Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 21 luglio 2021 n. 20819
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 360, primo comma, n. 1, cod. proc. civ.: carenza di giurisdizione del giudice italiano.1.1. Assume la ricorrente che la giurisdizione deve essere determinata in base all’art. 21 del regolamento UE n. 1215/2012, che stabilisce la regola per stabilire la giurisdizione con riguardo alle controversie in materia di lavoro, e non in base all’art. 7, punto 2, del medesimo regolamento, che regola gli illeciti civili dolosi o colposi.
1.2. Erroneamente, la Corte d’Appello ha qualificato la responsabilità del datore di lavoro in termini di responsabilità da atto illecito, poiché aveva agito in giudizio il sindacato, che non era legato da rapporto di lavoro con la società, a tutela di un interesse collettivo.
1.3. Ad avviso della ricorrente andava considerato che la presunta condotta discriminatoria riguardava la collettività dei lavoratori, ed era ontologicamente legata ai rapporti di lavoro dei dipendenti, dal momento che la discriminazione sarebbe avvenuta con riferimento ai criteri di assunzione dei dipendenti medesimi, nonché alle condizioni di lavoro degli stessi. Il sindacato agiva per una discriminazione fatta valere non nei propri confronti ma nei confronti dei lavoratori (seppure considerati collettivamente) ed agiva nei confronti della società in quanto datrice di lavoro. Anche laddove il giudice di appello affermava che il sindacato agiva per la violazione della libertà sindacale e i principi di uguaglianza e di parità di trattamento, era evidente che si riferiva a libertà e principi che riguardavano non il sindacato ma i lavoratori.
1.4. In ogni caso il luogo in cui l’evento dannoso era avvenuto o poteva avvenire non era l’Italia. Il personale in questione presta attività prevalentemente a bordo degli aeromobili, che ai sensi della Convenzione conclusa a Chicago il 7 dicembre 1944, relativa all’aviazione civile internazionale, costituiscono territorio irlandese. Inoltre, i dipendenti di Ryanair hanno con l’Irlanda il collegamento più stretto. Le comunicazioni e in generale la gestione dei rapporti di lavoro sono stati tenuti solo ed esclusivamente dall’Irlanda. I contratti di lavoro si perfezionano presso la sede legale di Ryanair a Dublino, e i dipendenti sono pagati su conti correnti irlandesi per tutta la durata del rapporto di lavoro e sottostanno alle regole della Irish Ayiation Authority. Né il luogo di servizio coincide con il luogo della base di prestazione di servizio (CGUE, sentenza del 14 settembre 2017, cause riunite C-168/16 e C- 169/16, Nogueira; sentenza Corte Suprema di Giustizia della Comunità Valenciana (TSJCV) n. 33/2018). Dunque è privo di rilievo sia che il personale viene selezionato in Italia sia che abbia come base di riferimento quella di Bergamo, Orio al Serio.
- All’esame del motivo va premesso quanto segue.
2.1. La questione posta con riguardo alla competenza internazionale dell’autorità giurisdizionale italiana deve essere esaminata alla luce del regolamento UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come interpretato dalla CGUE, che si fonda su criteri speciali alternativi al foro generale costituito dallo Stato di domicilio del convenuto (art. 4). In proposito si può ricordare che secondo la costante giurisprudenza eurounitaria, poiché il regolamento n. 1215/2012 abroga e sostituisce il regolamento n. 44 del 2001 che ha, a sua volta, sostituito la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione dei nuovi Stati membri a tale Convenzione, l’interpretazione fornita dalla CCGU circa le disposizioni di questi ultimi strumenti giuridici vale anche per il regolamento n. 1215/2012, quando tali disposizioni possono essere qualificate come «equivalenti» (ex aliis, CGUE, sentenza 28 febbraio 2019, causa C-579/17, Gradbengtyo Korana, punto 45).
Va altresì ricordato che il considerando n. 7 del regolamento CE n. 864/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’Il luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma II), che verrà in rilievo nel prosieguo quanto alla legge applicabile, stabilisce che: “Il campo d’applicazione materiale e le disposizioni del presente regolamento dovrebbero essere coerenti con il regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000 (…) e con gli strumenti relativi alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali”.
2.2. La determinazione dell’ambito della giurisdizione italiana rispetto a quella di un giudice di un diverso Stato UE, e dunque l’applicazione dei criteri di cui al Regolamento UE n. 1215 del 2012, ha come presupposto (si v., Cass., S.U., sentenza n. 2360 del 2015, chiamata a fare applicazione dei criteri della predetta Convenzione del 1968), così come nel caso in cui si debba statuire sul riparto della giurisdizione tra giudici nazionali, la determinazione della domanda (art. 386 cod. proc. civ.).
2.3. A tal fine, come questa Corte ha più volte affermato nel regolare il riparto della giurisdizione tra i giudici nazionali (si v., ex multis, Cass., S.U., ordinanze n. 28978 del 2020, n. 20350 del 2018, n. 784 del 2021) rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione.
2.4. Tale principio deve essere specificato con riguardo all’applicazione dei criteri di competenza dettati dal regolamento UE n. 1215 del 2012.
Occorre considerare che la CGUE ha più volte affermato (ex aliis, CGUE, sentenza 25 marzo 2021, causa C-307/19, Obala i lu&ce d.o.o.; CGUE sentenza, 24 novembre 2020, causa C-59/19, Wikingerhof GmbH & Co. KG) che le regole di competenza speciale previste dalle disposizioni del regolamento n. 1215 del 2012, al fine di garantire, per quanto possibile, l’uguaglianza e l’uniformità dei diritti e degli obblighi che derivano da tale regolamento per gli Stati membri e per le persone interessate, devono essere interpretate in modo autonomo, facendo riferimento, da un lato, agli obiettivi e all’impianto sistematico di detto regolamento e, dall’altro, ai principi generali desumibili da tutti gli ordinamenti giuridici nazionali.
Pertanto, le nozioni che di volta in volta vengono in rilievo, quali con riguardo alla fattispecie in esame «materia civile e commerciale» (art. 1, par.1), «materia contrattuale» (art. 7, n. 1, lettera a), «materia di illeciti civili dolosi o colposi» (art. 7, n. 2), contratto (artt. 20 e 21), non possano essere intese come un semplice rinvio alla qualificazione del rapporto giuridico dedotto dinanzi all’autorità giurisdizionale nazionale fornita dal diritto nazionale applicabile, ma occorre che l’autorità giurisdizionale adita, verifichi se le pretese dell’attore rientrino, indipendentemente dalla loro qualificazione nel diritto nazionale, nella materia contrattuale oppure, al contrario, nella materia degli illeciti civili dolosi o colposi, principalmente alla luce del sistema e degli obiettivi del medesimo regolamento (v., in tal senso, CGUE, sentenza del 13 marzo 2014, C-548/12, Brogsitter, punto 18; cfr. Cass., S.U., ordinanze n. 6456 del 2020, n. 26145 del 2017).
2.5. Alla luce dei suddetti principi va esaminato il primo motivo di ricorso.
2.6. Il motivo di ricorso nel denunciare la carenza di giurisdizione, si articola in due profili di censura. Il primo riguarda la qualificazione della domanda effettuata dalla Corte d’Appello, venendo prospettato che la stessa non ha carattere extracontrattuale, ma contrattuale. Il secondo attiene alla ritenuta erronea applicazione dell’art. 7 del reg. UE n. 1215/2012 in luogo dell’art. 21 del medesimo regolamento, sia perché assumerebbe precipuo rilievo il rapporto di lavoro, sia in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa su aeromobili immatricolati in Irlanda.
2.7. Il primo profilo di censura non è fondato.
2.8. Occorre rilevare che il sindacato ha agito in giudizio per l’accertamento del carattere discriminatorio e la correlata tutela legale della clausola del contratto collettivo aziendale “Cabin Crew Agrement for Crew Operating from BGY”, stipulato ai sensi della legge irlandese e con un sindacato irlandese, che regola il rapporto di lavoro del personale di cabina degli aeromobili, definita “Estinzione del contratto”, che prevede: “Questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di Ryanair contratti direttamente con il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se Ryanair o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato”, nonché della condotta della società o delle prassi aziendali di escludere qualsiasi rapporto con le organizzazioni sindacali, inibendo allo stesso personale l’affiliazione collettiva e rivendicazioni collettive.
2.9. La Corte d’Appello ha qualificato la domanda proposta dalla FILT CGIL di Bergamo quale domanda extracontrattuale di accertamento della discriminazione diretta in ragione di alcune condotte (il rilievo del contratto collettivo aziendale “Cabin Crew Agreement for Crew Operating from BGY” nei contratti individuali di lavoro, la negazione di rapporti con le organizzazioni sindacali italiane ed europee, l’avallo dell’amministratore delegato della società a tale politica, tra l’altro con dichiarazioni in sede di assemblea annuale degli azionisti) poste in essere dalla società Ryanair, relative all’accesso e alle condizioni di lavoro del personale che viene selezionato in Italia e che ha come base quella di Bergamo-Orlo al Serio.
2.10. Osserva il Collegio che tale clausola, “Estinzione del contratto”, che spiegava effetto rispetto ai contratti individuali di lavoro stipulati tra il personale di cabina e Ryanair, oltre a declinarsi nell’ambito dell’autonomia negoziale e del rapporto di lavoro, ricade anche sull’autonomia collettiva e sulle relazioni sindacali in quanto, poiché condiziona l’assunzione, le condizioni di lavoro e la permanenza in servizio del lavoratore, incide sulla libertà sindacale sia individuale che collettiva. Di talché, come affermato dalla Corte d’Appello, va esclusa la natura contrattuale dell’azione promossa dal sindacato per l’accertamento del carattere discriminatorio delle condotte poste in essere dalla società datrice di lavoro, tra cui l’applicazione della suddetta clausola, lesive del diritto di libertà sindacale.
2.11. Anche il secondo profilo di censura non è fondato, e va affermata la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano.
2.12. Va rilevato che ai sensi dell’art. 20, della Sezione 5 “Competenza in materia di contratti individuali di lavoro”, del reg. 1215/2012, sono due le condizioni che devono sussistere perché trovino applicazione i criteri di cui all’art. 21 del regolamento medesimo, invocato dalla ricorrente: da un lato, deve esistere un “contratto individuale di lavoro” inter partes; dall’altro, l’azione deve essere relativa a tale “contratto”.
2.13. La CGUE con la sentenza 25 febbraio 2021, causa C-804/19, BU (nel richiamare CGUE, sentenze 10 settembre 2015, causa C-47/14, H.F.E. e a.; 11 aprile 2019, causa C-603/17, B. e H.) ha affermato che la nozione di “contratto individuale di lavoro”, di cui all’articolo 20 del regolamento n. 1215/2012, deve essere interpretata in modo autonomo al fine di garantire l’applicazione uniforme delle norme sulla competenza stabilite da tale regolamento in tutti gli Stati membri, e che tale nozione presuppone un vincolo di subordinazione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, dato che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona sia obbligata a svolgere, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la sua direzione, prestazioni in contropartita delle quali ha il diritto di percepire una retribuzione (v., per analogia, CGUE, sentenze 10 settembre 2015, C-47/14, H.F.E. e a., punti 40 e 41; 11 aprile 2019, C-603/17, B. e H., punti 25 e 26).
Di talché la qualificazione della domanda operata correttamente dalla Corte d’Appello con riguardo all’ordinamento nazionale anche ai fini della determinazione della giurisdizione, è coerente con le indicazioni della CGUE per l’applicazione uniforme delle norme sulla competenza. Ed infatti, anche alla luce della giurisprudenza unionale non è ravvisabile tra le parti in causa alcun contratto di lavoro. Atteso, dunque, che si verte in ipotesi di responsabilità extracontrattuale, trova applicazione l’art. 7, par. 2, del reg. n. 1215/2012, secondo cui “una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro (…) in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”.
2.14. Quanto al criterio di collegamento relativo all’aeromobile e alla nazionalità dello stesso, invocato dalla ricorrente sempre nel primo motivo di ricorso, si osserva che lo stesso si sostanzia nel richiamo di principi afferenti l’individuazione della legge applicabile ai rapporti di lavoro con elementi di internazionalità con riguardo ad obbligazioni contrattuali, e lo stesso trova riferimento normativo nella Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 (v, art. 6, par. 2, lett. a), nonché nel regolamento n. 593 del 2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I, v. art. 8), che ha recepito la Convenzione di Roma in forma di strumento dell’Unione.
2.15. Di talchè il carattere extracontrattuale dell’azione esperita dal sindacato esclude la rilevanza del suddetto profilo di censura che, peraltro, non si confronta con la giurisprudenza della CGUE (sentenza 15 marzo 2011, C.- 29/2010, Heiko Koelzsch), che, escludendo ogni automatismo, chiede al giudice del rinvio di tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore, dovendo stabilire in particolare in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni di trasporto, riceve le istruzioni sulle sue missioni e organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi.
Ciò, in quanto vi è la necessità di garantire un’adeguata tutela al lavoratore in quanto parte contraente più debole; quindi il criterio del Paese dell’esecuzione abituale del lavoro deve formare oggetto di un’interpretazione ampia ed essere inteso nel senso che si riferisce al luogo in cui o a partire dal quale il lavoratore esercita effettivamente le proprie attività professionali e, in mancanza di un tale centro di affari, al luogo in cui il medesimo svolge la maggior parte delle sue attività.
La sentenza CGUE del 14 settembre 2017, cause riunite C-168/16 e C- 169/16, Nogueira, richiamata dalla ricorrente, conferma tale assunto, atteso che nell’affermare (con riguardo all’art. 19, punto 2, lettera a, del reg. n. 44/2001), che “Per quanto riguarda il personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione, la nozione «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» non può essere equiparata alla nozione di «base di servizio»”, ha comunque dato rilievo a tale ultimo dato quale elemento che può avere un ruolo significativo nell’individuazione degli indizi, che consentono di determinare il luogo a partire dal quale i lavoratori svolgono abitualmente la loro attività e, pertanto, la competenza di un giudice che potrà conoscere di un ricorso presentato dai medesimi.
2.16. Né è equiparabile alle decisioni della CGUE, che garantisce l’interpretazione e l’applicazione uniformi del diritto dell’Unione europea, la giurisprudenza di altra Corte Suprema (sentenza della Corte Suprema Nazionale Valenziana, citaata dalla ricorrente). 3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 del regolamento n. 864 del 2007. Deduce la ricorrente che, vertendosi in fattispecie di presunta responsabilità contrattuale e non extracontrattuale da fatto illecito, dovrebbe trovare applicazione il regolamento n. 593 del 2008, con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione la legge che, in base a tale normativa, risulti applicabile ai rapporti di lavoro tra Ryanair e i suoi dipendenti. Ciò, in ragione del principio generale affermato dall’art.
3 del citato regolamento, tenuto conto della libera ed espressa scelta delle parti. Ma anche a non voler considerare l’art. 3, troverebbe applicazione l’art. 8, comma 1, reg. n. 593 del 2008, atteso che non si può ritenere che i lavoratori svolgano la propria attività abitualmente in Italia, ma sul territorio irlandese o comunque in molti Paesi europei che sorvolano e ove atterrano.
Alla stessa conclusione si giungerebbe anche in ragione del comma 3 dell’art. 8, in quanto i contratti dei lavoratori sono stipulati a Dublino. E in ogni caso, come previsto dal comma 4, i lavoratori non hanno un rapporto più stretto con l’Italia che con Dublino.
- Il secondo motivo di ricorso non è fondato.
4.1. Nell’esaminare la censura vengono in rilievo i già citati Convenzione di Roma, reg. n. 593 del 2008 (cd. Roma I) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, a cui rimanda l’art. 57 della legge n. 218 del 1995, e il reg. n. 864 del 2007 (cd. Roma II), che trova applicazione per le obbligazioni extracontrattuali in materia civile e commerciale, applicabile ratione temporis.In ragione di quanto già esposto nella trattazione del primo motivo di ricorso, circa la natura extracontrattuale dell’azione esperita dalla FILT CGIL di Bergamo, deve trovare applicazione il reg. n. 864 del 2007.
Occorre in proposito considerare che la CGUE (si v., sentenza 21 gennaio 2016, Causa C-475/14, Ergo Insurance e Gjensidige Baltic) ha stabilito che – nell’interpretare gli ambiti rispettivi di applicazione dei regolamenti Roma I e Roma II – le nozioni di «obbligazione contrattuale» e di «obbligazione extracontrattuale» in essi contenute, occorre tener conto non solo dell’obiettivo di coerenza nell’applicazione reciproca degli stessi, ma anche del regolamento Bruxelles I (ora reg. n. 1215/12), il quale, in particolare al suo articolo 5, già sopra esaminato, opera una distinzione tra la materia contrattuale e la materia degli illeciti civili dolosi o colposi. Trova, dunque, applicazione la legge italiana in quanto, come affermato dalla Corte d’Appello, in ragione dell’accertamento svolto, gli effetti pregiudizievoli si producono o si potrebbero produrre in Italia, e l’art. 4 del reg. n. 864 del 2007 stabilisce “salvo se diversamente previsto nel presente regolamento, la legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali che derivano da un fatto illecito è quella del paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese nel quale è avvenuto il fatto che ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai paesi in cui si verificano le conseguenze indirette di tale fatto”.
- Con il terzo motivo di ricorso è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2, comma 1, lettera a), e dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 216 del 2003, e falsa applicazione dei principi comunitari espressi nelle sentenze CGUE Feryn e Associatia Accept richiamate dalla Corte d’Appello, violazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150.
5.1. Assume la ricorrente la violazione dell’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 216 del 2003, nella parte in cui la Corte d’Appello ha affermato che nel concetto di discriminazione diretta definito da tale norma possa rientrare anche la discriminazione per motivi sindacali, con conseguente possibilità di invocare i rimedi previsti dall’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011.
Ciò, in quanto la suddetta norma, non menzionando l’adesione ad un sindacato, ha un ambito più limitato rispetto a quello ritenuto dalla Corte d’Appello, come si può dedurre anche dalla direttiva n. 78/2000 (artt. 2 e 1).
Né l’affiliazione sindacale può essere inclusa tra le convinzioni personali di cui al citato art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003, e all’art. 2 della suddetta direttiva. Ulteriore conferma si rinviene nell’art. 13 del TCE, ora art. 19 TFUE, che ha costituito la base per l’emanazione della direttiva n. 78/2000, e cha ha elencato in modo tassativo i motivi di discriminazione contro cui l’Unione europea può legiferare, di talchè l’Unione non ha alcuna competenza in materia di diritto di associazione, diritto di sciopero e serrata. Inoltre l’art. 15 della legge n. 300 del 1970, nel vietare atti discriminatori nei confronti dei lavoratori, tiene distinta la motivazione sindacale da tutte le altre elencate al secondo comma, tra cui vi sono anche le convinzioni personali. Pertanto, ad avviso della ricorrente, nella definizione di discriminazione non può ritenersi compresa la discriminazione per motivi sindacali, non potendola far rientrare all’interno delle convinzioni personali, come invece assunto dalla Corte d’Appello.
5.2. Erroneamente la Corte d’Appello aveva disatteso l’eccezione di inammissibilità ed improcedibilità dell’azione del sindacato, atteso che non rientrando la discriminazione lamentata in quella prevista dal legislatore, lo stesso non poteva esperire l’azione prevista dall’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, ma al massimo quella prevista dall’art. 28 della legge n. 300 del 1970. .
5.3. Inoltre, le condotte censurate in ogni caso non avevano ad oggetto l’adesione sindacale in quanto tale, bensì la partecipazione dei lavoratori ad un eventuale sciopero, fattispecie che si collocava al di fuori delle convinzioni personali ed estranea all’ambito applicativo dell’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003.
5.4. La ricorrente, quindi, ripercorre le decisioni della CGUE, Associatia Accept e Feryn, rilevandone l’estraneità alla fattispecie in esame.
- Il motivo non è fondato.
6.1. Nell’esaminare le censure occorre considerare la relazione intercorrente tra diritti fondamentali e divieto di discriminazione. La direttiva 2000/78, adottata dopo l’ampliamento delle competenze comunitarie per contrastare le discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, ha rafforzato il nesso che sussiste tra eguaglianza e dignità umana nella tutela contro le discriminazioni. L’inclusione nel TCE (art. 13, ora art. 19 TFUE) di fattori di discriminazione diversi dal genere, tra cui alcuni, quali la religione e le convinzioni personali, non immutabili o oggettivi, infatti, ha contribuito a favorire un allargamento di tipo universalistico della tutela antidiscriminatoria, come posto in evidenza dalla dottrina. L’intervenuto rafforzamento della tutela antidiscriminatoria quale garanzia dei diritti fondamentali costituisce, dunque, elemento di lettura della direttiva n. 78/2000, recepita nell’ordinamento nazionale dal d.lgs. n. 216 del 2003, nel senso che i diritti in materia di lavoro e sindacali, riconosciuti dall’ordinamento unionale e nazionale, devono potersi svolgere in condizioni di parità, e devono essere tutelati da violenze, mobbing e altri atti o condotte lesive, senza che possano assumere rilievo i suddetti fattori.
6.2. Con riguardo al primo profilo di censura, dunque, va rilevato che l’espressione “convinzioni personali” deve essere interpretata in tale contesto, come formula di chiusura del sistema, nel senso che le opinioni del lavoratore, che possono riguardare temi diversi tra cui anche l’esercizio dei diritti sociali (associazione sindacale, sciopero), anche con una proiezione dinamica e fattuale (adesione ad una associazione sindacale, esercizio del diritto di sciopero), non possono legittimare una condotta discriminatoria, che cioè non consenta al lavoratore di esercitare in situazione di parità i propri diritti. In tal senso depone anche l’evoluzione dell’art. 15 della legge n. 300 del 1970.
Lo stesso, ab origine, sancisce la nullità di qualsiasi patto od atto diretto a “subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte” e a “licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”. Tale norma, a seguito della modifica introdotta dal d.lgs. n. 216 del 2003, prevede, altresì, che la suddetta sanzione si applica ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. Nell’espressione “convinzioni personali”, richiamata dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. n. 216 del 2003, caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, va quindi, riconnpresa la discriminazione per motivi sindacali (si. v, Cass., sentenza n. 1 del 2000).
6.3. Tale assunto trova piena conferma nel quadro delle garanzie poste in materia dalla Costituzione e dall’Ordinamento unionale. La libertà sindacale è tutelata dall’art. 39, primo comma, Cost., nella sua duplice valenza individuale e collettiva, e ha il suo necessario complemento nell’autonomia negoziale (si v., Corte cost., sentenze n. 120 del 2018, n. 178 del 2015 n. 697 del 1988, n. 34 del 1985). Poiché l’esercizio della libertà di associazione sindacale sancita dal primo comma dell’art. 39 Cost. è possibile solo in un contesto democratico (Corte cost., sentenza n. 120 del 2018), la libertà sindacale ha come generico e generale presupposto l’esercizio delle libertà individuali di riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero (artt. 17, 18 e 21 Cost.), e ben può costituire oggetto di “convinzioni personali”, nel senso che l’organizzazione sindacale è libera per definizione in un ordinamento democratico, in quanto risultante dalla libera iniziativa dei soggetti interessati.
Dunque, l’esercizio dei diritti riconducibili alla libertà sindacale è una delle possibili declinazioni delle “convinzioni personali” che non possono costituire fattore di discriminazione.
6.4. Anche in sede europea la libertà sindacale è oggetto di promozione e riconoscimento. Sul piano del diritto unionale, occorre ricordare che l’art. 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), elevata a rango di diritto primario (art. 6, par. 1, TUE), enuncia il diritto di libertà di associazione a tutti i livelli e segnatamente, tra gli altri, in campo sindacale, con il corollario del diritto di ogni persona “di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”. L’art. 28 CDFUE, inoltre, sancisce il diritto di negoziazione e di azioni collettive dei lavoratori e dei datori di lavoro.
6.5. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) dedica l’art. 11 alla libertà di riunione ed associazione, che ha ad oggetto tra l’altro “il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi”. Sull’art. 11, la CEDU è intervenuta con le sentenze, Grande Camera, 12 novembre 2008, caso Demir e Baykara c. Turchia (ricorso n. 34503/97), quinta sezione, 2 ottobre 2014, casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09), terza sezione, 21 aprile 2015, Junta Rectora Del Ertzainen Nazional Elkartasuna (ER.N.E.) c. Spagna (ricorso n. 45892/09).
6.6. A ciò va aggiunto che i diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali (art. 6, par. 3, del TUE), e che l’art. 52, par. 3, della CDFUE prevede che laddove la stessa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione, salvo una protezione più estesa.
6.7. Il diritto di associazione sindacale è, altresì, promosso dalla Carta sociale europea -CSE- (v. artt. 19 e 24), che costituisce il naturale completamento sul piano sociale della CEDU, dal rilievo attribuito al “dialogo sociale” dall’art. 151 del TFUE, e dall’ art. 152, par. 1, del TFUE, che riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali.
6.8. Dunque, come ricordato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 178 del 2015, numerose fonti europee, nonché internazionali, quali le Convenzioni OIL, evidenziano il nesso funzionale che lega un diritto a esercizio collettivo, quale è la contrattazione e dunque l’attività sindacale di cui è espressione, con la libertà sindacale dei lavoratori, offrendo un chiaro argomento per la ricomprensione nella nozione di “convinzioni personali”, che non possono costituire fattore di discriminazione, delle convinzioni sindacali.
6.9. Va, quindi esaminato, l’ulteriore profilo di censura del terzo motivo di ricorso, che riguarda la legittimazione del sindacato a promuovere l’azione art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, rispetto alle condotte in questione.
Ai sensi della direttiva n. 78/2000, art. 2, par. 2, lettera a), ” sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”. Tale disposizione richiama l’attenzione sulla disciplina dei mezzi di tutela che nell’assetto europeo sono riconosciuti alle persone che si ritengono lese, o alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, che, “conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate”.
Il legislatore europeo (art. 9 della dir. 2000/78) si limita ad imporre agli Stati membri di garantire, a favore degli enti esponenziali delle collettività che il diritto antidiscriminatorio si propone di tutelare, la legittimazione ad avviare procedure giurisdizionali, senza tuttavia sancire una autonoma legittimazione ad agire. I soggetti collettivi pur essendo legittimati a partecipare al giudizio per conto e a sostegno della persona lesa, e dunque ad esercitare in qualche modo l’iniziativa giudiziale a tutela di un interesse collettivo, non sono posti nelle condizioni di poter svolgere concretamente tale ruolo, in quanto l’esperibilità dell’azione collettiva è condizionata espressamente al consenso della vittima.
Tuttavia, l’art. 8 della direttiva n. 78/2000, nel dettare “requisiti minimi” prevede: “Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella presente direttiva. (…) L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva”. Tale facoltà ha trovato piena conferma nella giurisprudenza della CGUE. Nella sentenza 25 aprile 2013, Associatia Accept, causa C-81/12 (si. cfr., sentenza CGUE, sentenza 23 aprile 2020, causa C-507/18, NH, Cass., sentenza n. 28646 del 2020), ma prima con riguardo alla direttiva 43/2000, nella già citata sentenza Feryn, ha statuito che l’articolo 9, par. 2, della direttiva 2000/78 non osta in alcun modo a che uno Stato membro, nella propria normativa nazionale, riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile.
L’assenza di un denunciante identificabile, dunque, non può indurre a concludere per l’assenza di qualsivoglia discriminazione diretta, poiché l’effettiva realizzazione degli interessi protetti dalla legislazione comunitaria- promozione di una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro-presuppone un ampliamento della nozione di discriminazione diretta, tale da superare la necessità di una vittima identificabile.
6.10. La direttiva 78/2000 ha avuto attuazione con il d.lgs. n 216 del 2003. L’art. 5, comma 1, del citato d.lgs. 216, come modificato dall’articolo 8- septies del d.l. n. 59 del 2008, conv. con mod. dalla legge n. 101 del 2008, nel ripercorrere quanto stabilito dalla direttiva prevede che “Le organizzazioni sindacali (…), in forza di delega (…), sono legittimate ad agire (…) in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio”.
Tuttavia, in modo coerente con l’art. 8 della dir. 78/2000, l’art. 5, comma 2, del medesimo d.lgs., prevede che i soggetti di cui all’art. 5, comma 1, tra cui vi sono le organizzazioni sindacali, sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Dunque, la disciplina nazionale, in conformità al portato delle sentenze Feryn e Accept, va oltre le prescrizioni minime previste dalla normativa europea e riconoscete a quegli stessi organismi, e per quanto qui rileva alle organizzazioni sindacali, un potere di agire in giudizio per contrastare le discriminazioni collettive sul lavoro a prescindere dal consenso e in assenza di una vittima.
6.11. Il sindacato, quindi, in ragione delle ricadute della clausola “Estinzione del contratto”, oltre che delle condotte poste in essere da Ryanair al di fuori dei rapporti contrattuali, ha agito legittimamente iure proprio e a titolo extracontrattuale, per la tutela di interessi omogenei individuali, sia pure non riferibili nella specie a vittime immediatamente o direttamente identificabili della discriminazione, che sono rilevanti per la collettività, atteso l’interesse di quest’ultima nel suo insieme a che non siano posti in essere nei rapporti di lavoro, anche con riguardo all’accesso e alla risoluzione, comportamenti discriminatori diretti che possono pregiudicare il corretto e buon funzionamento del mercato del lavoro nel complesso, a cui concorre il leale e corretto svolgimento delle relazioni sindacali, e il conseguimento di obiettivi di politica sociale.
6.12. Infine, va esaminata la censura relativa alla sussistenza della condotta discriminatoria. La Corte d’Appello ha affermato il carattere discriminatorio delle condotte poste in essere dalla società datrice di lavoro.
6.13. La discriminazione diretta si configura ove si dimostri che il trattamento sarebbe stato diverso se non fosse stato per il fattore di rischio (v., sentenza CGUG, 8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker, laddove si afferma che “se la responsabilità di un datore di lavoro per infrazione al principio della parità di trattamento fosse subordinata alla prova della colpa e all’assenza di qualsiasi causa esimente contemplata dal diritto nazionale vigente, l’effetto utile di questi principi sarebbe notevolmente ridotto”).
6.14. Correttamente, in ragione dei principi esposti, il giudice di secondo grado ha affermato che in ragione del carattere collettivo della discriminazione, andava verificata la potenzialità lesiva delle condotte piuttosto che le conseguenze lesive delle stesse. Ha quindi accertato che: la società negava qualsiasi rapporto con le organizzazioni sindacali diverse dall’unico sindacato irlandese e ciò non solo in Italia, ma anche negli Stati membri dell’Unione europea; i criteri organizzativi , per come pubblicizzati dalla stessa società e per come risultava dalle ricerche universitarie prodotte dal sindacato ricorrente, erano strutturati su una relazione diretta con i lavoratori, senza mediazioni e interferenze da parte del sindacato; in quest’ottica veniva costruita la clausola contrattuale denunciata dal ricorrente originario come discriminatoria; che la clausola in questione fosse efficace era provato dalla lettera del 12 dicembre 2017 con cui la società datrice di lavoro invitava tutto il personale di cabina assegnato a basi italiani a non aderire allo sciopero indetto dai sindacati italiani.
Come affermato dalla Corte d’Appello la circostanza che la clausola fosse contenuta in un contratto collettivo non escludeva quell’effetto dissuasivo, che già il Tribunale aveva riconosciuto, nei confronti dei lavoratori che svolgevano o erano interessati a partecipare all’attività sindacale.
Ciò, sia che questi aspirassero all’assunzione presso la società, sia che fossero già dipendenti della società stessa. Nel primo caso, infatti, l’esistenza della clausola contrattuale non poteva non distogliere dal candidarsi al posto di lavoro il lavoratore che fosse stato iscritto a un sindacato, o che comunque intendeva aderire ad iniziative sindacali.
Nel secondo caso, il carattere dissuasivo della clausola era palese, poiché il singolo dipendente qualora avesse inteso aderire ad un sindacato o ad azioni sindacali nel corso del rapporto di lavoro, sarebbe incorso in un trattamento, dal punto di vista economico e delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, non favorevole. Anche in relazione alla politica della società appellante, il giudice di appello, alla luce delle risultanze istruttorie, ha accertato una condotta in contrasto con il divieto di discriminazione.
6.15. Pertanto, alla luce dell’ accertamento di fatto svolto, la Corte d’Appello correttamente, in applicazione dei principi enunciati dalla CGUE e dalla giurisprudenza di questa Corte, ha ritenuto che non vi erano dubbi che la politica di gestione del rapporto di lavoro da parte della società datrice di lavoro, per quanto riguardava l’attività sindacale, come pubblicizzata la stessa società, fosse una politica discriminatoria sia sul fronte dell’accesso al lavoro, sia sul fronte del trattamento deteriore, rispetto ai colleghi di lavoro, in corso di rapporto di lavoro.
- Con il quarto motivo di ricorso è prospettata ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.: la nullità della sentenza per violazione della disposizione in merito all’onere della prova di cui all’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, e dell’art. 2697, cod. civ.
7.1. La Corte d’Appello, ad avviso della società ricorrente, avrebbe ribaltatote le regole dell’onere della prova, ponendolo interamente a carico di essa ricorrente, atteso che la FILT CGIL di Bergamo non aveva dato prova in merito a comportamenti o dichiarazioni del datore di lavoro o dati statistici tali da far presumere una politica assuntiva discriminatoria da parte della società. Il giudice di secondo grado aveva fatto errata applicazione dei principi contenuti nella sentenza CGUE Feryn, secondo cui il datore di lavoro deve provare che le dichiarazioni discriminatorie sono rimaste mere dichiarazioni non seguite da una effettiva politica assuntiva discriminatoria. Nel caso di specie non vi era stata alcuna dichiarazione da parte di Ryanair in merito alla volontà di escludere una determinata categoria di persone, né alcuna allegazione in merito era stata fornita in giudizio. Pertanto, la Corte d’Appello aveva errato nel ritenere che la società fosse gravata dall’onere di fornire la prova della mancata discriminazione, e nel ritenere provata per tale motivo la discriminazione nel caso di specie.
- Il motivo non è fondato.
8.1. Le direttive in materia (direttiva n. 2000/78, così come le n. 2006/54 e n. 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento impongono l’introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull’attore, prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione, (cfr., Cass. n. 23338 del 2018, Cass. n. 25543 del 2018).
L’interessato deve provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione; il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione, (cfr. Cass. n. 14206 del 13, CGUE, sentenza 17 luglio 2008, causa C-303/06, Colemann, citata sentenza 10 luglio 2008, causa C-54/07, Feryn, sentenza 16 luglio 2015, causa C- 83/14, Chez).
8.2. Non si tratta, dunque, di una vera e propria inversione dell’onere probatorio, bensì di un’agevolazione in favore del soggetto che lamenti la discriminazione e che potrebbe trovarsi in una situazione di difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori, soprattutto nei casi di coinvolgimento di una pluralità di lavoratori, e di tali principi la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione con riguardo all’adempimento dei rispettivi oneri probatori delle parti.
- Con il quinto motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 28, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, in combinato disposto con l’art. 56, comma 2, del d.lgs. n. 216 del 2003, nonché dell’art. 1226 cod. civ.
È censurata la statuizione che ha condannato la società al risarcimento del danno non patrimoniale, liquidato in via equitativa in euro 50.000. Il sindacato aveva agito ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 216 del 2003, a fronte di una discriminazione collettiva, e pertanto non poteva esservi condanna al risarcimento del danno, ex art. 28 – applicabile solo nel caso dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 216 del 2003 – perché in tale ipotesi non vi era alcun danno, seppure non patrimoniale, da ristorare. Nel caso di specie il sindacato aveva agito in proprio, pertanto la condanna al risarcimento non era giustificata. Né la fattispecie di cui all’art. 28, comma 5, poteva annoverarsi ai danni puntivi ai sensi della sentenza Cass., S.U. n. 16601 del 2017.
Erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto che il semplice richiamo al danno punitivo potesse esonerarla da qualsiasi accertamento in merito alla sussistenza del danno e alla sua quantificazione, divenendo quindi la determinazione effettuata non equitativa ma arbitraria. Tale liquidazione sarebbe stata fatta sia in violazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2001, sia dei principi cardine dell’ordinamento in materia di risarcimento del danno.
- Il motivo non è fondato, in quanto il dispositivo è conforme al diritto; tuttavia, ai sensi dell’art. 384, quarto comma, cod. proc. civ., la motivazione deve essere corretta quanto alla affermazione della Corte d’Appello della riconducibilità del risarcimento del danno non patrimoniale in questione ai cd. danni punitivi.
10.1. Il sindacato quando agisce, come nel caso di specie, iure proprio a tutela di interessi omogenei individuali di rilevanza generale, può chiedere ed ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, come previsto dall’art. 28, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui dispone che il giudice, tra l’altro, può condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale. Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, proprio con riguardo al danno non patrimoniale, il pregiudizio risarcibile nei confronti di un ente collettivo si identifica con la lesione dell’interesse, diffuso o collettivo, del quale esso è portatore e garante e coincide, sul piano obiettivo, con la violazione delle norme poste a tutela dell’interesse medesimo, senza che si possa distinguere, a tali fini, tra l’evento lesivo e la conseguenza negativa, in quanto dall’attività di tutela degli interessi coincidenti con quelli lesi o posti in pericolo deriva, in capo all’ente esponenziale, una posizione di diritto soggettivo che lo legittima all’azione risarcitoria (Cass., sentenza n. 22885 del 2015).
10.2. La Corte territoriale ha correttamente fatto applicazione del disposto di cui all’art. 28, comma 5, d.lgs. 150 del 2011, riconoscendo al sindacato il risarcimento del danno non patrimoniale in ragione dell’accertamento che la politica dissuasiva di Ryanair, compagnia aerea molto nota, aveva avuto un’ampia risonanza mediatica, era stata mantenuta a lungo e lungamente reiterata, ed aveva avuto perciò un contenuto fortemente scoraggiante dell’impegno sindacale che l’organizzazione appellata tendeva a promuovere.
10.3. Erroneamente, tuttavia, la Corte d’Appello ha ricondotto tale danno nell’alveo dei cd. danni punitivi, di cui alla sentenza di questa Corte, S.U., n. 16601 del 2017. Va, in proposito osservato che l’art. 17 della direttiva 2000/78 sancisce: «Gli Stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive (…)». La sentenza CGUE Feryn, ha indicato (par. 39) quali possibili misure da adottare in caso di discriminazione la “concessione di un risarcimento dei danni in favore dell’organismo che ha avviato la procedura giurisdizionale”. Dunque, il rimedio alla discriminazione deve rispondere ai requisiti stabiliti dal diritto unionale, e deve essere effettivo, proporzionale, dissuasivo (si cfr., sia pure pronunciata in un diverso ambito, la sentenza Cass., S.U., n. 5072 del 2016, che ha affermato l’esigenza di misure di contrasto dell’abusivo ricorso al termine nei contratti di lavoro, in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, che siano non solo proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive, esigenza quale si ricava dalla normativa europea nella ricostruzione operatane dalla Corte di giustizia).
Il principio di effettività è funzionale a garantire il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Unione europea nel singolo settore di intervento ed è sancito nell’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE, dove si prevede: “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”.
Dal punto di vista soggettivo, il principio di effettività rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli cittadini dell’Unione sul piano sostanziale e processuale (art. 47 CDFUE). Il principio di effettività, pertanto ha anche la funzione di anticipare la soglia della tutela apprestata fino al punto in cui non vi siano vittime della discriminazione reali ma solo potenziali. Di talchè, il risarcimento del danno non patrimoniale che viene qui in rilievo si caratterizza per una connotazione dissuasiva, che esula dai cd. danni punitivi, soprattutto laddove si consideri che la discriminazione collettiva rileva anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile.
10.4. Si osserva, infine che la determinazione equitativa di un importo a titolo di risarcimento, nel caso ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011, è questione di fatto, che non può essere proposta in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione, qui nemmeno lamentato (Cass., sentenza n. 28646 del 2020). È consolidato infatti l’orientamento secondo cui l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito.
- Il ricorso deve essere rigettato.