Corte Costituzionale, sentenza 11 marzo 2022 n. 67
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153, sollevate, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 2, paragrafo 1, lettere a), b), e c), e 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, e agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b), e c), e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa ad una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro – dalla Corte di cassazione, sezione lavoro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di cassazione con le due ordinanze, sostanzialmente analoghe, si prestano a una trattazione congiunta mediante la riunione dei giudizi.
3.– Preliminarmente si dà atto che, con decreto del Presidente della Corte costituzionale del 4 gennaio 2022, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, sono state ammesse le opinioni scritte presentate dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), in qualità di amici curiae, opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto a questa Corte.
4.– Le ordinanze di rimessione sono state pronunciate nell’ambito di due giudizi introdotti dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per la cassazione delle relative sentenze di merito, che hanno riconosciuto il diritto all’assegno per il nucleo familiare a due cittadini di paesi terzi, l’uno proveniente dal Pakistan e l’altro dallo Sri Lanka, titolari rispettivamente di permesso di lungo soggiorno e di permesso unico di soggiorno e di lavoro, anche per il periodo in cui i loro familiari avevano fatto rientro nei paesi d’origine.
I giudici di merito avevano proceduto alla disapplicazione della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, ostativa al riconoscimento del diritto all’assegno per il nucleo familiare per i periodi di assenza dei familiari dal territorio italiano, in quanto contrastante con il diritto derivato dell’Unione, che, all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e all’art. 12, paragrafo 1, lettera e) della direttiva 2011/98/UE, impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi il medesimo trattamento previsto per i propri cittadini in materia di prestazioni sociali.
4.1.– Nei giudizi dinanzi a questa Corte si sono costituiti l’INPS e le parti private.
4.2.– L’Istituto ha chiesto che le prospettate questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate, assumendo l’erroneità delle decisioni di merito che hanno proceduto a disapplicare la norma interna e la legittimità del trattamento differenziato, una volta che i familiari del richiedente l’assegno si siano allontanati dal territorio nazionale.
4.3.– Le parti private hanno chiesto la declaratoria di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza o, in subordine, l’accoglimento delle stesse.
Esse assumono che l’antinomia tra la norma interna e il diritto derivato dell’Unione, già accertata dalla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale, debba essere risolta con la disapplicazione della norma interna. Per un verso, l’obbligo di parità di trattamento, previsto dalle direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE sarebbe dotato di effetto diretto, per altro verso, non residuerebbe alcuna discrezionalità del legislatore con riferimento alla rimozione della discriminazione già realizzata. Quanto poi alla possibilità per il legislatore di prevedere limitazioni all’obbligo di parità di trattamento purché adeguate e proporzionali – prospettata dal giudice rimettente – la difesa delle parti private evidenzia che la Corte di giustizia ha chiarito che la facoltà di deroga prevista dalle citate direttive non risulta essere stata esercitata in sede di recepimento.
In subordine, la stessa difesa insiste per l’accoglimento delle questioni sulla base dell’accertamento dell’incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988 con il diritto dell’Unione, effettuato in sede di rinvio pregiudiziale.
5.– Prima di procedere all’esame delle questioni, è opportuno richiamare brevemente la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare.
5.1.– Istituito dalla legge n. 153 del 1988, di conversione e parzialmente modificativa del d.l. n. 69 del 1988, l’assegno per il nucleo familiare (da ora: ANF) è una prestazione economica a sostegno del reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti o dei pensionati da lavoro dipendente, calcolata in relazione alla dimensione del nucleo familiare e alla sua tipologia, nonché in considerazione del reddito complessivo prodotto al suo interno.
La legge n. 153 del 1988, nel segnare un passaggio terminologico da «assegni familiari» (d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, recante «Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari») ad «assegni per il nucleo familiare», ne accentua la duplice natura previdenziale e di sostegno a situazioni di bisogno (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 7 marzo 2008, n. 6179; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 30 marzo 2015, n. 6351).
In luogo del requisito della «vivenza a carico», condizione per la concessione della provvidenza, è lo stato di bisogno del nucleo nel suo complesso, che qualifica il nucleo stesso quale destinatario della tutela.
L’assegno in oggetto, funzionale all’integrazione del reddito del nucleo familiare, e quindi corrisposto non in favore dei familiari singolarmente considerati come beneficiari, ma in favore del nucleo complessivamente considerato, si calcola in relazione a un accertamento in concreto del reale bisogno economico della famiglia, riferito al rapporto tra il numero dei suoi componenti e l’ammontare del reddito complessivo.
I soggetti, in relazione ai quali il nuovo trattamento è stato riconosciuto, sono qualificati dall’appartenenza al nucleo familiare, anche se non conviventi e non a carico del richiedente, poiché fruitori di redditi propri. Ciò che rileva, ai fini della percezione della prestazione in capo al richiedente, è il reddito familiare complessivamente considerato.
5.2.– La normativa in esame individua la nozione di nucleo familiare, con valenza generale, all’art. 2, comma 6, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, che prevede: «[i]l nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. Del nucleo familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed equiparati, anche i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti».
Lo stesso art. 2, al comma 6-bis, introduce una diversa nozione di nucleo familiare riferita ai cittadini stranieri, prevedendo che «[n]on fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia. L’accertamento degli Stati nei quali vige il principio di reciprocità è effettuato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Ministro degli affari esteri».
Pertanto, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno familiare, il requisito della residenza nel territorio italiano non è richiesto per i familiari del cittadino italiano, mentre lo è per i familiari del cittadino straniero, salvo che sussista un regime di reciprocità o sia in vigore una convenzione internazionale con il paese d’origine di quest’ultimo.
5.3.– Il legislatore è recentemente intervenuto a disciplinare nuovamente la materia. La legge 1° aprile 2021, n. 46 (Delega al Governo per riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale), «[a]l fine di favorire la natalità», ha delegato il Governo all’adozione di «uno o più decreti legislativi volti a riordinare, semplificare e potenziare, anche in via progressiva, le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale», improntato a un «principio universalistico» e modulato – secondo un criterio di progressività – in rapporto alle condizioni economiche del nucleo familiare (art. 1).
La delega è stata attuata con il decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 (Istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46), che, a decorrere dal 1° marzo 2022, ha istituito «l’assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un beneficio economico attribuito, su base mensile, per il periodo compreso tra marzo di ciascun anno e febbraio dell’anno successivo, ai nuclei familiari sulla base della condizione economica del nucleo» (art. 1).
5.3.1.– Le nuove norme in tema di assegno unico universale – prestazione, come si è detto, erogata a decorrere dal 1° marzo 2022 – non incidono sui giudizi a quibus, concernenti fattispecie che si sono perfezionate nel vigore della disciplina anteriore.
6.– La Corte di cassazione ha chiarito, sia in sede di rinvio pregiudiziale, sia nelle ordinanze che sollevano le questioni di legittimità costituzionale, che l’ANF presenta caratteristiche tali da essere ricompreso nell’ambito delle previsioni di cui agli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
Entrambe le disposizioni citate impongono la parità di trattamento tra le categorie in esse indicate e i cittadini italiani, avuto riguardo alle prestazioni sociali.
L’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE prevede che «il soggiornante di lungo periodo» gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale.
L’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE prevede che «i lavoratori dei paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c)» beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883 del 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
7.– Nel contesto normativo delineato, connotato dalla perdurante vigenza dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, anche dopo il recepimento delle direttive richiamate, avvenuto rispettivamente con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) e con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 40 (Attuazione della direttiva 2011/98/UE, relativa ad una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro), la Corte di cassazione si è rivolta alla Corte di giustizia, con lo strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, e ha posto un quesito riguardo alla compatibilità del citato art. 2, comma 6-bis, con le direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE.
8.– In entrambe le sentenze rese a seguito del duplice rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia ha concluso nel senso della incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, con le disposizioni contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, e con l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
8.1– Nella sentenza nella causa C-303/19, riferita alla direttiva 2003/109/CE, si afferma che il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i loro sistemi di sicurezza sociale. Tuttavia, nell’esercitare tale facoltà, essi sono tenuti a conformarsi al diritto dell’Unione (punto 20).
La Corte di giustizia ha chiarito che, in favore dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, l’art. 11 della direttiva prevede, come regola generale, il diritto alla parità di trattamento nei settori individuati e alle condizioni ivi previste, ed elenca poi le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno facoltà di stabilire. Tali deroghe devono essere interpretate restrittivamente e possono essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse (punto 23, con richiamo alla sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj).
La Corte ha quindi accertato che non è stata espressa l’intenzione di avvalersi della deroga in sede di recepimento della direttiva nel diritto italiano (punti 37 e 38).
Quanto al dubbio prospettato dal giudice del rinvio, la Corte di giustizia ha precisato che, «se è vero che sono i familiari che beneficiano di detto assegno, ciò che costituisce l’oggetto stesso di una prestazione familiare […], risulta che l’assegno è versato al lavoratore o pensionato, componente a propria volta del nucleo familiare» (punto 36).
Pertanto, in assenza di esercizio della facoltà di deroga consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo non può essere rifiutato o ridotto per il motivo che i suoi familiari o taluni di essi risiedano in un paese terzo, quando invece tale beneficio è riconosciuto ai cittadini italiani indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedono.
8.2.– Nella sentenza nella causa C-302/19, avente ad oggetto la direttiva 2011/98/UE, dopo avere svolto argomentazioni analoghe quanto alla facoltà degli Stati membri di organizzare i propri regimi di sicurezza sociale, la Corte di giustizia ha richiamato l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), che impone agli Stati membri di far beneficiare della parità di trattamento, nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento n. 883/2004, i cittadini di paesi terzi ammessi a fini lavorativi, quali sono i titolari di un permesso unico, ai sensi dell’art. 2, lettera c), della direttiva medesima.
L’assegno per il nucleo familiare costituisce, infatti, una prestazione di sicurezza sociale, che rientra nel novero delle prestazioni familiari di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004 (punto 40, con richiamo alla sentenza 21 giugno 2017, in causa C-449/16 Martinez Silva).
Analogamente a quanto riferito con riguardo alla sentenza nella causa C-303/19, la Corte di giustizia ha chiarito che, se anche si ritenga che i sostanziali beneficiari dell’assegno in oggetto siano i familiari, è vero altresì che l’assegno è versato al lavoratore o pensionato, componente a propria volta del nucleo familiare (punto 45).
A proposito della limitazione del diritto alla parità di trattamento, la Corte ha precisato anche in questo caso che le deroghe elencate dalla direttiva, da interpretare restrittivamente, sono invocabili solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersene (punto 26, con richiamo alla sentenza Martinez Silva).
La stessa Corte ha poi affermato che «non risulta da alcuna delle deroghe ai diritti conferiti dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, previste all’art. 12, paragrafo 2, di quest’ultima, una possibilità per gli Stati membri di escludere dal diritto alla parità di trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico i cui familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro interessato, bensì in un paese terzo» (punto 27).
Richiamate le finalità della direttiva, la Corte ha sottolineato che, nel garantire un obbligo di parità di trattamento dei lavoratori provenienti da paesi terzi, si riconosce il contributo di costoro all’economia dell’Unione, attraverso «il loro lavoro e i loro versamenti di imposte», e si contrasta la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi causata dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi (punti 34 e 35).
9.– Concluso l’iter del rinvio pregiudiziale con le due decisioni della Corte di giustizia, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, per contrasto con i parametri che sovraintendono al rapporto tra l’ordinamento nazionale e il diritto dell’Unione, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo con l’interposizione delle direttive indicate.
10.– Le questioni così prospettate devono essere dichiarate inammissibili per carenza di rilevanza, come eccepito anche dalla difesa delle parti private.
10.1.– La Corte rimettente assume di non poter dare attuazione al diritto dell’Unione, come interpretato nelle sentenze rese dalla Corte di giustizia in risposta al duplice rinvio pregiudiziale da essa stessa disposto.
Dopo avere escluso il ricorso allo strumento dell’interpretazione conforme, per l’univoco contenuto della disciplina di cui all’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, la Corte di cassazione ritiene di non poter procedere alla disapplicazione della disposizione citata poiché, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di quella dichiarata incompatibile.
10.2.– Per confutare quest’ultimo argomento, è opportuno prendere le mosse dalla scelta, operata dalla Corte di cassazione, di rivolgersi alla Corte di Lussemburgo, prima di sollevare la questione di costituzionalità dinanzi a questa Corte.
Tale scelta si colloca all’interno di una procedura che identifica nella Corte di giustizia l’interprete del diritto dell’Unione, al fine di garantirne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri (art. 267 TFUE).
La competenza esclusiva della Corte di giustizia nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, riconosciuta da questa Corte in sede di rinvio pregiudiziale (da ultimo ordinanze n. 116 e n. 117 del 2021, rispettivamente punto 8 e punto 7 del Considerato; ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato), comporta, in virtù del principio di effettività delle tutele, che le decisioni adottate sono vincolanti, innanzi tutto nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio (Corte di giustizia, sentenza 16 giugno 2015, in causa C-62/14, Gauweiler e altri, punto 16; e già sentenza 3 febbraio 1977, in causa 52/76, Benedetti, punto 26).
Nel sistema così disegnato, la procedura pregiudiziale, oltre a rappresentare un canale di raccordo fra giudici nazionali e Corte di giustizia per risolvere eventuali incertezze interpretative, concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto dell’Unione.
A partire dalla sentenza Simmenthal (sentenza 9 marzo 1978, in causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato), la Corte di giustizia ha affermato che il giudice nazionale ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle norme europee dotate di effetto diretto, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (punto 24).
In tempi molto più vicini, la stessa Corte è tornata ad affermare la centralità del rinvio pregiudiziale, al fine di garantire piena efficacia al diritto dell’Unione e assicurare l’effetto utile dell’art. 267 TFUE, cui si salda il potere di «disapplicare» la contraria disposizione nazionale (sentenza 20 dicembre 2017, in causa C-322/16, Global Starnet Ltd., punti 21 e 22; sentenza 24 ottobre 2018, in causa C-234/17, XC e altri, punto 44; sentenza 19 dicembre 2019, in causa C-752/18, Deutsche Umwelthilfe, punto 42; sentenza 16 luglio 2020, in causa C-686/18, OC e altri, punto 30). La Corte di giustizia ha inoltre precisato che la mancata disapplicazione di una disposizione nazionale ritenuta in contrasto con il diritto europeo viola «i principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri, riconosciuti dall’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE, con l’articolo 267 TFUE, nonché […] il principio del primato del diritto dell’Unione» (sentenza 22 febbraio 2022, in causa C‑430/21, RS, punto 88).
11.– Il principio del primato del diritto dell’Unione e l’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE costituiscono dunque l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi. Questa Corte, ha costantemente affermato tale principio, valorizzandone gli effetti propulsivi nei confronti dell’ordinamento interno. In tale sistema il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo (sentenza n. 269 del 2017, punti 5.2 e 5.3 del Considerato; sentenza n. 117 del 2019, punto 2 del Considerato), ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate.
12.– Nella prospettiva del primato del diritto dell’Unione, diversamente da quanto assume la Corte di cassazione, alle norme di diritto europeo contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano.
Si tratta di un obbligo cui corrisponde il diritto del cittadino di paese terzo –rispettivamente titolare di permesso di lungo soggiorno e titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro – a ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro. La tutela riconosciuta al diritto in questione e la sua azionabilità richiamano le condizioni che la costante giurisprudenza della Corte di giustizia individua per affermare l’efficacia diretta delle disposizioni su cui tali diritti si fondano (a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich).
Non è quindi la disciplina delle prestazioni sociali – nella specie dell’assegno per il nucleo familiare – l’oggetto delle direttive citate. Come ha chiarito la Corte di giustizia nelle sentenze rese a seguito del duplice rinvio pregiudiziale, l’organizzazione dei regimi di sicurezza sociale rientra tra le competenze degli Stati membri, che possono conformare e modificare il sistema delle provvidenze in coerenza con esigenze interne di sostenibilità complessiva.
Le richiamate direttive si limitano a prescrivere l’obbligo di parità di trattamento, in forza della previsione di cui all’art. 79, comma 2, lettera b), TFUE, che consente al Parlamento europeo e al Consiglio, in sede di procedura legislativa ordinaria, di adottare misure nel settore della «definizione dei diritti dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro».
L’intervento dell’Unione si sostanzia, dunque, nella previsione dell’obbligo di non differenziare il trattamento del cittadino di paese terzo rispetto a quello riservato ai cittadini degli stati in cui essi operano legalmente.
Si tratta di un obbligo imposto dalle direttive richiamate in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di effetto diretto.
12.1.– In relazione a prestazioni in favore di talune categorie di cittadini di paesi terzi, questa Corte si è, peraltro, già espressa per dichiarare la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate. In particolare, con riferimento all’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013), e dell’art. 74, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2021 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), è stata evidenziata l’incompleta ricostruzione del quadro normativo, poiché il rimettente non aveva preso in esame la direttiva 2011/98/UE – in particolare il principio di parità di trattamento (art. 12) riconosciuto a determinate categorie di cittadini di paesi terzi, come interpretato dalla Corte di giustizia europea – e non ne aveva valutato l’applicabilità nel caso sottoposto al suo giudizio (ordinanza n. 52 del 2019).
12.2.– Alla luce di quanto sin qui detto, si può affermare che le disposizioni censurate, ritenute dalla Corte di giustizia incompatibili con il diritto europeo, si prestano a essere disapplicate dal giudice rimettente.
13.– L’ulteriore argomento prospettato dalla Corte di cassazione, a sostegno della impraticabilità della disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione, risiede nella valorizzazione della discrezionalità del legislatore. A quest’ultimo spetterebbe la scelta dei rimedi con cui rimuovere gli effetti discriminatori e quella di limitare la parità di trattamento.
Anche questo argomento non può essere condiviso.
13.1.– Ben può il legislatore scegliere le modalità con cui eliminare l’accertata discriminazione anche per il passato. Tuttavia, il compito della rimozione degli effetti discriminatori già verificatisi rimane affidato al giudice.
Come affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza 14 marzo 2018, in causa C-482/16, Stollwitzer punto 30, l’eliminazione della discriminazione deve essere assicurata mediante il riconoscimento alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. Il regime applicato alla categoria privilegiata costituisce il solo riferimento normativo da prendere in considerazione fino a quando il legislatore nazionale non abbia provveduto a ristabilire la parità di trattamento, e con essa la conformità del diritto interno a quello dell’Unione.
13.2.– Quanto poi ai possibili limiti da apporre alla parità di trattamento, la Corte di cassazione richiama una decisione di questa Corte in cui si è affermato che «il contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE, non è sempre di per sé sufficiente a consentire la “non applicazione” della confliggente norma interna da parte del giudice comune», e «[a]l legislatore dello Stato membro […] è consentito di prevedere una limitazione di parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata» (sentenza n. 227 del 2010).
Il richiamo non è pertinente.
13.3.– La sentenza n. 227 del 2010, citata dalla Corte rimettente, aveva a oggetto l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2005/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna degli Stati membri).
Diversamente da tale decisione quadro, priva di effetti diretti, le direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE impongono come regola generale la parità di trattamento, in relazione alla prestazione sociale in esame, e riconoscono agli Stati membri la facoltà di limitare tale parità, esprimendo chiaramente l’intenzione di volersi avvalere della facoltà di deroga.
A tale proposito, la Corte di giustizia, nel rispondere ai rinvii pregiudiziali, ha accertato che il legislatore nazionale non si è avvalso della facoltà di limitare il trattamento paritario prevista dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE (sentenza nella causa C-303/19, punto 38), ed ha osservato che l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2011/98/UE non consente di escludere dal diritto alla parità di trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro i cui familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro interessato, bensì in un paese terzo (sentenza C-302/19, punto 27, che richiama il punto 24).
Il vincolo, generato dalle sentenze della Corte di giustizia nei confronti dei giudici del rinvio, riguarda anche tali affermazioni, che concorrono a sorreggere il giudizio di incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, con il diritto derivato dell’Unione.
14.– Si può inoltre osservare che, sul tema delle deroghe alla parità di trattamento previste dalla direttiva 2011/98/UE, la difesa statale ha segnalato che nella sentenza della Grande camera 2 settembre 2021, in causa 350/20, O.D. e altri, successiva alla sentenza nella causa C-302/19, è stato affermato che «la Repubblica italiana non si è avvalsa della facoltà offerta agli Stati membri di limitare la parità di trattamento come previsto dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98» (punto 64). Vi sarebbe pertanto sul punto una contraddizione interna alla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Dopo la pronuncia della Corte di giustizia ora citata, resa a seguito di rinvio pregiudiziale, questa Corte ha affermato che l’esercizio della facoltà di deroga «si correla non soltanto alla salvaguardia dell’effetto utile della direttiva, ma anche a una fruttuosa e trasparente fase di recepimento, che lo stesso legislatore dell’Unione europea vuole contraddistinta dall’impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione con la Commissione» (sentenza n. 54 del 2022, punto 9.4.1 Considerato in diritto).
Peraltro, nel senso appena indicato – del mancato esercizio della facoltà di deroga in sede di recepimento della direttiva 2011/98/UE – la Corte di giustizia si era pronunciata già nella sentenza Martinez Silva (punto 30), precisando che la normativa limitativa del diritto alla parità di trattamento era contenuta in disposizioni adottate prima del recepimento della direttiva (art. 65 della legge n. 448 del 1998), che non potevano essere considerate istitutive delle limitazioni consentite dalla medesima direttiva.
Una situazione analoga si registra con riferimento alla disciplina dell’ANF prevista dal d.l. n. 69 del 1988, come convertito, anch’essa antecedente al recepimento della direttiva, sicché, in assenza di deroga, la disposizione contenuta nell’art. 2, comma 6-bis, del citato decreto realizza una discriminazione in contrasto con il diritto dell’Unione.
15.– In conclusione, questa Corte deve rilevare che nei giudizi a quibus ricorrono le condizioni per fare luogo alla disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito. Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto tale disposizione devono essere dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza.