Corte Costituzionale, sentenza 10 marzo 2022 n. 63
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Conviene premettere all’esame del merito delle questioni prospettate un inquadramento relativo allo sviluppo storico della disposizione censurata (infra, punti da 3.1. a 3.5.), alla sua interpretazione ad opera della giurisprudenza penale (infra, punto 3.6.) e agli obblighi internazionali di cui la disposizione stessa costituisce attuazione (infra, punto 3.7.).
3.1.– Il delitto comunemente qualificato come “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” fece la propria comparsa nell’ordinamento italiano in sede di conversione del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia di asilo), ad opera della legge 28 febbraio 1990, n. 39, altrimenti nota come “legge Martelli”. L’art. 3, comma 8, del d.l. n. 416 del 1989, come convertito, stabiliva: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente decreto è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire due milioni. Se il fatto è commesso a fine di lucro, ovvero da tre o più persone in concorso tra loro, la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da lire dieci milioni a lire cinquanta milioni».
In questa formulazione, la fattispecie delittuosa base era dunque già configurata come reato a consumazione anticipata, caratterizzata dal compimento di attività «dirette» a favorire l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, ed era sanzionata in particolare con la reclusione «fino a due anni»: con un minimo – dunque – di quindici giorni risultante dalla regola generale di cui all’art. 23 cod. pen. Erano poi previste due ipotesi aggravate, integrate dal fine di lucro e dalla commissione da parte di tre o più persone, sanzionate con l’autonomo quadro edittale della reclusione da due a sei anni e da una multa assai più severa rispetto a quella prevista per il fatto base.
3.2.– Il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione confluì poi nell’art. 12 t.u. immigrazione, recependo la formulazione della previsione incriminatrice contenuta nell’art. 10 della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), altrimenti nota come “legge Turco-Napolitano”, la quale aveva al contempo abrogato il menzionato art. 3, comma 8, del d.l. n. 416 del 1989 e conferito delega al Governo per l’adozione del t.u. immigrazione.
Nella versione originaria dell’art. 12 t.u. immigrazione, la fattispecie delittuosa base di cui al comma 1 restò strutturalmente inalterata rispetto alla previsione contenuta nella “legge Martelli”, ma le pene furono innalzate. In particolare, la reclusione divenne «fino a tre anni», mantenendosi peraltro il minimo di quindici giorni derivante dall’art. 23 cod. pen.
Furono invece previste, oltre alle due già contemplate dalla “legge Martelli”, numerose circostanze aggravanti al comma 3, il cui testo originario recitava: «[s]e il fatto di cui al comma 1 è commesso a fine di lucro o da tre o più persone in concorso tra loro, ovvero riguarda l’ingresso di cinque o più persone, e nei casi in cui il fatto è commesso mediante l’utilizzazione di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni e della multa di lire trenta milioni per ogni straniero di cui è stato favorito l’ingresso in violazione del presente testo unico. Se il fatto è commesso al fine di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione, ovvero riguarda l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni e della multa di lire cinquanta milioni per ogni straniero di cui è stato favorito l’ingresso in violazione del presente testo unico».
Nel 1998, dunque, compare per la prima volta un’ipotesi aggravata assai simile a quella oggi all’esame, relativa al fatto compiuto «mediante l’utilizzazione di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti». Per tale ipotesi era prevista – come per quelle preesistenti del fatto commesso a fine di lucro e della commissione da parte di tre o più persone, nonché per l’altra nuova ipotesi dell’ingresso di cinque o più persone – la reclusione da quattro a dodici anni, unitamente a una multa determinata in misura fissa per ogni straniero di cui fosse stato favorito l’ingresso.
3.3.– L’art. 12 t.u. immigrazione fu poi incisivamente modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), la cosiddetta “legge Bossi-Fini”.
Il comma 1 fu arricchito della previsione degli atti «diretti a procurare l’ingresso illegale in un altro Stato membro diverso dall’Italia», e la pena pecuniaria divenne anch’essa proporzionale al numero di stranieri oggetto della condotta delittuosa.
Quanto al comma 3, esso fu integralmente riscritto nei termini seguenti: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l’ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona. La stessa pena si applica quando il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti».
Furono poi aggiunti altri due commi, che contemplavano ulteriori ipotesi aggravanti.
In particolare, il nuovo comma 3-bis prevedeva: «[l]e pene di cui al comma 3 sono aumentate se: a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; b) per procurare l’ingresso o la permanenza illegale la persona è stata esposta a pericolo per la sua vita o la sua incolumità; c) per procurare l’ingresso o la permanenza illegale la persona è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante».
Il nuovo comma 3-ter, dal canto suo, recitava: «[s]e i fatti di cui al comma 3 sono compiuti al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni e la multa di 25.000 euro per ogni persona».
Di fronte al dato letterale del nuovo comma 3, che – subordinatamente a una clausola espressa di sussidiarietà rispetto ad altri più gravi reati – reiterava pressoché integralmente la descrizione della condotta contenuta nel comma 1 arricchendola di ulteriori requisiti, la giurisprudenza si orientò a considerare le fattispecie ivi previste come figure autonome di reato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 25 gennaio 2006, n. 11578). Tra queste fattispecie comparivano, ancora, il fine di profitto, la commissione da parte di tre o più persone, nonché le due ipotesi ora all’esame – utilizzazione di servizi internazionali di trasporto e utilizzazione di documenti «contraffatti ovvero alterati o comunque illecitamente ottenuti».
La commissione da parte di tre o più persone passò invece a integrare l’ipotesi aggravata prevista dal nuovo comma 3-bis, accanto a quella dell’ingresso o della permanenza illegale di cinque o più persone e a quelle, di nuova introduzione, dell’esposizione della persona trasportata a pericolo per la vita o l’incolumità, ovvero a trattamento inumano o degradante. Per queste ipotesi veniva disposto che le pene previste dal comma 3 fossero ulteriormente aumentate.
Un autonomo e più severo quadro edittale (comprensivo, in particolare, della pena della reclusione da cinque a quindici anni) veniva invece previsto per le nuove circostanze aggravanti di cui al comma 3-ter, integrate dal fine di destinare le persone trasportate alla prostituzione, allo sfruttamento sessuale o allo sfruttamento di minori.
3.4.– Ulteriori modifiche furono apportate all’art. 12 t.u. immigrazione dall’art. 1-ter del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), aggiunto in sede di conversione dalla legge 12 novembre 2004, n. 271.
In particolare, la pena detentiva per la fattispecie di cui al comma 1 fu elevata, stabilendosi la reclusione da uno a cinque anni.
Nel comma 3 si conservò soltanto il fine di trarre profitto anche indiretto, prevedendosi una cornice edittale – per ciò che concerne la pena detentiva – da quattro a quindici anni di reclusione.
Le ipotesi in questa sede all’esame (utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di documenti contraffatti, alterati o comunque illecitamente ottenuti) furono a questo punto trasferite nel comma 3-bis, accanto a quelle che già erano state collocate in quest’ultimo comma dalla “legge Bossi-Fini” (fatto concernente l’ingresso o permanenza illegale di cinque o più persone; pericolo alla vita o all’incolumità fisica della persona trasportata; sottoposizione della stessa a trattamenti inumani o degradanti), prevedendosi per tutte queste ipotesi l’aumento della pena stabilita dai commi 1 e 3.
Conseguentemente, ai fini della determinazione del quadro edittale applicabile, decisivo divenne il discrimine tra fatto commesso senza fine di lucro (rilevante ai sensi del comma 1, e punito con la reclusione da uno a cinque anni, su cui operare l’aumento sino a un terzo ex art. 64 cod. pen.) e fatto commesso con fine di lucro (rilevante ai sensi del comma 3, e punito con la reclusione da cinque a quindici anni, su cui operare l’ulteriore aumento sino a un terzo).
Infine, per le ipotesi di cui al comma 3-ter, rimaste inalterate nella loro definizione rispetto alla “legge Bossi-Fini”, fu previsto l’aumento da un terzo alla metà delle pene detentive stabilite dal comma 3.
3.5.– L’art. 12 t.u. immigrazione fu, una volta ancora, riformulato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), acquisendo così l’attuale fisionomia.
In particolare, il comma 1 recita: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona».
La legge n. 94 del 2009 ha, dunque, confermato – in relazione alla fattispecie base di cui al primo comma – la cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione già introdotta dalla legge n. 271 del 2004.
Il comma 3 è, ora, così formulato: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui:
- a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone;
- b) la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
- c) la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
- d) il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti;
- e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti».
Nel comma 3 così riformulato sono state dunque ricollocate cinque diverse ipotesi: le quattro già regolate dalla legge n. 271 del 2004 nel comma 3-bis – tra cui quella descritta alla lettera d), che comprende le due sottoipotesi oggetto di censura in questa sede (utilizzazione di servizi internazionali di trasporto e utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti) –; ed una quinta, descritta alla lettera e), di nuovo conio. Per tutte queste ipotesi la pena è stata ulteriormente innalzata, prevedendosi una nuova cornice edittale da cinque a quindici anni di reclusione, oltre alla multa di 15.000 euro per ogni persona.
Il comma 3-bis riformulato dispone che, in caso di concorso tra due o più delle ipotesi di cui al comma precedente, la pena ivi prevista sia aumentata.
Il comma 3-ter, parimenti riformulato, prevede poi che «[l]a pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3:
- a) sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento;
- b) sono commessi al fine di trarne profitto, anche indiretto».
Ai sensi del nuovo comma 3-quater, infine, eventuali circostanze attenuanti (diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 cod. pen.) non possono essere ritenute prevalenti o equivalenti rispetto alle circostanze aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-quater, le relative diminuzioni di pena dovendosi operare sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.
3.6.– Risolvendo un contrasto giurisprudenziale sul punto, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto natura di circostanze aggravanti anche alle ipotesi descritte dal comma 3, così come oggi formulato, tra le quali dunque anche quelle – inserite nella lettera d) – oggetto del presente giudizio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 21 giugno 2018, n. 40982).
Pertanto, è possibile il loro bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti ai sensi dell’art. 69 cod. pen., e la conseguente commisurazione della pena – in caso di equivalenza o prevalenza delle attenuanti – a partire dall’assai più mite quadro edittale previsto dal comma 1 (caratterizzato, in particolare, dalla reclusione da uno a cinque anni, anziché da cinque a quindici anni); e ciò sempre che non ricorrano due o più di tali aggravanti ovvero il fine di profitto, operando in tal caso il divieto di equivalenza o prevalenza delle attenuanti stabilito dal comma 3-quater.
3.7.– L’art. 12 t.u. immigrazione, e in particolare i suoi commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, investono una materia interessata da obblighi assunti in sede di diritto internazionale e imposti dal diritto dell’Unione europea.
3.7.1.– Sul fronte del diritto internazionale, viene anzitutto in considerazione il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria (cosiddetto Protocollo di Palermo), il cui art. 6, paragrafo 1, obbliga gli Stati parte a criminalizzare tra l’altro, allorché il fatto sia commesso intenzionalmente e a scopo di profitto, il «traffico di migranti» («smuggling of migrants» nella versione ufficiale inglese, «trafic illicite de migrants» in quella francese), a sua volta definito dall’art. 3, lettera a), del medesimo Protocollo come «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o altro tipo di vantaggio materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente».
L’indicato art. 6, al paragrafo 3, impone poi a ciascuno Stato parte di adottare le misure legislative e di altra natura che si rendano necessarie a conferire il carattere di circostanze aggravanti, tra l’altro, del reato di traffico di migranti alla messa in pericolo della vita o dell’incolumità dei migranti interessati (lettera a), ovvero alla loro sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, incluso lo sfruttamento (lettera b).
Gli obblighi di criminalizzazione stabiliti dal Protocollo in parola sono, dunque, limitati a condotte commesse a scopo di profitto, coerentemente con lo stesso uso linguistico dei termini “smuggling” (letteralmente, contrabbando) e “trafic illicite”, che evocano immediatamente l’attività di gruppi criminali organizzati; mentre l’obbligo di prevedere specifici aggravamenti di pena sussiste solo per le ipotesi coperte oggi, nel diritto italiano, dall’art. 12, comma 3, lettere b) e c), t.u. immigrazione, relative rispettivamente all’esposizione a pericolo per la vita o l’incolumità del migrante e alla sua sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti.
3.7.2.– Quanto al diritto dell’Unione europea, gli obblighi di incriminazione in materia – già anticipati nel 1990 dalla Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen – sono essenzialmente quelli stabiliti dal combinato disposto della decisione quadro 2002/946/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, e dalla direttiva, adottata in pari data, 2002/90/CE del Consiglio, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (che assieme formano il cosiddetto “Facilitators Package”).
L’art. 1, paragrafo 1, della decisione quadro prevede che ciascuno Stato membro adotti le misure necessarie affinché gli illeciti definiti, in particolare, nell’art. 1 della direttiva 2002/90/CE siano passibili di «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che possono comportare l’estradizione».
L’art. 1 della direttiva, dal canto suo, dispone che ciascuno Stato membro adotta sanzioni appropriate, tra l’altro, «nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all’ingresso o al transito degli stranieri».
L’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro prevede poi che ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché gli illeciti definiti, tra l’altro, all’art. 1, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2002/90/CE, «se perpetrati a scopo di lucro, siano passibili di pene privative della liberta`, il cui massimo non può essere inferiore a 8 anni, quando sono commessi in una delle circostanze seguenti:
– il reato e` commesso da un’organizzazione criminale, quale definita nell’azione comune 98/733/GAI;
– la commissione del reato mette in pericolo la vita delle persone che ne sono vittime».
4.– Ciò premesso, le questioni devono essere ritenute fondate con riferimento a entrambi i profili di censura formulati dal rimettente.
4.1.– Cuore di tali censure, ampiamente approfondite dalla parte e dagli amici curiae, è l’asserita manifesta irragionevolezza dell’aumento della pena detentiva (nei termini di una quintuplicazione del minimo, che passa da uno a cinque anni, e di una triplicazione del massimo, che passa da cinque a quindici anni) stabilita per le due ipotesi aggravate all’esame, rispetto a quella prevista per la fattispecie base di cui all’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione. Tale manifesta irragionevolezza si tradurrebbe, nella prospettazione del rimettente, nella comminatoria legislativa di una pena manifestamente sproporzionata sia alla intrinseca gravità della tipologia di fatti sanzionati, sia alla pena prevista, appunto, per la fattispecie base di reato di cui al comma 1.
In base alla costante giurisprudenza di questa Corte (per una più estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019), ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 136 e n. 73 del 2020, n. 284 e n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n. 341 del 1994). Il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità (da ultimo, sentenza n. 28 del 2022).
In applicazione di tali principi, occorre dunque verificare se l’aumento della pena edittale previsto per le due ipotesi aggravate all’esame, nei termini sopra descritti, sia tale da vincolare il giudice a irrogare pene manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità dei fatti riconducibili a quelle figure normative.
4.2.– Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare che l’intera gamma delle ipotesi delittuose descritte dall’art. 12 t.u. immigrazione ha quale comune oggetto di tutela l’ordinata gestione dei flussi migratori: interesse che questa Corte ha da tempo definito quale «bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata» (sentenza n. 250 del 2010 e ivi numerosi precedenti in senso conforme), quali, in particolare, gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse (limitate) del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica.
Precisamente alla tutela di tali interessi sono funzionali, del resto, gli obblighi stabiliti in materia dall’Unione europea, e segnatamente quelli discendenti dal “Facilitators Package” poc’anzi menzionato (supra, punto 3.7.2.), che comprendono l’obbligo per gli Stati membri di prevedere «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive» a carico, in particolare, di chi intenzionalmente aiuti un cittadino di uno Stato terzo a entrare o a transitare illegalmente nel territorio di uno Stato membro.
4.3.– Nell’adempimento di tali obblighi di matrice europea, il legislatore italiano ha ritenuto di apprestare una sanzione penale di carattere detentivo, in particolare prevedendo a partire dal 2004 (supra, punto 3.4.) una cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione per tale condotta, integrante l’ipotesi base di cui all’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione.
La cornice edittale si innalza però bruscamente – da cinque a quindici anni di reclusione – nelle ipotesi aggravate contemplate dal comma 3 del medesimo articolo, con ulteriori aumenti di pena (più sopra analiticamente descritti: punto 3.5.) nelle ipotesi di cui ai successivi commi 3-bis e 3-ter. Tali aumenti di pena – che in termini percentuali sono notevolmente superiori a quelli che ordinariamente connotano le fattispecie aggravate rispetto alle corrispondenti figure base di reato – si ricollegano chiaramente, nella prospettiva del legislatore, alla dimensione plurioffensiva delle ipotesi ivi contemplate, il cui orizzonte di tutela trascende di gran lunga quello dell’ordinata gestione dei flussi migratori. Al punto che questa Corte ha avuto modo di affermare, in relazione alle disposizioni di cui ai commi 3 e 3-ter dell’art. 12 t.u. immigrazione, che esse «sono volte anzitutto, anche se non esclusivamente, a tutelare le persone trasportate, che spesso versano in stato di bisogno, anche estremo» (sentenza n. 142 del 2017).
Ciò appare evidente rispetto alle due ipotesi aggravate previste dalle lettere b) e c) del comma 3, integrate dall’essere stata la persona trasportata esposta rispettivamente a un pericolo per la propria vita o incolumità, e addirittura a trattamenti inumani o degradanti: ipotesi, entrambe, che non possono non richiamare alla mente le drammatiche immagini di viaggi su imbarcazioni di fortuna e sovraffollate, o in precari nascondigli in celle frigorifere destinate al trasporto di merci, che spesso sfociano in eventi fatali. Le due ipotesi sono, d’altronde, oggetto di obblighi sovranazionali di maggiore punibilità: il Protocollo di Palermo richiede per entrambe un aggravamento di pena (supra, punto 3.7.1.), mentre il “Facilitators Package” impone per la prima ipotesi l’adozione di pene «privative della libertà, il cui massimo non può essere inferiore a otto anni» (supra, punto 3.7.2.).
Parimenti, la fattispecie aggravata di cui al comma 3-bis, lettera a) – caratterizzata dal fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione ovvero allo sfruttamento sessuale o lavorativo, e confinante con la fattispecie di tratta di persone di cui all’art. 601 cod. pen., quest’ultima punita con la reclusione da otto a venti anni – appare calibrata sulle esigenze di tutela dello straniero assai più che sul controllo dei flussi migratori, che pure resta sullo sfondo dell’incriminazione come in ogni altra ipotesi disciplinata dall’art. 12 t.u. immigrazione.
Ma una dimensione plurioffensiva, seppure in diversa direzione, è caratteristica anche di altre ipotesi aggravate previste dall’art. 12 t.u. immigrazione. Le fattispecie aggravate di cui al comma 3, lettera a) (fatto riguardante l’ingresso o la permanenza illegale di cinque o più persone), lettera e) (disponibilità di armi o materie esplodenti da parte degli autori del fatto), nonché lettera d) all’inciso iniziale (fatto commesso da tre o più persone in concorso tra loro) appaiono tutte evocare, secondo le verosimili intenzioni del legislatore, scenari di coinvolgimento di organizzazioni criminali attive nel traffico internazionale di migranti: ipotesi rispetto alle quali la decisione quadro 2002/946/GAI richiede, ancora, allo Stato membro di adottare pene privative della libertà non inferiori, nel massimo, a otto anni (supra, punto 3.7.2.).
4.4.– Occorre, a questo punto, verificare se possa analogamente trovare una ragionevole giustificazione la cornice edittale, drasticamente più severa rispetto a quella prevista per la fattispecie base, stabilita per le due sottoipotesi previste dal comma 3, lettera d), che sono oggi sottoposte all’esame di questa Corte.
Al riguardo, occorre preliminarmente sgomberare il campo dall’erroneo argomento addotto dall’Avvocatura generale dello Stato sulla base di un’isolata pronuncia della Corte di cassazione (sezione prima penale, sentenza 25 marzo 2014, n. 40624), secondo cui le ipotesi aggravate di cui al comma 3 – comprensive anche di quelle in esame – sarebbero strutturate quali reati di danno, implicando l’effettivo ingresso dello straniero nel territorio dello Stato. Come emerge dall’inequivoco tenore letterale del comma 3, e come ormai riconosciuto dalle stesse sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 21 giugno 2018, n. 40982) nonché, da epoca ben anteriore, da questa stessa Corte (sentenza n. 331 del 2011), tutte le fattispecie previste dall’art. 12 t.u. immigrazione sono strutturate quali reati “a consumazione anticipata”, che si perfezionano con il solo compimento di «atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri», senza che tale scopo debba necessariamente essere conseguito dall’agente.
Per altro verso, si è sottolineato poc’anzi come queste ipotesi non fossero previste dall’art. 6, comma 8, della “legge Martelli” (supra, punto 3.1.), e abbiano invece fatto la propria comparsa nell’art. 12 t.u. immigrazione come configurato dalla “legge Turco-Napolitano”, in cui quella originaria disciplina confluì (supra, punto 3.2.), accanto a varie altre circostanze aggravanti mantenutesi nelle successive versioni dello stesso art. 12. Nessuna illustrazione della ratio delle due ipotesi all’esame si rinviene, però, nei lavori preparatori di quella legge.
4.4.1.– L’individuazione di una (qualsivoglia) ratio dell’aggravamento di pena rispetto alla fattispecie base è, in verità, particolarmente ardua rispetto all’ipotesi dell’utilizzazione di servizi internazionali di trasporto.
Non pare, infatti, ragionevolmente ravvisabile alcun surplus di disvalore del fatto commesso mediante l’utilizzazione di servizi internazionali di trasporto rispetto alla generalità dei fatti riconducibili alla fattispecie base descritta nel comma 1: una tale modalità di commissione non offende alcun bene giuridico ulteriore rispetto a quello tutelato dal comma 1 (l’ordinata gestione dei flussi migratori), né rappresenta una modalità di condotta particolarmente insidiosa o tale da creare speciali difficoltà di accertamento alla polizia di frontiera.
Argomenta in proposito l’Avvocatura generale dello Stato che i vettori internazionali di trasporto, per «evidenti esigenze di speditezza», non potrebbero essere assoggettati a «lunghi e penetranti controlli». Ma a ciò è agevole replicare che i passeggeri che utilizzano servizi internazionali di trasporto (linee aeree, traghetti, autobus, treni), nella normalità dei casi, devono necessariamente sottoporsi a tutti gli ordinari controlli di frontiera finalizzati primariamente a evitare ingressi non autorizzati nel territorio dello Stato; controlli che, invece, vengono elusi qualora lo straniero utilizzi altri strumenti per superare clandestinamente i confini.
4.4.2.– Quanto all’utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti, il discorso è parzialmente diverso.
Non v’è dubbio, infatti, che il possesso e l’uso di documenti totalmente o parzialmente falsi, o anche solo illecitamente ottenuti (presumibilmente, a mezzo di un’attività integrante altri reati), conferisca alla condotta una connotazione offensiva ulteriore rispetto a quella propria della fattispecie base. La “fede pubblica”, individuata dal codice penale come bene giuridico dell’intera classe dei reati di falso, evoca in effetti esigenze di tutela di interessi di grande rilievo per l’ordinamento e la società nel suo complesso, a cominciare dall’ordine e dalla sicurezza pubblica, i quali richiedono la veritiera identificazione di tutte le persone presenti nel territorio nazionale.
Ciò che sfugge a ogni plausibile giustificazione è, tuttavia, l’entità dello scarto tra la pena prevista per la fattispecie base e quella ora all’esame, peraltro progressivamente accresciutosi dal 1998 a oggi per effetto del succedersi vorticoso di novelle di cui si è dettagliatamente dato conto poc’anzi (supra, punti da 3.2. a 3.5.).
In effetti, la generalità dei delitti di falsità in atti e personali previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del Libro II del codice penale è punita con pene che, nel minimo, non oltrepassano la soglia di un anno di reclusione; e lo stesso art. 6, comma 6-bis, t.u. immigrazione, che incrimina la contraffazione o alterazione di permessi di soggiorno o di altri documenti correlati alla presenza legittima dello straniero nel territorio nazionale, prevede una cornice edittale da uno a tre anni di reclusione. Il solo delitto di possesso e fabbricazione di documenti falsi validi per l’espatrio di cui all’art. 497-bis cod. pen. – introdotto con il decreto-legge 27 luglio 2005, n 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155, all’indomani degli attentati di Londra del 7 e 21 luglio 2005 con lo scopo di ostacolare gli spostamenti transfrontalieri di persone coinvolte in attività terroristiche – prevede un minimo di due anni e un massimo di cinque anni di reclusione, limitatamente però al possesso di documenti «falsi»: con esclusione, dunque, di quelli autentici, ma «illecitamente ottenuti», pure abbracciati dall’ipotesi aggravata ora all’esame.
Per quanto la fattispecie aggravata in esame configuri un reato complesso, la previsione di una pena minima di cinque anni, e di una massima di quindici anni di reclusione per un fatto ordinariamente punibile con la reclusione da uno a cinque anni, solo in ragione dell’utilizzazione di documenti contraffatti, alterati o anche soltanto illecitamente ottenuti presenta, dunque, tratti di assoluta anomalia “intrasistematica” rispetto alle scelte sanzionatorie tanto del codice penale, quanto della legislazione di settore. Una simile anomalia non può che tradursi in una valutazione di manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto per l’ipotesi aggravata all’esame.
E ciò sulla base del medesimo ordine di considerazioni che ha condotto questa Corte, nella sentenza n. 236 del 2016, a considerare manifestamente sproporzionato l’identico quadro edittale della reclusione da cinque a quindici anni previsto dall’art. 567, secondo comma, cod. pen. per il delitto di alterazione di stato compiuto mediante «false certificazioni, false attestazioni o altre falsità»: modalità di condotta, queste ultime, pure certamente offensive della fede pubblica, in un settore così delicato dell’ordinamento come lo stato civile; ma non tali da poter ragionevolmente giustificare il drastico aumento di pena rispetto alla ordinaria ipotesi di alterazione di stato, prevista dal primo comma dell’art. 567 cod. pen.
4.5.– Le conclusioni sin qui raggiunte sono, peraltro, corroborate da un’ulteriore considerazione.
Dalla “legge Martelli” in poi, la norma incriminatrice su cui si è incardinato il contrasto all’immigrazione clandestina (l’art. 6, comma 8, del d.l. n. 416 del 1989, come convertito, e poi l’art. 12 t.u. immigrazione) ha progressivamente differenziato, con sempre maggiore nettezza (supra, punti da 3.1. a 3.5.), il trattamento sanzionatorio di due distinte classi di condotte: da un lato, l’aiuto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato compiuto in favore di singoli stranieri, per finalità in senso lato altruistiche; e dall’altro, l’attività posta in essere a scopo di lucro da gruppi criminali organizzati nei confronti di un numero più o meno ampio di migranti destinati a essere trasportati illegalmente nel territorio dello Stato.
Il ben maggiore rigore sanzionatorio previsto per la seconda classe di condotte riflette l’evidente distinzione, sul piano criminologico, tra due fenomeni radicalmente diversi, come questa Corte ha avuto modo di rimarcare già nella sentenza n. 331 del 2011. Nel dichiarare costituzionalmente illegittima la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per tutte le ipotesi abbracciate dall’art. 12 t.u. immigrazione, la Corte ha infatti osservato che «le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante».
Come sopra rammentato (punto 3.7.), d’altronde, i due “tipi” criminologici sono tenuti ben distinti anche dalle fonti sovranazionali vincolanti per il nostro Paese. Il Protocollo di Palermo ha unicamente di mira il fenomeno del traffico internazionale di migranti, gestito per lo più da grandi organizzazioni criminali che ricavano ingenti profitti da tale attività; mentre il “Facilitators Package” dell’Unione europea mira sì a colpire entrambi i fenomeni (rispetto all’obiettivo del controllo dei flussi migratori all’interno, in particolare, dell’area Schengen), ma calibra i propri obblighi di incriminazione e di punizione in maniera distinta per le due tipologie di condotte, riservando l’obbligo di adottare severe sanzioni privative della libertà soltanto a quelle riconducibili al traffico internazionale di migranti.
Del tutto diversa appare, del resto, la posizione dello straniero nella struttura di queste due macroipotesi. Rispetto al favoreggiamento “individuale”, o “altruistico”, abbracciato nella legge italiana dall’art. 12, comma 1, t.u. immigrazione, lo straniero il cui ingresso illecito viene facilitato compare quale soggetto nella sostanza “beneficiario” della condotta illecita, i suoi interessi restando comunque estranei al fuoco della tutela apprestata dalla disposizione, tutta incentrata sul bene giuridico dell’ordinata gestione dei flussi migratori. Rispetto invece a svariate ipotesi aggravate previste dai commi 3, 3-bis e 3-ter, lo straniero assurge indubitabilmente a titolare degli altri beni giuridici di volta in volta tutelati, costituendo anzitutto la “vittima” della condotta criminosa: esposta ora a pericolo per la propria vita o incolumità, ora a trattamenti inumani e degradanti, ora al rischio di essere avviata alla prostituzione o sfruttata in attività lavorative, e comunque – nel caso ordinario in cui la condotta sia compiuta con finalità di profitto – costretta a sborsare ingenti somme di denaro in cambio dell’aiuto a varcare le frontiere.
Ebbene, la parificazione ai fini sanzionatori delle due condotte ora all’esame di questa Corte – utilizzo di servizi internazionali di trasporto, e di documenti contraffatti, alterati o illecitamente ottenuti – a numerose altre condotte coerenti con la tipologia criminosa del traffico internazionale di migranti costituisce una scelta legislativa manifestamente irragionevole.
Infatti, né l’una né l’altra delle condotte ora all’esame, allorché compiute senza scopo di lucro, sono plausibilmente indicative del coinvolgimento dell’agente in un’attività di traffico internazionale di migranti, risultando per contro ordinariamente compatibili con situazioni in cui lo straniero venga aiutato a entrare illegalmente in Italia per finalità assai lontane da quelle del traffico internazionale: ciò su cui già aveva posto l’accento la sentenza n. 311 del 2011. Situazioni, queste ultime, emblematicamente esemplificate dal caso oggetto del procedimento a quo, che vede come protagonista una donna imputata di avere illegittimamente accompagnato in Italia la figlia e la nipote, entrambe minorenni.
Né persuade l’argomento, speso dall’Avvocatura generale dello Stato nella discussione in udienza, secondo cui chi si procura un documento falso, o illecitamente consegue la disponibilità di un documento autentico, necessariamente entra in contatto con organizzazioni criminali in grado di fornirgli un tale “servizio”. In effetti, anche ammesso che quanto descritto dalla difesa statale sia ciò che accade nella normalità dei casi, l’argomento non suggerisce affatto che l’autore dell’illecito sia per ciò stesso stabilmente coinvolto nell’organizzazione criminale – come sarebbe necessario a giustificare il drastico innalzamento di pena previsto rispetto alla fattispecie base –, ma semplicemente che egli si sia occasionalmente rivolto all’organizzazione al solo scopo di essere aiutato a far entrare in Italia uno straniero in violazione della normativa vigente, esattamente come potrebbe fare lo stesso straniero che intenda raggiungere un tale scopo (il quale resterebbe punibile ai sensi della sola contravvenzione di cui all’art. 10-bis t.u. immigrazione, in concorso con i delitti di falso eventualmente realizzati).
4.6.– Né, ancora, queste conclusioni potrebbero essere revocate in dubbio sulla base dell’argomento per cui la cornice edittale prevista dal comma 3 potrebbe essere comunque “neutralizzata” in caso di equivalenza o prevalenza di eventuali attenuanti, e in particolare delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.
Al riguardo, non può non rilevarsi che l’applicazione di circostanze attenuanti è soltanto eventuale, e non è in grado pertanto di sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di una pena manifestamente eccessiva nel minimo (analogamente, sentenza n. 236 del 2016).
Ciò vale anche rispetto alle circostanze attenuanti generiche, la cui funzione “naturale” è quella di adeguare la misura della pena alla sussistenza di speciali indicatori (oggettivi o soggettivi) di un minor disvalore del fatto concreto all’esame del giudice rispetto alla gravità ordinaria dei fatti riconducibili alla fattispecie base di reato; e non già quella di correggere l’eventuale sproporzione dei minimi edittali stabiliti dal legislatore rispetto a un fatto il cui disvalore sia conforme a quello che ordinariamente caratterizza la fattispecie criminosa.
5.– Il vulnus così accertato può essere rimosso mediante la semplice ablazione dall’art. 12, comma 3, lettera d), t.u. immigrazione del frammento di disposizione che è oggetto delle censure del rimettente.
Per effetto di tale ablazione, i fatti di aiuto all’immigrazione clandestina commessi utilizzando servizi internazionali di trasporto, ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti, ricadranno naturalmente entro la previsione normativa di cui al comma 1, soggiacendo alla cornice sanzionatoria ivi prevista, salvo che non siano applicabili altre aggravanti previste dall’art. 12. E ciò fermo restando, ovviamente, il possibile concorso con gli eventuali reati di falsità documentale che dovessero eventualmente ravvisarsi nei singoli casi.
Conseguentemente, la disposizione all’esame deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti».