Massima
La tutela diretta della persona – che fa il paio con quella, indiretta, di foggia patrimoniale – è stata, sul crinale della capacità di agire, a lungo astretta nella morsa del “sempre (più o meno) incapace”, e dunque della rigidità propria delle figure dell’interdizione e dell’inabilitazione, da un lato; e del “talvolta, se provato, incapace”, e dunque della estemporaneità connotante la c.d. incapacità naturale, dall’altro; solo a partire dagli anni 2000 si è fatta largo, trovando una precisa disciplina sul piano legislativo, la figura “mediana” – e decisamente più flessibile – dell’amministrazione di sostegno, onde si è incapaci di agire “presunti” (talvolta rappresentati, talvolta solo assistiti) in relazione a determinate categorie di atti previamente individuati, senza che il beneficiario debba di volta in volta provare il concorso dei vari presupposti che giuridicamente sottendono la propria incapacità “naturale”, con importanti ricadute anche in ottica di convivenza di fatto ed unioni civili, di “fine vita” e di disposizioni anticipate di trattamento.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Nella codificazione liberale Codacci Pisanelli non è presente dal punto di vista sistematico la figura unitaria della incapacità naturale, non affiorando dal pertinente articolato nessuna norma specifica intesa, in via generale, a tutelare la posizione di chi, pur non sottoposto ad interdizione o ad inabilitazione, si sia comunque trovato in una situazione di deficit psichico tale da inficiarne in qualche modo l’atteggiamento consapevole e volontario, massime in sede negoziale. Si riscontrano piuttosto solo delle disposizioni isolate e comunque strettamente avvinte al procedimento di interdizione, come nel caso dell’art.337, laddove si consente di chiedere l’annullamento degli atti compiuti in vita dal soggetto incapace qualora, prima della relativa dipartita, ne sia stato appunto promosso il giudizio di interdizione (egli non è dunque ancora interdetto), ovvero, anche senza aver dato l’abbrivio ad un giudizio di interdizione, sia data (comunque) prova che gli atti oggetto di richiesta demolitoria sono stati da lui compiuti in stato di infermità mentale; o dell’art.336 laddove – sulla scorta di una ratio analoga – possono essere annullati gli atti anteriori all’interdizione compiuti da chi sia stato successivamente interdetto se la causa di interdizione sussisteva al tempo in cui sono stati compiuti e sempreché o per la gravità del contratto, o per il grave pregiudizio che ne sia derivato o ne possa derivare all’interdetto, od altrimenti risulti la malafede di chi ha con lui contrattato. Dinanzi a tale rigidità, disorganicità ed approssimazione regolativa, la dottrina più avvertita prende ad ipotizzare una nozione generale di incapacità naturale, assumendo come – anche a prescindere da un procedimento di interdizione – il negozio posto in essere in stato di anche solo estemporanea incapacità di intendere e di volere non sia idoneo ad esprimere realmente la volontà del soggetto agente e, dunque, a forgiare l’eventuale accordo fra le parti (consenso), con conseguente nullità virtuale dell’atto ridetto.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, il cui art.85 dichiara in primis (comma 1) che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile; e soggiungendo poi (comma 2) che è imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere, affidando agli articoli successivi la determinazione di chi va assunto tale, massime giusta il filtro della c.d. infermità mentale (art.88 e 89 c.p.).
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che disciplina in via generale la c.d. incapacità naturale all’art.428 c.c., alla stregua del cui comma 1 gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei relativi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore; stando poi al successivo comma 2, laddove si tratti di contratti, l’annullamento non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente. L’azione si prescrive nel termine di 5 anni dal giorno in cui l’atto o il contratto è stato compiuto (comma 3); rimane poi salva ogni diversa disposizione di legge (comma 4). Se l’art.428 è la norma generale, affiorano dal codice – in relazione a particolari negozi – disposizioni speciali, prima fra tutte l’art.120, alla cui stregua il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio (comma 1), ma l’azione non può più essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali (comma 2); ancora, alla stregua dell’art.591 possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge (comma 1), e nondimeno sono incapaci di testare (comma 2), oltre a coloro che non hanno compiuto la maggiore età e agli interdetti per infermità di mente, anche coloro che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento, potendo in tutti simili fattispecie di incapacità il ridetto testamento essere impugnato da chiunque vi abbia interesse, con azione che si prescrive nel termine di 5 anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie (e non già da quello in cui sono state recuperate le facoltà mentali); infine, a mente dell’art.775 c.c. la donazione fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta può essere annullata su istanza del donante, dei relativi eredi o aventi causa (comma 1), con azione che si prescrive in 5 anni (comma 2) dal giorno in cui la donazione è stata fatta (e dunque, ancora una volta, non già dal giorno del recupero delle facoltà mentali). Di interesse anche l’art.1443 c.c. alla cui stregua se un contratto viene annullato per incapacità (anche naturale) di uno dei contraenti, questi non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio. Stando poi all’art.2046 c.c. in tema di fatto illecito, non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi nel momento in cui lo ha commesso non aveva appunto la capacità di intendere e di volere, salvo che lo stato di incapacità derivi da relativa colpa. Rimarchevole infine l’art.1722 c.c. alla cui stregua (n.4) l’incapacità del mandante dichiarato interdetto o inabilitato implica estinzione del mandato; nonché, in tema di famiglia, l’art.150 che nell’ammettere la separazione personale dei coniugi (comma 1) legittima ad un tempo esclusivamente ciascun coniuge a chiederla (comma 3), quantunque interdetto.
1948
La Costituzione repubblicana è fortemente improntata al c.d. principio personalistico, con conseguente centralità della persona umana, come affiora dall’art.2, secondo la cui prima parte la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la relativa personalità; dall’art.3, comma 2, alla cui stregua (principio di eguaglianza sostanziale) è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana; dall’art.41, i cui primi due comma da un lato dichiarano l’iniziativa economica privata libera (comma 1) e dall’altro affermano come essa non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e, dunque, in modo da pregiudicare la persona. Importante anche l’art.22, alla cui stregua nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome: norma che col citare la capacità giuridica e la relativa, possibile privazione, inammissibile per motivi politici, richiama in qualche modo, e per converso, la capacità di agire e la possibilità di limitarla o privarla in un’ottica di esclusiva tutela di chi beneficia del pertinente sostegno.
1978
Il 22 maggio viene varata la legge 194, recante norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, alla stregua del cui art.13, comma 1 e 2, se la donna e’ interdetta per infermità di mente, la richiesta di interruzione della gravidanza (assunta come atto personalissimo) può essere presentata, oltre che da lei personalmente, anche dal tutore o dal marito non tutore, che non sia legalmente separato; nel caso di richiesta presentata dall’interdetta o dal marito, deve essere sentito il parere del tutore, mentre la richiesta presentata dal tutore o dal marito deve essere confermata dalla donna.
Il 7 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3411 alla cui stregua gli stati passionali non costituiscono, di per sé, causa di riduzione della capacità psichica (nel caso di specie, del testatore), producendo incapacità rilevante solo se provocano nel soggetto un disordine psichico di tale intensità da privarlo, sia pure transitoriamente, della capacità di intendere e di volere.
1989
Il 25 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1036 alla cui stregua lo stato emotivo conseguente alla consapevolezza di essere affetto da grave malattia – nella specie, un linfogranuloma maligno – non comporta di per sé una situazione di incapacità naturale ed, in via generale, non rileva ai fini dell’annullabilità del contratto ai sensi dell’art. 1425 c.c., ove non risulti provato che detto stato emotivo abbia inciso sulla sfera psico-intellettiva del soggetto, producendo un vero e proprio squilibrio mentale, il pertinente accertamento palesandosi non censurabile in sede di legittimità ove sorretto da congrua motivazione, esente da vizi logici e giuridici.
1990
Il 6 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7914 alla cui stregua laddove sia accertata la incapacità di intendere e di volere del soggetto agente in un tempo anteriore e successivo al compimento di un determinato atto, ciò lascia presumere che il ridetto soggetto sia stato incapace naturale anche nel momento del compimento di tale atto.
1995
Il 10 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1484, onde l’incapacità di intendere e di volere prevista dall’art. 428 c.c. ai fini dell’annullamento del contratto consiste in un turbamento dei normali processi di formazione ed estrinsecazione della volontà che può essere causato anche da grave malattia laddove tale, comunque, da impedire la capacità di cosciente e libera autodeterminazione del soggetto; nel caso di specie, la Corte conferma la sentenza del giudice di merito che ha escluso l’incapacità per carenza di prova di tale incidenza del turbamento psichico, causato da una grave malattia, sulla sfera intellettiva e volitiva del soggetto.
1997
Il 4 aprile viene sottoscritta ad Oviedo la convenzione sui diritti umani e la biomedicina che configura il primo trattato internazionale sulla bioetica. Importante in particolare l’art.6 che – con riguardo alle scelte terapeutiche operate dal rappresentante di un soggetto incapace – impone la correlazione di tale scelta al “beneficio diretto” e in sostanza al best interest dell’incapace medesimo.
2001
Il 28 marzo viene varata la legge n.145, che ratifica è dà esecuzione, recependola nell’ordinamento interno, alla Convenzione di Oviedo del 1997 sulla bioetica.
Il 4 aprile viene varata la Direttiva 2001/20/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione della sperimentazione clinica di medicinali ad uso umano.
2003
Il 24 giugno viene varato il decreto legislativo n.211, recante attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico che, all’art.5 in tema di sperimentazione clinica su adulti incapaci di dare validamente il proprio consenso informato, al comma 1, lettera a) richiede che sia stato ottenuto il consenso informato del rappresentante legale; tale consenso deve rappresentare la presunta volontà del soggetto incapace e può essere ritirato in qualsiasi momento senza pregiudizio per il soggetto incapace stesso.
2004
Il 9 gennaio viene varata la legge n.6 che introduce nel nostro ordinamento la nuova figura dell’amministrazione di sostegno, recando appunto introduzione nel libro I, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché delle relative norme di attuazione, di coordinamento e finali. La legge si propone sin dall’art.1 la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. In particolare, in forza dell’art.3 della legge, nel titolo XII del libro primo del codice civile viene premesso il capo I, rubricato “Dell’amministrazione di sostegno”, onde secondo l’art. 404 c.c. la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio. Particolarmente interessante il disposto dell’art.412, comma 1, c.c. laddove prevede come “annullabili” gli atti posti in essere dall’amministratore di sostegno in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, quale eccezione rispetto al normale regime degli atti posti in essere dal falsus procurator (art.1398 e 1399 c.c.), come noto inefficaci (e non già annullabili). Sistematicamente assai importante anche l’art.408, comma 1, c.c. laddove consente al beneficiario di designare il proprio futuro amministratore di sostegno in previsione della propria eventuale, del pari futura incapacità, norma che non mancherà di far dire a parte della dottrina e della giurisprudenza di merito che anche in Italia è ormai previsto il c.d. testamento biologico (o living will, già presente in USA e Canada, quale “mandato in previsione di incapacità”, e in Germania dal 1992 quale sostituzione della locale amministrazione di sostegno – o Betreuung – con una procura in vista della propria incapacità, fatta eccezione che per gli atti personalissimi); espressione tuttavia criticata da chi assume che – al momento in cui l’amministratore di sostegno potrà essere nominato – il soggetto beneficiario già designante non è in realtà ancora defunto, anche se negli ordinamenti in cui il “testamento” in parola è già presente, la parola viene in realtà utilizzata in modo generico e quale mera fictio iuris, trattandosi non già di morte fisica in senso stretto, quanto piuttosto di morte alla “capacità” (o, comunque, alla “piena capacità”).
Il 27 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1427 alla cui stregua laddove si configuri la fattispecie di circonvenzione di incapace ex art.643 c.p. – che punisce chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o dell’inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, lo induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso – il contratto eventualmente concluso va assunto non già annullabile (come negli altri casi di c.d. reato in contratto) quanto piuttosto nullo per violazione di norme imperative.
Il 5 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2210, alla cui stregua qualora sia proposta domanda di annullamento di un contratto per incapacità naturale, l’indagine relativa alla sussistenza dello stato di incapacità del soggetto che abbia stipulato il contratto ed alla malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito e come tale sottratto al sindacato del giudice di legittimità ove congruamente e logicamente motivato. Per la Corte, va assunta esente da vizi la sentenza di merito che ha ritenuto irrilevante la circostanza che l’atto di alienazione abbia nel caso di specie coinvolto tutti i beni immobili di proprietà dell’alienante, in quanto — essendo questa in età avanzata — la vendita può essere stata giustificata dall’esigenza di procurarsi i mezzi economici per provvedere alle spese necessarie per essere assistita e curata, ed ha ritenuto non provata la malafede dei terzi acquirenti, in assenza di elementi probatori relativi ad un loro rapporto interpersonale con l’anziana venditrice.
Il 12 marzo esce la sentenza della Sezione lavoro della Cassazione n.5159 alla cui stregua spetta eccezionalmente al convenuto (giusta inversione del pertinente onere della prova) dare la dimostrazione della capacità di intendere e di volere del soggetto che ha compiuto l’atto in asserito stato di incapacità naturale allorché sia stata dimostrata la presenza di una malattia di tipo permanente tale da escludere la capacità del ridetto soggetto agente, ed il convenuto sostenga che l’atto del quale si invoca l’annullamento è stato posto in essere in un transitorio, lucido intervallo, dovendo come tale assumersi valido ed efficace.
2005
Il 9 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.440, alla cui stregua vanno assunte non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 404, 405, numeri 3 e 4, e 409 del codice civile, nel testo introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali) – in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 41, primo comma, e 42 della Costituzione – e degli artt. 413, ultimo comma, e 418, ultimo comma, del codice civile, nel testo introdotto dalla citata legge n. 6 del 2004 – in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 41, primo comma, 42 e 101, secondo comma, della Costituzione – proposte dal Giudice tutelare presso il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Chioggia. Per la Corte va premesso che – secondo costante giurisprudenza (sentenza n. 464 del 1997, ordinanze n. 293 del 1993, n. 65 del 1991, n. 133 del 1990) – il giudice tutelare deve assumersi legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale. Va poi assunto erroneo il presupposto interpretativo da cui le ordinanze di rimessione muovono nel caso di specie, quando affermano che l’ambito di operatività dell’amministrazione di sostegno può coincidere con quelli dell’interdizione o dell’inabilitazione. L’art. 1 della legge n. 6 del 2004 attribuisce all’amministrazione di sostegno «la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». E l’art. 404 cod. civ., nel testo modificato da tale legge, precisa che «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare». D’altro canto, prosegue la Corte, l’art. 414 cod. civ., nel testo modificato dalla legge citata, dispone che il maggiore di età e il minore emancipato affetti da abituale infermità di mente, che li renda incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti «quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione»; e l’art. 415 cod. civ. prevede l’inabilitazione per una serie di soggetti il cui stato non sia «talmente grave da far luogo all’interdizione». Pertanto, per la Corte la complessiva disciplina inserita dalla legge n. 6 del 2004 sulle preesistenti norme del codice civile affida al giudice tutelare il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità; e consente, ove la scelta cada sull’amministrazione di sostegno, che l’ambito dei poteri dell’amministratore sia puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto. Solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione, il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione, che attribuiscono uno status di incapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria. D’altronde, prosegue ancora la Corte, secondo il nuovo testo dell’art. 411, comma 4, cod. civ., il giudice tutelare, nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, o successivamente, può disporre che «determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno», discendendone che in nessun caso i poteri dell’amministratore possono coincidere “integralmente” con quelli del tutore o del curatore, come invece le ordinanze mostrano di ritenere. Sotto altro profilo poi, è ben vero che – poiché il giudice tutelare verifica in piena autonomia la sussistenza dei presupposti dell’amministrazione di sostegno, e altrettanto fa il tribunale per i presupposti dell’interdizione e dell’inabilitazione – può accadere che l’uno decida di non attivare l’amministrazione di sostegno e l’altro di non dichiarare l’interdizione o l’inabilitazione. Ma erroneamente le ordinanze di rimessione ritengono per la Corte che nel sistema di cui alle norme impugnate manchino meccanismi processuali di composizione di siffatti eventuali conflitti, dacché in primo luogo i provvedimenti di entrambi gli organi sono impugnabili innanzi alla corte di appello, rispettivamente con il reclamo contro il decreto del giudice tutelare (art. 720-bis del codice di procedura civile, aggiunto dall’art. 17 della legge n. 6 del 2004) e con l’appello contro la sentenza del tribunale. Il meccanismo dell’impugnazione costituisce quindi la sede naturale per la soluzione dei paventati contrasti; in secondo luogo poi le norme impugnate prevedono specifici strumenti di raccordo tra il procedimento di amministrazione di sostegno e quelli di interdizione o inabilitazione, in forza dei quali – ove tra giudice tutelare e tribunale sorgano conflitti sulla maggiore idoneità dell’uno o dell’altro istituto ai fini della più adeguata protezione dell’incapace – questi non rimane comunque privo di tutela. In particolare, l’art. 413, comma 4, cod. civ. dispone che il giudice tutelare – se, nel dichiarare la cessazione dell’amministrazione di sostegno rivelatasi inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario, ritenga debba invece promuoversi giudizio di interdizione o inabilitazione – «ne informa il pubblico ministero, affinché vi provveda»; in tal caso l’amministrazione di sostegno cessa con la nomina del tutore o curatore provvisorio o con la dichiarazione di interdizione o inabilitazione. E l’art. 418, comma 3, cod. civ. prevede a propria volta che il tribunale – se nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione ravvisi l’opportunità di applicare l’amministrazione di sostegno – dispone la “trasmissione del procedimento” al giudice tutelare, adottando se del caso i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’art. 405, fra i quali rientra la nomina dell’amministratore di sostegno provvisorio. Il tribunale quindi – precisa la Corte – non si limita ad investire il giudice tutelare perché provveda all’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, ma lo apre direttamente esso stesso, sulla base di una valutazione di iniziale idoneità della misura, eventualmente accompagnata dalla nomina dell’amministratore provvisorio. Pertanto il giudice tutelare cui il procedimento sia stato trasmesso, ove consideri che l’amministrazione di sostegno si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario, ben può applicare il citato quarto comma dell’art. 413 e dichiararla cessata. E se – come in uno dei casi in esame – ritenga si debba ricorrere invece all’interdizione (o inabilitazione), non deve fare altro che informare il pubblico ministero. Nella stessa prospettiva – conclude la Corte – si muove anche l’art. 429, comma 3, cod. civ. secondo il quale, se nel giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che, dopo la revoca, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare.
2006
Il 12 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.13584 alla cui stregua l’amministrazione di sostegno – introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della legge 9 gennaio 2004, n. 6 – ha la precipua finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 del codice civile. Rispetto ai predetti istituti, prosegue la Corte, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla relativa flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa, essendo appannaggio del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto della complessiva condizione psico-fisica del soggetto da assistere e di tutte le circostanze caratterizzanti la fattispecie.
Il 13 dicembre viene firmata a New York la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, e relativo Protocollo opzionale, con istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità.
Il 27 dicembre esce il provvedimento del Tribunale di Bari che si occupa dell’amministrazione di sostegno con peculiare riguardo alla scelta della residenza del beneficiario onde, laddove quest’ultimo non sia in grado di farlo autonomamente, può l’amministratore di sostegno provvedere ad individuare il luogo in cui le esigenze di protezione del medesimo (per lo più perché infermo o comunque ammalato) siano meglio soddisfatte; per il Tribunale va nominato un amministratore di sostegno a chi, affetto da disturbi psicologici ed anoressia, necessiti di vedersi assicurato un trattamento sanitario idoneo a fronteggiare tale tipo di patologie, con espressione – in luogo del beneficiario – del consenso al trattamento presso una idonea struttura sanitaria nel luogo dove ne è stato disposto il ricovero coatto.
2007
Il 19 gennaio esce l’ordinanza n.4 della Corte costituzionale, che dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 407 e 410 del codice civile, nel testo introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro I, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali), sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Giudice tutelare presso il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Chioggia. La Corte, dopo aver rammentato che il giudice tutelare – secondo la relativa costante giurisprudenza (v. da ultimo, sentenza n. 440 del 2005) – è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale, si sofferma sull’art. 407 del codice civile chiarendo come esso, nel disciplinare il procedimento per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno, preveda espressamente che il giudice tutelare deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce e deve tenere conto «compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa» (comma 2); si tratta di un dato normativo che, contrariamente all’assunto del giudice rimettente – il quale ultimo assume la normativa denunciata incostituzionale laddove essa non prevede efficacia paralizzante della nomina dell’amministratore di sostegno all’eventuale dissenso del potenziale beneficiario – per la Corte non esclude, ma anzi chiaramente attribuisce al giudice tutelare anche il potere di non procedere alla nomina dell’amministratore di sostegno in presenza del dissenso dell’interessato, ove l’autorità giudiziaria, nell’ambito della discrezionalità riconosciutale dalla norma censurata, ritenga detto dissenso – nel contesto della fattispecie sottoposta al relativo giudizio – giustificato e prevalente su ogni altra diversa considerazione, senza che la sottoposizione del rilievo del dissenso alla condizione di relativa compatibilità con gli interessi e con le esigenze di protezione della persona integri violazione dei parametri costituzionali denunciati (artt. 2 e 3 della Costituzione), i quali, invece, sono in questo modo pienamente realizzati.
Il 13 maggio esce il provvedimento del Tribunale di Modena alla cui stregua, nell’atto (pubblico, o privato autenticato) di designazione dell’amministratore di sostegno da parte del futuro beneficiario ex art.408, comma 1, c.c. questi – quale futuro, eventuale incapace – può comunque esprimere una volontà destinata a condizionare le scelte del futuro amministratore di sostegno in materia di salute o addirittura della stessa sopravvivenza del medesimo.
Il 28 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12466 onde, nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione, spetta al giudice di merito valutare, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 6 dei 2004, se trasmettere gli atti al giudice tutelare perché valuti l’opportunità di nominare l’amministratore di sostegno, di tale scelta tuttavia dovendo egli dare conto in motivazione, stante la finalità della nuova normativa di sacrificare nella minor misura possibile la capacità di agire delle persone.
Il 28 settembre esce il provvedimento del Tribunale di Trieste che assume ammissibile – in un caso di amministrazione di sostegno – la nomina come amministratore di un parroco che è quello prescelto per la celebrazione delle nozze (atto personalissimo), onde consentire a tale parroco di assistere nel contesto delle nozze medesime una giovane oligofrenica, guidando entrambi i nubendi alle nozze giusta verifica, in particolare, della consapevolezza e della volontà della giovane ridetta di concretamente addivenirvi. In sostanza, in questo caso il giudice tutelare – in un caso in cui non si ha a che fare con un interdetto per infermità di mente (al quale, ex art.85 c.c., sarebbe negata la capacità di contrarre matrimonio) – decide di affiancare al beneficiario dell’amministrazione di sostegno il proprio amministratore in veste di accompagnatore alle nozze.
Il 16 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.21748 sul caso Englaro, capace di gettare una luce anche sui contorni dell’istituto di cui all’art.408, comma 1, c.c. in tema di potere di designare un proprio futuro amministratore di sostegno e di poterne condizionare o meno le scelte in caso di malattia insorta con precedente (o contestuale, o successiva) incapacità di intendere e di volere del soggetto beneficiario amministrato. Per la Corte, in presenza di un soggetto in stato vegetativo permanente – e come tale incapace di esprimere una propria consapevole volontà in ordine alla prosecuzione o meno della alimentazione artificiale o comunque di quei trattamenti che ne garantiscono la sopravvivenza – ammette la possibilità in capo al rappresentante legale (in veste di tutore) di consentire l’interruzione di tali trattamenti laddove: a) guardando al futuro, alla luce dei progressi della scienza internazionale e delle relative risultanti, la situazione si presenta priva di concrete prospettive di guarigione o comunque di miglioramento, capaci di riportare il soggetto interessato ad esprimere direttamente ed immediatamente la propria volontà; b) guardando al passato, sussistono elementi idonei a far ritenere che la volontà dell’incapace, già adulto prima di cadere in stato di incoscienza (anche in ottica ricostruttiva rispetto a quanto eventualmente detto o riferito nel passato in termini di aspirazioni e desideri) sia presumibile quale volontà di interruzione dei ridetti trattamenti, vissuti come forma di accanimento terapeutico capace di mantenere in vita, suo malgrado, il soggetto interessato senza che questi possa concretamente interagire con il contesto che lo circonda: il tutore, sulla scia dell’art.6 della Convenzione di Oviedo, deve infatti ricercare il best interest dell’incapace, dovendo agire non “al posto” né “per” l’incapace, ma piuttosto “con” l’incapace, inferendone la volontà (e dunque presumendola: art.5 del decreto legislativo 211.03) dalla personalità di lui, dallo stile di vita tenuto, dalle inclinazioni e dai valori di riferimento palesati, nonché dalle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche; in sostanza, sulla scorta di elementi seri ed univoci nel senso della interruzione della terapia, uniti alla totale assenza di prospettive di guarigione o comunque di miglioramento dello stato di salute, il rappresentante legale può per la Corte consentire a che il soggetto rappresentato (malato) si lasci morire. Per la Corte, stante un trattamento sanitario capace di mantenere in vita l’incapace, per la relativa interruzione occorre che si versi in casi estremi in cui la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona interessata abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la propria vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la persona. Dinanzi ad un simile pronunciamento, per parte della dottrina laddove la persona futura incapace abbia espresso, consacrandola solennemente in un atto pubblico o in una scrittura privata autenticata, contemporaneamente la designazione del proprio futuro ed eventuale amministratore di sostegno ed insieme una volontà incondizionata, precisa ed univoca concernente le cure cui essere sottoposta in caso di malattia e financo l’interruzione delle stesse fino alla morte, il giudice tutelare in sede di nomina dell’amministratore di sostegno e di scandaglio dei relativi atti non potrà che attenersi alle direttive anticipatamente disposte dal beneficiario, che nella migliore delle ipotesi vanno considerate “richieste” – ex art.407, comma 2, c.c. – delle quali tenere conto e rapportare alle esigenze di salvaguardia degli interessi, personali e patrimoniali, del beneficiario stesso; come esemplificativamente può accadere allorché l’interessato, ancora pienamente capace, nel disporre in anticipo la designazione del proprio (futuro) amministratore di sostegno, abbia univocamente fatto constare la propria volontà nel senso delle interruzione delle cure e del non mantenimento in vita ad ogni costo in presenza di un proprio, eventuale e futuro, stato vegetativo, non potendo non prevalere la esplicita volontà in tal senso del diretto interessato.
Il 25 ottobre esce il provvedimento del Tribunale di Modena che assume ammissibile la nomina dell’amministratore di sostegno ed il conferimento al nominato amministratore dei necessari poteri laddove una persona che versa in condizioni di disabilità voglia domandare la separazione o il divorzio dal proprio coniuge; per il giudice tutelare, in questo caso proprio lo status di disabile impone la nomina di un soggetto vicario che garantisca un precipuo controllo sulla convenienza, anche dal punto di vista economico, delle condizioni di separazione o di divorzio, al fine di scongiurare il potenziale pregiudizio che al beneficiario potrebbe derivare dal compimento in via autonoma di tale atto personalissimo.
2008
*Il 7 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2860 alla cui stregua laddove si configuri la fattispecie di circonvenzione di incapace ex art.643 c.p. – che punisce chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o dell’inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, lo induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso – il contratto eventualmente concluso va assunto non già annullabile (come negli altri casi di c.d. reato in contratto) quanto piuttosto nullo per violazione di norme imperative.
2009
Il 3 marzo viene varata la legge n. 18, che reca ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità.
Il 01 aprile esce la sentenza del Tribunale di Roma alla cui stregua, nell’atto (pubblico, o privato autenticato) di designazione dell’amministratore di sostegno da parte del futuro beneficiario ex art.408, comma 1, c.c. questi – quale futuro, eventuale incapace – non può esprimere una volontà destinata a condizionare le scelte del futuro amministratore di sostegno in materia di salute o addirittura della stessa sopravvivenza del soggetto.
2010
Il 01 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4866 alla cui stregua – in materia di misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia – la legge 9 gennaio 2004, n. 6 ha configurato l’interdizione come istituto di carattere residuale, perseguendo l’obbiettivo della minor limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente; da ciò discende per la Corte la necessità, prima di pronunziare l’interdizione, di valutare l’eventuale conformità dell’amministrazione di sostegno alle precipue esigenze del destinatario, alla stregua della peculiare flessibilità del nuovo istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa, nonché della complessiva condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie; non costituisce peraltro condizione necessaria all’applicazione di tale misura la circostanza che il beneficiario abbia chiesto, o quantomeno accettato, il sostegno ovvero abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare.
2011
*Il 9 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.17130 alla cui stregua laddove sia accertata la incapacità di intendere e di volere del soggetto agente in un tempo anteriore e successivo al compimento di un determinato atto, ciò lascia presumere che il ridetto soggetto sia stato incapace naturale anche nel momento del compimento di tale atto.
Il 16 settembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.19017 alla cui stregua, qualora non ricorra il requisito della volontarietà dello spostamento della dimora abituale o del domicilio del soggetto destinatario dell’amministrazione di sostegno, la competenza a decidere della revoca e della nomina di un nuovo amministratore di sostegno, ai sensi dell’art. 404 c.c., spetta al giudice della circoscrizione nella quale l’amministrazione è stata aperta e la prima nomina effettuata, non rilevando il luogo ove il beneficiario sia stato di fatto trasferito. Nel caso di specie peraltro la Corte ha rilevato che nessun mutamento di residenza o domicilio, effetto di volontaria scelta del beneficiario, può assumersi sussistente a seguito dell’acclarata sottrazione dello stesso dall’istituto nel quale era ricoverato.
Il 26 ottobre esca la sentenza della I sezione della Cassazione n.22332, alla cui stregua l’amministrazione di sostegno – introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della legge 9 gennaio 2004, n. 6 – ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 del codice civile; rispetto ai predetti istituti, prosegue la Corte, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla relativa flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa, appartenendo all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonchè tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie.
2012
L’8 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1770 alla cui stregua la incapacità naturale va riconosciuta in capo a chi si trovi in stato di incapacità di intendere e di volere non già solo a cagione di una infermità fisica o psichica (come accade in ambito penale), ma anche solo in conseguenza di un perturbamento psichico onde le facoltà intellettive e volitive risultano diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell’atto che si va a compiere e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di piena autodeterminazione del soggetto e la completa consapevolezza in ordine appunto all’atto che egli si accinge a compiere, quantunque tale stato di incapacità non sia idoneo a perdurare nel tempo.
Il 25 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 18320 onde la disciplina normativa nell’amministrazione di sostegno è da assumersi pienamente compatibile con la Convenzione di New York del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con gli artt. 1 e 2 della legge 3 marzo 2009, n. 18, nella parte che concerne l’obbligo degli Stati aderenti di assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica siano proporzionate al grado in cui esse incidono sui diritti e sugli interessi delle persone con disabilità, che siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità indipendente ed imparziale (articoli 1 e 12). Per la Corte è in primis opportuno premettere che la valutazione della congruità e conformità del contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario appartiene all’apprezzamento del giudice di merito, il quale deve tenere conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa l’interessato, nonchè di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie (v. Cass. n. 13584/2006, 22332/2011; nel senso che l’ambito dei poteri dell’amministratore debba puntualmente correlarsi alle caratteristiche del caso concreto, la Corte richiama la sentenza della Corte cost. n. 440/2007). Inoltre non costituisce condizione necessaria per l’applicazione di tale misura la circostanza che il beneficiario abbia chiesto o accettato il sostegno ovvero abbia indicato la persona da nominare o i bisogni concreti da soddisfare (v. Cass. n. 4866/2010; anche secondo Corte cost. n. 4/2007, gli artt. 407 e 410 c.c. non attribuiscono al dissenso del beneficiario una efficacia paralizzante ai fini dell’attivazione della misura dell’amministrazione di sostegno). Il decreto impugnato, che è coerente con il dato normativo (art. 405 c.c., comma 5, n. 3 e 5, artt. 409 e 410 c.c.) e la cui motivazione è immune da censure, ha per la Corte escluso che il contenuto dell’amministrazione sia eccessivamente penalizzante per il beneficiario, e ciò in quanto concretizzantesi nell’assistenza negli atti di ordinaria amministrazione specificamente individuati dal giudice tutelare (gestione dei conti correnti, titoli, riscossione della pensione e di altri emolumenti, ecc.), nonché, previa autorizzazione del giudice, di straordinaria amministrazione, ferma restando la facoltà del beneficiario di compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana. Il provvedimento che ha dichiarato aperta la procedura è sempre suscettibile di adeguamento e modifiche, stante il dovere dell’amministratrice di sostegno, richiamato nel decreto del giudice tutelare di cui al caso di specie, di riferire periodicamente in ordine alle attività svolte con riguardo alla gestione del relativo patrimonio nonché in ordine ad ogni mutamento delle condizioni di salute e delle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario, ciò costituendo un ulteriore segnale della flessibilità e idoneità dello strumento ad adeguarsi alle esigenze del beneficiario. Si dimostra in tal modo per la Corte che non è ravvisabile alcuna violazione della Convenzione di New York nella parte che concerne l’obbligo degli Stati aderenti di assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica siano proporzionate al grado in cui esse incidono sui diritti e sugli interessi delle persone con disabilita, che siano applicate per il più breve tempo possibile e che siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità indipendente ed imparziale (artt. 1 e 12). La Corte afferma infine – sul crinale processuale – di avere più volte affermato che l’interpretazione sistematica dell’art. 720 bis c.p.c. conduce a riferire la previsione, in esso contenuta, del ricorso per cassazione ai soli decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, e non anche ai provvedimenti – distinti logicamente e tecnicamente dai primi – a carattere tipicamente gestorio o amministrativo, quale è quello che dispone la nomina (come nel caso in esame) ovvero la rimozione e la sostituzione dell’amministratore di sostegno (v. Cass. n. 10187 e 13747 del 2011), trattandosi di provvedimenti insuscettibili di passare in cosa giudicata in quanto sempre revocabili o modificabili per la sopravvenienza di nuovi elementi di valutazione – nei confronti dei quali la norma generale dell’art. 111 Cost. esclude, così come per ogni provvedimento non assimilabile alle sentenze, il ricorso in Cassazione.
2013
Il 17 aprile esce l’ordinanza della VI -1 sezione della Cassazione n.9389 alla cui stregua, in tema di amministrazione di sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla relativa residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei relativi bisogni e richieste, anche successivamente alla nomina dell’amministratore; né opera, in tal caso, il principio della “perpetuatio iurisdictionis“, trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze (e dunque il giudice del luogo delle ridette sopravvenienze, e non quello della domanda originaria).
Il 2 luglio esce l’ordinanza della VI-1 sezione della Cassazione n.16544, onde in tema di nomina dell’amministratore di sostegno, la competenza per territorio spetta al giudice tutelare del luogo in cui la persona interessata abbia stabile residenza o domicilio; pertanto le risultanze anagrafiche non assurgono a dato preminente, se vengono superate da evenienze di fatto conclamanti un diverso effettivo domicilio della persona, nel cui interesse si chiede l’apertura del procedimento.
2014
Il 18 giugno esce l’ordinanza della Sezione VI-1 della Cassazione n.13929 secondo la quale in caso di persona priva, in tutto o in parte, di autonomia, il giudice, ai sensi dell’art. 404 c.c., è tenuto, in ogni caso, a nominare un amministratore di sostegno poiché la discrezionalità attribuita dalla norma ha ad oggetto solo la scelta della misura più idonea (amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione), e non anche la possibilità di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei relativi interessi, ivi compresa quella meno invasiva.
2015
Il 30 settembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n.19458, alla cui stregua, ai fini dell’annullamento di un contratto perché concluso in stato d’incapacità naturale, il gravissimo pregiudizio a carico dell’incapace costituisce elemento indiziario dell’ulteriore requisito della malafede dell’altro contraente, ma, di per sé, non è idoneo a costituirne la prova assoluta. La Corte conferma nel caso di specie la decisione di merito innanzi ad essa impugnata, che ha respinto la domanda di annullamento di un accordo transattivo spiccata da un prestatore di lavoro proprio per non avere il lavoratore in parola assolto all’onere di allegazione e prova circa la sussistenza del requisito della malafede dell’altro contraente datoriale.
2016
Il 19 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10329 stando alla quale, in tema di invalidità negoziali, il giudicato formatosi sull’insussistenza dell’incapacità naturale richiesta per l’annullamento contrattuale ex art. 428 c.c. è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace, atteso che, mentre l’art. 428 c.c. richiede l’accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità di intendere e di volere, ai fini dell’art. 643 c.p. è, invece, sufficiente che l’autore dell’atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall’età, dall’insorgenza o dall’aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all’altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio di chi ne sia vittima.
Il 20 maggio viene varata la legge n.76, recante regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, alla stregua del cui art.1, comma 15, nella scelta dell’amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, mentre la stessa interdizione o l’inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell’unione civile, la quale può presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa. Stando poi al successivo comma 48, anche il convivente di fatto può essere nominato (oltre che tutore o curatore) amministratore di sostegno, qualora per l’altra parte ricorrano i presupposti di cui all’articolo 404 del codice civile. Particolarmente rilevante anche il comma 40, onde ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di (futura) malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie, con designazione che (comma 41) va effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone: in proposito, la dottrina più illuminata afferma la designazione trattarsi di negozio formale, salvo verificare la sanzione applicabile laddove la forma non sia stata osservata (non è mancato chi ha pensato di applicare, per analogia, le medesime sanzioni previste per l’inosservanza delle forme in caso di testamento olografo); si tratta in ogni caso di una disposizione che può incidere sulla interpretazione dell’art.408, comma 1, c.c. e sulla possibilità ivi prevista di poter designare in anticipo il proprio amministratore di sostegno, dacché potrebbe arguirsi che anche il futuro beneficiario amministrato tout court (anche se diverso dal convivente di fatto) può, in sede appunto di designazione anticipata, condizionare le scelte in materia di propria salute adottate affidate (in anticipo) a quest’ultimo in caso di perdita della capacità di intendere e di volere.
Il 20 luglio esce l’ordinanza della Sezione VI-1 della Cassazione n.14983 che dichiara il decreto della corte d’appello che nega l’apertura dell’amministrazione di sostegno ricorribile per cassazione.
Il 29 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.19270 alla cui stregua l’obbligazione fideiussoria, pur derivante da un contratto unilaterale, con obbligazioni a carico di una sola parte, ha natura contrattuale, sicché, ai fini dell’annullabilità per incapacità naturale, si applica l’art. 428, 2º comma, c.c., occorrendo dunque provare la mala fede dell’altro contraente.
Il 18 novembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.23571 onde, in tema di nomina dell’amministratore di sostegno, nel caso di collocamento del beneficiario in casa di cura, ove non ricorra prova della natura non transitoria (e dunque durevole) del ricovero e della volontà dello stesso beneficiario di ivi ricollocare il centro dei propri interessi e delle proprie relazioni personali, la competenza per territorio spetta al giudice tutelare del luogo in cui la persona interessata si presume abbia ancora la propria abituale dimora.
2017
Il 31 gennaio esce la sentenza della Sezione lavoro della Cassazione n.2500 alla cui stregua il lavoratore dipendente che invochi l’annullamento, per incapacità naturale ai sensi dell’art. 428, 1º comma, c.c., delle dimissioni da lui presentate alla parte datoriale, deve dimostrare che, al momento del compimento dell’atto, a lui pregiudizievole, si trovava in uno stato di turbamento psichico, anche parziale, idoneo ad impedirne od ostacolarne una seria valutazione o la comunque formazione della pertinente volontà, nonché di avere subìto un grave pregiudizio a causa dell’atto medesimo.
Il 30 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.13659 alla cui stregua, ai fini della sussistenza dell’incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio ex art. 428 c.c., non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che esse siano menomate, sì da impedire comunque la formazione di una volontà cosciente; la prova di tale condizione non richiede per la Corte la dimostrazione che il soggetto, al momento di compiere l’atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che queste erano perturbate al punto da impedirgli una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio e, quindi, il formarsi di una volontà cosciente, e può essere data con ogni mezzo o in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi per la relativa configurabilità, essendo il giudice di merito libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre, secondo una valutazione incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da congrue argomentazioni, scevre da vizi logici ed errori di diritto.
Il 7 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.16888 onde l’esonero dalla ripetizione della prestazione ricevuta dalla parte in ipotesi di annullamento del contratto per relativa incapacità (art.1443 c.c.) prescinde dalla buona o malafede dell’altro contraente e dipende esclusivamente dalla circostanza oggettiva che detto annullamento sia avvenuto in conseguenza di tale incapacità, presumendo la legge che l’incapace abbia mal disposto del proprio patrimonio e dissipato la prestazione conseguita, non traendone profitto; grava, pertanto, sull’altro contraente, che intenda ottenere la restituzione della prestazione corrisposta, l’onere di dimostrare che l’incapace ne ha tratto vantaggio, indipendentemente dal proprio stato soggettivo.
Il 22 dicembre viene varata la legge n.219, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT). L’art.3 viene dedicato ai soggetti minori e a quelli incapaci, onde la persona minore di eta’ o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1 della legge (diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona), dovendo ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle relative capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la relativa volontà (comma 1); il consenso informato al trattamento sanitario del minore e’ espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla relativa età e al relativo grado di maturità, ed avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della relativa dignità (comma 2), mentre il consenso informato della persona interdetta ai sensi dell’articolo 414 del codice civile e’ espresso o rifiutato dal tutore, sentito l’interdetto ove possibile, avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona nel pieno rispetto della relativa dignità (comma 3); il consenso informato della persona inabilitata e’ espresso dalla medesima persona inabilitata mentre nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato e’ espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al relativo grado di capacità di intendere e di volere (comma 4), con valorizzazione ex lege dei poteri di cui al decreto di nomina dell’amministratore di sostegno. Infine, ai sensi del comma 5 nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiutino le cure proposte per la persona coinvolta ed il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione e’ rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria. Il successivo art.4 si occupa più in specie delle c.d. DAT, onde ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, può, attraverso appunto le DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, indicando una persona di propria fiducia, denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie (comma 1); tale fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere: l’accettazione della nomina da parte del fiduciario avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo, che e’ allegato alle DAT ed al fiduciario e’ rilasciata una copia delle DAT, potendo peraltro il ridetto fiduciario rinunciare alla nomina con atto scritto, che e’ comunicato al disponente (comma 2); l’incarico del fiduciario può poi essere revocato dal medesimo disponente in qualsiasi momento, con le stesse modalita’ previste per la nomina e senza obbligo di motivazione (comma 3). Stando al comma 4 dell’art.4, nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente e, in caso di necessità, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del titolo XII del libro I del codice civile, che dunque è chiamato a svolgere compiti analoghi a quelli del fiduciario mancante, rinunciante, divenuto incapace o deceduto.
2018
L’8 febbraio esce il provvedimento del Giudice Tutelare del Tribunale di Mantova (De Cara) che autorizza il beneficiario di una amministrazione di sostegno alla redazione delle proprie Disposizioni Anticipate di Trattamento. Si tratta di uno dei primi provvedimenti che danno applicazione alla legge sulle DAT, riconoscendo la possibilità di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, anche ad un soggetto beneficiario di amministrazione di sostegno. Ai sensi dell’art.4 della legge 219.17, ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, e nel caso di specie tale previsione viene applicata in combinazione con l’amministrazione di sostegno, venendo autorizzato un soggetto già beneficiario appunto di amministrazione di sostegno a redigere le proprie DAT; per il giudice, nonostante la nomina di un amministratore di sostegno, il beneficiario mantiene comunque tutti i poteri non demandati in via esclusiva all’amministratore o che richiedono l’assistenza necessaria di quest’ultimo. In sostanza allorché la persona coinvolta – quand’anche affetta da patologie, per lo più fisiche, che le rendono in parte impossibile provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.), – non risulti affetta da infermità mentale tale da privarla della capacità naturale, essa può essere autorizzata a redigere le proprie DAT.
Il 28 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4653 alla cui stregua, in tema di impugnative matrimoniali, l’azione per impugnare il matrimonio affetto da vizi della volontà ovvero da incapacità di intendere e di volere di uno dei coniugi ha carattere personale ed è trasmissibile agli eredi solo qualora il relativo giudizio sia già pendente al momento della morte di detto coniuge, il quale è titolare esclusivo del potere di decidere se impugnare il proprio matrimonio; l’azione di nullità, inoltre, pur essendo promuovibile dal p.m., ex art. 125 c.c., non può più essere esperita dopo la morte di uno dei coniugi. Sempre il 28 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.4709 alla cui stregua la generica, e peraltro del tutto soggettiva, valutazione di incapacità del soggetto di provvedere ai propri interessi, e la relativa condizione di analfabetismo, non giustificano l’adozione di nessuna misura limitatrice della sfera di autonomia della persona, neppure l’amministrazione di sostegno, che ha quali presupposti l’infermità o la menomazione fisica o psichica della persona, oggettivamente verificabili, che determinino l’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere alla cura dei propri interessi.
L’8 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.11004 secondo la quale i casi di sospensione della prescrizione sono tassativamente indicati dalla legge e sono insuscettibili di applicazione analogica e di interpretazione estensiva, in quanto il legislatore regola inderogabilmente le cause di sospensione, limitandole a quelle che consistono in veri e propri impedimenti di ordine giuridico, con esclusione degli impedimenti di mero fatto; ne consegue che la espressa previsione della interdizione per infermità di mente come causa di sospensione impedisce l’estensione della medesima disciplina alla incapacità naturale.
Il 21 maggio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.12460 alla cui stregua – in tema di amministrazione di sostegno – il giudice tutelare può prevedere d’ufficio, ex artt. 405, comma 5, n. 3 e 4, e 407, comma 4, c.c., sia con il provvedimento di nomina dell’amministratore, sia mediante successive pertinenti modifiche, la limitazione della capacità di testare o donare del beneficiario, ove le relative condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volontà. Per la Corte – esclusa la possibilità di estendere in via analogica l’incapacità di testare, prevista per l’interdetto dall’art. 591, comma 2, c.c., al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, ed escluso, per converso, che il combinato disposto degli artt. 774, comma 1 e 411, commi 2 e 3, c.c., vieti di limitare la capacità di donare del beneficiario – la previsione di tali incapacità può risultare strumento di protezione particolarmente efficace per sottrarre il beneficiario a potenziali pressioni e condizionamenti da parte di terzi, rispondendo tale interpretazione alla volontà del legislatore che, con l’introduzione dell’amministrazione di sostegno, ha voluto realizzare un istituto duttile, flessibile e capace di assicurare risposte diversificate e personalizzate in relazione alle differenti esigenze di protezione.
Il 23 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.12658, alla cui stregua l’atto interruttivo della prescrizione, quale mero atto unilaterale recettizio, produce effetti anche quando il relativo destinatario sia un incapace naturale, purché gli pervenga nel rispetto delle previsioni di cui agli art. 1334 e 1335 c.c.
Il 6 settembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n.21701, secondo la quale in ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato (nella specie, perché in stato di incapacità naturale), le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità delle dimissioni, in quanto il principio secondo cui l’annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, che, stante la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, non sono dovute in mancanza della prestazione, salvo espressa previsione di legge.
Il 21 novembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n.30126 onde, ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere ex art. 428 c.c., costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere; laddove per la Corte si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia al posto di lavoro – bene protetto dagli art. 4 e 36 cost. – sicché occorre verificare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto.
2019
Il 30 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2702, che ribadisce in primis (si vedano Cass. Sez. 6 – 2, 02/10/2015, n. 19767; Cass. Sez. 1, 23/11/2000, n. 15128; Cass. Sez. 2, 30/05/2017, n. 13659; arg. anche da Cass. Sez. 1, 19/05/2016, n. 10329) la non perfetta coincidenza della fattispecie di reato di cui agli artt. 643 c.p. con le ipotesi civilistiche di invalidità negoziali ex artt. 428, 120, 591, comma 2, n. 3 e 775 c.c., in quanto per la consumazione del delitto di circonvenzione di persone incapaci sono necessari, sotto il profilo della condotta materiale, non soltanto l’esistenza di uno stato di infermità o deficienza psichica di una persona (stato che non presuppone una vera e propria malattia mentale, ma pur sempre un’effettiva e notevole menomazione delle facoltà intellettive o volitive, tale da rendere possibile la suggestione del minorato da parte di altri), ma anche l’induzione a compiere l’atto pregiudizievole, ovvero un’apprezzabile attività di pressione morale e persuasione che si ponga, in relazione all’atto dispositivo compiuto, in rapporto di causa ad effetto, ed altresì l’abuso dello stato di vulnerabilità del soggetto passivo, che si ha solo quando l’agente, ben conscio della medesima vulnerabilità della vittima, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il fine di procurare a sé o ad altri un profitto (cfr. ad esempio Cass. pen. Sez. 2, 23/09/2013, n. 39144; Cass. pen. Sez. 2, 02/07/2015, n. 28080). L’incapacità naturale del disponente che invece, ai sensi dell’art. 591, comma 2, n. 3, c.c., determina l’annullabilità del testamento richiede per la Corte unicamente la prova di un’infermità, transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, sussistente al momento della redazione dell’atto ed implicante il difetto della coscienza del significato dello stesso e della capacità di autodeterminarsi (cfr. da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, 19/02/2018, n. 3934). Su altro crinale, secondo costante interpretazione giurisprudenziale che la Corte richiama, l’incapacità naturale del disponente che, ai sensi dell’art. 591 c.c., determina l’invalidità del testamento, richiede che, al momento della redazione del testamento stesso il soggetto, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, sia privo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi (Cass. Sez. 2,27/10/2008, n. 2584; Cass. Sez. 2, 30/01/2003, n. 1444; Cass. Sez. 2, 06/12/2001, 15480). Parte della dottrina – chiosa ancora la Corte – ritiene peraltro eccessivamente rigoroso l’orientamento giurisprudenziale che considera necessario per l’annullamento del testamento un assoluto difetto di coscienza del testatore, evidenziando il diffondersi di malattie senili che, pur non determinando una situazione di totale incapacità della persona, causano abitualmente menomazioni psichiche e riduzioni di capacità, con conseguenti debolezze decisionali ed affievolimenti della “consapevolezza affettiva“, per cui il disponente può decidere di attribuire i propri beni in modo diverso da come avrebbe fatto in assenza di malattia, sovente subendo, in particolare, l’influenza dei soggetti che lo accudiscono o con cui da ultimo trascorrono la maggior parte delle loro giornate. Ancora, per la Corte l’atto pubblico (categoria nella quale rientra il testamento pubblico disciplinato dall’art 603 c.c.), a norma dell’art. 2700 c.c., fa piena prova, fino a querela di falso, delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale (nel caso di specie, il notaio) attesta avvenuti in relativa presenza o da lui compiuti, ma nei limiti della sola attività materiale, immediatamente e direttamente richiesta, percepita e constatata dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni; ne consegue che lo stato di sanità mentale, seppur ritenuto e dichiarato dal notaio che redige il testamento pubblico per la mancanza di segni apparenti d’incapacità del testatore, può essere contestato con ogni mezzo di prova, senza bisogno di proporre querela di falso (Cass. Sez. 2, 04/05/1982, n. 2741; Cass. Sez. 2, 18/08/1981, n. 4939; Cass. Sez. 2, 15/07/1968, n. 2536; Cass. Sez. 2, 02/08/1966, n. 2152; Cass. Sez. 2, 09/06/1962, n. 1446; arg. anche da Cass. Sez. 2, 27/04/2006, n. 9649). Per la Corte va infine riaffermato il principio, più volte ribadito in giurisprudenza, onde in tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica, ove esista una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente (nella specie, ipodensità degenerativa della sostanza bianca peri-ventricolare, atrofia cortico-sottocorticale), una volta accertata l’incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo (nella fattispecie, le visite effettuate nel novembre 2005 e poi la sera del 2 agosto 2006), per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da presunzione iuris tantum, sicché in concreto si verifica l’inversione dell’onere della prova, dovendo essere dimostrato dalla parte interessata che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia (Cass.04/03/2016, Sez. 2, n. 4316; Cass. Sez. 2, 09/08/2011, n. 17130; Cass. Sez. L, 12/03/2004, n. 5159).
Questioni intriganti
In cosa consiste la c.d. incapacità naturale e come si differenzia dalle altre ipotesi di incapacità di agire?
- si tratta di una particolare ipotesi di incapacità (di agire) “giudiziale”, onde occorre l’accertamento all’uopo da parte di un giudice (come è anche il caso della interdizione, della inabilitazione e della amministrazione di sostegno);
- non è dunque una ipotesi di incapacità legale, che come tale scatta ipso iure in presenza di determinati presupposti (come nel caso della incapacità che consegue al compimento di determinati reati, quale pertinente sanzione accessoria), essendo imprescindibile un accertamento giudiziale “costitutivo”;
- sul crinale diacronico, si guarda qui, in modo “estemporaneo”, puntuale e contingente, al momento del compimento del singolo atto giuridicamente rilevante del quale si invoca la demolizione, ed alla causa che può di volta in volta inficiarlo dal punto di vista della produzione degli effetti, ex art.428 c.c.;
- al contrario, nelle altre ipotesi di incapacità giudiziale il presupposto è quello della abituale infermità di mente che può essere più grave (interdizione: art.414 c.c.) o meno grave (inabilitazione: art.415 c.c.); anche nelle fattispecie in cui a rilevare non è l’infermità di mente in sé considerata, è necessaria l’abitualità comportamentale o comunque una certa “continuità di fondo” della causa inficiante, come nelle fattispecie di inabilitazione per prodigalità o di consumo abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti che espongano sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici, ovvero di sordità e di cecità dalla nascita o dalla prima infanzia in difetto di adeguata educazione; infine, una certa diuturnitas è presente anche quale presupposto dell’amministrazione di sostegno che scatta (art.404 c.c.) nelle fattispecie di infermità o menomazione fisica o psichica che, pur non palesando necessario il ricorso all’interdizione, cagioni una impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi;
- l’incapacità naturale è dunque avvinta al concetto di istantaneità dell’atto compiuto dal soggetto estemporaneamente incapace, che è normalmente capace e che si trova, quando compie il ridetto atto, in condizioni di incapacità transitoria; in altri termini, mentre nelle ipotesi di interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno si assiste – una volta intervenuto il pertinente provvedimento – ad una situazione di diritto in termini di incapacità di agire permanente (fino alla eventuale revoca del provvedimento giurisdizionale costitutivo che la dispone), la fattispecie di incapacità naturale ha natura meramente fattuale, seppure capace di incidere con effetto invalidante sull’atto compiuto dal soggetto attivo fino a poterne provocare, sempre ope iudicis, la demolizione.
Come si articola la disciplina della incapacità naturale e quali ne sono le principali caratteristiche?
- si tratta di una fattispecie di incapacità che è parzialmente assimilabile a quella, “penale”, prevista dall’art.85 c.p. in tema di non imputabilità del soggetto attivo del fatto inadempimento reato; nondimeno, è incapace naturale chi è incapace di intendere e di volere per una “qualsiasi causa” ex art.428 c.c., affiorando un livello di indeterminatezza civile che è invece molto più attenuato in sede penale, laddove vige all’opposto il principio di tipizzazione delle cause di non imputabilità, come ad esempio nel caso di vizio totale o parziale di mente ex art.88 c.p., che fa perno sul concetto di “infermità”;
- secondo la dottrina più accreditata, non rileva neppure nel civile – come anche nel penale ai sensi degli articoli 87 e 92 c.p. – la c.d. actio libera in causa, ovvero lo stato di incapacità naturale preordinato dal soggetto agente e dunque frutto della relativa volontà (o comunque della relativa signoria); più in specie, in queste ipotesi il soggetto agente vuole consapevolmente porsi in una situazione di incapacità naturale, circostanza nella quale egli invece, per fictio iuris, viene dal sistema giuridico assunto capace; ciò certamente in caso di preordinazione dolosa dello stato di incapacità e, stando almeno a parte della dottrina, anche in caso di procurata incapacità naturale per colpa e, dunque per non aver attivato quei poteri di controllo che avrebbero consentito di scongiurare la perdita di capacità coeva al compimento dell’atto che si vorrebbe aggredire (come peraltro in qualche modo dimostra l’art.2046 c.c. che assume responsabile del fatto illecito anche l’incapace naturale, laddove lo stato di incapacità sia appunto derivato da relativa colpa);
- ove un incapace naturale abbia compiuto un atto, questo non è nullo, ma è tuttavia annullabile con azione che può essere spiccata dall’autore incapace, dai relativi eredi o aventi causa; la prescrizione è pari a 5 anni e decorre non già dal momento in cui l’incapace recupera la propria consapevolezza in termini di coscienza e volontà, quanto piuttosto dal giorno del compimento dell’atto stesso; l’esigenza di individuare un termine certo dal quale far decorrere il termine quinquennale di prescrizione – che nel caso dell’interdetto e dell’inabilitato si identifica con quello in cui passa in giudicato la sentenza di revoca dell’interdizione o della inabilitazione ex art.431 c.c. e del pari, nel caso dell’amministrato di sostegno, con quello in cui viene adottato il decreto di cessazione dell’amministrazione di sostegno – impone nelle ipotesi di incapacità naturale “estemporanea” di far riferimento appunto alla data in cui l’atto viene compiuto, dovendosi tener conto del fatto che proprio la momentaneità di questo genere di incapacità lascia presumere che il soggetto (solo temporaneamente) incapace recuperi rapidamente la propria coscienza e volontà; una disciplina analoga della prescrizione (con decorrenza dal giorno del compiuto atto demolendo) la si rinviene per medesima ratio nelle fattispecie di testamento (art.591 c.c.) e di donazione (art.775 c.c.), mentre nel caso del matrimonio la prescrizione decorre, anche in caso di incapacità naturale, dal giorno in cui il coniuge potenziale impugnante ha recuperato le proprie facoltà mentali (art.120 c.c.);
- è il soggetto che chiede l’annullamento affermando la propria incapacità naturale a dover provare appunto (anche con testimoni o giusta presunzioni) il proprio momentaneo stato di incapacità di intendere e di volere al momento del compimento dell’atto del quale invoca la demolizione, salva la sola eccezione – in termini di presunta incapacità – laddove il soggetto medesimo sia stato incapace nei periodi immediatamente anteriori e successivi a quello cui l’atto, in termini di concreto compimento, si riferisce; non si ritiene necessaria la disposizione di una consulenza tecnica che nondimeno, in taluni casi, potrebbe rivelarsi opportuna; peraltro, in caso di annullamento, l’incapace non è tenuto a restituire l’eventuale prestazione ricevuta, se non nei limiti del vantaggio che ne abbia conseguito (art.1443 c.c.);
- l’incapacità naturale spiega effetti sui negozi compiuti dall’incapace; nondimeno, nel silenzio dell’art.428 c.c., la dottrina maggioritaria la assume invalidante anche degli atti giuridici in senso stretto, come dimostra l’art.2046 c.c. che, in tema di fatto illecito, assume che non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi nel momento in cui lo ha commesso non aveva appunto la capacità di intendere e di volere (salvo che lo stato di incapacità derivi da relativa colpa);
- per taluni atti negoziali specifici come il matrimonio (art.120 c.c.), il testamento (art.591, comma 2, c.c.) e la donazione (art.775 c.c.) l’annullamento può essere chiesto in presenza della sola incapacità di intendere e di volere;
- generalmente invece il soggetto incapace può invocare l’annullamento di un atto negoziale da lui compiuto secondo la seguente distinzione: g.1) si tratta di un atto unilaterale: in questa ipotesi l’atto è annullabile se ne è derivato all’incapace (naturale) un grave pregiudizio, che può assumere consistenza tanto patrimoniale quanto morale o comunque personale, e che normalmente si compendia in vincoli lesivi degli interessi dell’autore dell’atto, come nel caso in cui essi abbiano una durata sottratta al canone della ragionevolezza; g.2) si tratta di un contratto: in questa fattispecie, oltre al grave pregiudizio (che però può qui essere anche solo potenziale, e non ancora attualizzato) occorre la mala fede dell’altro contraente, che può peraltro evincersi dal ridetto pregiudizio derivante dall’atto all’incapace, ovvero comunque dalla qualità del contatto stipulato; secondo l’opzione più accreditata in dottrina, nel caso della incapacità naturale “contrattuale”, chi la invoca a fini di annullamento del contratto deve provare appunto la mala fede dell’altro contraente, intesa come consapevolezza del proprio stato di incapacità naturale, mentre il pregiudizio – che deve sempre affiorare dal processo – è strumento indiziario proprio dell’altrui mala fede; laddove si sia al cospetto di una circonvenzione di incapace, si configura nondimeno un reato in contratto ex art.643 c.p. eccezionalmente nullo (e non già meramente annullabile) per violazione di norme imperative.
Come si articola la disciplina della amministrazione di sostegno e quali ne sono le principali caratteristiche?
- si tratta di un istituto che, subentrato nel nostro sistema (giusta novellazione al codice civile) nel 2004, ha lo scopo di “svecchiare” l’atteggiamento ordinamentale – definito in dottrina troppo alienante e custodialistico – nei confronti del soggetto incapace di agire;
- nel confronto con le più tradizionali figure di incapacità di agire giudiziale (interdizione ed inabilitazione), l’amministrazione di sostegno si presenta con un spettro operativo più ampio; mentre infatti l’interdizione e l’inabilitazione scattano in ipotesi di infermità mentale, per l’amministrazione di sostegno è sufficiente la sola “infermità”, che peraltro può atteggiarsi anche solo a parziale o temporanea impossibilità di curare i propri interessi, senza che debba dunque acclararsi quella abitualità, quella diuturnitas che caratterizza gli istituti di protezione dell’incapace più tradizionali;
- l’amministrazione di sostegno può scattare nelle ridette, ampie ipotesi di infermità (anche parziale o temporanea) e financo in fattispecie che presentano un quid minus, ed al cospetto delle quali non era in precedenza possibile intervenire da parte del giudice tutelare; si tratta delle ipotesi che la legge identifica con l’espressione “menomazioni fisiche o psichiche” (esemplificativamente: non vedente, malato di Alzheimer, malato terminale), che possono come tali essere in qualche modo estemporanee e meramente lambire, senza tuttavia raggiungere, il livello della vera e propria “infermità”;
- si registra in dottrina una duplicità di posizioni in tema di menomazione che sia solo fisica: d.1) una prima posizione assume bastevole per disporre l’amministrazione di sostegno anche la sola menomazione o infermità meramente fisica quando essa sia particolarmente grave e come tale idonea ad impedire a chi ne è colpito di attendere autonomamente ai propri interessi (quand’anche con l’ausilio di un rappresentante volontario all’uopo prescelto, che peraltro in talune materie personali “sensibili”, come la salute, neppure potrebbe a rigore intervenire); del resto, l’amministratore di sostegno può, a decorrere dalla nomina, provvedere in modo permanente agli interessi dell’amministrato beneficiario e nello stesso tempo vedere, ancora in sede di pertinente nomina, specificati gli atti per i quali provvedere a sostituire integralmente il ridetto beneficiario e quelli per i quali l’operato dell’amministratore – sempre oggetto di sindacato da parte del giudice tutelare – concorre (quanto meno) con quello dell’amministrato beneficiario in parola; d.2) una seconda posizione ritiene invece che solo laddove l’infermità o la menomazione meramente fisica implichino effetti pregiudizievoli anche sull’orbita mentale di chi ne è colpito, onde egli è incapace di ponderare le proprie scelte e gestire in modo consapevole i propri interessi sarebbe ammissibile ricorrere all’amministrazione di sostegno, solo in questo caso palesandosi insufficiente l’istituto della rappresentanza volontaria, del quale può appunto approfittare chi sia solo vittima di una menomazione o infermità meramente “fisica” capace di consentirgli in ogni caso, stante l’operatività del crinale mentale della propria persona, di scegliersi un terzo al quale affidare i propri affari ed interessi, non risultandone appunto vulnerata la capacità di intendere e di volere;
- il ricorso inteso ad ottenere l’amministrazione di sostegno può essere spiccato dallo stesso beneficiario, seppure sia già incapace perché ancora minore ovvero perché già interdetto o inabilitato; l’art.406 c.c. richiama peraltro l’art.417 c.c., onde sono legittimati a chiedere l’amministrazione di sostegno anche i medesimi soggetti che possono chiedere l’interdizione del beneficiario, e dunque il coniuge, i parenti entro il IV grado, gli affini entro il II grado, il tutore o curatore ovvero il PM; anche i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove vengano a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il pertinente ricorso o a fornirne comunque notizia al PM;
- sul crinale dei possibili beneficiari, l’amministrazione di sostegno può essere chiesta anche a favore di un minore che abbia già compiuto i 17 anni, e dunque prima che raggiunga la maggiore età, che comunque occorre affinché la nomina dell’amministratore di sostegno produca i propri effetti; per quanto riguarda l’interdetto e l’inabilitato, è possibile contestualmente chiederne la revoca e ricorrere per la nomina dell’amministratore di sostegno, precisando che quest’ultima sarà efficace soltanto una volta pubblicata la sentenza di revoca dell’interdizione o inabilitazione;
- l’amministrazione di sostegno viene disposta con decreto, che deve essere motivato, del giudice tutelare del luogo di residenza o domicilio del soggetto che ne è beneficiario; il giudice tutelare gode di un termine di 60 giorni per emettere il decreto di nomina, ma può nominare un amministratore provvisorio laddove ravvisi la necessità, e può inoltre far luogo personalmente agli atti e ai provvedimenti urgenti per la cura della persona del beneficiario e per la conservazione del relativo patrimonio;
- dal punto di vista della pubblicità, esiste un apposito registro presso il quale viene annotato il decreto che dispone l’amministrazione di sostegno, ogni provvedimento preso dal giudice tutelare nel corso della ridetta amministrazione, oltre al decreto di pertinente chiusura; tanto il decreto che dispone l’amministrazione di sostegno quanto quello che la chiude vanno comunicati, entro 10 giorni dalla pertinente pubblicazione nel registro, all’ufficiale dello stato civile affinché provveda ad annotarli a margine dell’atto di nascita del beneficiario;
- sul crinale della durata, l’amministrazione di sostegno può anche essere “a tempo”, circostanza che si verifica quando il giudice tutelare fissa, nel decreto di apertura, un termine allo spirare del quale essa cessa (art.404 c.c.), circostanza che si ricollega al fatto che l’impossibilità di provvedere ai propri interessi da parte del beneficiario potrebbe anche essere, per l’appunto, solo temporanea; quando l’amministrazione di sostegno è temporanea, essa può essere prorogata prima della pertinente scadenza dal giudice tutelare con decreto motivato; una volta scaduta, tutte le annotazioni presenti tanto nel registro delle amministrazione di sostegno che nell’atto di nascita vanno poi cancellate; tanto nel caso di amministrazione senza durata preventiva quanto nel caso opposto di amministrazione a tempo, il beneficiario amministrato e tutti gli altri soggetti legittimati a chiederne l’apertura possono, del pari, chiederne la cessazione al giudice tutelare che, per parte sua, può disporla anche d’ufficio laddove si avveda che il soggetto beneficiario ha recuperato la piena capacità di provvedere autonomamente ai propri interessi, potendo anche tuttavia, negli opposti casi di aggravamento delle condizioni del beneficiario, informare il PM affinché provveda a dare l’abbrivio al giudizio di interdizione o di inabilitazione;
- il giudice tutelare può individuare l’amministratore di sostegno tra una rosa di soggetti previsti all’art.408 c.c., con scelta che deve avere ad unico punto di riferimento gli interessi e la cura del beneficiario amministrato, il quale peraltro – con atto pubblico o scrittura privata autenticata – può individuare in prima persona il proprio amministratore di sostegno; laddove tale designazione difetti, ovvero quando per gravi motivi non sia possibile darvi seguito, il giudice tutelare può nominare con decreto motivato una persona diversa da quella indicata dal beneficiario (futuro) amministrato, con preferenza per il coniuge non legalmente separato, per una persona convivente in maniera stabile con il beneficiario, ovvero per il padre, per la madre, per i figli, per i fratelli ovvero ancora per i parenti entro il IV grado; dal 2016, in caso di persone dello stesso sesso, la scelta cade di preferenza sulla parte dell’unione civile potendo, in difetto di unione civile, essere nominato anche il convivente di fatto; una parte attiva nella nomina dell’amministratore di sostegno possono avere anche i genitori del beneficiario, che possono procedere con testamento ovvero con le medesime forme che presidiano la designazione su istanza del beneficiario medesimo; ancora, la scelta può essere indiretta, potendo coinvolgere associazioni o comunque persone giuridiche chiamate ad individuare il proprio rappresentante legale (o un delegato di lui) quale persona fisica concretamente incaricata di procedere all’amministrazione di sostegno del beneficiario; stante il rinvio operato dall’art.411 c.c. (in quanto compatibili) agli articoli da 349 a 353 del codice civile, non possono essere nominati amministratori di sostegno (analogamente a quanto accade per il tutore) gli “incompatibili” ex art.350 c.c. (che, correlativamente, possono chiedere la dispensa dall’eventuale incarico): in specie, chi abbia una lite in corso con il potenziale beneficiario (dalla quale possa derivare un pregiudizio alla pertinente persona o al pertinente patrimonio), ovvero chi sia stato espressamente escluso dal novero dei potenziali amministratori di sostegno da parte dei genitori del potenziale amministrato beneficiario; ancora, non può essere amministratore di sostegno chi sia fallito, chi sia decaduto dalla potestà genitoriale o abbia perso una tutela, o chi non abbia la libera disponibilità del proprio patrimonio; tra i soggetti che non possono essere amministratori di sostegno spiccano (per espresso divieto ex art.408, ultimo comma, c.c.) gli operatori di servizi pubblici o privati che abbiano in cura o assistenza il potenziale beneficiario ii quali – ex art.406, ultimo comma c.c. – possono piuttosto informare il PM o direttamente il giudice tutelare di eventuali cause di opportuna apertura della amministrazione, delle quali siano venuti a conoscenza;
- particolarmente rilevante l’art.410 c.c. in tema di doveri dell’amministratore di sostegno o, più tecnicamente, di pertinenti obblighi: l’amministratore deve innanzi tutto giurare di esercitare il proprio ufficio con fedeltà e diligenza, ai sensi dell’art.349 cc., siccome richiamato dall’art.411 c.c. (peraltro il dovere di diligenza dell’amministratore di sostegno è previsto nella c.d. “bozza Cendon”, quale organico progetto di riforma del codice civile in tema di incapacità), con obbligo di diligenza del buon padre di famiglia confermato dall’art.411 e dal relativo rinvio all’art.382 c.c. (contenuto negli articoli da 374 a 388, oggetto appunto di espresso rinvio) laddove prevede la responsabilità per i danni cagionati per negligenza nel corso dello svolgimento del pertinente ufficio; l’amministratore nominato deve poi tenere conto in modo costante – nel corso del proprio ufficio – dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario, rendendo l’amministrazione dinamica e calibrata, per l’appunto, sulla persona del beneficiario medesimo amministrato, con diuturna informazione degli atti da compiere nel relativo interesse e correlata, del pari diuturna ed obbligatoria informazione al giudice tutelare in ordine all’eventuale dissenso all’atto espresso dall’amministrato, affinché il giudice tutelare prenda i provvedimenti più opportuni; tanto il beneficiario quanto il PM e gli altri legittimati alla pertinente istanza di nomina possono adire il Giudice tutelare allorché l’amministratore di sostegno in carica entri in contrasto con il beneficiario ovvero ponga in essere atti o scelte per lui pregiudizievoli, ovvero comunque svolga il proprio compito in modo negligente (il che conferma l’obbligo di diligenza gravante sull’amministratore in carica), potendo anche proporre al medesimo giudice istanza motivata di sostituzione (art.413 c.c.); di regola l’amministrazione di sostegno ha la durata di 10 anni, ma nel caso in cui siano nominati taluni specifici soggetti (coniuge, persona stabilmente convivente, discendenti o ascendenti) la durata è piuttosto indeterminata; alla stregua dell’art.380 e seguenti c.c., siccome richiamati dall’art.411 c.c., l’amministratore di sostegno è obbligato a tenere annualmente la contabilità dell’amministrato (da approvarsi da parte del giudice tutelare), dovendo anche prestare idonea cauzione, su richiesta del giudice tutelare, in ragione della entità del patrimonio dell’amministrato e della natura degli atti di gestione; ancora, l’amministratore di sostegno è tenuto al rendiconto finale entro 2 mesi dalla cessazione del pertinente ufficio ed è sottoposto alle medesime cause di esonero, sospensione o rimozione che sono appannaggio del tutore;
- l’ufficio di amministratore di sostegno è tendenzialmente gratuito, ferma la possibilità per il giudice tutelare di riconoscergli una indennità per i mancati guadagni che sarebbero maturati durante lo svolgimento dell’ufficio (art.411 e 379 c.c.), potendo peraltro lo stesso amministratore farsi coadiuvare, verso retribuzione, da una o più persone, provvedendo se del caso a retribuirle e facendole operare a proprie e spese e sotto la propria responsabilità;
- sul crinale degli effetti della nomina, particolarmente importante l’art.409 c.c., assieme agli articoli da 374 a 388 c.c. (in forza del rinvio operato dal successivo art.411 c.c.) ed in combinato – e concreto – disposto di cui al decreto di nomina, onde il beneficiario in primis conserva la propria capacità di agire per tutti gli atti in relazione ai quali non occorra la rappresentanza esclusiva ovvero l’assistenza necessaria del proprio amministratore di sostegno; stando infatti all’art.405, comma 4, numeri 3) e 4), il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno indica l’oggetto dell’incarico conferito e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (rappresentanza), nonché gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza del nominato amministratore; in sostanza, il beneficiario amministrato resta pienamente capace per tutti gli atti non espressamente menzionati nel decreto di nomina, dovendo invece essere rappresentato ovvero assistito in ordine al compimento degli atti ivi specificamente indicati per la rappresentanza o per l’assistenza dell’amministratore di sostegno; se ne evince il potere del Giudice tutelare di disegnare da un lato la cornice di capacità di agire residua dell’amministrato e, dall’altro, il quadro del doveroso intervento dell’amministratore di sostegno in termini di rappresentanza ovvero di più blanda assistenza del beneficiario. Ciò pone dei problemi al cospetto di negozi misti o di contratti collegati, allorché il regime di capacità sia diverso per ciascuno degli atti coinvolti nella operazione negoziale complessivamente intesa: nel silenzio del legislatore, la dottrina è più propensa a scegliere di volta in volta la soluzione che comprima di meno la capacità di agire del beneficiario; peraltro, se nel caso di collegamento negoziale il problema è più apparente che reale (ogni negozio “collegato” può infatti seguire senza problemi il proprio regime di capacità), diversa è l’ipotesi del negozio misto in cui, al contrario, il problema si pone e viene in genere risolto secondo il criterio della prevalenza, onde laddove (per la relativa causa) risulti prevalente l’atto “complementare” di competenza esclusiva del beneficiario, l’intero negozio misto può assumersi appannaggio della capacità esclusiva del beneficiario medesimo (e viceversa). Proteggere gli interessi personali o patrimoniali del beneficiario può imporre talvolta al giudice tutelare una esclusione integrale della capacità di agire del medesimo in relazione ad ipotesi espresse e specifiche; nondimeno, ai sensi dell’art.409, comma 2, c.c. viene fatta in ogni caso salva la capacità del beneficiario amministrato di compiere gli atti c.d. di contrattualità quotidiana o “micro-contrattualità”, che siano necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana e che tuttavia, in presenza di tutte le condizioni previste dall’art.428 c.c., possono essere di volta in volta annullati sul presupposto della incapacità naturale di chi li compie (qui dunque complementare all’amministrazione di sostegno). Ancora, ai sensi dell’art.411, ultimo comma, c.c. il giudice tutelare, nel provvedimento di nomina dell’amministratore o successivamente, può estendere determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti per l’interdetto o per l’inabilitato anche all’amministratore di sostegno, quando ciò sia necessario ai fini della pertinente protezione;
- per quanto concerne gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno, occorre fare riferimento al richiamo contenuto nell’art.411 c.c. agli articoli 374, 375 e 376 c.c., ed agli atti ivi previsti, per i quali è richiesta la preventiva autorizzazione del giudice tutelare, con particolare riguardo alla vendita di beni del beneficiario; in caso di violazione, il successivo art.377 c.c. (del pari richiamato) prevede l’annullabilità degli atti non autorizzati posti in essere dall’amministratore di sostegno su istanza del beneficiario nonché dei relativi eredi o aventi causa; particolarmente interessante a questo proposito il disposto dell’art.412, comma 1, c.c. laddove prevede come (meramente) “annullabili” anche gli atti posti in essere dall’amministratore di sostegno in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, quale eccezione rispetto al normale regime degli atti posti in essere dal falsus procurator (art.1398 e 1399 c.c.), come noto inefficaci (e non già annullabili); sono annullabili altresì gli atti giusta i quali l’amministratore di sostegno acquisti beni dall’amministrato (quand’anche all’asta pubblica) ovvero li prenda da lui in locazione senza la previa autorizzazione del giudice tutelare (articoli 378 e 388 c.c., siccome richiamati dall’art.411 c.c.); è poi annullabile ogni convenzione tra amministratore ed amministrato prima che il giudice tutelare abbia approvato il rendiconto finale dell’amministrazione; la prescrizione dell’azione di annullamento (art.412, comma 3, c.c.) decorre sempre dal giorno in cui è cessata l’amministrazione di sostegno, e non già da quello di compimento del singolo atto, a peculiare tutela ancora una volta dell’amministrato. In forza dell’art.411, comma 2, c.c., all’ amministratore di sostegno si applicano altresì, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 596, 599e 779, onde sono nulle le disposizioni testamentarie del beneficiario a favore del proprio amministratore di sostegno, laddove fatte dopo la pertinente nomina e prima che sia approvato il conto o sia estinta l’azione per il rendiconto in parola, quantunque il testatore sia deceduto dopo l’approvazione; parimenti è nulla la donazione a favore di chi è stato amministratore di sostegno del donante, laddove ancora una volta sia stata disposta prima che sia approvato il conto o sia estinta l’azione per il rendiconto.
Cosa occorre rammentare in particolare dell’amministrazione di sostegno dal punto di vista del soggetto che ne è (o può esserne) beneficiario?
- tutta la disciplina dell’amministrazione di sostegno ruota attorno alla autonomia ed alla dignità del soggetto potenziale o attuale beneficiario della stessa;
- quando si parla di potenziale beneficiario si fa riferimento al procedimento di possibile apertura dell’amministrazione di sostegno, laddove – ex art.407 c.c. – va sentito sempre personalmente dal giudice tutelare il soggetto che potrebbe appunto esservi coinvolto, quand’anche ciò imponga al giudice medesimo di recarsi fisicamente presso il potenziale amministrato per l’impossibilità di quest’ultimo di raggiungere la sede tribunalizia; del potenziale amministrato il giudice tutelare deve valutare bisogni e richieste, purché queste ultime siano compatibili con le pertinenti esigenze di protezione della persona e dei relativi interessi personali e patrimoniali; il giudice tutelare gode di ampi poteri istruttori officiosi, potendo assumere sommarie informazioni, dovendo audire i soggetti legittimati al ricorso e potendo disporre gli opportuni accertamenti medici;
- proprio muovendo dalla lettura in particolare dell’art.407 c.c. in tema di imprescindibile coinvolgimento del potenziale beneficiario nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, si sono in dottrina fronteggiate due tesi: c.1) stando ad una prima opzione, minoritaria in giurisprudenza e più accreditata in dottrina, solo quando è possibile interloquire con la volontà cosciente della persona coinvolta (che, come tale, può esser in concreto audita per essere munita di capacità di pensiero e di espressione) si può disporre l’amministrazione di sostegno, mentre in caso opposto non resta che procedere ad avviare il procedimento di interdizione; lo dimostrerebbe il fatto stesso che, ad amministrazione ormai disposta, in caso di dissenso con il beneficiario, l’amministratore di sostegno deve tempestivamente informare il giudice tutelare affinché adotti i provvedimenti più opportuni, ai sensi dell’art.410, comma 2, c.c.; c.2) conformemente invece all’esegesi maggiormente accolta in giurisprudenza, la scelta tra amministrazione di sostegno ed interdizione non dipende tanto (soggettivamente) dalla capacità del beneficiario di elaborare ed esprimere una propria volontà al giudice tutelare, quanto, più oggettivamente, dalla adeguatezza delle misure da adottare per proteggerlo concretamente, quantunque non ci sia la possibilità di audirlo;
- l’amministratore di sostegno può anche essere designato dal beneficiario (futuro) amministrato in via anticipata, e dunque in previsione della propria eventuale, futura incapacità (art.408 c.c.), giusta atto pubblico o scrittura privata autenticata; in sede di designazione del proprio futuro amministratore di sostegno, il designante può indicare le direttive sulla gestione del proprio patrimonio e la cura dei propri interessi personali, direttive delle quali dovrà tenere conto il giudice tutelare nel pronunciare il decreto di apertura dell’amministrazione ex art.407, comma 2, c.c., a meno che esse non siano a quel punto confliggenti con le esigenze di salvaguardia del beneficiario; più delicate le disposizioni date in tema di salute e di eventuale interruzione di trattamenti terapeutici in caso di sopravvenuto stato vegetativo irreversibile (non manca chi ammette, sulla scorta di quanto affermato dalla Cassazione nel 2007 con riguardo al caso Englaro, il potere del designato amministratore di sostegno di consentire l’interruzione in simili ipotesi del trattamento terapeutico, che il beneficiario avrebbe verosimilmente vissuto come accanimento), mentre in caso di decisioni anticipate meno impegnative, si ammette (seppure entro certi limiti) che il futuro beneficiario possa orientare il futuro amministratore, in termini di non volontà di sottoporsi a trasfusioni a cagione del peculiare credo religioso professato, ovvero di mancato consenso a sottoporsi a determinati interventi sanitari, anche chirurgici; tra questi ultimi, ce ne possono essere di programmati a monte, ed a valle dei quali il soggetto operato finisce (o può finire col) perdere la propria capacità, non potendo dunque a quel punto esprimere un consenso informato ad ulteriori interventi che si rendano necessari e che potrebbero tuttavia essere consentiti dall’amministratore di sostegno ex ante designato (e poi nominato); da segnalare peraltro come (assieme alla morte) solo l’interdizione o l’inabilitazione – e non anche dunque l’amministrazione di sostegno – estinguono, ai sensi dell’art.1722 c.c., il mandato, onde teoricamente lo strumento ordinario e generale di affidamento a terzi del compimento di atti con rilevanza giuridica nel proprio interesse può rimanere operativo laddove si tratti di compiere atti in relazione ai quali – per quanto gravi – il giudice tutelare non abbia equiparato la posizione dell’amministrato di sostegno beneficiario a quella dell’interdetto o dell’inabilitato.
Cosa occorre rammentare della incapacità di agire, ed in particolare dell’amministrazione di sostegno, con riguardo ai c.d. “atti personalissimi”?
- si tratta di una fattispecie che è stata oggetto di peculiare dibattito negli ultimi anni, in relazione massime alle fattispecie di possibile sostituzione dell’incapace con riguardo ad atti “sanitari” (massime se particolarmente gravi ed impegnativi) che lo riguardano;
- ci si è chiesti più in particolare quale sia la disciplina applicabile – in presenza di una incapacità giudiziale (e dunque anche di una amministrazione di sostegno) – allorché si tratti di compiere atti “personalissimi” del soggetto incapace, come tali difficilmente sostituibili sul crinale del soggetto che li compie;
- si parla tradizionalmente di atti personalissimi con riguardo al matrimonio, alla donazione e al testamento, ma il relativo catalogo può essere assunto ricomprendere tutti gli atti che lambiscono la sfera strettamente personale di chi li compie, con particolare riguardo ai relativi diritti inviolabili, come nel caso di atti che concernono la libertà individuale, la famiglia, la salute e così via;
- per quanto concerne il soggetto inabilitato, questi è pienamente capace sul piano personale, mentre la relativa “incapacità” riguarda solo atti di consistenza patrimoniale, per i quali deve essere “assistito” dal curatore: non si pone pertanto un problema per quanto concerne gli atti personalissimi che, come tali, ne coinvolgono solo la persona e che dunque egli può compiere autonomamente;
- all’opposto, un problema si pone di certo per l’interdizione, palesandosi la incapacità totale dell’interdetto idonea a potenzialmente coinvolgere anche gli atti che attengono alla propria sfera personale; ai sensi del combinato disposto degli articoli 357 e 424 c.c., il tutore è peraltro tenuto alla cura dell’interdetto come persona; e.1) la giurisprudenza in passato ha ritenuto che la presenza di specifiche norme in relazione a determinate fattispecie, laddove esse attribuiscono al tutore del pari specifici poteri nell’interesse della persona dell’interdetto (impugnare il matrimonio ex art.119 c.c.; disconoscere la paternità ex art.245 c.c.; impugnare il riconoscimento del figlio naturale interdetto ex art.264 c.c.; richiedere che sia giudizialmente dichiarata la maternità o la paternità del minore interdetto ex art.273 c.c.), potessero escludere un pari potere del tutore di compiere atti personalissimi per i quali nel codice non si rinvenisse una menzione dedicata, non potendosi predicare dunque in capo a quest’ultimo un generale potere di rappresentanza dell’interdetto, circostanza assunta confermata dalle fattispecie di atti personalissimi in relazione ai quali l’atto può essere compiuto dall’interdetto anche senza il tutore, come la richiesta di separazione personale ex art.150 c.c. e la richiesta di interruzione della gravidanza ex art.13 della legge 194.78, nonché il potere di fare donazioni, che è escluso per il tutore (come per il genitore del minore) per la persona interdetta da lui rappresentata, ex art.777 c.c., essendo tuttavia in questo caso consentite, con le forme abilitative richieste, le liberalità in occasione di nozze a favore di discendenti dell’interdetto dell’inabilitato; e.2) tanto la dottrina quanto la giurisprudenza più recente, all’opposto, hanno assunto il tenore anodino del codice civile e della legislazione speciale (talvolta il tutore non può compiere l’atto, talaltra può invece farlo, se autorizzato dal giudice tutelare) come capace di consentire – al cospetto della necessità di compiere atti personalissimi appannaggio dell’interdetto – un intervento del tutore, senza poterlo escludere in modo assoluto e reciso; orientamento che ha trovato un crisma di autorevolezza nel 2007, in occasione del pronunciamento della Cassazione sul caso Englaro, laddove il tutore è stato assunto partecipe “con” l’interdetto (del quale si presuma ex post la conforme volontà siccome in qualche modo palesata ex ante) del potere di consentire l’interruzione dell’alimentazione artificiale che tenga in vita l’interdetto medesimo in stato vegetativo a cagione di una malattia che la scienza medica dichiara irreversibile in termini di potenziale guarigione o anche solo di possibile miglioramento delle relative condizioni di vita;
- il problema si pone – in parte – anche per gli atti dell’amministrato di sostegno, stante la regola residuale, di carattere generale, onde egli può compiere da solo tutti gli atti non espressamente esclusi dal decreto di nomina riconducibile al giudice tutelare, onde ben può accadere che – nei casi di amministrazione di sostegno particolarmente “ampia” – siano coinvolti anche taluni atti personalissimi per i quali è richiesto, in una qualche misura, l’intervento dell’amministratore di sostegno (in veste di rappresentante ex lege dell’amministrato), allorché il giudice tutelare abbia per l’appunto escluso la capacità del beneficiario amministrato di compierli in via autonoma; anche in questo caso, ai sensi del combinato disposto degli articoli 404 e 407 c.c. tanto l’amministratore di sostegno quanto il giudice tutelare devono sempre avere l’obiettivo di salvaguardare il primo gli interessi dell’amministrato e di tenere conto il secondo della persona dell’amministrato medesimo e dei relativi bisogni; valgono in questo caso le medesime considerazioni già spese per il caso di interdizione, potendo peraltro l’amministrato aver già espresso la propria volontà nell’atto di designazione anticipata;
- in ogni caso, nel silenzio del legislatore e dello stesso beneficiario, laddove il giudice tutelare non abbia diversamente disposto all’atto della nomina dell’amministratore di sostegno, si ritiene per lo più che il ridetto beneficiario conservi la possibilità di compiere autonomamente i c.d. atti personalissimi, tanto che la dottrina pone nel caso dell’amministrazione di sostegno un problema opposto a quello dell’interdizione e collocantesi ex ante rispetto a tale compimento, dovendosi verificare fino a che punto siano ammissibili decreti di nomina attraverso i quali il giudice tutelare sottragga appunto al beneficiario il compimento di tale tipologia di atti così avvinti alla pertinente persona, dovendo in particolare verificare – in punto di concreta modalità di procedere – fino a che punto il nominato amministratore possa sostituirsi o affiancare l’amministrato in scelte così personali; la dottrina medesima assume in proposito di dover procedere con modalità casistica e, dunque, atto per atto; in tema di matrimonio, mentre l’interdetto per infermità di mente non può contrarre matrimonio ex art.85 c.c., analoga disposizione non si rinviene per l’amministrato di sostegno, onde si pone il problema se – laddove egli non sia capace in via autonoma di prestare il proprio consenso alle nozze – il giudice tutelare possa munire il nominato amministratore di sostegno del potere di esprimerne la volontà o comunque di affiancarlo (con connotazione integrativa) nella espressione di tale voluntas nubendi, assumendosi in linea di principio inammissibile l’applicazione estensiva dell’art.85 c.c. anche all’amministrato di sostegno, stante l’effetto che ad essa andrebbe ricondotto di privarlo totalmente della capacità di contrarre matrimonio, e considerandosi invece (anche nella giurisprudenza di merito) più accettabile un potere integrativo in capo all’amministratore di sostegno; parimenti nel caso opposto di richiesta di separazione o di divorzio dal coniuge la giurisprudenza di merito assume ammissibile dotare l’amministratore di sostegno di poteri integrativi della volontà dell’amministrato, massime in ottica di garanzia della convenienza anche per lui della cornice economica che costituisce il risultato dell’operazione familiare; la decisione viene tuttavia sempre presa dal giudice tutelare che – nei casi più gravi – potrebbe scegliere di limitare in modo totalizzante la capacità dell’amministrato (con correlato aumento dei poteri dell’amministratore di sostegno) facendo applicazione dell’art.411, ultimo comma, c.c., onde il giudice tutelare, nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno, o anche successivamente, può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni (il pertinente provvedimento è assunto con decreto motivato a seguito di ricorso che può essere presentato anche dal beneficiario direttamente), e facendo conseguentemente applicazione dell’art.4, comma 5, della legge 70 in tema di divorzio, che prevede la nomina da parte del Presidente del Tribunale di un curatore speciale allorché il convenuto sia malato di mente o legalmente incapace, ma che si assume applicabile anche ai casi di incapacità giudiziale (interdizione e inabilitazione) e dunque, in forza del menzionato art.411, ultimo comma, c.c. anche all’amministrato di sostegno;
- il rapporto tra amministrazione di sostegno e compimento di atti personalissimi (o che comunque coinvolgono la sfera più intima della persona) viene dunque risolto in modo ancipite: h.1) nei casi più gravi di infermità o disabilità si applica la disciplina dell’art.411, ultimo comma, c.c., con estensione – nel provvedimento di nomina del giudice tutelare – all’amministrato di sostegno delle previsioni previste per l’interdetto; h.2) nel matrimonio o, fuori da questa peculiare fattispecie, nei casi meno gravi di perdita di capacità, la posizione dell’amministratore di sostegno si colloca nell’orbita dell’assistenza e dell’integrazione della volontà del beneficiario, senza privarlo in modo integrale della capacità di compierli.