rv. 271223 – 01; Sez. 2, n. 8805 del 14/02/2024, Mantovani, Rv. 286008, n.m. sul punto).
Non vi è infatti dubbio che secondo l’impostazione accusatoria, ritenuta condivisibile dalle due ordinanze, la condotta mobbizzante posta in essere dal A.A. riposasse su una duplice finalità da un lato reprimere chiunque si mettesse “contro” di lui (finalità ritorsiva), dall’altro allontanare dall’istituto chiunque potesse contribuire a far luce sulle illecite pratiche svolte nell’istituto da lui diretto, oggetto della contestazione di cui al capo A) (finalità “difensiva” o occultatrice). Sul punto, non appare ravvisabile alcuna violazione di legge né vizio di motivazione coltivabile in sede di legittimità e la doglianza è pertanto infondata e va rigettata.
- Il quarto motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
7.1. È inammissibile in riferimento all’esigenza cautelare di cui all’articolo 274, lettera c), cod. proc. pen. Il provvedimento impugnato ritiene sussistente l’esigenza cautelare, ancorché affievolita, e sufficiente il presidio cautelare della misura interdittiva.
L’ordinanza GIP, sul punto, precisava che “la conservazione della posizione lavorativa del A.A. all’interno della Scuola e dell’ospedale, e dunque il mantenimento dei mezzi, delle relazioni, dei legami da lui in tessuti nel tempo e nell’ambiente, con la conseguente possibilità di continuare a contattare e dirigere la propria cerchia di persone fidate e collocate ai più alti livelli delle scale gerarchiche accademiche e sanitarie, non farebbe altro che agevolare e-consentire il protrarsi di tutte le condotte contestate, fornendo, per contro, al Professore la conferma di essere e rimanere, nonostante tutto e nonostante i gravi reati commessi, una persona intoccabile”.
Sul punto, questa Corte (v., da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 13593 del 13/03/2024, Buttitta, n.m.) ha costantemente ritenuto, con orientamento che il Collegio ribadisce, che il requisito dell’attualità del pericolo previsto dall’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. non è equiparabile all’imminenza di specifiche opportunità di ricaduta nel delitto e richiede, invece, da parte del giudice della cautela, una valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative, alla stregua di un’analisi accurata della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità realizzative della condotta, della personalità del soggetto e del contesto socio-ambientale, la quale deve essere tanto più approfondita quanto maggiore sia la distanza temporale dai fatti, ma non anche la previsione di specifiche occasioni di recidivanza (cfr., Sez. 3, n. 9041 del 15/02/2022, Gizzi, Rv. 282891 – 01; Sez. 3, n. 24257 del 21/04/2023, Fei, non mass.).
Ed ancora, in tema di presupposti per l’applicazione delle misure cautelari personali, il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma indica, invece, la continuità del periculum libertatis nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare (Sez. 2, n. 6593 del 25/01/2022, Mungiguerra, Rv. 282767 – 01).
Men che meno, il periculum deve essere ricondotto alla reiterazione del reato nei confronti delle medesime persone offese. La norma in parola, infatti, espressamente parametra l’esigenza specialpreventiva su “specifiche modalità e circostanze del fatto” e sulla “personalità della persona sottoposta alle indagini” (desumibile da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali), da cui inferire la sussistenza del “concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti… (omissis)… della stessa specie di quello per cui si procede”.
Non è quindi prevista l’identità delle persone offese, né, del resto neppure l’identità del reato, ma solo che esso si della “stessa specie”. Di tali principi ha fatto corretta applicazione il Tribunale che, con motivazione immune da rilievi di illogicità, nel tessuto motivo dell’ordinanza ha ritenuto sussistente il pericolo di recidiva, desumendolo dalle specifiche modalità dei fatti contestati e dalla personalità dell’indagato, riassumibili nell’atteggiamento “baronale” dello stesso (che impone la logica del “o con me o contro di me”) e nel “narcisismo professionale” da cui sarebbe affetto (pag. 5 ordinanza).
Inoltre, la prima ordinanza, a pagina 7, precisa che “nonostante allo stato attuale, sotto il profilo gerarchico, il prof. J.J. sia sovraordinato al prof. A.A. in ambito universitario (essendo quest’ultimo rimasto semplice docente all’interno della Scuola),in realtà tale situazione è “rovesciata” in ambito ospedaliero, risultando J.J. gerarchicamente subordinato a A.A., ricoprendo quest’ultimo la direzione della Struttura Complessa di Medicina Legale AOU, al cui interno J.J. lavora come semplice dirigente medico sanitario”.
La circostanza veniva confermata sia dal J.J. che dalla Y.Y., secondo cui il A.A. continuava ad imporre le proprie direttive e decisioni, forte del timore reverenziale nutrito nei suoi confronti e della sovraordinazione gerarchica in ambito ospedaliero.
Peraltro, secondo quanto riferito da Z.Z., precedente responsabile amministrativa della Scuola e “memoria storica” della stessa, l’attuale affidamento della direzione della Scuola al prof. J.J. non costituirebbe altro che uno stratagemma per consentire al prof. A.A., che ha già svolto due mandati consecutivi, di far trascorrere un triennio (un mandato) prima di poter essere nuovamente eletto, così come previsto da regolamento. Secondo tale prospettazione il Prof. A.A. potrebbe pertanto, a breve, alla scadenza del mandato di J.J. (e, aggiunge il Collegio, dopo la fine della durata della misura interdittiva), accingersi ad assumere nuovamente la guida della Scuola. I suddetti elementi rendono evidente, a giudizio del Collegio, la assenza di vizi di motivazione in riferimento alla sussistenza della esigenza special-preventiva di cui all’articolo 274, lettera c), cod. proc. pen., in riferimento alla quale le due ordinanze hanno fatto buon governo dei principi elaborati da questa Corte. 7.2. Tale considerazione rende irrilevante, ove anche in ipotesi fondata, la doglianza relativa al pericolo di inquinamento probatorio.
In ogni modo, a pagina 93 dell’ordinanza genetica, il GIP dava già atto del fatto che, oltre che delle gravi condotte delittuose contestate, occorreva tenere conto anche “delle connivenze, degli appoggi, della soggezione psicologica, del timore reverenziale, della personalità manifestata e degli spregiudicati comportamenti tenuti anche dopo essere stato posto al corrente dell’esistenza del procedimento penale, il rischio di inquinamento probatorio è massimo, tenendo conto delle persone che devono ancora essere sentite (il Rettore, i vari docenti inseriti nel Consiglio della Scuola di Medicina, vario personale amministrativo e universitario, come i dott. A.A.A. e B.B.B., altri specializzandi) e del conseguente, concreto ed elevatissimo rischio che tali persone subiscano condizionamenti esterni, diretti o indiretti, da parte dell’indagato, il quale, personalmente o tramite terze persone a lui vicine, senza il dovuto isolamento e permanendo nel medesimo contesto ambientale e lavorativo ormai irrimediabilmente ” inquinato”, potrebbe influire sulle deposizioni, compromettendone la genuinità”, motivazione con cui il ricorrente, già in sede di appello, non si era confrontato. Il motivo è pertanto infondato.
- L’ordinanza impugnata va, pertanto, annullata limitatamente ai capi di imputazione sub B) e C), con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Torino, che dovrà decidere in diversa composizione, stante il disposto dell’art. 34, comma 1, cod. proc. pen., applicabile, per la sua ratio anche alle ordinanze emesse nell’ambito di procedure cautelari (Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, par. 12, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 30572 del 20/07/2021, Pagano).
- Il ricorso presentato da A.A. va invece rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.