Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 01 luglio 2022 n. 5492
QUESTIONE RIMESSA
Va sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 per contrasto con agli artt. 3, 117 primo comma Cost. in riferimento all’art. 8 Cedu nella parte in cui, richiamando tutti “i reati inerenti gli stupefacenti”, prevede che la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, sia automaticamente ostativa al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.3. Sull’applicabilità della disciplina censurata al caso in esame.
La vicenda di cui si discute trae origine dal provvedimento di mancato rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato di cui era titolare l’odierno appellante.
Il sig. -OMISSIS- faceva ingresso sul territorio italiano a 16 anni, come minore straniero non accompagnato, in data -OMISSIS-.
In favore del medesimo, in data -OMISSIS-, veniva rilasciato il permesso di soggiorno n. -OMISSIS- dalla per motivi di affidamento.
In data -OMISSIS-, la Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del Ministero del Lavoro esprimeva, ai sensi dell’art. 32 comma 1-bis del d.lgs. 286/1998, parere positivo al proseguimento del soggiorno in Italia del minore anche dopo il raggiungimento della maggiore età, in considerazione del “positivo percorso di inserimento nel contesto sociale del nostro Paese”. La Questura, di conseguenza, rilasciava un permesso di soggiorno per motivi di famiglia valido dal -OMISSIS- al -OMISSIS-, di cui lo stesso, in data -OMISSIS-chiedeva il rinnovo per motivi di lavoro subordinato.
Tale richiesta veniva respinta perché il cittadino straniero aveva riportato una condanna passata in giudicato per un reato ostativo: art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90.
L’appellante, in particolare, era stato arrestato in flagranza di reato e tradotto dinanzi alla competente autorità giudiziaria per la convalida dell’arresto e l’applicazione di idonea misura cautelare in quanto imputato “in concorso con altro cittadino straniero, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dagli artt. 75 e 76, detenevano illecitamente gr. 19.00 di sostanza stupefacente di tipo hascisch, sostanza di cui alla tabella II dell’art. 14 del medesimo D.P.R., che per le modalità di conservazione (quantità, frazionamento) e le circostanze dell’azione, appare destinata ad uso non strettamente personale e cedevano grammi 1,50 della medesima sostanza a -OMISSIS-. Reato commesso in Milano il -OMISSIS-.”
Il Sig. -OMISSIS- è stato condannato, in via definitiva, per il reato di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90, spaccio di lieve entità, come risulta dalla sentenza n. -OMISSIS-, pronunciata dal Tribunale ordinario di Milano, in composizione monocratica.
L’appellante non ha legami familiari sul territorio italiano. Di tale circostanza ha dato correttamente atto l’amministrazione competente nel provvedimento impugnato in questa sede.
In tema di reato ostativo e assenza di vincoli familiari sul territorio italiano, viene in rilievo, nel caso in esame, il combinato disposto di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
L’art. 4 del TU immigrazione pone un automatismo secondo cui “non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”.
Tale automatismo viene mitigato dalla disposizione di cui al comma 5 dell’articolo immediatamente successivo: “nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero, che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell’art. 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale”.
Le norme recate dagli artt. 4 e 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come da costante giurisprudenza di questo Consiglio, “mirano, infatti, ad assicurare la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica: nell’esercizio di tale potere, però, l’Amministrazione è tenuta a valutare la condizione familiare dello straniero in quanto l’interesse collettivo alla tutela della sicurezza pubblica deve essere bilanciato con l’interesse alla vita familiare dell’immigrato e dei suoi congiunti, trattandosi di diritti fondamentali, aventi copertura convenzionale, in particolar modo l’art. 8 Cedu” (Cons. St., sez. III, n. 6699 del 2018).
L’automatismo di cui all’art. 4 cede il passo ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione che, in caso di condanna per uno dei reati ostativi, deve tenere in debito conto l’effettività dei vincoli familiari, il legame effettivo con il Paese di origine, la durata del soggiorno. La valutazione discrezionale dell’amministrazione è sindacabile allorquando la stessa risulti viziata da manifesti deficit di ragionevolezza.
Da questa premessa emerge chiaramente che l’unica disposizione applicabile al caso controverso sottoposto al vaglio di questo Collegio è l’art. 4, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
L’automatismo ha come unica eccezione la presenza sul territorio di legami familiari in assenza dei quali, quindi, l’amministrazione non deve valutare la pericolosità in concreto e non è tenuta a operare alcun bilanciamento.
Come si è detto, l’odierno appellante è un cittadino straniero, condannato in via definitiva per un reato ostativo, l’art. 73, comma 5 d.P.R. 309/90 senza legami familiari sul territorio italiano.
Date le suesposte premesse, il cittadino straniero non potrebbe automaticamente soggiornare sul territorio italiano.
La Corte Costituzionale ha costantemente affermato che “l’applicabilità della disposizione al giudizio principale è sufficiente a radicare la rilevanza della questione” (Corte Cost,, sent. n. 174 del 2016) e che “il nesso di pregiudizialità tra il giudizio principale e il giudizio costituzionale implica che la norma censurata debba necessariamente essere applicata nel primo e che l’eventuale illegittimità della stessa incida sul procedimento principale” (Corte Cost., sent. n. 91 del 2013).
Questo Collegio ritiene che nessun dubbio residui in tema di necessaria applicabilità dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 al caso di specie.
Dall’applicabilità della norma derivano conseguenze specifiche e immediate in capo all’appellante. Invero, la tenuta costituzionale della disposizione censurata – e, quindi, l’automatico diniego del rilascio ovvero rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato in caso di reato ostativo di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 – determinerebbe inevitabilmente una pronuncia di rigetto dell’appello, con contestuale conferma della sentenza di primo grado, tanto più per l’irrilevanza della pure lamentata violazione dell’art. 10 bis l. 241/90. Sotto questo ultimo profilo, infatti, trattandosi di atto vincolato, neppure potrebbe applicarsi l’art. 21 octies, l. n. 241 del 1990.
Al contrario, qualora la disposizione fosse ritenuta dalla Corte Costituzionale in contrasto con la Costituzione – nei termini che si avrà modo di specificare – la decisione determinerebbe una pronuncia favorevole all’odierno appellante, specificatamente con l’obbligo dell’amministrazione di rivalutare la sua posizione giuridica.
1.4. Sulla possibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme.
Rilevato un potenziale vulnus di costituzionalità rispetto ai parametri di cui agli artt. 3, 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo in riferimento all’art. 8 Cedu) nei termini che si avrà modo di specificare in punto di non manifesta infondatezza, il Collegio giudicante si è preliminarmente interrogato circa la possibilità, allo stato, di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata.
Una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, pure talvolta percorsa da questa stessa Sezione rimettente, sarebbe quella di valorizzare la pericolosità in concreto del fatto delittuoso.
In casi di reato ostativi – sub specie art. 474 c.p. – si è sostenuto che in determinate ipotesi, la tenuità del fatto di reato non sia idonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a superare la soglia di pericolosità sociale che attiva l’automatismo previsto dalla norma. Secondo questo orientamento, al giudice spetterebbe un giudizio in concreto sulla pericolosità sociale (così, ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, n. 4385 del 2016; n. 1637 del 2014).
La ratio di questa prospettiva – che, potrebbe essere estesa in astratto anche al reato di cui all’art. art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 – risiede nella convinzione che sarebbe irragionevole pretendere dal legislatore una differenziazione di sanzione in base alla gravità di reati che, sebbene non partecipino della stessa natura perché non offensivi del medesimo bene giuridico, tuttavia sono idonei a mettere in pericolo la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e, più in generale, la convivenza civile. Spetterebbe, secondo questo orientamento, al giudice, nella valutazione della determinazione dell’amministrazione rispetto al caso concreto, stabilire se l’automatismo previsto dalla legge sia applicabile o meno.
Ritiene il Collegio che questa operazione ermeneutica, seppur di notevole pregio, non possa essere percorribile per due ordini di ragione.
Anzitutto un limite di natura letterale. Il tenore letterale della norma, anche nella sua portata applicativa più ampia in aderenza con la giurisprudenza costituzionale in termini di proporzionalità, esclude che vi sia differenza tra le fattispecie di reato richiamate. Nel giudizio sulla compatibilità del soggiorno dello straniero che ha commesso uno dei reati considerati ostativi, non vengono in rilievo né il principio di offensività – tanto in astratto che in concreto – né l’art. 133 c.p.
Del resto, la stessa Corte Costituzionale ha affermato più volte che si tratta di un automatismo, superabile unicamente in presenza di legami familiari. La formulazione dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 non delinea un diverso trattamento tra fattispecie di reato ivi richiamate ma le pone sullo stesso piano.
D’altra parte, tale norma neppure assegna al giudice il potere di operare una valutazione in concreto della fattispecie che, in assenza di una previa valutazione dell’amministrazione competente (si ribadisce, vietata dall’automatismo previsto dalla norma), sarebbe peraltro in contrasto con il divieto di esprimersi su poteri non ancora esercitati di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a. e con il divieto di pronuncia estesa al merito, come noto, operazioni precluse al giudice.
Il tentativo di rileggere la norma tendendo ad una interpretazione “costituzionalmente orientata” porterebbe ad un fenomeno di produzione normativa che risulta, a parere del Collegio, non percorribile.
La materia dell’immigrazione è il risultato di un delicato punto di equilibrio tra il diritto fondamentale di soggiornare liberamente in uno Stato straniero e il diritto dei cittadini dello stesso Stato alla sicurezza nazionale. La ricerca di questo punto di equilibrio resta, a parere del Collegio, sempre precluso al Giudice e quindi di competenza esclusiva del legislatore.
1.5. Sulla compatibilità con il diritto dell’Unione Europea e sul rinvio pregiudiziale alla Corte Costituzionale.
Neppure è permesso a questo Collegio percorrere la strada della disapplicazione della norma per contrasto con l’ordinamento dell’Unione Europea.
Nella specifica materia dell’immigrazione vengono in rilievo le norme di cui al capo secondo del titolo V del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, artt. 77 – 80.
Si tratta di un tipico caso di competenza concorrente tra l’Unione Europea e gli Stati membri. Ferma restando la competenza della prima nell’adozione di atti di armonizzazione nel rispetto dei principi di proporzionalità e di sussidiarietà, il singolo Stato membro è competente nell’adozione di misure volte alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza e ha competenza esclusiva nella fissazione del numero massimo di lavoratori provenienti da Paesi terzi (art. 79, par. 5, TFUE).
Questa divisione di competenze spinge a collocare la questione oggetto del presente incidente costituzionale nella sfera di competenza dello Stato italiano, in qualità di Stato membro e, quindi, nella necessità di proposizione del giudizio di legittimità, non potendo disapplicare direttamente la norma.
Il perimetro di competenza e di interazione tra il diritto interno e il diritto eurounitario, specie nella materia dei diritti fondamentali, come quelli che vengono in rilievo nel caso che occupa il Collegio, è stato il risultato di un’operazione di dialogo tra le Corti e di numerosi interventi della Corte Costituzionale.
Occorre distinguere la fattispecie in cui venga in rilievo una fonte di diritto comunitario “self executing” da quella in cui vi sia concorrenza, tra norme precettive ma che necessitano di una positivizzazione legislativa di diritto interno.
Nel primo caso, il giudice a quo è dotato di un sindacato diffuso. Qualora ravvisi una manifesta incompatibilità della norma interna con l’ordinamento comunitario può disapplicarla direttamente, senza l’intermediazione di altro organo costituzionale, operazione questa preclusa nel caso di incompatibilità della norma con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. In tale caso, infatti, il sindacato è accentrato e competente sarà la Corte Costituzionale per il tramite dell’art 117, comma 1, Cost.
La posizione della Corte, in caso di giudizi aventi ad oggetto diritti protetti tanto dalla Costituzione quanto dalle norme di diritto eurounitario, ha subito una evoluzione.
Secondo un primo orientamento, il Giudice delle Leggi ha sostenuto che questo caso fosse assimilabile a quello in cui la norma interna era contraria alla Cedu di tal che il Giudice era obbligato a sollevare prioritariamente questione di legittimità costituzionale (Corte Cost., sent. n. 269 del 2017).
Tale posizione è stata rimeditata con la sentenza n. 20 del 2019, in materia di rapporto tra diritto di accesso e rispetto della libertà privata (privacy), la Corte pur dalle premesse di cui alla sentenza appena richiamata e che quindi “i principi e i diritti enunciati nella CDFUE intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e che la prima costituisce pertanto «parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale”, afferma che “resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria.
In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione.
Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale.
Ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti”.
Intervenuta immediatamente dopo sul punto con la sentenza n. 63 del 2019, la Corte ha ritenuto che “occorre in questa sede ribadire – sulla scorta dei principi già affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 – che a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta.
Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione.”
Così ricostruito il quadro giurisprudenziale in punto di pregiudizialità, questo Giudice ritiene di dover investire preliminarmente la Corte Costituzionale.
Da ultimo, con la sentenza 10 maggio 2022, n. 149, la Corte Costituzionale ha ribadito i principi sopra espressi, precisando che comunque, i due rimedi – disapplicazione e giudizio di legittimità costituzionale – rimangono concorrenti.
Nella recente pronuncia, i Giudici Costituzionali hanno invero precisato che: “secondo un’ormai copiosa giurisprudenza costituzionale, l’eventuale effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri dei diritti riconosciuti dalla Carta (e delle norme di diritto derivato attuative di tali diritti) non rende inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che denuncino il contrasto tra una disposizione di legge nazionale e quei medesimi diritti, i quali intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla stessa Costituzione italiana.
Questioni siffatte, una volta sollevate, debbono invece essere scrutinate nel merito da questa Corte, cui unicamente spetta il compito di dichiarare, con effetti erga omnes, l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che risultassero contrarie alla Carta, in forza degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. (sentenze n. 54 del 2022; n. 182 del 2021; n. 49 del 2021; n. 11 del 2020; n. 63 del 2019; n. 20 del 2019 e n. 269 del 2017; ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019).
Tale rimedio non si sostituisce, ma si aggiunge a quello rappresentato dalla disapplicazione nel singolo caso concreto, da parte del giudice comune, della disposizione contraria a una norma della Carta avente effetto diretto (sentenza n. 67 del 2022: «il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo»).
E ciò in un’ottica di arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali che, «per definizione, esclude ogni preclusione» (ancora, sentenza n. 20 del 2019), e che vede tanto il giudice comune quanto questa Corte impegnati a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze”.
È vero che le norme censurate si appalesano viziate tanto rispetto alla Carta Costituzionale quanto al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ma la questione all’attenzione del Collegio investe la porzione di competenza del legislatore nazionale e all’ordinamento comunitario è precluso entrare nel merito della discrezionalità del legislatore nazionale in materia di sicurezza e ordine pubblico.
1.6. Sulla non infondatezza.
Oltre che rilevante, nei termini appena esplicitati, la questione non è manifestamente infondata.
Acclarata l’impossibilità di addivenire ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma al vaglio del Collegio e, prima di procedere puntualmente all’analisi dei parametri costituzionali di riferimento, occorre soffermarsi brevemente sul principio di proporzionalità in via generale e, poi, in relazione alla materia dell’immigrazione.
Il principio di proporzionalità ha anzitutto radici nel diritto eurounitario. Da canone ermeneutico utilizzato dalla Corte di Giustizia (ex plurimis, C-8/1955 Fédération Charbonnière, C- 5-11-13-15/1962 Società acciaierie San Michele) ha assunto sempre una maggiore preminenza nel panorama dei principi fondamentali del diritto europeo, sino a trovare positivizzazione nel Trattato dell’Unione Europea, all’art. 5.
Il principio di proporzionalità, inteso quale limite all’azione delle istituzioni dell’Unione a quanto è strettamente necessario per il conseguimento degli obiettivi del Trattato, è al tempo stesso criterio di predisposizione degli atti normativi e amministrativi e parametro di valutazione degli stessi.
Tale principio è stato declinato secondo due modelli, un modello trifasico e un modello bifasico.
Secondo il primo, la proporzionalità si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa ovvero legislativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.
Nel modello bifasico, il requisito della proporzionalità in senso stretto è contenuto nella idoneità e nella necessità come fine ultimo del principio, come obiettivo che si persegue attraverso le scelte, siano esse legislative ovvero amministrative.
Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, la proporzionalità è stata declinata nella maggior parte dei casi secondo il modello bifasico. Qualunque sia il modello a cui l’interprete aderisca, il principio di proporzionalità, nell’idea della Corte, rimane comunque un concetto duttile che si concretizza volta per volta in base agli scopi perseguiti dai Trattati.
Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha avuto modo di occuparsi del principio di proporzionalità che ha una portata non meno rilevante.
La Corte, in particolare, si è soffermata più volte su quello che viene definito il “margin of appreciation” degli Stati membri, lo spazio di manovra che l’Istituzione garantisce agli stessi nella protezione delle libertà prevista nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Pur ribadendo che gli Stati godono di un margine di apprezzamento nell’individuazione delle misure idonee a tutelare le libertà previste dalla Convenzione, la Corte ha stabilito che, nella scelta, dette misure fossero ragionevolmente necessarie.
Nella case law, Z. c. Finland, al paragrafo 94, la Corte ha, invero, avuto modo di precisare che “in determining whether the impugned measures were ‘necessary in a democratic society’, the Court will consider whether, in the light of the case as a whole, the reasons adduced to justify them were relevant and sufficient and whether the measures were proportionate to the legitimate aims pursued”.
È necessario, quindi, una misura che, pur incidendo sulle libertà fondamentali dell’individuo, corrisponda all’esigenza di tutelare un bene giuridico che, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi, risulti prevalente e che comunque la stessa sia proporzionata al fine perseguito.
Accanto alla proporzionalità viene in rilievo il concetto di ragionevolezza. Il rapporto tra i due valori è ancora oggetto di dibattito tra gli interpreti.
Per lungo tempo, proporzionalità e ragionevolezza sono stati considerati sinonimi ma, attualmente, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sul punto converge verso il riconoscimento della loro autonomia.
Per essere ragionevole, la norma deve essere coerente con il fine perseguito, ne deve essere deduzione logica, rappresentazione pratica. Oltre che soluzione proporzionata – nel senso di idonea e necessaria – deve rispondere ad una precisa esigenza di tutela.
Il principio di ragionevolezza comprende a monte la valutazione dei fatti che hanno determinano la decisione legislativa e che perimetrano il bene della vita che si intende proteggere.
La ragionevolezza e la proporzionalità, quindi, non possono definirsi sinonimi ma sono in un rapporto di interdipendenza.
Il legislatore – o l’amministrazione nell’esercizio del proprio potere – preliminarmente opera una indagine e una valutazione degli interessi. In secondo luogo deve predisporre una misura che risponda all’interesse da perseguire e che abbia il corretto punto di bilanciamento tra interessi inevitabilmente confliggenti. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, in alcune pronunce, ha distinto i due concetti statuendo che “what is necessary is more than what is desirable or reasonable” (Dudgeon v. the United Kingdom, paragrafi 51-53).
Nella specifica materia dell’immigrazione, la stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 148 del 2008), ha avuto modo di ribadire che “la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli”.
La stessa Corte quindi, nonostante l’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore nella subietta materia, non la esclude dal sindacato di proporzionalità.
1.7. Della incompatibilità con l’art. 3 Cost..
Secondo l’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, “ferme restando le disposizioni di cui all’art. 3, comma 4, l’Italia, in armonia con gli obblighi assunti con l’adesione a specifici accordi internazionali, consentirà l’ingresso nel proprio territorio allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché’ la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza. I mezzi di sussistenza sono definiti con apposita direttiva emanata dal Ministro dell’interno, sulla base dei criteri indicati nel documento di programmazione di cui all’art. 3, comma 1. Non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2, c.p.p. ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, l. 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli artt. 473 e 474 c.p. nonché dall’art. 1, d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66, e dall’art. 24, r.d. 18 giugno 1931, n. 773”.
Con tale disposizione il legislatore ha stabilito i casi in presenza dei quali il soggiorno del cittadino straniero nello Stato italiano non risulta essere compatibile perché lo stesso, commettendo uno dei reati elencati, ha violato il patto di civile convivenza, ha disobbedito alle regole ed è, per tale ragione, considerato una minaccia per la sicurezza pubblica.
L’art. 4, comma 3, del TU immigrazione è, quindi, il punto di equilibrio raggiunto dal legislatore per la protezione del bene della sicurezza pubblica di fronte al quale la libertà di soggiorno del singolo diviene recessiva.
La violazione del patto di civile convivenza con lo Stato italiano comporta, da un punto di vista amministrativo, l’automatico diniego di riconoscimento del permesso di soggiorno ovvero la revoca del titolo, qualora il cittadino straniero ne fosse già titolare, con contestuale allontanamento dello stesso dal territorio nazionale in quanto sprovvisto di un valido titolo di soggiorno.
Ai fini della compatibilità, in termini di liceità, del soggiorno del cittadino straniero sul territorio nazionale è necessario che lo stesso non abbia riportato condanne, anche con sentenza non definitiva, compresa quella in applicazione della pena su richiesta delle parti per i reati richiamati dall’art. 380, commi 1 e 2, c.p.p., reati, quindi, per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; tutti i reati in materia di stupefacenti, a prescindere dalle differenziazioni in termini di condotta e di trattamento sanzionatorio previsti dall’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990; reati inerenti la libertà sessuale; reati che favoriscano l’immigrazione clandestina; reati che favoriscano lo sfruttamento della prostituzione; reati che coinvolgano minori e, in particolar modo, lo sfruttamento dei minori nelle attività illecite; reato di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.) e reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.); reati contro la circolazione (chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, ad eccezione dei casi previsti dall’articolo 1-bis, è punito con la reclusione da uno a sei anni) e reato di rifiuto di scioglimento di riunione in luogo pubblico.
Si tratta, a ben vedere, di fattispecie criminose disomogenee tra loro in termini di condotta, di bene giuridico protetto, di limiti edittali di trattamento sanzionatorio e di allarme sociale.
L’art. 380 c.p.p., ad esempio, contempla, tra le altre le seguenti ipotesi di reato: reati per i quali sia prevista la pena detentiva dell’ergastolo ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. Al comma 2, il legislatore ha preso in considerazione i reati contro la personalità dello Stato, reati contro l’incolumità pubblica, reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, reati di violenza sessuale e atti sessuali con minorenni, reati contro il patrimonio nella forma aggravata (tra gli altri furto aggravato, ricettazione aggravata).
La ratio di una siffatta previsione normativa risiede(va) nella necessità di tutela della sicurezza pubblica da condotte che interrompessero la pacifica convivenza tra cives, che violassero le regole fondamentali tra cittadino e Stato.
Il Collegio dubita della tenuta costituzionale della norma con riferimento all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 e, quindi, all’applicabilità del meccanismo di automatismo ivi previsto, in applicazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità sopra richiamati.
1.8. Sui canoni di proporzionalità e ragionevolezza.
La Corte Costituzionale ha più volte chiarito quale è il perimetro del proprio sindacato in materia di immigrazione.
In particolare, nella sentenza 3 luglio 2013, n. 202, la Corte ha stabilito che “al legislatore è riconosciuta un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, in considerazione della pluralità degli interessi che tale regolazione riguarda; peraltro, si deve altresì sottolineare che la medesima Corte ha regolarmente ribadito che tale discrezionalità legislativa non è assoluta, dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disciplina dell’immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei confronti del cittadino e del non cittadino (sentenze n. 172 del 2012; n. 245 del 2011; nn. 299 e 249 del 2010; n. 148 del 2008; n. 206 del 2006; n. 78 del 2005).
Nell’ambito di questa discrezionalità, il legislatore può anche prevedere casi in cui, di fronte alla commissione di reati di una certa gravità, ritenuti particolarmente pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico, l’amministrazione sia tenuta a revocare o negare il permesso di soggiorno automaticamente e senza ulteriori considerazioni.
Questa Corte ha già avuto modo di rimarcare che, in linea generale, statuizioni di tal genere non sono di per sé manifestamente irragionevoli «costituendo l’automatismo espulsivo un riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione e che costituisce, anche per gli stranieri presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare arbitrii da parte dell’autorità amministrativa» (sentenza n. 148 del 2008).
Ai sensi della giurisprudenza pregressa, dunque, la condanna per determinati reati di uno straniero non appartenente all’Unione europea ben può giustificare la previsione di un automatismo ostativo al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno, ma occorre pur sempre che una simile previsione possa considerarsi rispettosa di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai sensi dell’art. 3 Cost., tra l’esigenza, da un lato, di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i flussi migratori e, dall’altro, di salvaguardare i diritti dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione (sentenza n. 172 del 2012).
Pertanto, questa Corte è chiamata a verificare che gli automatismi disposti dal legislatore rispecchino un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi e i diritti di rilievo costituzionale coinvolti nella disciplina dell’immigrazione e non può esimersi dal censurare quelle disposizioni legislative che incidano in modo sproporzionato e irragionevole sui diritti fondamentali (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010).
Nell’ambito di tali valutazioni la Corte deve altresì considerare che gli automatismi procedurali, essendo basati su una presunzione assoluta di pericolosità, devono ritenersi arbitrari e perciò costituzionalmente illegittimi, se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, quando cioè sia agevole – come nel caso in esame – formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione stessa (sentenze n. 57 del 2013; n. 172 e n. 110 del 2012; n. 231 del 2011; n. 265, n. 164 e n. 139 del 2010).”.
Tanto premesso, rileva il Collegio che il legislatore, come verrà meglio chiarito in seguito, ha parificato, dal punto di vista della sanzione amministrativa, reati, quali ad esempio l’omicidio volontario punito, ai sensi dell’art. 575 c.p., con la reclusione non inferiore ad anni 21 e l’art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90, punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329.
Il Collegio è altresì consapevole che la Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi sulla tenuta costituzionale dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, con particolare riferimento all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, precisando che, in questa specifica materia in cui viene in rilievo l’interesse supremo alla pubblica sicurezza, la scelta del legislatore di accumunare fattispecie di reato che sono ontologicamente diverse per bene giuridico tutelato, per oggetto, per trattamento sanzionatorio e per grado di allarme non appare irragionevole.
In quella occasione, la Corte ha ritenuto non manifestamente irragionevole condizionare l’ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio nazionale alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo (..) in quanto “il rifiuto del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, previsto dalle disposizioni in oggetto, non costituisce sanzione penale, sicché il legislatore ben può stabilirlo per fatti che, sotto il profilo penale, hanno una diversa gravità, valutandolo misura idonea alla realizzazione dell’interesse pubblico alla sicurezza e tranquillità, anche se ai fini penali i fatti stessi hanno ricevuto una diversa valutazione.
Sotto questo aspetto neppure può essere considerata manifestamente irragionevole la scelta legislativa di non aver dato rilievo alla sussistenza delle condizioni per la concessione del beneficio della sospensione della pena, a differenza di quanto avviene per l’espulsione dal territorio nazionale come misura di sicurezza (sentenza n. 58 del 1995).
Invero, il fatto che la prognosi favorevole in merito all’astensione del condannato, nel tempo stabilito dalla legge, dalla commissione di ulteriori reati sia condotta, ai fini della non esecuzione della pena, con criteri diversi da quelli che presiedono al giudizio di indesiderabilità dello straniero nel territorio italiano, non può considerarsi, di per sé, in contrasto con il principio di razionalità-equità, attesa la non coincidenza delle due suddette valutazioni.
D’altronde, l’inclusione di condanne per qualsiasi reato inerente agli stupefacenti tra le cause ostative all’ingresso e alla permanenza dello straniero in Italia non appare manifestamente irragionevole qualora si consideri che si tratta di ipotesi delittuose spesso implicanti contatti, a diversi livelli, con appartenenti ad organizzazioni criminali o che, comunque, sono dirette ad alimentare il cosiddetto mercato della droga, il quale rappresenta una delle maggiori fonti di reddito della criminalità organizzata (sentenza n. 333 del 1991).
Del pari infondato è il profilo di censura concernente il tipo di procedimento seguito per giungere alla condanna penale e la natura della sentenza con la quale questa è stata pronunciata.
Infatti, da un lato, la sentenza di applicazione della pena su richiesta, salve diverse disposizioni di legge, «è equiparata a una pronuncia di condanna» (art. 445, comma 1, c.p.p.) e, d’altra parte, per le fattispecie – quali quelle oggetto dei giudizi a quibus – interamente verificatesi dopo l’entrata in vigore della l. n. 189 del 2002, il fatto che la condanna sia intervenuta in sede di patteggiamento non appare significativo, in quanto «nell’opzione del rito alternativo, l’imputato è posto ex ante nella piena condizione di conoscere tutte le conseguenze scaturenti dalla scelta processuale operata» (ordinanza n. 456 del 2007).”
L’automatismo espulsivo, secondo la Corte, sarebbe poi “un riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione e che costituisce, anche per gli stranieri, presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell’autorità amministrativa» (ordinanza n. 146 del 2002)”.
Cionondimeno, il Collegio dubita della tenuta costituzionale della norma avuto riguardo alla specificità della fattispecie in considerazione dell’evoluzione che la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha maturato negli ultimi anni in tema di proporzionalità della pena che possono applicarsi, in via più generale, alla proporzionalità delle sanzioni amministrative quale il provvedimento di espulsione che consegue al diniego del permesso di soggiorno ovvero alla revoca nel caso in questo sia stato già rilasciato.
Ed invero, in una pronuncia successiva, sentenza 2 luglio 2012, n. 172, la Corte si è espressa sulla tenuta costituzionale della procedura di emersione del 2009. L’art. 1-ter, comma 13, lettera c), d.l. 1° luglio 2009, n. 78 è stato ritenuto non compatibile con l’art. 3 Cost. in quanto limitava il sindacato della pubblica amministrazione, non permettendo la valutazione della pericolosità in concreto del cittadino straniero.
È corretto, nella prospettazione della Corte che il legislatore limiti la permanenza del cittadino nel territorio dello Stato se questo è necessario a salvaguardare il bene superiore della sicurezza pubblica ma “la relativa scelta deve costituire il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento degli stessi, soprattutto quando sia suscettibile di incidere sul godimento dei diritti fondamentali dei quali è titolare anche lo straniero extracomunitario”.
Proprio in tema di reati in materia di sostanze stupefacenti, seppur in un contesto diverso rispetto a quello oggetto della presente ordinanza, la Corte Costituzionale, modificando il proprio precedente indirizzo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 nella parte in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. La differenza di quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) avrebbe costituito un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza nonché con il principio della funzione rieducativa della pena.
Tale declaratoria di incostituzionalità si è resa necessaria – a fronte di un precedente che aveva ritenuto invece sussistente la tenuta costituzionale della norma – per due ragioni: la differenza sproporzionata in quanto non necessaria né idonea a punire correttamente, nel senso di rieducare correttamente, e la prassi giudiziaria che, nei casi “di confine”, operava “forzature interpretative” volte ad ampliare l’ambito applicativo delle ipotesi di lieve entità di cui al comma quinto dell’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990.
Sullo stesso piano, in termini di proporzionalità, si pongono, tra le altre, le pronunce sull’ordinamento penitenziario (ordinanza 12 maggio 2021) e sul divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, codice penale., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, codice penale (Corte Costituzionale, sentenza 25 febbraio 2021, n. 55).
In particolare, sul dibattito delle scelte legislative che incidono negativamente sui diritti fondamentali, viene in rilievo, da ultimo, la sopra citata sentenza n. 149 del 2022, secondo cui “non è inutile precisare in limine che tali criteri debbono essere qui declinati in relazione alla logica peculiare del giudizio innanzi a questa Corte, il cui compito non è quello di verificare la sussistenza di violazioni del diritto fondamentale in esame nel singolo caso concreto, bensì quello di stabilire se il meccanismo normativo disegnato dal legislatore sia tale da determinare violazioni di tale diritto fondamentale in un numero indeterminato di casi”.
Premesso che questo Collegio non ritiene la scelta di accumunare fattispecie di reato diverse allo stesso regime sanzionario sempre contrario al principio di proporzionalità, tuttavia osserva che, nel preciso caso dell’art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90., questa scelta legislativa è suscettibile di determinare violazione dei diritti fondamentali in un numero indeterminato di casi.
La Corte Costituzionale aveva già avuto modo di sostenere che, ai fini del sindacato di proporzionalità del giudice delle leggi, gli automatismi procedurali devono ritenersi arbitrari e quindi costituzionalmente illegittimi “se non rispondono a dati di esperienza generalizzati”.
Questo profilo è stato valorizzato anche nell’ordinanza 12 maggio 2021, n. 97 con la quale – in tema di ergastolo ostativo di cui agli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter, l. 26 luglio 1975, n. 354 – la Corte Costituzionale ha “sospeso” il giudizio di legittimità costituzionale per lasciare al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia.
Richiamando la sentenza n. 253 del 2019, la Corte ha ribadito che anche la presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso mostra la propria irragionevolezza, perché si basa su una generalizzazione che i dati dell’esperienza possono smentire.
Dello stesso avviso è la Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui la scelta di intervenire sui diritti fondamentali in senso negativo è proporzionata se si ravvisa l’esistenza di un “pressing social need” (Dudgeon v. the United Kingdom, paragrafi 51-53).
La condotta di spaccio di sostanze stupefacenti è stata da sempre oggetto di generalizzazione perché ritenuta particolarmente grave in termini di allarme sociale. Nella previsione dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, il legislatore ha utilizzato un approccio rafforzato. Dopo aver disposto che non è ammesso in Italia il cittadino straniero che ha commesso una delle ipotesi di reato di cui all’art. 380 c.p.p. che, esclude dall’arresto in flagranza di reato, l’ipotesi di spaccio di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, ha parificato tutte le condotte inerenti la cessione, la coltivazione, la detenzione, la commercializzazione di sostanze stupefacenti.
L’art. 4, comma 3 TU immigrazione, facendo riferimento a “i reati inerenti gli stupefacenti”, rende automaticamente tutte le fattispecie di reato in materia di stupefacenti ostative alla lecita permanenza del cittadino straniero nel territorio italiano a prescindere dalla gravità.
La giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha di conseguenza escluso la rilevanza di differenza fra condanne pronunciate in forza dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 e quelle inflitte “per fatti di lieve entità” in quanto la scelta del legislatore era indirizzata alla protezione di una esigenza di conformazione agli impegni di “inibitoria” di traffici riguardanti determinati settori reputati maggiormente sensibili.
Il Collegio, tuttavia, ritiene che tale automatismo, ancorché giustificato nel momento in cui è stato previsto per l’allarme sociale della condotta censurata, debba essere ripensato perché contrario al principio di proporzionalità nei termini che seguono.
La forbice edittale di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 prevede la possibilità di commisurare la pena a fattispecie di reato che sono ontologicamente diverse perché commesse da soggetti diversi che hanno personalità diverse (una cosa è prendere in considerazione il delinquente abituale, altra è il soggetto imputabile che ha ceduto una tantum), che hanno utilizzato mezzi diversi, rendendo la propria condotta criminosa più o meno grave.
Questo Collegio ritiene che, anche nel caso della condotta di spaccio di sostanza stupefacente di lieve entità, privare l’amministrazione del potere di valutare la situazione concreta – il percorso di reinserimento nella società, l’integrazione socio-lavorativa, l’assenza di legami familiari anche nel Paese di origine, la personalità dell’autore – sia contrario al principio di proporzionalità perché non necessario.
La scelta legislativa di parificare fattispecie di reato che si connotano per violenza, efferatezza, condotte contrarie alla vita, all’incolumità fisica e psichica, alla libertà sessuale (quali, tra gli altri, reati di omicidio, violenza sessuale, atti sessuali con minorenni) con un reato che, ancorché suscettibile di essere un potenziale pericolo per beni di interesse rilevantissimo – la salute, la sicurezza pubblica, il benessere delle future generazioni – lo stesso legislatore, per le modalità di realizzazione della condotta criminosa nonché per il minor grado di aggressione al bene giuridico, ha ritenuto meno grave, prevedendo una collocazione topografica autonoma, un trattamento sanzionatorio più mite e un conseguente regime processuale differenziato nei termini che seguono.
Anzitutto, l’ipotesi di reato di cessione ovvero, più in generale, di detenzione di sostanza stupefacente di modica quantità, è previsto e punito nell’autonoma fattispecie sanzionatoria di cui al comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990 che delinea in modo differenziato tale fattispecie da quella aggravata prevista dal comma 1 del medesimo articolo.
La Corte di Cassazione (sez. VI, 26 marzo 2014, n. 14288), ha avuto modo di precisare che “la nuova “ipotesi lieve” di condotta illecita in tema di sostanze stupefacenti (art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dall’art. 2, d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella l. 21 febbraio 2014, n. 10) dev’essere configurata come figura di reato autonoma rispetto a quella delineata dal comma primo dell’art. 73 d.P.R. cit., in base al criterio testuale, a quello sistematico e all’intentio legis, non contrastati da decisivi argomenti di segno opposto”.
La differenza del trattamento sanzionatorio, della struttura della norma – condotta, modalità dell’azione – e l’inserimento di una clausola di sussidiarietà “salvo che il fatto costituisca più grave reato” conducono l’interprete a ritenere che si tratti di una ipotesi autonoma di reato.
Sotto il profilo processuale, da un lato la scelta di inserire indistintamente, secondo un meccanismo di mero automatismo, tutti i reati in materia di stupefacenti a prescindere dalla gravità contrasta con la scelta, diversa, operata in ambito processuale penalistico in materia di arresto in flagranza di reato.
Ed invero, ai sensi dell’art. 380 c.p.p., l’arresto obbligatorio in flagranza di reato esclude dall’ambito della propria applicabilità l’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990. Secondo il comma 2, lett. h), della disposizione, infatti, è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza per i “delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope puniti a norma dell’articolo 73 del Testo unico stupefacenti approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo”;
L’esigenza di proporzione che emerge dalla scelta del legislatore di non disperdere sforzi di sicurezza pubblica in fattispecie di reati che, ancorché gravi, non meritano in via automatica la privazione della libertà personale, si riflette anche nella progressiva apertura verso modifiche normative di alleggerimento del trattamento sanzionatorio in quanto, alcune condotte di reato inerenti le sostanze stupefacenti, non sono più sintomatiche da quel necessario grado di “pressing social need” che rende proporzionata la misura.
Si fa riferimento al percorso legislativo in discussione nel Parlamento in materia di spaccio di lieve entità. L’art. 3 della proposta di legge n. 2815 presentata il 4 dicembre 2020, rubricato “fatti di lieve entità”, prevede che “il comma 5 dell’articolo 73 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, è sostituito dal seguente: «5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 2.064 a euro 13.000 se si tratta di sostanze comprese nelle tabelle I e III previste dall’articolo 14, ovvero con le pene della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa da euro 1.032 a euro 6.500 se si tratta di sostanze comprese nelle tabelle II e IV previste dall’articolo 14».”.
La proposta dovrà seguire l’iter di discussione parlamentare ma è comunque, al momento, sintomatica di una percepita esigenza di differenziazione, di necessità di ponderazione e di accurata valutazione, esigenza che, come dimostra il vigente regime sostanziale e processuale sopra richiamato, è già presente nell’ordinamento giuridico.
La ratio del legislatore, de iure condendo, come chiarito nella presentazione della proposta di legge, è quella di valorizzare l’aspetto della “gravità concreta” delle fattispecie di reato e della proporzionalità delle pene anche in ordine a prevenire il sovraffollamento della popolazione carceraria per fatti di reato che necessitano un differente approccio.
L’automatismo in ogni caso non può dirsi misura necessaria ovvero idonea alla tutela della sicurezza pubblica. L’esigenza di pubblica sicurezza, come accade in altri casi non ostativi, ben potrebbe essere tutelata dal potere dell’amministrazione di procedere alla valutazione in concreto della fattispecie.
Non è neppure proporzionata in senso stretto perché troppo pregiudizievole della sfera del privato il quale non può addure alcun elemento relativo al proprio percorso di integrazione socio-lavorativa che possa essere preso in considerazione dall’amministrazione la quale si vede costretta a rigettare l’istanza.
Parificare, in via automatica, sotto l’unico profilo dell’espulsione, la condotta di cessione di una piccola quantità di sostanza stupefacente con reati gravi quali, ad esempio, l’omicidio e la violenza sessuale, appare, a parere del Collegio, sproporzionato specie con riferimento al principio di proporzionalità in senso stretto, in quanto, tale discrimine determina un sacrificio della posizione giuridica dello straniero che non risponde a necessità e può risultare, in taluni casi, ingiustificatamente discriminatorio.
Tali argomentazioni si prestano a giustificare altresì il vulnus che la norma censurata arreca, a parere del Collegio, al principio di ragionevolezza in quanto il “doppio binario sanzionatorio” riservato al cittadino straniero che abbia commesso la condotta di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90 – pena e automatismo espulsivo – non sono coerenti con lo scopo della norma che, parificando tutti “i reati inerenti gli stupefacenti” preclude all’amministrazione competente di valutare, in concreto, la pericolosità del cittadino straniero rilevante ai fini della permanenza nello Stato e dell’eventuale rilascio del titolo di soggiorno.
1.9. Sul sindacato della Corte Costituzionale.
Tanto premesso, ritenuta la disposizione in contrasto con il canone di ragionevolezza e con quello di proporzionalità, occorre indagare la possibilità di un sindacato della Corte Costituzionale sul punto.
L’ampiezza, meglio dire il perimetro del sindacato del giudice costituzionale è stato puntualmente descritto nella sentenza 23 gennaio 2019, n. 40, secondo cui “non sussistono ostacoli all’intervento della Corte costituzionale quando le scelte sanzionatorie adottate dal legislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che siano tali da ‘ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze’” (§ 4.2. del considerato in diritto, che richiama la sentenza n. 233 del 2018), e – ancora – che “non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis, essendo sufficiente che il ‘sistema nel suo complesso offra alla Corte precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti, ancorché non costituzionalmente obbligate, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”.
Ebbene, ritiene il Collegio che l’ordinamento giuridico offra già, nel suo complesso, punti di riferimento per una e soluzioni che potrebbero applicarsi al caso oggetto della presente ordinanza.
L’esclusione della fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 dal novero dei reati ostativi non produrrebbe, infatti, l’automatico rilascio ovvero rinnovo del titolo di soggiorno. Favorirebbe unicamente il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino straniero, permettendo a quest’ultimo, dinanzi ad una condanna penale e in assenza di legami familiari, di dimostrare tutte le circostanze a lui favorevoli, specie con riferimento alla buona riuscita del proprio percorso di integrazione socio-lavorativa, partecipazione alla spesa pubblica.
È proprio in questo spirito di valorizzazione della situazione giuridica dello straniero che la Sezione rimettente ha da ultimo pronunciato alcune sentenze in tema di rilevanza delle sopravvenienze fattuali. Questa Sezione, infatti, ha sostenuto che l’irrilevanza delle sopravvenienze trovava “conforto in una prospettiva del processo amministrativo inteso come giudizio meramente impugnatorio in cui al centro della valutazione del Giudice sta solo la legittimità dell’atto al momento della sua adozione. In questa prospettiva, il sindacato di legittimità dell’atto si limita alla verifica della ragionevolezza e della proporzionalità della decisione dell’amministrazione secondo quanto conosciuto dalla stessa al momento in cui aveva maturato la propria determinazione.
Questa impostazione, legata alla qualificazione del giudizio amministrativo come meramente impugnatorio, non sempre risulta adeguata alla funzione assegnata al Giudice amministrativo dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla luce della successiva giurisprudenza sovranazionale e interna.
Ciò tanto più nelle ipotesi in cui oggetto del giudizio sono diritti fondamentali della persona umana che possono trovare tutela nel quadro di un idoneo bilanciamento con i valori essenziali della sicurezza e della sostenibilità dei flussi migratori.
Da tempo la giurisprudenza ha dato atto della trasformazione del processo amministrativo “da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata.” (Cons. St., A.P., n. 3 del 2011).
È proprio in questi casi in cui il bene della vita da tutelare ha natura personale che oggetto della valutazione giudiziale non può essere solo il provvedimento in sé poiché essa deve necessariamente avvolgere la situazione giuridica soggettiva che fa da sfondo alla vicenda procedimentale” (ex multis, Cons. St., sez. III, 1 giugno 2022, n. 4467).
Se non si valorizzassero, nei limiti di legge, gli elementi positivi della situazione giuridica dei cittadini stranieri, si produrrebbero gravi pregiudizi a valori fondamentali dell’ordinamento che, anche se non vengono direttamente in rilievo rispetto al procedimento amministrativo, comunque incidono negativamente.
Nessun rilievo avrebbe, ad esempio, il positivo percorso rieducativo della pena se a questo non si desse il congruo peso ai fini del reinserimento del condannato nella società. Se si considerasse automaticamente ostativo il reato, nessun valore avrebbero le eventuali esperienze di rieducazione – lavorative e sociali – maturate dal cittadino straniero. Queste vicende non possono ritenersi estranee rispetto al giudizio a quo, non fosse altro per l’esigenza di necessaria coerenza dell’ordinamento.
Escludere l’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 dal novero dei reati automaticamente ostativi non tradirebbe lo spirito della ratio legis, la tutela della sicurezza collettiva e dell’ordine pubblico. Permetterebbe unicamente all’amministrazione competente di valutare se la condotta – prendendo come esempio il caso di specie – di cessione di gr 19 di sostanza stupefacente di tipo hascisch, in assenza di legami familiari, possa ritenersi in contrasto con la permanenza del cittadino straniero sul territorio italiano.
Quello che il Collegio ritiene incompatibile con il principio di proporzionalità è l’automatica presunzione di gravità del reato anche in considerazione degli ultimi approdi della stessa Corte Costituzionale in tema di automatismi. La presunzione è stata messa in discussione, da ultimo, persino nei casi di mancata collaborazione per i condannati per associazione per delinquere di stampo mafioso (ord. 12 maggio 2021, n. 97 sopra richiamata).
1.10. Della incompatibilità con l’art. 117 della Costituzione con riferimento all’art. 8 Cedu.
Le valutazioni espresse, specie le ultime, in materia valorizzazione della situazione giuridica dell’appellante, conducono a formulare un giudizio di dubbia tenuta costituzionale della norma anche in riferimento all’art. 117 Cost. rispetto all’art. 8 Cedu.
L’art. 8 Cedu dispone che: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”.
La disposizione, quindi, distingue chiaramente almeno quattro diritti fondamentali protetti dalla Convenzione: vita privata, vita familiare, domicilio e corrispondenza.
Nel caso all’attenzione del Collegio, in particolare, viene in rilievo la protezione della vita privata.
Il concetto di vita privata, nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è ampio e comprende una serie di sottocategorie. Attiene, in senso lato, all’identità fisica e sociale della persona umana e non è suscettibile di una definizione esaustiva (S. e Marper c. Regno Unito, paragrafo 66).
Significativa è la circostanza che per “vita privata”, nella concezione enucleata dalla Corte, non si debba intendere unicamente la “cerchia intima”, il nucleo di relazioni immediate e dirette del singolo. Al contrario, l’art. 8 Cedu tutela il diritto allo sviluppo personale, inteso come personalità o autonomia personale comprendendo il diritto ad una vita sociale privata e, in via più generale, il diritto a partecipare alla crescita della società.
Nella sentenza resa nell’ambito del caso “Botta c. Italy”, la Corte, al paragrafo 32, ha infatti avuto modo di precisare che “private life, in the Court’s view, includes a person’s physical and psychological integrity; the guarantee afforded by Article 8 of the Convention is primarily intended to ensure the development, without outside interference, of the personality of each individual in his relations with other human beings (see, mutatis mutandis, the Niemietz v. Germany judgment of 16 December 1992, Series A no. 251-B, p. 33, § 29)”.
L’automatismo è contrario alla Convenzione, sotto il profilo dell’art. 8, in quanto non risponde più a quel necessario “pressing social need” che, come detto, è necessario per ritenere legittima una compromissione dei diritti fondamentali della persona umana.
Il Collegio ravvisa nel meccanismo automatico previsto dall’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, testo unico immigrazione, con particolare riguardo all’inserimento dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 nel novero dei reati ostativi, una violazione della Convenzione. L’automatismo, per le ragioni che precedono, non permette il necessario bilanciamento tra la condotta penalmente rilevante – che, si ribadisce, non presidia più correttamente il bene della sicurezza pubblica – e tutte quelle circostanze che attengono alla vita privata per come tutelata dall’art. 8 Cedu e interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In ipotesi di reati non gravi, quale quello di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, escludere la valutazione dell’amministrazione rappresenta, a parere del Collegio, un vulnus di tutela non superabile in via interpretativa.
- Alla stregua delle precedenti considerazioni e poiché la presente controversia non può essere definita indipendentemente dalla risoluzione delle delineate questioni di legittimità costituzionale, il giudizio va sospeso e vanno rimesse alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dell’art. 23, l. 11 marzo 1953, n. 87, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per contrasto con agli artt. 3, 117 primo comma Cost. in riferimento all’art. 8 Cedu nella parte in cui, richiamando tutti “i reati inerenti gli stupefacenti” prevede che la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, sia automaticamente ostativa al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno.