Corte Costituzionale, sentenza 28 luglio 2023 n. 178
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018), nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi precisati in motivazione, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia;
va dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 2, della legge n. 69 del 2005, nella formulazione introdotta dall’art. 15, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione della delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117), nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano da almeno cinque anni e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi precisati in motivazione, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza di cui in epigrafe (reg. ord. n. 42 del 2021), la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 117 del 2019, «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
Per quanto il giudice rimettente formuli apparentemente le questioni con riferimento all’intero art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, dal contesto dell’ordinanza di rimessione risulta evidente che a essere censurata è in realtà la sola previsione di cui al comma 1, lettera c), di tale disposizione, la quale – nella formulazione applicabile ratione temporis al giudizio principale – consente in via generale di rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto emesso «ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno». A essere censurata è, in particolare, la mancata estensione di tale motivo di rifiuto alla situazione del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea, che tuttavia abbia legittimamente ed effettivamente dimora o residenza nel territorio italiano.
Secondo il giudice rimettente, tale mancata estensione contrasterebbe con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, all’art. 7 CDFUE, all’art. 8 CEDU e all’art. 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché con gli artt. 2, 3, e 27, terzo comma, Cost.
2.– Le questioni sono ammissibili.
2.1.– Non è fondata, in effetti, la prima eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, concernente l’allegato difetto di motivazione, da parte del giudice rimettente, circa lo stabile radicamento in Italia della persona ricercata.
Come già osservato nell’ordinanza n. 217 del 2021 (punto 5 del Considerato in diritto), il giudice a quo motiva infatti in modo sintetico, ma non implausibile, circa tale stabile radicamento.
2.2.– Neppure è fondata la seconda eccezione, relativa alla insufficiente motivazione circa il contrasto tra la disposizione censurata e i parametri costituzionali e sovranazionali evocati.
L’ordinanza infatti argomenta in maniera stringata ma del tutto comprensibile le ragioni del dedotto contrasto, riconducibili ad avviso del giudice rimettente: a) alla non corretta trasposizione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro; b) all’irragionevole disparità di disciplina tra il mandato di arresto finalizzato all’esecuzione della pena e quello finalizzato a consentire la partecipazione al processo in uno Stato estero dell’interessato; c) al pregiudizio alla funzione rieducativa della pena; d) alla violazione del rispetto della vita privata e familiare dello straniero.
2.3.– Né, infine, è fondata l’eccezione di omesso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata.
Il giudice rimettente osserva infatti, del tutto plausibilmente, che il tenore letterale della disposizione non consente all’autorità giudiziaria italiana di rifiutare la consegna di una persona residente non cittadina dell’Unione, per consentirle di scontare la pena in Italia.
3.– Si deve altresì escludere la necessità di una restituzione degli atti per una nuova valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione alla luce dello ius superveniens, rappresentato dalle modifiche apportate alla disposizione censurata (l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005) e a quella assunta dal rimettente quale tertium comparationis (l’art. 19 della medesima legge) ad opera, rispettivamente, degli artt. 15, comma 1, e 17, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione della delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117). E ciò per le ragioni già illustrate nell’ordinanza n. 217 del 2021 (punti 4 e 5 del Considerato in diritto), che debbono intendersi qui integralmente richiamate.
4.– Le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, nonché all’art. 27, terzo comma, Cost.
4.1.– L’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI prevede un motivo di non esecuzione facoltativa del mandato di arresto europeo allorché esso sia stato emesso «ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno».
4.2.– Nella versione applicabile ratione temporis nel procedimento principale, il censurato art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 prevedeva che la corte di appello potesse rifiutare la consegna «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
La disposizione censurata, dunque, consentiva alla corte d’appello di rifiutare la consegna soltanto di cittadini italiani, ovvero di cittadini di altro Stato membro residenti o dimoranti in Italia; escludendo con ciò implicitamente – ma inequivocabilmente – i cittadini di paesi terzi, pur se legittimamente ed effettivamente residenti o dimoranti in Italia.
4.3.– Il giudice rimettente ritiene che tale esclusione, operata dal legislatore italiano in sede di trasposizione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, ne abbia indebitamente ristretto l’ambito applicativo, con ciò violando gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
Inoltre, impedendo al cittadino di paese terzo già stabilmente radicato nel territorio italiano di scontare la propria pena detentiva in Italia, la disposizione censurata violerebbe, assieme, la finalità rieducativa della pena, imposta dall’art. 27, terzo comma, Cost., e il diritto alla vita privata e familiare dell’interessato, tutelato dagli artt. 7 CDFUE, 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, tutti vincolanti nell’ordinamento italiano in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. (nonché, per ciò che concerne l’art. 7 CDFUE, dello stesso art. 11 Cost.).
4.4.– Nella precedente ordinanza n. 217 del 2021 questa Corte, in sostanziale condivisione della prospettiva del giudice rimettente, ha chiesto anzitutto alla Corte di giustizia se sia compatibile con l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI – interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE – una disciplina, come quella posta dalla disposizione censurata, che precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo.
Nell’ordinanza menzionata, questa Corte ha in particolare sottolineato che, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI è funzionale ad accrescere le opportunità di reinserimento sociale del condannato nel territorio rispetto al quale questi ha già legami significativi; finalità, quest’ultima, che è del resto alla base anche della disciplina posta dalla decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio sul reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, la quale si applica tanto ai cittadini degli Stati membri dell’Unione, quanto a cittadini di Stati terzi (punto 8.3. del Considerato in diritto).
Inoltre, questa Corte ha osservato come la consegna di una persona, saldamente radicata nel territorio dello Stato richiesto, ad altro Stato perché sia ivi sottoposta all’esecuzione di una pena detentiva potrebbe determinare una violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, riconosciuto in particolare dall’art. 7 CDFUE e dall’art. 8 CEDU, i quali tutelano l’interesse della persona a che non siano recisi i propri legami familiari, affettivi e sociali stabiliti nel territorio dello Stato in cui abitualmente risiede o dimora; e ciò anche in conformità alla giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale l’esecuzione di una pena detentiva a grande distanza dalla residenza familiare del condannato può comportare la violazione dell’art. 8 CEDU, in ragione della conseguente difficoltà, per il detenuto e per i suoi familiari, di mantenere regolari e frequenti contatti, a loro volta importanti rispetto alle finalità risocializzanti della pena (punti 8.4. e 8.5. del Considerato in diritto).
Nella medesima ordinanza n. 217 del 2021, infine, questa Corte ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare – nell’ipotesi in cui ritenesse effettivamente incompatibile l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI con una disciplina come quella censurata dal giudice rimettente – sulla base di quali criteri e presupposti i legami del cittadino di paese terzo con il territorio italiano debbano essere considerati tanto significativi, da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna.
4.5.– Nella sentenza O. G. del 6 giugno 2023 (più ampiamente supra, punto 4 del Ritenuto in fatto), la Corte di giustizia ha anzitutto rammentato che il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri nel trasporre i motivi di non esecuzione facoltativa della consegna indicati nell’art. 4 – ivi incluso quello di cui al punto 6 – della decisione quadro 2002/584/GAI è limitato dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali della persona ricercata, come risulta del resto dall’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro.
Fra tali diritti fondamentali – ha proseguito la Corte di giustizia – va annoverato il rispetto del principio di uguaglianza di fronte alla legge, garantito dall’art. 20 CDFUE, che si applica allo stesso modo alle persone cittadine e non cittadine di uno Stato dell’Unione. Tale principio esige – non diversamente, del resto, dall’art. 3 Cost. – «che situazioni comparabili non siano trattate in modo diverso e che situazioni diverse non siano trattate allo stesso modo, a meno che un siffatto trattamento non sia obiettivamente giustificato» (paragrafo 42 della sentenza).
Poiché, come già sottolineato in varie precedenti sentenze, il motivo di non esecuzione facoltativa di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro è funzionale ad accrescere le possibilità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta che questa abbia scontato la pena, la Corte di giustizia ha osservato che i cittadini dell’Unione e i cittadini di Stati terzi che «presentino un grado di integrazione certo» nello Stato di esecuzione si trovano «in una situazione comparabile» quanto alle possibilità di rieducazione nello Stato medesimo (paragrafi 49 e 50).
Da ciò deriva, secondo la Corte di giustizia, l’incompatibilità con il diritto dell’Unione della disciplina di uno Stato membro che tratti in modo diverso i propri cittadini, quelli di altro Stato membro e quelli di Stati terzi, negando in modo assoluto e automatico a questi ultimi il beneficio del motivo di non esecuzione del mandato di arresto facoltativo previsto dall’art. 4, punto 6, e precludendo così all’autorità giudiziaria competente di valutare caso per caso se la persona ricercata, cittadina di uno Stato terzo, dimori o risieda nel territorio del proprio Stato, e se – in caso affermativo – i suoi legami con quest’ultimo Stato siano tanto significativi da far ritenere che l’obiettivo del suo reinserimento sociale possa essere meglio raggiunto ove la pena sia eseguita nel medesimo Stato (paragrafi 56 e 57 e dispositivo).
Rispondendo alla seconda questione posta da questa Corte, la Corte di giustizia ha poi precisato che – nel procedere alla valutazione caso per caso appena indicata – l’autorità giudiziaria dell’esecuzione dovrà valutare, in particolare, gli elementi indicati dal considerando n. 9 della decisione quadro 2008/909/GAI sul reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive, e in particolare «l’attaccamento della persona allo Stato membro di esecuzione, nonché la circostanza che tale Stato membro costituisce il centro della sua vita familiare e dei suoi interessi, tenuto conto, in particolare, dei suoi legami familiari, linguistici, culturali, sociali o, ancora, economici con detto Stato» (paragrafo 62), alla luce dell’opportunità che la persona condannata possa «mantenere contatti regolari e frequenti con la famiglia e i congiunti» al fine di favorire il suo reinserimento sociale (paragrafo 64).
La Corte ha, dunque, concluso che «l’articolo 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584 dev’essere interpretato nel senso che: per valutare se occorra rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso nei confronti del cittadino di un paese terzo che dimori o risieda nel territorio dello Stato membro di esecuzione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi concreti caratterizzanti la situazione di tale cittadino, idonei a indicare se esistano, tra quest’ultimo e lo Stato membro di esecuzione, legami che dimostrino che egli è sufficientemente integrato in tale Stato e che, pertanto, l’esecuzione, in detto Stato membro, della pena o della misura di sicurezza privative della libertà pronunciata nei suoi confronti nello Stato membro emittente contribuirà ad aumentare le sue possibilità di reinserimento sociale dopo che tale pena o misura di sicurezza sia stata eseguita. Tra tali elementi vanno annoverati i legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici che il cittadino del paese terzo intrattiene con lo Stato membro di esecuzione, nonché la natura, la durata e le condizioni del suo soggiorno in tale Stato membro» (paragrafo 68 e dispositivo).
4.6.– I chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia in seguito al rinvio pregiudiziale operato da questa Corte con l’ordinanza n. 217 del 2021 confermano dunque i dubbi di incompatibilità con lo stesso diritto dell’Unione – oltre che con la Costituzione italiana – della disciplina censurata.
L’esclusione assoluta e automatica del cittadino di uno Stato terzo dal beneficio del rifiuto della consegna per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza subordinata all’impegno a eseguire detta pena o misura in Italia – beneficio di cui godono, invece, tanto il cittadino italiano, quanto, a determinate condizioni, il cittadino di altro Stato membro – è stato ritenuto dalla Corte di giustizia incompatibile con il principio di uguaglianza di fronte alla legge sancito dall’art. 20 CDFUE e, dunque, con lo stesso art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, letto alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro, che riafferma l’obbligo di rispettare «i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea» nell’esecuzione della stessa.
Da ciò deriva immediatamente la contrarietà della disciplina censurata agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI.
Inoltre, tale disciplina contrasta con la finalità rieducativa della pena imposta dall’art. 27, terzo comma, Cost. – finalità, del resto, cui la stessa Corte di giustizia si richiama, sottolineando che il reinserimento sociale della persona condannata rappresenta la ratio ispiratrice del motivo di non esecuzione facoltativa di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, di cui l’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 costituisce specifica trasposizione nell’ordinamento italiano. L’esecuzione all’estero della pena o di una misura di sicurezza inflitta o disposta a carico di una persona che abbia saldamente stabilito in Italia le proprie relazioni familiari, affettive e sociali finisce, infatti, per ostacolare gravemente, una volta terminata l’esecuzione della pena e della misura, il reinserimento sociale della persona, cui esse debbono tendere per mandato costituzionale (sul necessario orientamento alla risocializzazione anche delle misure di sicurezza, oltre che delle pene, sentenza n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Restano assorbite le ulteriori censure formulate dal rimettente.
5.– Alla luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia, a tali vulnera deve essere posto rimedio affidando all’autorità giudiziaria dell’esecuzione – e dunque, nell’ordinamento italiano, alla corte d’appello competente in forza dell’art. 5 della legge n. 69 del 2005 – il compito di valutare se la persona ricercata, cittadina di uno Stato terzo, effettivamente (e legittimamente) abbia residenza o dimora nel territorio italiano, e se – in caso affermativo – essa risulti «sufficientemente integrata» (sentenza O. G., paragrafi 61 e 68) nello Stato italiano, sì da imporre che l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza avvenga in Italia, in modo da non pregiudicare la funzione rieducativa di detta pena o misura.
La valutazione relativa a tale sufficiente integrazione dovrà, a sua volta, essere effettuata tenendo conto dei criteri indicati dalla stessa Corte di giustizia al paragrafo 68 della sentenza O. G. e reiterati nel dispositivo: e dunque dei «legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici» che il cittadino del paese terzo intrattiene con lo Stato italiano, nonché della natura, della durata e delle condizioni del suo soggiorno in Italia.
Un rilievo importante in questa valutazione, infine, dovrà essere riconosciuto al possesso, da parte della persona ricercata, dello status di soggiornante di lungo periodo, previsto dalla direttiva 2003/109/CE e dall’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero): status che la stessa sentenza O. G. afferma costituire «un autentico strumento di integrazione sociale», costituente come tale «un forte indizio del fatto che i legami stabiliti dalla persona ricercata con lo Stato membro di esecuzione sono sufficienti a giustificare il rifiuto di eseguire il mandato d’arresto europeo» (paragrafo 67).
In definitiva, l’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge n. 117 del 2019, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi appena precisati, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia.
6.– Come sopra rammentato (punto 3 del Considerato in diritto), la disposizione censurata è stata modificata dal d.lgs. n. 10 del 2021. Il suo contenuto normativo è oggi confluito nel comma 2 dell’art. 18-bis, che testualmente prevede: «[q]uando il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, la corte di appello può rifiutare la consegna della persona ricercata che sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni, sempre che disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
Tale disposizione è affetta, da un lato, dal medesimo vizio di legittimità costituzionale che inficiava il previgente art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, non prevedendo alcun motivo di rifiuto a favore del cittadino di uno Stato terzo che pure risulti risiedere legittimamente ed effettivamente nel territorio italiano. Il che giustifica una pronuncia di illegittimità consequenziale di tale nuova disposizione, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
Dall’altro lato, la disposizione oggi vigente prevede però, per l’ipotesi in cui la persona ricercata sia cittadina di altro Stato membro dell’Unione, che la sua consegna ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà personale possa essere rifiutata dalla corte d’appello soltanto quando essa risieda o dimori legittimamente ed effettivamente nel territorio italiano «da almeno cinque anni».
Al riguardo, occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, uno Stato membro ben può subordinare la possibilità del rifiuto della consegna di una persona cittadina di altro Stato membro, ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, alla condizione che tale persona abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per almeno cinque anni nello Stato di esecuzione (sentenza Wolzenburg, paragrafo 74).
La sentenza O. G. ha, ora, chiarito che un’analoga condizione per il rifiuto della consegna può essere prevista dallo Stato membro anche con riferimento alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, purché essa «non ecceda quanto necessario a garantire che la persona ricercata presenti un grado di integrazione certo nello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 52).
L’esigenza di uguaglianza di trattamento tra cittadino di altro Stato membro e cittadino di uno Stato terzo, su cui si impernia l’intera sentenza O. G., vieta evidentemente che a quest’ultimo possa essere riservato un trattamento più favorevole di quello (legittimamente) riservato dal legislatore nazionale al cittadino di altro Stato membro.
Conseguentemente, la dichiarazione di illegittimità costituzionale che investe la nuova formulazione dell’art. 18-bis deve essere limitata alla situazione in cui la persona ricercata, cittadina di uno Stato terzo, sia legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni.
Ai sensi dunque dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’art. 18-bis, comma 2, della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 10 del 2021, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano da almeno cinque anni e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi poc’anzi precisati, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia.